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IL PRINCIPIO DI PREVEDIBILITÀ DELLA DECISIONE GIUDIZIALE IN MATERIA PENALE (∗∗∗∗)
di Francesco Viganò
SOMMARIO: 1. Habent sua sidera lites? – 2. Fisionomia e corollari del principio. – 3. La ratio e i fondamenti normativi del principio. – 3.1. Il principio di legalità in materia penale (art. 25, co. 2, Cost.) – 3.2. Il principio di colpevolezza (art. 27, co. 1 e 3, Cost.). – 3.3. Il nullum crimen, nulla poena sine lege in prospettiva europea. – 3.4. Il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). – 3.5. Il fascio di interessi costituzionali sottesi a una corretta (ed efficiente) amministrazione della giustizia penale (artt. 24 co. 2, 25 co. 2, 81, 111, 112 Cost.).
– 4. Il ruolo del legislatore. – 5. Il ruolo dei giudici comuni. – 5.1. Alcune premesse di teoria generale sul ruolo normativo della giurisprudenza. – 5.2. Prevedibilità della decisione giudiziale e qualità delle regole
∗ Il presente contributo costituisce la relazione – ampliata, aggiornata e corredata di note – presentata dall’A. al convegno annuale dell’Associazione dei Professori di diritto penale svoltosi presso l’Università Federico II di Napoli il 7 e 8 novembre 2014. Il lavoro è ora pubblicato nel volume C.E. Paliero, S. Moccia, G,A. De Francesco, G. Insolera, M. Pelissero, R. Rampioni e L. Risicato (a cura di), La crisi della legalità. Il
“sistema vivente delle fonti penali”, ESI, Napoli, 2016, che raccoglie gli atti del convegno. Diritto penale contemporaneo, e l’A. personalmente, ringraziano i curatori del volume e l’editore per avere consentito alla sua pubblicazione anche su questa Rivista.
Abstract. La recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha stimolato presso la dottrina penalistica una rimeditazione del principio di prevedibilità della decisione giudiziale, assunto da quella giurisprudenza quale contenuto fondamentale della stessa garanzia del nullum crimen. Questo contributo analizza fisionomia e corollari del principio, soffermandosi poi sui suoi fondamenti normativi, anche a livello costituzionale; e si chiede quindi quale sia il ruolo rispettivo del legislatore, del giudice comune e della Corte costituzionale nella concreta attuazione del principio nell’ordinamento penale, sottolineando in particolare come anche in un ordinamento di civil law come quello italiano gravi su ogni giudice comune – di legittimità, ma anche di merito – il dovere non solo di rendere giustizia nel caso concreto, ma anche di rafforzare e comunque di non frustrare, attraverso le proprie decisioni, la prevedibilità delle future decisioni di casi simili da parte di altri giudici. E ciò, da un lato, attraverso l’enunciazione in forma chiara e precisa – e per ciò stesso generalizzabile – della ratio decidendi che sostiene la soluzione di questioni nuove; dall’altro, attraverso il tendenziale vincolo del giudice alle soluzioni offerte dalla giurisprudenza consolidata, laddove esistente, a meno che non sussistano cogenti ragioni che militino in senso contrario.
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di giudizio elaborate dalla giurisprudenza. – 5.3. Prevedibilità della decisione giudiziale e questioni già decise dalla giurisprudenza della Cassazione. – 5.4. Due possibili obiezioni, e altrettante repliche. – 6.
Infine, il ruolo della Corte costituzionale. – 7. Una nota conclusiva.
1. Habent sua sidera lites?
Raccontavo qualche giorno fa ad un amico, esperto avvocato, del tema che mi era stato assegnato in questo convegno: la prevedibilità della decisione giudiziale. La sua reazione fu una sonora risata: ti hanno chiesto di parlare, mi disse, di qualcosa che non esiste, e che non è mai esistito. Il processo penale, come ogni processo, è una lotteria; anche quando credi di avere in pugno il giudice, che magari ti ha continuamente sorriso durante il processo, annuendo con compiacimento ai passaggi più acuti delle tue conclusioni… beh, è proprio lì che ti arrivano le bastonate più sonore al momento della lettura della sentenza.
Questa antica saggezza forense si declina del resto in un’autentica folla di brocardi: da habent sua sidera lites, a tot capita tot sententiae – e cioè “tutto capita nelle sentenze”, come amava tradurre, sornione, il mio maestro Giorgio Marinucci.
Credo, tuttavia, di interpretare il graditissimo invito dell’Associazione e del suo Presidente, che affettuosamente ringrazio, come avente ad oggetto, più che l’essere, il dover essere del sistema penale: e dunque la prevedibilità della decisione giudiziaria come obiettivo, come principio (di carattere prescrittivo), o in altre parole ancora come imperativo da perseguire a carico del sistema penale nel suo complesso.
Muovendo allora da questo angolo visuale, la mia riflessione si articolerà attorno a tre scansioni fondamentali:
- una sintetica illustrazione dei possibili contenuti del principio, e dei suoi fondamentali corollari, declinati con specifico riferimento alla materia penale (§ 2);
- un’analisi un po’ più distesa della sua ratio e dei fondamenti normativi (§ 3); e infine
- un tentativo di sistematizzazione dei compiti, discendenti dalla logica di questo principio, incombenti su ciascuno dei suoi protagonisti: il legislatore (§ 4), i giudici comuni (§ 5) e la Corte Costituzionale (§ 6).
2. Fisionomia e corollari del principio.
Cominciamo allora dai contenuti del principio. Che significa, più concretamente, che i consociati debbono essere in grado di prevedere le decisioni dei giudici in materia penale?
Nella sua massima estensione logica, il principio – applicato, ripeto, allo specifico ambito del diritto penale – implica almeno tre corollari, correlati ma distinti.
In un mondo ideale, occorrerebbe che il consociato fosse in grado di prevedere, prima di compiere la propria condotta:
a) se la condotta stessa sarà considerata illecita;
3 b) se, oltre che genericamente illecita, la condotta sarà considerata altresì penalmente rilevante; e infine
c) quale pena egli dovrà scontare nell’ipotesi in cui venga sottoposto a processo:
prognosi, quest’ultima, che presuppone a sua volta la possibilità di prevedere (i) in quale fattispecie astratta di reato sarà sussunta la propria condotta concreta, (ii) quale circostanze aggravanti o attenuanti saranno ritenute applicabili, (iii) quale sia conseguentemente il quadro edittale entro il quale dovrà muoversi la discrezionalità giudiziale nella commisurazione della pena, (iv) come verrà concretamente esercitata questa discrezionalità al momento dell’inflizione della pena, e infine (v) quali saranno le condizioni alle quali il condannato potrà eventualmente accedere a meccanismi di sospensione del processo o della pena, nonché a sanzioni o misure alternative applicate dallo stesso giudice di cognizione ovvero dei giudici preposti all’esecuzione della pena.
Vedremo subito se nell’ordinamento siano rinvenibili indicatori normativi sulla cui base riconoscere l’operatività di tutti quanti i corollari ora enunciati in via puramente astratta, ovvero di alcuni soltanto di essi. Sin d’ora, mi pare tuttavia importante sottolineare come dalla prevedibilità della decisione giudiziale dipende altresì la prevedibilità delle decisioni di tutti gli altri organi deputati al law enforcement (polizia e pubblici ministeri in primis), la cui attività è in grado di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo ben prima dell’intervento del giudice (di cognizione) che definisce il processo. D’altra parte, poiché la dimensione concreta della pena dipende, per il destinatario del precetto penale, non solo dalle decisioni del giudice di cognizione, ma anche – e in maniera determinante – da quelle del giudice dell’esecuzione e della magistratura di sorveglianza, mi pare che che l’idea di prevedibilità della decisione giudiziaria in materia penale debba anche comprendere anche le decisioni di queste ulteriori istanze giudiziarie, sulle quali incombe il compito di assicurare che il precetto legale trovi compiuta applicazione nel caso di specie, mediante l’esecuzione della sanzione da esso prevista.
Il principio qui esaminato potrebbe dunque essere riformulato come
“prevedibilità delle decisioni delle agenzie di law enforcement rispetto all’applicazione della legge penale”, coprendosi con questo concetto l’intero spettro di eventi che vanno dal primo atto di indagine (o dall’eventuale applicazione di misure precautelari ad opera della polizia) sino all’effettiva esecuzione della pena inflitta dal giudice della cognizione.
Un arco temporale, dunque, che inizia molto prima del processo, e che può concludersi anche molti anni dopo.
3. La ratio e i fondamenti costituzionali del principio.
Stabilita così l’estensione (meglio, la massima estensione teorica) del principio qui in discussione, resta però da verificare quale ne sia la ratio e, soprattutto, se ne sia individuabile un chiaro fondamento normativo nel diritto italiano vigente, in particolare a livello costituzionale.
Nella riflessione compiuta dagli studiosi di altre branche del diritto, il concetto di prevedibilità della decisione giudiziale è spesso immediatamente associato a quello
4 di certezza del diritto. Il richiamo a tale valore è, in particolare, costante in tutti quegli autori che – muovendo da una diagnosi di diffusa imprevedibilità delle decisioni giudiziali nel nostro ordinamento, a sua volta radicata non solo e non tanto nella vaghezza dei dati normativi (che è fenomeno di per sé non problematico in settori del diritto non dominati da un principio di stretta legalità e nei quali abbondano le clausole generali), ma dall’inesistenza di meccanismi che assicurino la coerenza della giurisprudenza nell’interpretazione delle disposizioni normative, e dunque dalla presenza di significativi e persistenti contrasti giurisprudenziali – invocano anche nel nostro ordinamento l’introduzione di una qualche forma di vincolatività dei precedenti, in particolare della Corte di cassazione, all’ovvio fine di rendere più stabile – e, dunque, più prevedibile – l’applicazione della legge da parte dei giudici1.
Torneremo più innanzi su queste proposte, che non hanno trovato del tutto insensibile nemmeno la dottrina penalistica2, in nome della medesima esigenza di certezza del diritto, che sarebbe anzi un valore particolarmente prezioso nelle materie criminali. Ciò che preme sin d’ora sottolineare è che il richiamo al valore della certezza del diritto è altresì costante, in ambiti diversi dal diritto penale, nella giurisprudenza della Corte EDU, che riconosce una violazione del diritto individuale all’equo processo di cui all’art. 6 CEDU, laddove il ricorrente abbia subito un pregiudizio in conseguenza di una situazione caratterizzata da “profondi e duraturi contrasti nella giurisprudenza nazionale”, e dall’assenza di meccanismi per superare questi contrasti. Una tale situazione, evidenzia la costante giurisprudenza della Corte, mina la certezza del diritto:
la quale costituisce un corollario fondamentale dello Stato di diritto (rule of law), nella misura in cui garantisce la stabilità delle decisioni giudiziarie, che è a sua volta condizione essenziale della fiducia dei consociati nel sistema giudiziario3.
1 Cfr. ad es. GORLA, Precedente giudiziario, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVI, 1991, p. 4 (e ivi ult. rif. bibl.).
2 Il riferimento è, in particolare, a CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto penale, rist. 2007.
3 Cfr., da ultimo, Corte EDU, sent. 22 dicembre 2015, Stanković e Trajković c. Serbia, ric. 37194/08 e 37270/08,
§ 40 ss., laddove – prima di motivare nel senso dell’insussistenza della violazione allegata dai ricorrenti, stante la prevedibilità del mutamento giurisprudenziale in relazione all’intervenuto mutamento della situazione fattuale sulla quale il precedente orientamento si basava – la Corte ribadisce i principi stratificati dalla propria giurisprudenza in materia, e in particolare dalla sentenza della Grande Camera 20 ottobre 2011, Nejdet Şahin e Perihan Şahin c. Turchia, ric. n. 13279/05, principi che vale qui la pena di integralmente riportare, omettendo le numerosissime citazioni ai precedenti:
“(i) It is not the Court’s function to deal with errors of fact or law allegedly committed by a national court unless and in so far as they may have infringed rights and freedoms protected by the Convention [...]. Likewise, it is not its function, save in the event of evident arbitrariness, to compare different decisions of national courts, even if given in apparently similar proceedings, as the independence of those courts must be respected […];
(ii) The possibility of conflicting court decisions is an inherent trait of any judicial system which is based on a network of trial and appeal courts with authority over the area of their territorial jurisdiction. Such divergences may also arise within the same court. That, in itself, cannot be considered contrary to the Convention […];
(iii) The criteria that guide the Court’s assessment of the conditions in which conflicting decisions of different domestic courts, ruling at last instance, are in breach of the fair trial requirement enshrined in Article 6 § 1 of the Convention consist in establishing whether “profound and long-standing differences” exist in the case-law of the domestic courts, whether the domestic law provides for a machinery capable of overcoming these inconsistencies, whether that machinery has been applied and, if appropriate, to what effect […];
5 La particolare fisionomia della materia penale, tuttavia, suggerisce di ricercare ratio e fondamento del principio di prevedibilità delle decisioni giudiziali nei principi e nei diritti costituzionali e/o convenzionali specificamente ritagliati su questa materia4, sì da meglio focalizzare perché la generica esigenza di “certezza del diritto”, o di
“stabilità delle decisioni giudiziarie”, sia tanto importante proprio in criminalibus.
3.1. Il principio di legalità in materia penale (art. 25, co. 2, Cost.).
Il primo, ovvio riferimento per il penalista nella prospettiva qui studiata è lo stesso nullum crimen sine lege, da noi consacrato nell’art. 25, co. 2, Cost.
Tra le rationes tradizionalmente indicate alla base di tale principio sta la garanzia delle libere scelte d’azione del cittadino5 (ma meglio sarebbe, oggi, parlare della persona anziché del cittadino, abbandonando anche terminologicamente ogni prospettiva
‘nazionalistica’ e ‘statualistica’); il quale deve essere posto in condizione di sapere – prima di compiere una data condotta – se essa sarà considerata penalmente rilevante e costituire, così, il presupposto per l’inflizione di una pena nei suoi confronti.
Nel pensiero illuministico classico, quale espresso in particolare dalla Déclaration del 1789, un tale risultato era di per sé stesso garantito dalla previsione del fatto di reato da parte di una legge espressiva della volontà popolare, promulgata e pubblicata prima del fatto commesso; la garanzia declinandosi in pari misura contro gli arbitri del potere esecutivo, rappresentati da lettres de cachet e da imprigionamenti senza base legale, così come contro quelli del potere giudiziario, e dalla pretesa di quest’ultimo di derivare la responsabilità penale dell’individuo non direttamente dalla
(iv) The Court’s assessment has also always been based on the principle of legal certainty which is implicit in all the Articles of the Convention and constitutes one of the fundamental aspects of the rule of law […];
(v) The principle of legal certainty guarantees, inter alia, a certain stability in legal situations and contributes to public confidence in the courts. The persistence of conflicting court decisions, on the other hand, can create a state of legal uncertainty likely to reduce public confidence in the judicial system, whereas such confidence is clearly one of the essential components of a State based on the rule of law […];
(vi) However, the requirements of legal certainty and the protection of the legitimate confidence of the public do not confer an acquired right to consistency of case-law […]. Case-law development is not, in itself, contrary to the proper administration of justice, since failure to maintain a dynamic and evolutive approach would risk hindering reform or improvement […]”.
4 Dal momento che l’ottica nella quale si muoveranno le considerazioni seguenti è quella della ricerca di precisi fondamenti normativi, nella Costituzione o nelle fonti sovranazionali vincolanti per il legislatore ex art. 117, co. 1, Cost., non verrà qui tematizzato il possibile nesso tra prevedibilità della decisione giudiziale e prevenzione generale (positiva o negativa), tale scopo della pena non avendo alcun preciso ancoraggio nella normativa superprimaria né internazionale. Su tale profilo, cfr. peraltro le considerazioni di CADOPPI, Il valore del precedente, cit., p 55.
5 Cfr., ex multis, MARINUCCI, DOLCINI, Corso di diritto penale, III ed., 2001, p. 12, in adesione – anche terminologica – alla notissima formulazione contenuta nella sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale.
6 legge, ma dalla sua interpretazione ad opera di una giurisprudenza percepita quale fortemente creativa (e per ciò solo arbitraria) dagli autori illuministi6.
Nella prospettiva penalistica contemporanea, l’ingenua fiducia che la particolare qualità della fonte – la legge parlamentare, o comunque gli atti aventi forza di legge (con il connesso intervento preventivo o successivo del Parlamento) – costituisca di per sé sufficiente garanzia di prevedibilità della decisione giudiziaria è del tutto svanita: non meno che le antiche grida manzoniane, anche la legge adottata nel pieno rispetto delle procedure democratiche previste dalla Costituzionale può essere – e sovente è – oscura, complessa, difficile da decifrare non solo per il profano, ma anche per l’esperto di diritto; ed abbisogna dunque di un’intensa opera di interpretazione da parte della giurisprudenza, assistita dalla dottrina. D’altra parte, in queste condizioni la chiarezza della norma – assente in fase genetica – non riesce spesso ad essere assicurata, ‘a valle’, dalla stessa opera di interpretazione, i cui risultati finiscono così per risultare tutt’altro che prevedibili. Il problema diviene, insomma, quello della qualità della norma, più che quello della sua origine.
La garanzia della prevedibilità della decisione giudiziale viene pertanto affidata oggi, anziché alla riserva di legge, agli altri corollari del nullum crimen rappresentati dal principio di precisione (o sufficiente determinatezza, o ‘tassatività’, precetto penale), nonché dal divieto di analogia. Leggi dai contorni precisi, si afferma, dovrebbero indicare con chiarezza al consociato ciò che è vietato dalla legge; e il divieto di analogia dovrebbe correlativamente garantire che la pena (e l’intero apparato di law enforcement) non possano essere attivati nei suoi confronti per fatti diversi da quelli espressamente previsti dalla legge.
L’esigenza è sacrosanta, come avrò modo di ribadire più volte in questo lavoro;
ma che tutto ciò basti a garantire la prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, è quanto meno dubbio.
Anzitutto, ‘guardiana’ della precisione della legge penale è, istituzionalmente, la Corte costituzionale, che è il ‘giudice delle leggi’ nell’architettura costituzionale corrente nei sistemi continentali (oltre che nella stragrande maggioranza degli ordinamenti anglosassoni), e che ha tutti i poteri per invalidare i prodotti normativi legislativi non rispettosi del canone della precisione (riconosciuto come implicito nella garanzia della legalità penale quanto meno a far data dalla sent. 96/1981). Il problema è, come ben noto, che la Corte costituzionale italiana ha sinora fatto uso di questo potere con estrema parsimonia, in occasioni davvero estreme che si lasciano contare sulle dita di una mano7; salvando invece sistematicamente leggi penali dal precetto assolutamente indeterminato come – non so trovare esempio più emblematico – quella che sanziona, tra l’altro, la violazione dell’obbligo di “vivere onestamente” imposto ai
6 Cfr., anche per puntuali citazioni alla letteratura illuministica, PULITANÒ, Sull’interpretazione e gli interpreti della legge penale, in Dolcini, Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, 2006, vol. I, p. 658.
7 Si veda, in proposito, la perspicua rassegna compiuta nel 2001 da MARINUCCI,DOLCINI, Corso, cit., p. 143, alla quale purtroppo – a quindici anni di distanza – non v’è da aggiungere granché, nessuna disposizione penale essendo stata nel frattempo dichiarata incostituzionale per contrasto con il principio di precisione (o sufficiente determinatezza, ovvero ancora “tassatività”) della norma incriminatrice.
7 destinatari della misura di prevenzione della sorveglianza speciale8. Il tutto mediante un sistematico (quanto criticato dalla dottrina) richiamo al lavorio di concretizzazione e precisazione del precetto ‘geneticamente’ indeterminato ad opera della giurisprudenza:
un richiamo che finisce per restituire ai giudici comuni – in diametrale opposizione rispetto all’ideale illuminista di separazione dei poteri – il compito di definire, tramite le loro pronunce, i confini del precetto penalmente sanzionato9.
Quanto poi al divieto di analogia, esso soffre di un clamoroso paradosso che passa in genere sotto silenzio presso la dottrina italiana: a vegliare su tale divieto – al quale tutti attribuiscono rango costituzionale, nell’alveo accogliente dell’art. 25 co. 2 Cost. – è soltanto la stessa giurisprudenza comune, e in particolare la Corte di cassazione, la cui attività ermeneutica si vorrebbe però limitata proprio da quel divieto (con il connesso dubbio, irrisolto nel nostro sistema, del quis custodiet custodes, che è invece superato i quegli ordinamenti – come quello tedesco – che ammettono un ricorso in ultima istanza del condannato alla Corte costituzionale per violazione del divieto di analogia da parte della giurisdizione penale comune).
D’altra parte, il principio di legalità in materia penale nel suo complesso – così come tradizionalmente inteso nell’ordinamento italiano – si presenta congenitamente incapace di fornire una qualche garanzia contro le incoerenze della giurisprudenza nell’interpretazione delle norme incriminatrici, laddove tale interpretazione si mantenga al di qua del limite del divieto di analogia. Poiché ben di rado una data interpretazione può essere radicalmente falsificata in quanto incompatibile con il significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore (che segna, secondo la communis opinio, il limite tra interpretazione estensiva – consentita anche in materia penale – e interpretazione analogica), è fisiologico che di una data norma incriminatrice – anche di quella che appaia ex ante meno censurabile sotto il profilo della precisione! – possano darsi diverse interpretazioni, tutte legittime al metro del principio di legalità di cui all’art. 25, co. 2 Cost.; e che tali interpretazioni possano di volta in volta essere adottate in giurisprudenza, senza che il principio di legalità possa fornire alcun contributo per indicare quale tra esse debba prevalere. Con conseguente inidoneità del principio stesso a tutelare l’individuo contro i rischi di imprevedibilità della decisione giudiziale derivanti non già dalla cattiva qualità dei precetti, bensì dall’esistenza di contrasti giurisprudenziali nella loro interpretazione10.
8 C. cost., sent. n. 94/2012.
9 In senso fortemente critico contro il richiamo al diritto vivente in chiave sanante rispetto ai vizi di imprecisione della norma incriminatrice, cfr. ancora, per tutti, MARINUCCI,DOLCINI, Corso, cit., p. 145 s.
10 In senso parz. diff., cfr. CADOPPI, Il valore del precedente, cit., p. 267; ID., Giudice penale e giudice civile di fronte al precedente, in Ind. pen., 2014, p. 24. L’A. giustamente osserva che “la legalità, come principio che postula la prevedibilità delle conseguenze penali delle proprie azioni, trova attuazione effettiva soprattutto relativamente alla legge come interpretata dai giudici, ovvero, detto altrimenti, al ‘diritto vivente’. Proprio per questo, se il diritto vivente (o law in action) è incerto, perché il precedente giurisprudenziale non ha sufficiente valore, e pullulano i contrasti, allora la legalità intesa come si è detto ne soffre irrimediabilmente. Non vale a nulla avere un codice ben fatto, se poi le interpretazioni dei giudici sono volubili come bandierine al vento”. Giustissimo: ma il problema è che il principio di legalità di cui all’art.
25, co. 2 Cost., così come di solito ricostruito dagli interpreti italiani (e dalla stessa giurisprudenza
8 3.2. Il principio di colpevolezza (art. 27 co. 1 e 3, Cost.).
Una qualche maggiore garanzia per l’individuo, sotto il profilo da ultimo menzionato, è piuttosto offerta dal principio di colpevolezza, come è noto enucleato dalla sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale a partire dal principio di
“personalità” della pena, letto attraverso il prisma della sua funzione rieducativa e – in ultima analisi – dalla stessa ratio di tutela della libertà di agire individuale sottesa al principio di legalità di cui all’art. 25 co. 2 Cost.
Se l’idea di fondo sottesa a quella storica sentenza è quella secondo cui la pena presuppone un rimprovero personale a carico dell’autore per avere compiuto un fatto tipico e antigiuridico, ben se ne comprende il corollario – che costituiva d’altronde lo specifico thema decidendum allora sottoposto alla Corte – della necessaria conoscibilità della norma penale quale presupposto della responsabilità penale, e della correlativa esclusione del rimprovero in presenza di una ignoranza inevitabile sul contenuto della legge stessa. Dalla casistica passata in rassegna in quella pronuncia, d’altra parte, emerge evidente come la Corte pensasse ad un’ignoranza inevitabile della legge penale non solo e non tanto in ipotesi estreme come quella della mancata pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale, quanto piuttosto a situazioni in cui – in ragione ad es.
dell’oscurità o contraddittorietà del precetto, ovvero dell’esistenza di contrasti giurisprudenziali in seno alla stessa Corte di cassazione – il consociato non fosse in grado, al momento di decidere se compiere o meno una certa condotta, di prevedere se la propria condotta sarebbe stata in seguito considerata penalmente rilevante. Una simile situazione – questo il messaggio di fondo della sentenza n. 364 – comprime indebitamente la libertà del singolo al momento dell’azione, e lo espone ex post a una sanzione senza che possa essere mosso nei suoi confronti un giusto rimprovero per avere compiuto una scelta errata, pur avendo egli la possibilità di rendersi conto (eventualmente anche attraverso l’assolvimento di doveri strumentali di informazione) di tale erroneità.
Anche in questo caso, i principi sono sacrosanti; ma dell’effettività del presidio della prevedibilità delle decisioni giudiziarie apprestato al singolo con questo strumento, è più che lecito dubitare.
Anzitutto, la sentenza n. 364 – subito acclamata come ‘storica’ dalla dottrina penalistica coeva11 – è stata sistematicamente ignorata dalla giurisprudenza comune successiva, e pochissimo ripresa dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Gli effetti
costituzionale), non si interessa dell’interpretazione giudiziale della norma penale, se non nella (limitatissima) misura in cui vieta al giudice di procedere a interpretazioni analogiche. Il concetto di legalità penale qui adottato dall’illustre A. è, piuttosto, quello ricavabile dalla giurisprudenza della Corte EDU a proposito di art. 7 CEDU, su cui si discuterà tra poco nel testo (altra questione, di cui parimenti si dirà, è poi se tale concetto possa, e/o addirittura debba, essere importato nel nostro ordinamento, in chiave di integrazione e completamento rispetto alla tutela già offerta a livello interno dall’art. 25, co. 2, Cost.).
11 Così, letteralmente, PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in Riv. it. dir.
proc. pen., p. 686 ss.
9 della svolta inaugurata nel 1988 possono, invero, apprezzarsi – e anche qui col contagocce – rispetto a diverse questioni pure connesse al principio di colpevolezza, come quella relativa all’esigenza di un’imputazione per colpa degli eventi aggravatori della responsabilità12; ma le assoluzioni per errore inevitabile sul precetto penale sono rimaste – più che rarae aves – eventi del tutto straordinari, e tutto sommato casuali13.
D’altra parte, i principi espressi dalla sentenza n. 364 nella specifica materia dell’errore inevitabile sulla legge penale sono subito stati fatti oggetto di una lettura tendenzialmente restrittiva da parte della giurisprudenza (e a volte della stessa dottrina). Così, si sostiene sovente che l’errore rilevante ex art. 5 c.p. – nella versione modificata dalla Corte – debba avere oggetto la generica illiceità della condotta, e non necessariamente la sua qualificazione come reato: con conseguente irrilevanza dell’erroneo convincimento che la condotta costituisca mero illecito amministrativo14. Ancora, si afferma frequentemente che allorché il soggetto si rappresenti un (ragionevole) dubbio circa la natura lecita o illecita della propria condotta, egli sia tenuto ad astenersi dall’agire, per evitare di incorrere in una possibile responsabilità penale15: un’affermazione esattamente agli antipodi rispetto all’esigenza illuministica di garantire al cittadino che tutto ciò che non gli sia espressamente (e chiaramente) vietato non potrà costituire il presupposto per l’applicazione di una pena (e in genere dell’esercizio della potestà coercitivo-punitiva statale). Infine, la garanzia riconosciuta dalla sentenza n. 364 è sempre stata intesa come limitata ad eventuali errori inevitabili sul precetto, nulla dicendo invece sulla necessaria conoscibilità, altresì, delle conseguenze
12 Particolarmente significativa, in questo senso, Cass., sez. un. pen., 22 gennaio 2009, n. 22676, Ronci, in materia di imputazione per colpa dell’evento letale in conseguenza di condotta costituente altro delitto.
13 Istruttiva, in proposito, la recentissima e assai ampia rassegna di decisioni giurisprudenziali compiuta da PUSATERI, Art. 5, in Dolcini, Gatta (a cura di), Codice penale commentato, IV ed., 2015, p 228 s.: la stragrande maggioranza delle sentenze citate ritengono, per una ragione o per l’altra, inescusabile l’errore invocato dall’imputato; mentre le sentenze che riconoscono un errore inevitabile sulla legge penale sono in gran parte di primo grado (e spesso risalenti nel tempo), senza che sia dato sapere se siano poi in effetti passate in giudicato. Pochissime, per contro, le sentenze segnalate di assoluzione ex art. 5 c.p. pronunciate dalla Cassazione. Non sembra pertanto giustificato, a sommesso avviso di chi scrive, il pur cauto ottimismo manifestato recentemente daMARINUCCI,DOLCINI, Manuale di diritto penale, V ed. agg. da Dolcini e Gatta, p. 381., a parere dei quali l’atteggiamento restrittivo della Cassazione nel riconoscere rilievo scusante all’errore inevitabile sul precetto sarebbe almeno in parte superato: una tale affermazione è infatti supportata da tre sole sentenze recenti del supremo collegio (in materia di evasione dagli arresti domiciliari, di esercizio abusivo della professione medica e di rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale), a fronte della massa esistente di sentenze della Cassazione che viceversa rigettano le corrispondenti allegazioni difensive. Auspica, da ultimo, un uso più generoso dell’error iuris da parte della giurisprudenza PALAZZO, Legalità fra law in the books e law in action, in Dir. pen. cont., 13 gennaio 2016, p.
7.
14 In questo senso la giurisprudenza ampiamente maggioritaria: cfr., per ampie citazioni, ancora PUSATERI, Art. 5, cit., p. 227. In dottrina, nello stesso senso, PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, IV ed., 2011, p. 445; PULITANÒ, Diritto penale, V ed., 2013, p. 618; M. ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, vol.
I, p. 107 ss.
15 In questo senso, cfr. ad es. MARINUCCI, DOLCINI, Manuale, cit., 379 (e ivi puntuali rif. giur.). Sulla questione, con ulteriori ampi rif. dottr. e giur., cfr. ancora PUSATERI, Art. 5, cit., p. 223 ss., nonché, con particolare acribia, M. ROMANO, Commentario, cit., p. 110.
10 sanzionatorie (previste in astratto e concretamente eseguibili) in caso di violazione del precetto medesimo.
Rispetto poi alla garanzia incorporata nel nullum crimen, la garanzia della conoscibilità del precetto penale si limita ad offrire una tutela ex post (e pressoché solo teorica, come si è visto) all’individuo, comportando una mera rinuncia dell’ordinamento alla pena nei confronti di chi abbia versato senza propria colpa nell’ignoranza della legge penale. Un tale rimedio, tuttavia, lascia sopravvivere la legge penale stessa, anche quando la causa dell’ignoranza risiede nella sua oscurità, equivocità, imprecisione: vizi tutti che ne dovrebbero, invece, determinare la radicale illegittimità costituzionale al metro dell’art. 25 co. 2 Cost. Di talché esso costituisce una garanzia di grado decisamente inferiore – come una sorta di rimedio di ultima istanza, quando altri rimedi più efficaci non abbiano operato – rispetto a quella potenzialmente assicurata dal principio di legalità in materia penale, nei suoi corollari della precisione e del divieto di analogia; se non fosse che, come poc’anzi si è detto, anche la capacità di rendimento del nullum crimen si è rivelata a conti fatti, nel nostro ordinamento, come ben poca cosa.
Con il nullum crimen nell’accezione ‘nostrana’ di cui all’art. 25, co. 2, Cost., il principio di colpevolezza condivide poi la medesima inidoneità a porsi quale garanzia contro le situazioni di contrasti giurisprudenziali nell’interpretazione delle norme penali, che minano in pratica – forse ancor più di quanto non faccia l’imprecisione genetica delle norme stesse – la prevedibilità della decisione giudiziale nel caso concreto. Il principio di colpevolezza impone infatti all’ordinamento nel suo complesso – e segnatamente ai giudici – di astenersi dal punire un soggetto che abbia ignorato il contenuto del precetto penale, in presenza di non risolti contrasti giurisprudenziali – anche in seno alla Suprema Corte – sulla sua esatta portata. Così facendo, il principio di colpevolezza si limita però a prendere atto di tali contrasti, traendo la conseguenza dell’impossibilità di rimproverare il cittadino che abbia avuto dalla giurisprudenza indicazioni contraddittorie sul significato del precetto; ma non si dirige, in quanto tale, alla stessa giurisprudenza, imponendole di sciogliere tali contrasti e di pervenire a interpretazioni coerenti, in grado di assicurare anche per il futuro – e nei confronti della generalità dei consociati – la prevedibilità delle decisioni giudiziali.
Anche sotto questo profilo, il principio di colpevolezza opera, insomma, come un rimedio individuale – e, per così dire, meramente sintomatico – a una situazione patologica dell’ordinamento, senza riuscire ad aggredire le cause reali della malattia.
3.3. Il nullum crimen, nulla poena sine lege in prospettiva europea.
Una maggiore capacità di rendimento sotto i profili che qui rilevano sembra invece possedere il nullum crimen in quanto diritto umano, così come riconosciuto in
11 particolare dall’art. 7 CEDU e dalla giurisprudenza formatasi in proposito a Strasburgo16.
Al riguardo, conviene anzitutto premettere come qualsiasi discorso sul principio di legalità in materia penale non possa, oggi, non tenere conto anche della dimensione europea di tale principio, che integra ed arricchisce quella nazionale fondata sull’art. 25 co. 2 della Costituzione. Le norme della CEDU (tra cui lo stesso art. 7) penetrano nell’ordinamento interno attraverso molte vie, che la dottrina e la nostra giurisprudenza (ordinaria e costituzionale) stanno esplorando a ritmo incessante negli ultimi anni: (i) come norme incorporate nell’ordinamento giuridico italiano, in forza della legge n. 848/1955 di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dell’ordinamento interno, con conseguente loro diretta applicabilità da parte dei giudici comuni; (ii) come canoni ermeneutici, orientando l’interpretazione delle norme di legge (comprese quelle in materia penale!) da parte, ancora, dei giudici comuni; (iii) come criteri ermeneutici delle stesse norme costituzionali ad opera della Corte costituzionale, che spesso guarda alla CEDU così come alle altre fonti internazionali per precisare o arricchire di contenuto le stesse garanzie riconosciute dalla nostra Costituzione;
nonché – dopo le sentenze gemelle del 2007 – (iv) come parametri interposti di legittimità costituzionale nei giudizi incidentali e principali avanti la Corte costituzionale ex art. 117 co. 1 Cost. Il nullum crimen sine lege non può, allora, non leggersi sulla base del combinato disposto dell’art. 25 co. 2 Cost. con l’art. 7 CEDU e – in generale – delle corrispondenti garanzie riconosciute dal diritto internazionale dei diritti umani, come l’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Con la peculiarità, peraltro, che l’art. 7 CEDU dovrà leggersi non solo e non tanto sulla base del suo dato testuale, quanto alla luce della lettura fornitane dal ‘suo’
giudice – la Corte EDU, che gli Stati hanno indicato all’art. 32 della Convenzione come l’organo deputato a “interpretare” autoritativamente le disposizioni convenzionali – attraverso la propria giurisprudenza, che continuamente ne precisa ed arricchisce il significato, con ricadute immediate anche negli ordinamenti degli Stati parte.
Tale giurisprudenza, d’altra parte, penetra nel diritto dell’Unione europea costituendo il contenuto minimo del corrispondente “principio della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene” riconosciuto dall’art. 49 della Carta europea dei diritti fondamentali (CDFUE), in forza della ‘clausola di equivalenza minima’ di cui all’art. 52 § 3 CDFUE (a tenore della quale il significato e la portata dei diritti riconosciuti dalla Carta sono per lo meno uguali a quelli riconosciuti dalle disposizioni corrispondenti della CEDU, ferma restando la possibilità della Carta di riconoscere ad essi una protezione più ampia). Con una conseguenza, ancora non chiaramente esplorata dalla giurisprudenza italiana, ma potenzialmente deflagrante: quella cioè – almeno nell’ambito di applicazione del diritto UE (art. 51 CDFUE) – di riconoscere all’acquis di Strasburgo in materia di art. 7 CEDU, tramite il passaggio attraverso l’art. 49 CDFUE, la stessa primazia rispetto al diritto nazionale caratteristica delle fonti primarie di diritto UE: fonti, queste ultime, idonee non solo a essere direttamente applicate dal giudice comune, ma anche a determinare in capo al giudice medesimo – senza necessità di alcun passaggio preliminare innanzi alla Corte costituzionale – l’obbligo di disapplicare le norme di legge nazionali con esse contrastanti.
Tanto premesso – anche al fine di spazzare da subito l’impressione che il riferimento all’art. 7 CEDU abbia funzione meramente esornativa nella trama dell’argomentazione –, vediamo perché la dimensione convenzionale del nullum crimen offra una protezione più estesa alla prevedibilità della decisione giudiziale rispetto a
16 Su tale giurisprudenza cfr., per tutti, MANES, Art. 7, in Bartole, De Sena, Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, 2012, p. 258 ss.
12 quanto non faccia il combinato disposto, puramente ‘interno’, degli artt. 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3, Cost.
Come è noto, alla ratio dell’art. 7 CEDU è estraneo il principio della separazione dei poteri legislativo e giudiziario, che costituisce una delle anime della riserva di legge riconosciuta dall’art. 25 co. 2 Cost.; e tra i suoi corollari non si annovera, conseguentemente, la riserva di legge, a fronte della presenza – tra le stesse parti originarie della Convenzione – di Stati che conoscono (ancor oggi, seppur in proporzione oggi affatto marginale) reati di pura creazione giurisprudenziale (i c.d.
common law crimes). Il fuoco della tutela apprestata dall’art. 7 CEDU sta altrove: in particolare, nell’interesse dell’individuo ad essere tutelato contro un esercizio del potere punitivo che non sia per lui prevedibile e calcolabile – diremmo – nell’an così come nel quantum. Accessibilità (=conoscibilità) del precetto e prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie sono le parole chiave nella giurisprudenza pertinente di Strasburgo, che naturalmente legge il nullum crimen, nulla poena sine lege come diritto dell’individuo, anziché come ‘principio’ ordinamentale funzionale alla tutela di interessi pubblici (come la stessa separazione dei poteri, o la garanzia della funzione generalpreventiva della norma penale, spesso evocate nel dibattito nazionale sul principio di legalità in materia criminale17).
L’accessibilità del precetto e la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie sono, d’altra parte, costantemente declinate dalla Corte di Strasburgo con riferimento non solo alla disposizione legislativa che prevede il precetto e la sanzione, ma anche alla giurisprudenza nazionale che ne precisa il significato all’atto della sua concreta applicazione, attraverso la formazione di precedenti che orientano il comportamento della giurisprudenza successiva, e sulla base dei quali il destinatario della norma è tenuto a orientare il proprio comportamento18. E ciò – si noti – non solo rispetto ai pochissimi crimini di (pura) creazione giurisprudenziale riconosciuti ancora, quali autentici relitti storici, in alcuni ordinamenti di common law19; ma anche rispetto ai reati che hanno base in una legge statale (come la totalità dei reati previsti nell’ordinamento italiano), la quale tuttavia necessiterà sempre, secondo la (realistica) considerazione dei giudici di Strasburgo, di essere precisata nei suoi contorni applicativi – specie di fronte a hard cases non previsti, e a volte nemmeno prevedibili, dal legislatore – dalle decisioni dei giudici chiamati a darvi o a non darvi applicazione. In tal modo, la Corte riconosce nei fatti alla giurisprudenza penale nazionale un ruolo con-formativo del precetto penale; attribuendole però – correlativamente – la responsabilità di orientare in tal modo
17 Cfr., per tutti, ancora MARINUCCI,DOLCINI, Manuale, cit., p. 63.
18 Come da ultimo ribadito dalla Corte, in un noto caso concernente proprio il nostro paese: cfr. Corte EDU, sent. 14 aprile 2015, Contrada c. Italia (n. 3), ric. n. 66655/13, § 60 laddove – citando altri precedenti – i giudici di Strasburgo ribadiscono che “la loi doit définir clairement les infractions et les peines qui les répriment.
Cette condition se trouve remplie lorsque le justiciable peut savoir, à partir du libellé de la disposition pertinente, au besoin à l’aide de l’interprétation qui en est donnée par les tribunaux et le cas échéant après avoir recouru à des conseils éclairés, quels actes et omissions engagent sa responsabilité pénale et quelle peine il encourt de ce chef “.
19 Come nel caso del reato di breach of the peace previsto dal common law scozzese, oggetto di scrutinio in Corte EDU, sent. 28 ottobre 2014, Gough c. Regno Unito, ric. n. 49327/11.
13 la condotta dei consociati, i quali avranno un preciso diritto di fare affidamento sull’interpretazione del precetto medesimo fornita dalla giurisprudenza, e di regolare conseguentemente il proprio comportamento, senza rischiare di essere sorpresi ex post da un’interpretazione (e una conseguente applicazione) della norma non prevedibile a proprio danno20.
Così ricostruito, il nullum crimen convenzionale è diritto individuale al quale fa da pendant il correlativo dovere a carico di tutti gli organi e poteri dello Stato che esercitano lo ius puniendi di fissare in modo chiaro e agevolmente comprensibile dai loro destinatari i contenuti dei precetti penalmente sanzionati, ciascuno nell’ambito delle relative competenze: legislatore, dunque, e giudici, sui quali pure incombe la responsabilità di rendere agevolmente riconoscibili i contorni del precetto penale che il consociato è tenuto ad osservare, così come – in negativo – di evitare di disorientare il consociato medesimo attraverso interpretazioni gravemente discordanti. In quest’ottica, l’art. 7 CEDU svolge dunque – in criminalibus – la medesima funzione assolta dall’art. 6 CEDU in ambiti diversi da quello penale, alla quale accennavo in apertura di questo paragrafo, ponendosi anch’esso come baluardo contro quei
“profondi e duraturi contrasti nella giurisprudenza nazionale” che normalmente determinano una situazione di contrasto con il diritto ad un equo processo in materia civile o amministrativa.
Questa semplice logica non cessa di generare fraintendimenti presso la dottrina italiana, che è bene sin da subito cercare di dipanare: a beneficio, almeno, di chi sia disposto a fare un piccolo sforzo di comprensione, e non muova da un’avversione preconcetta rispetto a tutto ciò che proviene da Strasburgo, o comunque da oltre confine. La Corte EDU non pretende affatto di costringere gli ordinamenti degli Stati parte ad accettare l’idea secondo cui il reato possa essere di creazione puramente giurisprudenziale, né che possa essere la giurisprudenza a stabilire che cosa sia reato e che cosa non lo sia. La logica del diritto internazionale dei diritti umani è sempre quella della massimizzazione delle tutele: come recita a chiare lettere l’art. 53 CEDU,
“nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte contraente o in base a ogni altro accordo al quale essa partecipi”. Se, dunque, l’ordinamento costituzionale italiano prevede che soltanto la lex parlamentaria – o atti aventi forza equiparata – siano
20 Si noti: la Corte EDU non vieta in assoluto – né in materia extrapenale (cfr. supra, nota 3), né in materia penale – che la giurisprudenza nazionale possa mutare il proprio orientamento nell’interpretazione di una norma legislativa; ma richiede, affinché lo Stato non incorra in una violazione dell’art. 6 nel primo caso, e dell’art. 7 nel secondo, che tale mutamento sia ragionevolmente prevedibile dal destinatario della norma. Per l’enunciazione di questo principio in materia penale, cfr. la celebre sentenza 22 novembre 1995, S.W. c.
Regno Unito, ric. n. 20166/92, § 36 ss., ove si affermò la prevedibilità del mutamento giurisprudenziale che condusse le corti inglesi ad estendere per la prima volta le disposizioni in materia di violenza sessuale alla condotta compiuta dal marito nei confronti della moglie. Cfr. anche, per un altro celebre (e assai più recente) caso in cui la Corte – all’opposto – ritenne l’imprevedibilità di un mutamento interpretativo compiuto dal Tribunal Supremo spagnolo sulle disposizioni del codice penale relative all’esecuzione della pena, cfr. Corte EDU (Grande Camera), sent. 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, ric. n. 42750/09.
14 legittimati a porre in essere norme penali, questa garanzia resta impregiudicata dall’art. 7 CEDU, che semplicemente si aggiunge alle garanzie costituzionali. E se l’ordinamento costituzionale italiano pretende, secondo la lettura fornita – almeno a parole – dalla Corte costituzionale dell’art. 25 co. 2 Cost., che le leggi penali siano formulate in modo preciso (o ‘sufficientemente determinato’), pena la loro illegittimità costituzionale, anche in questo caso si tratterà di una garanzia – di per sé non richiesta sul piano convenzionale –, che potrà però benissimo coesistere con quelle ulteriori riconosciute dall’art. 7 CEDU.
La garanzia ulteriore riconosciuta dall’art. 7 CEDU che nel nostro contesto viene in considerazione è, per l’appunto, quella secondo cui – di fronte a qualsiasi norma di legge in vigore, magari già passata indenne al vaglio della Corte costituzionale sotto il profilo della sua precisione – l’individuo potrà fare, al momento della decisione se agire o non agire, legittimo affidamento sulla interpretazione che di quella norma abbiano fornito i giudici interni, avendo – così – un preciso diritto a non essere sorpreso ex post da estensioni interpretative di quella stessa norma non prevedibili ex ante. E ciò del tutto indipendentemente dal fatto che queste estensioni interpretative siano compatibili con il dato letterale della norma incriminatrice, e che possano avere dietro di sé ottimi argomenti sul piano storico, teleologico, sistematico: ciò che conta, dal punto di vista della garanzia di cui all’art. 7 CEDU, è soltanto se l’individuo potesse ragionevolmente prevedere tale estensione, sulla base delle indicazioni della giurisprudenza – giuste o sbagliate che fossero – nello stato in cui si trovava al momento della commissione del fatto.
Il recente caso Contrada c. Italia fornisce una vivida illustrazione di quanto appena affermato. A differenza di quanto affermato da una vulgata che si è subito diffusa presso una parte della dottrina e della giurisprudenza italiane, la violazione dell’art. 7 CEDU ravvisata dalla Corte nella condanna di Bruno Contrada non risiede nell’affermazione secondo cui il
‘concorso esterno nell’associazione mafiosa’ sarebbe un ‘reato di creazione giurisprudenziale’:
affermazione per un verso del tutto irrilevante dal punto di vista della Corte europea (che come si è detto ammette reati di creazione giurisprudenziale), e per altro verso erronea dal punto di vista del diritto nazionale, nella misura in cui il ‘concorso esterno’ risulta semplicemente dall’applicazione di una norma estensiva della punibilità (l’art. 110 c.p.) a una norma incriminatrice (l’art. 416-bis c.p.), in esito a un’operazione sostenibilissima sul piano della sua compatibilità con il diritto positivo di fonte legislativa.
Il problema rilevato dalla Corte europea è, piuttosto, che all’epoca dei fatti commessi dall’imputato (e dunque dal 1979 al 1988) lo stato della giurisprudenza italiana sulla possibilità di applicare il combinato disposto degli artt. 110 e 416 bis c.p. era incerto e contraddittorio – essendo intervenute proprio in quel periodo varie pronunce della Cassazione di annullamento relativi a provvedimenti o sentenze fondate su quel combinato disposto –, sì da rendere per l’imputato non prevedibile la prospettiva di una propria futura sottoposizione a procedimento penale a quel titolo21. Un problema, questo, che certamente è oggi scomparso dopo il definitivo assestamento della giurisprudenza in materia di ‘concorso esterno’ a partire dalla sentenza Demitry delle Sezioni Unite del 1994, che rende oggi ampiamente concreta per chiunque la prospettiva di essere condannato in forza del combinato disposto degli artt. 110 e
21 Cfr. Corte EDU, Contrada c. Italia, cit., § 67-75.
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416-bis c.p. nell’ipotesi in cui intenda fornire consapevolmente un contributo causale alla sopravvivenza o al mantenimento in vita di un’associazione di tipo mafioso.
Non è questa, naturalmente, per una valutazione in fatto della correttezza della conclusione cui la Corte EDU è giunta nel caso concreto appena citato: occorrerebbe, a questo fine, studiare meglio la giurisprudenza in materia esistente sino al 1988, per chiarire se davvero non fosse prevedibile alla fine degli anni ottanta, per un alto funzionario di polizia, la possibilità di una propria futura condanna, se non per
‘concorso esterno’, addirittura per ‘partecipazione’ a un’associazione mafiosa, in conseguenza di condotte come la fornitura di notizie riservate a capimafia su procedimenti penali in corso. Ciò che qui unicamente rileva è il principio enunciato dalla Corte EDU: un principio che si colloca pienamente nel solco della giurisprudenza consolidata in materia di art. 7 CEDU, secondo cui – in definitiva – è il law in action, e non il law in the books, a orientare la condotta dei consociati. È come la disposizione
‘vive’ e viene interpretata e applicata nella prassi – non già come la disposizione potrebbe essere (anche legittimamente) interpretata – a creare in capo all’individuo affidamenti che l’ordinamento ha poi il dovere di proteggere22.
Come poi l’ordinamento possa concretamente tutelare tali affidamenti, evitando di sottoporre a pena chi abbia senza propria colpa confidato nel fatto che la propria condotta non sarebbe stata considerata penalmente rilevante, è problema che la Corte EDU lascia saggiamente alla discrezionalità degli Stati parte: i quali hanno tutto il diritto, anche nell’ottica convenzionale, di modificare anche in peius la propria giurisprudenza consolidata, estendendo in via ermeneutica la portata di incriminazioni preesistenti o – come nel caso del concorso esterno – combinando in modo in precedenza inedito disposizioni di parte generale e speciale, con un effetto ampliativo della responsabilità; purché, però, assicurino l’operatività di correttivi (come il c.d.
prospective overruling23, o – nel nostro ordinamento – il troppo spesso ignorato art. 5 c.p.
nella versione modificata dalla sent. 364/1988) in grado di evitare che il mutamento giurisprudenziale ridondi a danno di chi aveva commesso il fatto in precedenza, confidando senza colpa nell’irrilevanza penale della propria condotta sulla base della giurisprudenza sino ad allora dominante (ovvero, come potrebbe essere avvenuto nel caso Contrada, non avendo indicazioni univoche in tal senso dalla giurisprudenza consolidata).
Questa garanzia – ripeto, supplementare rispetto a quelle già assicurate dal diritto costituzionale sul piano interno – si estende d’altronde ben oltre i confini assegnati in genere dalla dottrina italiana al principio della conoscibilità della norma penale, dedotto dall’art. 5 c.p. nella versione modificata dalla Corte costituzionale.
22 Sia consentito il rinvio, sul punto, a VIGANÒ, La tutela penale della libertà individuale, cit., p. 179, anche per puntuali richiami alla dottrina in lingua tedesca pertinente.
23 Su cui cfr., ad es., MATTEI, Precedente giudiziario e stare decisis, in Dig. disc. priv. – Sez. civile, vol. XIV, 1996, p. 163.
16 Anzitutto, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, prevedibile non dev’essere solo la (generica) illiceità della condotta, ma anche la sua specifica rilevanza penale24. Non solo: prevedibile deve essere anche il tipo di pena, e (almeno grosso modo) la quantità di pena che potrà essergli inflitta in caso di commissione del fatto. La conoscibilità/prevedibilità non investe, dunque, soltanto, la parte precettiva della norma penale, ma anche le conseguenze sanzionatorie. Particolarmente illustrativo in questo senso il caso Kafkaris c. Cipro, del 2008, in cui la violazione viene riconosciuta per avere lo Stato resistente modificato ex post facto le norme (secondarie!) sull’esecuzione della pena dell’ergastolo – già legittimamente comminabile per il fatto di cui il ricorrente si era reso responsabile –, che era stata così di fatto trasformata da pena potenzialmente temporanea (stante l’ammissibilità di una liberazione condizionale dopo vent’anni di esecuzione della pena, sulla base della normativa vigente al momento del fatto) a pena effettivamente perpetua, salvi casi eccezionali rimessi alla discrezionalità del potere politico: il che configura, secondo la Corte, una violazione dei principi impliciti nell’art.
7 CEDU, secondo i quali “an individual must know from the wording of the relevant provision and, if need be, with the assistance of the courts’ interpretation, what acts and omissions will mak him crimminally liable and what penalty will be imposed for the act committed”25.
Dal momento poi che la prevedibilità della pena (nel suo concreto quantum, oltre che nella sua tipologia) dipende anche dall’interpretazione fornita dalla giurisprudenza delle norme in materia di esecuzione, la Corte EDU è giunta recentemente ad affermare – nel caso Del Rio Prada c. Spagna, deciso dalla Grande Camera nel 2013 – che lo stesso condannato ha un diritto, discendente dall’art. 7 CEDU, a essere tutelato contro mutamenti in peius della giurisprudenza relativa, come quello verificatosi nel caso di specie (in cui, per effetto di un mutamento della lettura da parte del Tribunal Supremo spagnolo del combinato disposto di alcune norme in tema di esecuzione della pena detentiva e di liberazione anticipata in cambio della prestazione di lavoro intramurario, una condannata per gravissimi delitti di terrorismo si era vista improvvisamente posticipare – si noti, a quadro normativo invariato! – di ben nove anni il momento della liberazione anticipata)26.
Breve: la prevedibilità della condanna, dell’inflizione e poi dell’esecuzione concreta della pena, sulla base dei dati normativi e della giurisprudenza pertinente, costituisce il contenuto chiave del diritto al nullum crimen, nulla poena sine lege riconosciuto dall’art. 7 CEDU e conseguentemente – limitatamente all’ambito di applicazione del diritto UE – dall’art. 49 CDFUE; in termini, dunque, ben più stagliati di quanto non risulti dalla lettura tradizionale delle norme costituzionali poc’anzi esaminate, da parte della dottrina e della giurisprudenza (costituzionale e ordinaria) nostrane.
24 Il principio si trova già chiaramente espresso in Corte EDU, sent. 15 novembre 1996, Cantoni c. Francia, ric. n. 17862, § 29: “Il en résulte qu’une infraction doit être clairement définie par la loi. Cette condition se trouve remplie lorsque le justiciable peut savoir, à partir du libellé de la disposition pertinente (art. 7) et, au besoin, à l’aide de son interprétation par les tribunaux, quels actes et omissions engagent sa responsabilité pénale“.
25 Corte EDU (Grande Camera), sent. 12 febbraio 2018, Kafkaris c. Cipro, ric. n. 21906/04, § 140.
26 Corte EDU (Grande Camera), Del Rio Prada, cit.
17 Di talché ecco una prima conclusione rilevante ai nostri fini: proprio il principio di legalità in materia penale, in un’accezione ‘integrata’ comprensiva delle fonti costituzionali e sovranazionali pertinenti, unitamente allo stesso principio ‘nostrano’ di colpevolezza fondato sull’art. 27 co. 1 e 3 Cost., costituiscono chiare e inequivoche basi normative del principio di prevedibilità della decisione giudiziale: principio da assumere, grazie al decisivo apporto della giurisprudenza di Strasburgo, nell’accezione più ampia tra quelle illustrate in apertura (cfr. supra, § 2), e dunque come comprensiva anche della prevedibilità della pena che potrà essere inflitta e concretamente eseguita, superando ogni residua timidezza dottrinale e giurisprudenziale in proposito.
3.4. Il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
Ma la prevedibilità della decisione giudiziale non risponde soltanto – e sarebbe già molto – ad una logica di tutela dei diritti soggettivi (fondamentali!) del destinatario della norma penale, e poi dell’indagato, dell’imputato e del condannato. La prevedibilità è, altresì, funzionale alla tutela di principi e interessi ‘oggettivi’ di rango costituzionale, i quali hanno sì anche una proiezione individuale, ma vengono in considerazione soprattutto quali interessi ‘di sistema’, o ‘ordinamentali’, più che come diritti soggettivi.
Il primo di tali principi è, mi pare, il principio di eguaglianza, consacrato dall’art.
3 Cost. L’osservazione è ovvia e non è nuova – e vale d’altronde in ogni settore dell’ordinamento –, ma è spesso dimenticata proprio dai penalisti27: la prevedibilità della decisione giudiziale, in materia penale come altrove, è legata a doppio filo alla parità di trattamento tra casi simili. Un sistema in cui le decisioni sono imprevedibili – un sistema, insomma, in cui davvero habent sua sidera lites, e in cui a ogni giudice corrisponde una diversa sentenza, secondo quanto affermato dall’altro buon vecchio brocardo tot capita, tot sententiae – costituisce l’esatta negazione del principio di eguaglianza, consacrando il luogo comune secondo cui la decisione del caso concreto dipenderà – nella migliore delle ipotesi – dal personale senso di giustizia del giudice nel quale si avrà la ventura di imbattersi.
Nella concreta realtà ordinamentale italiana, un simile rischio si manifesta non solo in relazione all’interpretazione del precetto di molte norme incriminatrici, sui quali la giurisprudenza di legittimità non riesce ad imporre (o ad imporre tempestivamente) orientamenti uniformi28; ma è presente in maniera macroscopica anche in materia di commisurazione della pena. E ciò anche in conseguenza della pratica rinuncia da parte della Corte di cassazione all’esercizio di un serio sindacato sulla discrezionalità del giudice di merito in proposito; nonché, mi pare, della istintiva resistenza opposta dai giudici a qualsiasi
27 Beninteso, con rimarchevoli eccezioni: cfr., ad es., CADOPPI, Il valore del precedente, cit., p. 267; ID., Giudice penale e giudice civile di fronte al precedente, in Ind. pen., 2014, p. 14 s.
28 Proprio con una vivida illustrazione di numerosi recenti contrasti interpretativi in materia penale, e delle loro ricadute in termini di lesione del principio di eguaglianza di trattamento tra casi identici, si apre non a caso il volume di Cadoppi appena citato: v. p. 1 ss. (ma cfr. anche, più analiticamente, p. 73 ss.).