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IL GRUPPO COME STRUMENTO DI FORMAZIONE E DI INTERVENTO NEI CONTESTI SOCIO-ORGANIZZATIVI ATTUALI

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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE - MILANO

FACOLTÀ DI PSICOLOGIA

CORSO DI LAUREA IN PSICOLOGIA

IL GRUPPO COME STRUMENTO DI FORMAZIONE E DI INTERVENTO NEI CONTESTI SOCIO-ORGANIZZATIVI

ATTUALI

RELATORE:

CHIAR.MO PROF.: CESARE KANEKLIN

TESI DI LAUREA DI:

GIOVANNA SCARDILLI MATR. 2304079

Anno Accademico 2000-2001

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A tutti quelli che, in qualche modo, sentono questo lavoro un po’ anche loro

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INDICE

INDICE ______________________________________________________I INTRODUZIONE _______________________________________________I

CAPITOLO 1. CHE COSA SONO I GRUPPI_______________________ 1 1.1. APPROCCI TEORICI ALLO STUDIO DEI GRUPPI ______________________1 1.2. LA STRUTTURA DEI GRUPPI______________________________________9 1.2.1. I processi di gruppo___________________________________________ 11 1.2.2. Le dinamiche nei gruppi_______________________________________ 14 1.2.3. Le difese e le disfunzioni che caratterizzano i gruppi________________ 18

CAPITOLO 2. APPRENDIMENTO E FORMAZIONE _______________ 24 2.1.ALCUNI APPROCCI AL CONCETTO DI APPRENDIMENTO ______________24 2.2.IL RUOLO DELLAPPRENDIMENTO NELLA FORMAZIONE________________30 2.2.1. La peculiarità del singolo individuo che apprende _______________ 33 2.2.2. I gruppi che apprendono _______________________________________ 35 2.2.3. Gruppo di lavoro e gruppo di formazione: un confronto necessario 39 2.3. LA FORMAZIONE COME LEVA PER IL CAMBIAMENTO________________41 2.3.1. L’apprendimento come forma di cambiamento individuale________ 44 2.3.2. L’apprendimento come forma di cambiamento collettivo: il livello organizzativo_______________________________________________________ 47 2.4.1. In cosa consiste e come si articola l’apprendimento organizzativo ____ 52 CAPITOLO 3. I GRUPPI NELLA FORMAZIONE: DALLE PRIME

APPLICAZIONI AI PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI PER IL FUTURO ___ 55 3.1. L’UTILIZZO DEL GRUPPO NELLA FORMAZIONE SECONDO LA PROSPETTIVA PSICOSOCIOLOGICA________________________________________________55 3.2. LA DIMENSIONE NARRATIVA NELLA FORMAZIONE____________________62 3.3. LA FORMAZIONE E LE NUOVE TECNOLOGIE _________________________65

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3.4. GLI STRUMENTI DELLA FORMAZIONE CHE UTILIZZANO IL GRUPPO COME STRUMENTO______________________________________________________69

3.4.1. Il lavoro di gruppo______________________________________________ 71 3.4.2. Il Case study o metodo dei casi__________________________________ 72 3.4.3. Il Business Game______________________________________________ 74 3.4.4. La ricerca d’aula e gli autocasi___________________________________ 75 3.4.5. Il Role-playing_________________________________________________ 78 3.4.6. La simulazione ________________________________________________ 80 3.4.7. Gli esercizi outdoor_____________________________________________ 82 3.4.8. Le esercitazioni analogiche______________________________________ 85 3.4.9. Il T-Group_____________________________________________________ 86 3.4.10. L’Action learning______________________________________________ 88 3.4.11. La Business television e la Videoconferenza _____________________ 91 CAPITOLO 4. PARTE EMPIRICA: IL PUNTO DI VISTA DEI FORMATORI SUL GRUPPO _______________________________________________ 94

4.1. GLI OBIETTIVI ________________________________________________94 4.2. LA METODOLOGIA _____________________________________________96 4.2.1. I soggetti intervistati____________________________________________ 96 4.2.2. Lo strumento__________________________________________________ 96 4.3. ANALISI DEL CONTENUTO DELLE INTERVISTE: I RISULTATI_____________98 4.3.1. Il gruppo di lavoro nel rapporto tra formazione e organizzazione______ 98 4.3.2. Le rappresentazioni mentali dei formatori sullo ‘scenario’ gruppo ____ 106 4.3.3. La ‘regolazione’ dello strumento gruppo nel set formativo___________ 108 4.3.4. La virtualità a supporto della formazione:le nuove tecnologie informatiche__ 115 4.3.5. Le tendenze attuali nella formazione: ‘distanza’ ma anche ‘vcinanza’_ 119 4.3.6. Quale futuro per la formazione?_________________________________ 121

CONCLUSIONI _____________________________________________ 123

ALLEGATI_________________________________________________ 128 ALLEGATO N. 1 _______________________________________________________ 129 BIBLIOGRAFIA_____________________________________________ 131

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INTRODUZIONE

Nei contesti socio-organizzativi odierni sono forti ed evidenti i bisogni di implementare le conoscenze per migliorare i processi di sviluppo, mantenendo, così, alto il livello delle competenze e, quindi, anche la competitività sul mercato. Queste nuove esigenze fanno sì che nelle organizzazioni si parli sempre più di apprendimenti, e che l’attenzione si focalizzi, di conseguenza, sulle richieste crescenti di interventi formativi sempre più mirati. Stiamo parlando delle organizzazioni che si riconoscono nel paradigma della Learning Organization, che quindi mirano al cambiamento organizzativo, consapevoli che questo debba passare attraverso l’apprendimento dall’esperienza dei singoli che vi lavorano.

L’interesse per il tema degli apprendimenti è quindi centrale e molto attuale;

infatti si parla molto di apprendimenti individuali ma anche di apprendimenti ad un livello certamente molto più ampio, quello organizzativo. Quest’ultimo affinché sia efficace deve necessariamente passare attraverso il primo, ed è in questo senso che l’attenzione di questo lavoro è fortemente volta alla dimensione micro, quella del gruppo, importantissima e imprescindibile per i singoli individui che appartengono ad una dimensione socio-organizzativa. E’ possibile, allora, vedere, oggi, la formazione di gruppo come mediatore indispensabile di apprendimento tra la dimensione individuale e quella culturale-organizzativa, alla luce delle esigenze che si delineano sempre più chiaramente nei contesti presi qui in considerazione?

Possiamo, allora, considerare i gruppi di formazione come anello di congiunzione fondamentale nella catena di sviluppo dei nuovi apprendimenti?

E quanto dell’apprendimento individuale viene messo in gioco nella dimensione di gruppo al fine di raggiungere quegli apprendimenti ai quali le organizzazioni fortemente aspirano?

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Quale può essere, pertanto, oggi, il ruolo della dimensione del gruppo nei contesti socio-organizzativi e come cambia il suo reale utilizzo rispetto al passato?

Sono questi, in sostanza, gli interrogativi che stanno alla base e motivano il forte interesse verso il tema della dimensione del gruppo nei contesti socio- organizzativi odierni, tema che verrà affrontato di seguito, nei prossimi capitoli.

Dunque, il primo capitolo è centrato sulla dimensione del gruppo; in esso vengono presentati i principali modelli che si occupano di tale dimensione e si cerca di delinearne le peculiarità e le caratteristiche analizzandone la struttura su più livelli, per poter così cogliere il particolare funzionamento che riguarda proprio tale dimensione. Per questo motivo l’attenzione viene rivolta in particolar modo ai processi che solitamente avvengono in un gruppo, alle dinamiche che in essi si attivano, ma anche all’aspetto delle difese e delle resistenze che i singoli agiscono quando sono concretamente coinvolti in tali situazioni.

Il capitolo successivo vuole invece focalizzare la propria attenzione sul concetto di apprendimento nei processi formativi, ma nello specifico in relazione alle dimensioni dell’individuo, del gruppo, e a quelle organizzative, soprattutto associato all’idea del cambiamento. Si vuole cioè vedere che tipo di rapporto esista tra formazione e apprendimento, nonché verificare quale tipi di apprendimento la formazione è in grado di trasferire nei contesti socio- organizzativi attraverso utenti particolari, quali sono i gruppi. Si vedrà inoltre qual è oggi il grado di interesse da parte delle organizzazioni verso lo strumento gruppo, e quale il suo utilizzo da parte della formazione per migliorare gli apprendimenti organizzativi e per crearne di nuovi. A proposito di questo, è importante sottolineare che la formazione è “comunque uno fra i vari strumenti organizzativi pensanti e sussistenti, non l’unico né il principale” (Cucchi, Roncalli, 19911), non per darne una visione riduttiva, ma per dare maggiore risalto, invece, alla specificità degli ambiti che la riguardano.

1 M. Cucchi, P. Roncalli, Il processo di formazione nella prospettiva della teoria dell’azione organizzativa, in B. Maggi (a cura di), La formazione: concezioni a confronto, Etas Libri, Milano, 1991.

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Inoltre, la finalità è anche quella di cogliere come cambia l’apprendimento nei contesti organizzativi, se cambiano le richieste che le organizzazioni fanno alla formazione, e se la formazione cambia, o dovrebbe cambiare, per adattarsi ai continui cambiamenti in tali contesti.

Nel terzo capitolo, invece, la centratura è sugli approcci e sugli strumenti formativi che in modo particolare considerano e valorizzano la dimensione del gruppo. Il tentativo, infatti, è di cogliere l’importanza e lo spazio che oggi può ancora avere il gruppo, alla luce di quelli che sono gli strumenti, dai più tradizionali, basati ad esempio sulla dimensione narrativa, a quelli di più recente diffusione (come la formazione a distanza), di cui oggi le formazione si avvale. L’interesse verso questi ultimi orientamenti, centrati appunto sull’utilizzo di strumentazioni informatiche, è mosso, in particolar modo, dalla percezione di una certa incongruità, e, quindi, di una apparente inconciliabilità, tra la diffusione di tali strumenti, che portano con sé un’idea di superinvestimento del singolo in apprendimento, oltre che un’idea virtuale di gruppo operativo nei contesti di lavoro, e quella che sembra essere un’esigenza fortemente percepibile, e cioè quella di utilizzare i gruppi come strumento di intervento organizzativo, in contesti in cui sempre più, di fatto, si parla di dimensioni cooperative e collaborative.

Il quarto capitolo, infine, affronta i temi trattati nei capitoli precedenti, riprendendoli però da un punto di vista non più teorico, e quindi riferito alla letteratura, ormai ricchissima circa questi temi, ma attraverso un’indagine basata sulle esperienze dirette di formatori professionisti che lavorano a contatto con questi contesti lavorativi. Si è, quindi, cercato di dare risposta a quei quesiti che sono via via emersi in questi capitoli, ma anche di trovare conferma, o meno, ad alcune ipotesi precedentemente esposte.

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Capitolo 1. Che cosa sono i gruppi

1.1. APPROCCI TEORICI ALLO STUDIO DEI GRUPPI

La letteratura sui gruppi è assai ampia. Il gruppo è stato, infatti, oggetto di studio di diverse discipline come ad esempio la sociologia, la pedagogia, l’antropologia e non per ultima la psicologia. Pensare di giungere ad una possibile sintesi fra i numerosi approcci si presenta un’impresa davvero complessa; è più facile tentare una classificazione relativa dei modelli che si occupano dei gruppi, tenendo conto di volta in volta, separatamente, delle diverse variabili possibili.

Considerando il concetto di sviluppo di un gruppo è possibile individuare, secondo la classificazione che ne fa G. Contessa (1999), una prima grande categoria di modelli che possiamo definire “progressivi, lineari o evolutivi”. Secondo questo approccio il gruppo viene concepito come un sistema che si evolve dall’informale al formale, dallo stato magmatico a quello strutturato, da una fase infantile ad una adulta. Si tratta di una concezione sviluppata dalla cultura industriale e perciò carica dell’ottimismo illuministico nei confronti del progresso, e applicata come paradigma ai gruppi di lavoro e di produzione.

Un limite di questo modello risiede nel fatto di non riuscire a spiegare perché alcuni gruppi non seguano le fasi indicate o le seguano per periodi molto diversi fra loro. Un secondo limite è quello di ritenere positivo soltanto uno sviluppo completo, in grado cioè di giungere alla fase finale del suo processo evolutivo, e d’altra parte, di ritenere negativo ogni ritardo, arresto o regressione, quasi a voler affermare che il prodotto finale sia più importante del processo.

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Ovviamente l’attenzione maggiore è sul futuro, inteso come il tempo del destino evolutivo del gruppo che influenza il presente.

La linearità che il modello propone viene suddivisa, a seconda dei diversi autori che se ne occupano, da un minimo di tre ad un massimo di quindici fasi. W. Schutz (1978) ad esempio si riferisce a gruppi di crescita e di formazione il cui processo di sviluppo si articola in tre distinte fasi:

1. la prima è data dal movimento tra dentro e fuori, tra inclusione ed esclusione, che caratterizza i membri di un gruppo. Si tratta di una oscillazione tra due sentimenti contrastanti, tra il timore di essere escluso e il desiderio di essere incluso. E’ una fase che può alimentare lo spettro della non accettazione e dar vita a comportamenti opposti di ipo o iper-socialità. In entrambi i casi i soggetti hanno una bassa auto- stima per cui temono di non essere accettati dal gruppo;

2. la seconda fase, quella del controllo, è quella nella quale il gruppo si muove intorno al problema del potere, e i cui temi centrali sono l’autorità, la competenza e la responsabilità. In questa fase entrano in gioco le dimensioni di impotenza e di onnipotenza dando luogo a comportamenti disfunzionali di ipercontrollo o di delega totale;

3. l’ultima fase, quella caratterizzata dall’intimità e la coesione del gruppo, si verifica nel caso in cui la seconda fase venga superata senza la frantumazione del gruppo. I sentimenti dei membri oscillano tra vicino e lontano, caldo e freddo, profondità e superficialità dando vita a comportamenti ipo o iper-affettivi.

Secondo l’autore la curva che attraversa le fasi di inclusione, controllo e intimità in genere si conclude con la fine del gruppo.

Un altro modello possibile è quello che propone B. Tuckman (1965).

Esso consiste di quattro fasi successive:

1. la formazione è la fase che implica un movimento iniziale di esplorazione fra i membri e di sperimentazione dei relativi comportamenti;

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2. la fase di tempesta presenta un clima più emotivo dove emergono dimensioni conflittuali, competizioni e anche dissensi per stabilire la gerarchia di potere tra i membri;

3. la fase successiva è quella della regolazione della coesione, dove la confidenza tra i membri è maggiore anche perché regolata da norme condivise che distribuiscono il potere in modo accettabile per tutti;

4. la fase della performance, e cioè della realizzazione del compito per cui il gruppo si è formato, chiude il processo di sviluppo lineare del gruppo.

Una seconda tipologia di modelli è quella che considera il gruppo non più in termini di linearità, ma come un sistema che si muove verso il basso e cioè secondo un movimento “a spirale”. Il passare del tempo non aumenta l’efficienza del gruppo, ma piuttosto la sua coscienza. Le fasi del gruppo si sviluppano in circolo e in profondità. Questa classe di modelli trova la sua ispirazione nel pensiero europeo, nella tradizione psicoanalitica, nei gruppi non centrati sulla performance. Il limite principale di molti di questi modelli, anche se non di tutti, risiede nella maggiore attenzione data ai singoli membri piuttosto che al gruppo come insieme. L’accentuazione dunque è più sul lavoro dei singoli ‘in’ gruppo, che sul lavoro ‘di’ gruppo. Inoltre la centratura è sul passato, non sul presente o sul futuro. Per quanto riguarda questa tipologia di modelli possiamo citare autori quali Bion, Whitaker e Slater nel mondo anglosassone e Enriquez, Anzieu, Kaes in ambito francese. Fra questi merita un discorso a parte il modello proposto da Bion, il più importante fra quelli che si occupano di gruppi.

W. Bion (1971) afferma che il gruppo ha due nature, una che lavora e una che si arresta su “assunti basici”. Il gruppo che lavora è continuamente esposto al gruppo che si comporta come se la sua vita e la sua crescita dipendessero da questi assunti di base che rappresentano la dimensione emotiva non manifesta, dunque implicita e inconsapevole, carica di sentimenti repressi.

In altre parole questi assunti di base sono il luogo in cui ogni membro collude con l’uno o l’altro, in tempi diversi.

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Tali assunti di base vengono raggruppati dall’autore in tre categorie. La prima riguarda i comportamenti di “dipendenza” dei membri del gruppo dal leader, o dall’operatore che lo conduce, gli unici in grado di dare al gruppo sicurezza, protezione e aiuto. Se tale assunto non trova soddisfazione ne derivano sentimenti di ostilità e frustrazione che coinvolgono i membri dell’intero gruppo, poiché, come afferma Kernberg (1999), “il gruppo dipendente è (...) caratterizzato dall’idealizzazione primitiva, dall’onnipotenza proiettata, dal diniego, dall’invidia e dall’avidità, con tutte le difese che li accompagnano”. Il secondo assunto è quello che Bion definisce di “attacco- fuga”: si tratta di un gruppo, questo, in cui i soggetti si aspettano che il leader li guidi nella guerra contro il nemico e li protegga dalle lotte interne. Il terzo assunto di base infine è quello definito “di accoppiamento”, nel quale le relazioni fra due membri sono viste come generative di una sorta di “messia” in grado di risolvere i problemi per il gruppo.

Un terzo tipo di modelli che si occupano di gruppi dal punto di vista del loro sviluppo sono quelli definibili “ciclici”, che concepiscono, cioè, la vita del gruppo come una serie di fasi continue e persistenti. Il tempo dei modelli ciclici è l’eterno presente, in linea con la filosofia orientale Zen e Tao dalla quale prendono ispirazione. Secondo questo tipo di modelli il gruppo viene concepito come sfondo o contesto del cambiamento individuale. Esemplare di questa categoria è il contributo di Anthony G. Banet Jr. (1976), ispirato alla filosofia taoista che vede totalità e unità come un flusso di esperienza nel quale si intrecciano un principio ricettivo (yin) ed uno attivo (yang). La vita del gruppo è dunque una continua dialettica tra i due principi, la cui interazione produce otto posizioni basiche (la creatività, il supporto, le emozioni, il silenzio, la reattività, il confronto, l’intelletto e l’interazione), sulle quali ruota ciclicamente l’asse dei comportamenti secondo un movimento pendolare.

Il modello che propone invece K. Lewin (1951) è difficile da classificare, vista la vastità e l’articolazione; egli è il maggiore studioso in tema di gruppi in campo psicologico e, per questo, può essere considerato il fondatore della scienza dei gruppi, oltre che l’inventore del termine “dinamiche di gruppo”.

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Oggi è possibile dire che tutti i modelli della seconda metà del XX secolo derivano dalle sue acquisizioni e che tutti i gruppi non terapeutici, ancora oggi esistenti, possono considerarsi ispirati al pensiero di Lewin. Si può, dunque, tentare di sintetizzare tale modello riassumendo le principali affermazioni dell’autore sul concetto di gruppo:

I. il gruppo è un campo di forze attrattive e repulsive in equilibrio quasi- stazionario;

II. la configurazione del gruppo è la risultante dello scontro tra le forze del campo;

III. il campo di forze comprende sia le forze soggettive (i vissuti, i desideri, le aspettative, ...), sia le forze oggettive (strutture, poteri, vincoli, ...);

IV. il campo di forze esiste nel tempo presente, qui ed ora;

V. i comportamenti individuali dipendono dalla personalità e dal campo di forze;

VI. l’intero è diverso dalla somma delle parti in quanto ha proprietà specifiche;

VII. le proprietà strutturali del campo sono caratterizzate dai rapporti fra le parti piuttosto che dalla loro natura.

Il modello che ne deriva indica uno sviluppo circolare del gruppo secondo un movimento che si può definire perenne. In questo senso Lewin ha gettato le basi di un modello euristico generativo che possiamo considerare la base di tutti i modelli successivi.

Un’altra tipologia di modelli che si occupano del gruppo si focalizza invece sulla dimensione corporea. Sono detti appunto “modelli corporei”. Oggi la diffusione di questi tipi di gruppo è limitata alla psicoterapia o alla psicomotricità, ma qualche loro acquisizione e tecnica ricade anche sui gruppi di formazione e di lavoro. L’idea centrale che sottende tali modelli è quella di mettere sotto osservazione i corpi presenti in un gruppo e le interazioni non verbali più che quelle verbali. Questa grande categoria si ispira soprattutto all’eredità di W. Reich, prosegue con la bio-energetica di A. Lowen, la tecnica di Ida Rolf, e giunge fino ad oggi con la proliferazione delle pratiche Zen o New Age.

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Esistono altri modelli, poi, che, invece, vengono definiti sulla base della tecnica di intervento messa a punto dal conduttore, o sull’attività principale che impegna i soggetti facenti parte il gruppo. Ad esempio, all’interno di questa categoria si possono distinguere i gruppi di psicodramma, i gruppi di auto-aiuto, quelli di analisi immaginativa, i gruppi di simulazione e i gruppi di problem- solving. Bisogna dire che il panorama in questo senso è vastissimo perché si basa su tecniche e attività il cui emergere o svilupparsi è in continuo movimento. I gruppi di psicodramma sono caratterizzati dal fatto di coinvolgere i partecipanti in una attività drammatica, teatrale, di messa in scena spontanea;

ciò che viene drammatizzato è un vissuto, un ricordo, una esperienza significativa del singolo partecipante. Il gruppo collabora alla messa in scena fornendo l’ambientazione fisica o emotiva e gli attori di supporto. La teatralizzazione, se ben guidata, può produrre catarsi e cambiamenti nel singolo.

In questa categoria di modelli i diversi approcci non si distinguono per specifiche teorie o concezioni del gruppo, ma, appunto, solo per la tecnica utilizzata. Infatti un gruppo di psicodramma, ad esempio, può essere concepito sia in termini di linearità che di circolarità, ed essere inquadrato secondo un paradigma psicoanalitico piuttosto che corporeo.

Per quanto riguarda le tecniche di simulazione ne esistono diverse ma ciò che le accomuna è l’esperienza del “come se”; esse si fondano sulla tecnica di rappresentazione di un fatto, una situazione o una storia che non provengono dal mondo interno dei partecipanti, come avviene invece nello psicodramma, ma dalla realtà esterna al gruppo. Il risultato che viene qui ricercato non è la catarsi ma più spesso l’addestramento dei soggetti. In questo senso i gruppi di simulazione sono delle palestre di apprendimento, sia per la comprensione di certi fenomeni, sia per l’acquisizione di comportamenti funzionali al ruolo sociale o professionale specifico. Anche i gruppi di problem-solving, impegnati nella soluzione di problemi, hanno come scopo quello di apprendere, ma mentre nei gruppi di simulazione l’apprendimento avviene per esperienza vissuta, nei gruppi di problem-solving l’apprendimento avviene per riflessione e confronto.

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Alla classe dei modelli caratterizzati da uno specifico approccio teorico appartengono moltissimi modelli che concepiscono o raccontano le dinamiche psicologiche individuali o dei singoli “in” gruppo. Si tratta di modelli di gruppo che vengono letti o condotti secondo un particolare approccio teorico, tra i quali: quello rogersiano, della Gestalt therapy, di Analisi Transazionale, o di Programmazione Neurolinguistica.

Nella classe di quelli che possiamo definire “modelli metaforici”, possiamo includere modelli espressi essenzialmente in termini metaforici, che sottolineano, pertanto, un aspetto particolare del piccolo gruppo. Fra questi, ad esempio, il gruppo come “sala degli specchi” di cui parla J. Moreno (1964), in cui ogni membro si specchia in ciascun altro, arrivando a capire parti di sé attraverso l’altro e parti dell’altro attraverso di sé, oppure il gruppo come “rete di interazioni” di J. Luft (1997), piuttosto che la metafora del gruppo come

“microcosmo” proposta da Slater (1974), o il gruppo come “sogno” che è invece la visione che propone D. Anzieu (1976), sottolineando il carattere soggettivo, psichico ed emozionale del gruppo.

Giungendo ad una sintesi è opportuno puntualizzare se ci siano, e soprattutto, quali siano gli elementi di base che differenziano i diversi modelli presentati.

Il primo elemento di differenziazione è quello tra una concezione di gruppo come insieme, ed una “in” gruppo che considera il gruppo come sommatoria o come semplice contesto alle vicende individuali. Sottolineare questa differenza è importante non solo ai fini della lettura dei fenomeni di gruppo, ma anche per la definizione delle stesse modalità di intervento in esso.

Infatti concepire gli individui “in” gruppo, in poche parole, vuol dire delegare al gruppo una funzione secondaria, di sfondo, negando e trascurando la dimensione autonoma che caratterizza il gruppo come insieme, mettendo al centro i singoli più delle relazioni, e assegnando al passato e al futuro un maggior peso rispetto al presente per quanto riguarda l’agire individuale.

All’opposto la concezione “di” gruppo riconosce a questa entità autonomia e caratteri diversi da quelli dei singoli membri; ne enfatizza le relazioni e le

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interdipendenze, considerando il comportamento individuale come influenzato anche dal campo presente.

Un secondo elemento discriminante riguarda la centralità attribuita alla struttura del gruppo piuttosto che alla sua dinamica. Concepire il gruppo in termini di struttura significa dare risalto agli elementi di stabilità, alle costanti e alla realtà come questa si presenta; viceversa concepirlo in termini di dinamica implica il fatto di valorizzare in particolar modo la dimensione del cambiamento. Inoltre, mentre la visione strutturale è centrata sui tempi del passato e del presente, la visione dinamica accentua le dimensioni del presente e del futuro.

Terzo elemento differenziatore è quello che contrappone soggettivismo e oggettivismo. Da una parte la concezione soggettivistica attribuisce al gruppo solo valenze psicologiche, intangibili ed emozionali, dall’altra, la concezione oggettivistica pone in evidenza solo gli aspetti tangibili, quelli cioè strutturali e sociologici.

Queste differenziazioni contribuiscono a chiarire meglio la classificazione odierna dei modelli che si occupano dei gruppi.

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1.2. LA STRUTTURA DEI GRUPPI

Sono diverse le variabili che definiscono la struttura di un gruppo. Tra queste l’idea di confine si presenta come molto importante perché legato all’idea di spazio psicologico in esso racchiuso. Tale spazio rappresenta in senso metaforico l’area delle competenze, del potere e del raggio d’azione dei singoli in interdipendenza fra loro. I gruppi che possiedono un confine rigido sono quelli cristallizzati, cioè incapaci di evolversi e di cambiare, o di permettere uno scambio con l’esterno; la difficoltà ad entrare o ad uscire è un carattere distintivo dell’identità di questi gruppi. D’altra parte esistono gruppi con confini più flessibili, ma il confine deve comunque esistere, pena la confusione fra interno ed esterno. La sua completa assenza infatti non definisce un gruppo come aperto, ma piuttosto come inesistente; inoltre il confine caratterizza il “noi” delimitando lo spazio comune e separandolo dallo spazio che ciascuno condivide con altri campi (Contessa, 1999). Il riferimento è qui al concetto di pluriappartenenza secondo cui ogni singolo individuo è allo stesso tempo parte di gruppi diversi che si riferiscono a contesti diversi.

Un secondo elemento di cui tener conto è l’idea di interdipendenza tra le parti, e di equilibrio dinamico del sistema che da essa scaturisce. Infatti ogni piccola variazione operata nel gruppo o sul gruppo come insieme, produce movimenti in ogni suo singolo membro e viceversa. L’interdipendenza pertanto è la conseguenza dei legami, e quindi delle relazioni esistenti fra coloro che costituiscono il gruppo. E tali legami sono più sensibili di questi ultimi al cambiamento (Contessa, 1999, pag. 30); infatti, mentre i singoli membri di un gruppo sono, allo stesso tempo, pluriappartenenti a gruppi diversi, le relazioni che in esso si attivano esistono nell’hic et nunc di quel momento e di quel particolare contesto. Pertanto la dimensione del piccolo gruppo può considerarsi una struttura in perenne oscillazione tra stati psicologici continuamente variabili al suo interno, costantemente in tensione e sul punto di precipitare in forme diverse.

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Un ulteriore elemento è rappresentato dai diversi livelli di lettura che possono riguardare il gruppo come oggetto di studio. Tali livelli possono essere definiti in base al loro grado di profondità e di immediata visibilità dall’esterno.

Da un primo livello, più superficiale, dei contenuti si passa a quello dei metodi, per porre poi l’attenzione sui processi e infine, ad un livello più profondo di analisi, sulle dinamiche di gruppo.

I contenuti rappresentano tutto ciò che il gruppo e i suoi componenti dicono e fanno in modo esplicito; comprendono gli obiettivi dichiarati, l’ordine del giorno e l’argomento di discussione.

Al secondo livello, meno visibili dei contenuti si possono analizzare i metodi. Per metodi si intendono le regole che definiscono il percorso a cui il gruppo si dedica, e quindi il modo in cui viene organizzata l’espressione dei contenuti stessi. Si tratta dell’uso di un linguaggio particolare piuttosto che della sequenza delle comunicazioni interne, degli orari e dei luoghi di incontro, dei rituali, ma anche della struttura dei ruoli che il gruppo definisce al suo interno. Nei gruppi amicali il metodo si colloca ad un livello implicito, non dichiarato, e dunque spontaneo; pertanto può essere facilmente visibile dall’esterno senza però esistere a livello cosciente dei singoli membri che del gruppo fanno parte; nei gruppi di lavoro o di formazione il metodo è invece più spesso reso esplicito, tanto che i membri ne sono consapevoli. Inoltre il metodo è ciò che rimane relativamente costante nella storia di un gruppo ed è per questo motivo che è possibile analizzarlo per indagare il carattere e lo stato di salute di un gruppo.

A livello dei processi si deve tener conto di quella che è la sequenza storica degli avvenimenti osservabili in un gruppo, sia in termini di comportamento, sia in termini di comunicazioni osservabili. Mentre contenuti e metodo sono in un certo senso elementi di carattere strutturale, i processi, che nulla hanno di rigido e di predefinito, rappresentano la messa in atto e dunque lo svolgimento, l’elemento variabile che può condurre al cambiamento.

Da questo punto di vista è ancor più variabile e meno prevedibile l’ultimo livello e cioè quello delle dinamiche che si attivano in ogni istante

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all’interno di un gruppo. Si tratta della dimensione emotiva ed affettiva, quella meno tangibile ed evidente. Per questo motivo l’interpretazione delle dinamiche richiede una analisi approfondita ma soprattutto competente. Inoltre lo stato emozionale del gruppo ha un forte potere di influenzamento verso i processi, i metodi e i contenuti, ma anche questi ultimi, a loro volta, influenzano le dinamiche del gruppo.

1.2.1. I processi di gruppo

Come precedentemente affermato i processi di un gruppo sono dati dall’insieme delle azioni visibili prodotte dai suoi membri.

Contessa (1999), con evidenti riferimenti alla teoria lewiniana del gruppo, visto in termini di “campo in equilibrio quasi-stazionario”, descrive le diverse fasi che il gruppo attraversa dal momento del suo concepimento fino alla sua conclusione. Dunque il primo processo ha origine con la formazione del gruppo, fase articolata secondo l’autore in due diversi momenti: il primo precedente l’incontro iniziale, e il secondo coincidente con lo stesso.

Successivamente possono alternarsi ed intrecciarsi in una sequenza temporale assai variabile altri processi quali il conflitto, la regolazione e la performance.

Prima dell’incontro, come abbiamo già detto, ogni individuo, oltre ad avere una sua personalità, appartiene contemporaneamente a più gruppi, ai quali contribuisce con parti di sé, e dai quali acquisisce norme e comportamenti.

Inoltre ogni membro, proprio come l’insieme gruppo, deve essere considerato un sistema in equilibrio tensionale dinamico, nel quale ogni singola parte ha una connessione con le altre oltre che con l’esterno. Dunque ogni possibile situazione di appartenenza, che all’interno di un gruppo viene sperimentata dai singoli, provoca inevitabilmente determinati movimenti nelle regioni intrapsichiche dei soggetti, e perciò forti modificazioni interne. D’altre parte il gruppo, in quanto luogo di diversità ed equivalenza, richiede necessariamente che si verifichino certe modificazioni nella dimensione individuale di ognuno dei partecipanti. Per cui, pur disponendo di modelli di comportamento in un

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certo qual modo stabilizzati, gli individui possono sperimentare appartenenze più o meno forti che vengono continuamente messe in gioco nell’esperienza di gruppo, che, per il suo carattere di novità, può comportare sia un’ipotesi di miglioramento, sia di minaccia all’equilibrio iniziale.

Al momento dell’incontro vero e proprio, la seconda fase del processo di formazione del gruppo, ogni evento, gesto, o comunicazione verbale e non verbale, influenza fin dal primo istante il bagaglio personale di ogni singolo, confermandolo o meno. Il modo di presentarsi dei soggetti, la loro età rispetto agli altri, il modo di vestire, gli accessori, ma anche l’ambiente come si presenta, comunicano qualcosa che inevitabilmente inizia ad interferire con le aspettative, i pregiudizi e le ambivalenze di ciascuno, senza che l’incontro sia stato realmente aperto. Il giungere all’incontro in ritardo comunica ad esempio una certa inaffidabilità e un certo disturbo ai presenti che ricade sul soggetto con un vissuto di colpa e un sentimento di esclusione che avranno il loro peso nell’avvio dell’esperienza comune.

Con le prime comunicazioni verbali i singoli si limitano a lanciare piccoli messaggi poco compromettenti, attenti più che altro ad ascoltare i messaggi altrui e ad osservarne le reazioni. E’ in questa fase che entra in gioco il meccanismo della percezione selettiva, quasi sempre inconsapevole, per la quale ogni individuo tende ad interpretare i messaggi che riceve dagli altri in modo coerente con il suo apparato di aspettative e pregiudizi, trascurando invece i messaggi distonici. In pratica una predisposizione positiva verso una persona comporta una selezione dei messaggi emessi esclusivamente in termini positivi, escludendo quindi dal campo di percezione quelli di carattere negativo;

viceversa una impressione negativa tende a far trascurare tutti i messaggi positivi e ad interpretare ogni espressione in senso negativo. Il più delle volte poi si innesca un meccanismo per il quale la percezione selettiva, sia in termini positivi che negativi, viene percepita dalla persona che ne è oggetto, la quale mette in atto comportamenti che tendono a confermare tale prima impressione.

Allora si attiva un circuito per il quale il pregiudizio e le percezioni iniziali determinano, almeno in questa fase, l’avvio delle relazioni.

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Successivamente il gruppo, a causa delle diversità degli individui che lo costituiscono, può trovarsi in una fase di conflitto, in un certo senso da considerarsi fisiologica. L’assenza di conflitto, infatti, implica spesso un basso investimento degli individui sul campo gruppale, e perciò l’inesistenza di un vero e proprio campo comune; la sfida del gruppo è quella di modellare i singoli rimodellandosi e viceversa, di creare cioè una forma plurale nuova trasformando le precedenti forme singolari. Naturalmente per i soggetti esiste un limite all’accettazione di un cambiamento individuale in funzione del gruppo, e tale limite è determinato dal rapporto soggettivo costi-benefici.

La fase del conflitto, supportata da quelle della negoziazione e del confronto, può alternarsi ed intrecciarsi con la fase della regolazione. In questo senso bisogna tener conto del fatto che nessun gruppo resiste in una situazione continuamente variabile e fluttuante, e che perciò uno stato di incertezza permanente è una situazione cristallizzata e non evolutiva per il gruppo stesso.

Il linguaggio è un elemento che interviene profondamente nella regolazione dei processi all’interno dei gruppi; rappresenta una spia del grado di coesione e di anzianità del gruppo. Anche i ruoli hanno la loro importanza nella regolazione del gruppo; sono quei comportamenti ripetuti, che quindi diventano prevedibili agli occhi altrui, che risultano dall’incrocio fra le aspettative del singolo e quelle del gruppo. I ruoli sono l’occasione per una progressiva strutturazione del campo gruppale ma possono anche rappresentare un ostacolo alla crescita e al cambiamento evolutivo dei singoli come dell’insieme gruppale. Le norme di funzionamento del gruppo sono un ulteriore aspetto della fase di regolazione;

comprendono elementi quali la sede, gli orari e i rituali. L’assenza di regole, anche implicite, è impossibile per un gruppo perché non esiste sistema o organismo che funzioni senza alcune norme di base. Anche qui l’eccesso di normatività rappresenta una struttura difensiva e diventa di ostacolo alla possibilità di sviluppo.

Norme, ruoli e linguaggio sono tutti mezzi strutturanti all’interno di un gruppo, al servizio dei singoli e del gruppo stesso; nel momento in cui questi

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ultimi vengono messi al servizio di norme, ruoli o codici linguistici si apre una nuova fase di conflitto e negoziazione.

1.2.2. Le dinamiche nei gruppi

Contrariamente alla altre tre variabili considerate (contenuto, metodo e processi), le dinamiche di gruppo sono un elemento non visibile, ma comunque osservabile, attraverso l’analisi degli effetti prodotti da contenuti, metodo e processi in atto nel gruppo; possono anche essere viste come ciò che dà vita al concreto “funzionamento” dei gruppi, e quindi, a ciò che succede tra gli individui e che vive ogni membro del gruppo mentre si lavora. E in questo senso, dunque, tale istanza è influenzata da aspetti individuali come il morale, i vissuti emotivi e la lotta per sostenere la propria identità, ma anche da bisogni che riguardano la dimensione relazionale come il bisogno di potere, di affiliazione e di realizzazione (C. Kaneklin, 1993).

I molteplici esperimenti esistenti sulle dinamiche dei gruppi, e quindi sull’idea di ‘funzionamento’, hanno permesso di individuare numerosi ambiti che sono stati oggetto di studio da parte dei diversi ricercatori che se ne sono occupati. Gli ambiti più importanti sono stati raccolti e sintetizzati in una griglia di osservazione elaborata nel 1978 da Hanson, molto utilizzata negli anni Settanta appunto per studiare il funzionamento dei gruppi (C. Kaneklin, 1993).

Tale griglia è strutturata sulla base delle seguenti specifiche voci:

1) la PARTECIPAZIONE per identificare le differenze di livello nella partecipazione verbale di ogni membro;

2) l’ INFLUENZA per identificare la capacità di catturare l’attenzione altrui, senza il bisogno di dover, per questo, partecipare molto sul piano degli interventi;

3) la LEADERSHIP che può essere produttiva o meno rispetto al gruppo e al suo lavoro;

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4) i METODI DI PRESA DI DECISIONE: per verificare se ci sono dei tentativi di produrre dei processi decisionali su base collettiva piuttosto che individuali con approccio più coercitivo;

5) le FUNZIONI DI PRODUZIONE per verificare quali persone vogliono davvero svolgere il lavoro e raggiungere lo scopo;

6) le FUNZIONI DI SOSTEGNO: creano un clima che può essere favorevole o meno alla produzione e alla partecipazione degli individui;

7) il CLIMA del gruppoche può delinearsi attraverso le impressioni che porta ognisingolo membro;

8) l’ APPARTENENZA, che può dar vita a diverse situazioni per quanto riguarda gli individui coinvolti: ad esempio la formazione di sottogruppi, o l’esclusione o il ritiro di un membro del gruppo;

9) SENTIMENTI: si deducono dall’osservazione delle interazioni tra i membri;

10)le NORME, o le regole, che possono essere esplicite o implicite ma che esprimono comunque le convnzioni della maggioranza circa l’accettabilità o meno dei comportamenti dei singoli nel gruppo.

Possiamo considerare le dinamiche ddel gruppo, anche attraverso la definizione che ne dà Contessa (1999), come quei movimenti emozionali sottostanti alla vita di quasi ogni gruppo, sia esso amicale, di lavoro o di apprendimento.

Tra le principali dinamiche alcune, in particolare, meritano di essere citate, a partire del movimento che riguarda la nascita. Un gruppo che nasce è un po’ una scommessa sia per i suoi membri che per il contesto, e ha sempre una connotazione un po’ ambivalente, oscillante tra l’attraente e un sentimento di repulsione, tra il desiderio di novità, di scambio reciproco, di solidarietà, e la paura prima di tutto del cambiamento e dell’incertezza che esso comporta.

Una seconda dinamica riguarda invece la crescita, e cioè la direzione, la velocità e le caratteristiche dell’evoluzione che interessa il gruppo. “La crescita richiede la scelta di ruoli e norme, cioè di comportamenti acquisiti, che siano efficaci e soddisfacenti. (...) Il gruppo si trova costantemente di fronte al

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problema di inventare, sperimentare e poi rinnovare norme e ruoli per rispondere armonicamente all’evoluzione del suo interno e del suo contesto”

(Contessa, 1999). Inoltre ogni oscillazione che riguarda il processo di crescita mette il gruppo di fronte al cambiamento reale e cioè alla possibilità di avanzare o di frantumarsi.

Il movimento fra differenziazione e comunione è, invece, quella dinamica che attraversa quasi costantemente la vita di un gruppo in uno scontro continuo tra forze che agiscono a favore della dimensione comune e forze tese a difendere le differenze individuali. La dimensione comune pensata come totalità evoca l’idea e il desiderio di fusione ma anche il timore dell’annientamento dei singoli. D’altra parte la parzialità, sostenuta dall’idea di differenziazione, alimenta i fantasmi della libertà e dell’onnipotenza, ma anche quelli dell’isolamento e dell’impotenza. Pertanto in un gruppo, quando le differenze diminuiscono, si perde la dimensione di pluralità e la possibilità di ricchezza fino quasi alla paralisi; quando invece aumentano viene ridotta la coesione e la capacità operativa fino al rischio di frantumazione.

Più faticosa e minacciosa è la dinamica della decisione; scegliere ha a che fare con l’idea di tagliare, eliminare, uccidere: una scelta infatti comporta l’eliminazione delle infinite alternative possibili. In un gruppo le alternative possibili sono incarnate dai singoli soggetti, portatori di ipotesi e soluzioni diverse, e dunque, le alternative escluse in un processo di decisione comune, alimentano i fantasmi dell’esclusione e dell’isolamento nei soggetti che le sostenevano, provocando anche sensi di colpa.

La “dinamica dello specchio” è quel movimento emotivo che il gruppo mette in pratica quando si osserva e riflette su se stesso. Per fare ciò è necessaria una certa forza emotiva, sicurezza e buona autostima. Il movimento oscilla tra la curiosità e la paura, di vedersi diversi da come si crede di essere o addirittura peggiori, di scoprire che esiste un problema che deve essere affrontato, o anche di diventare consapevoli di qualcosa che costa a livello emotivo.

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Un altro punto di vista è quello teorizzato da Enzo Spaltro (1980), secondo il quale le “dinamiche di gruppo” sono date dall’insieme di quelli che egli definisce i “fenomeni” e le “difese” di un gruppo, ovvero i sintomi, rispettivamente, di speranza e di paura che sono presenti in un gruppo.

Possiamo dunque considerare tali “fenomeni di gruppo” come vere e proprie dinamiche che si verificano all’interno dei gruppi; esse sono:

• la socializzazione del linguaggio, che si riferisce al sorgere delle relazioni sociali, o al suo impiego nel caso queste fossero già presenti; si esprime attraverso un linguaggio che usa il “noi”;

• la sala degli specchi (Moreno, 1964);

• le catene di associazione, secondo la tecnica psicoanalitica delle libere associazioni; se c’è un forte senso di appartenenza al gruppo i singoli espongono le loro associazioni mentali partendo da loro stessi ma anche dalle associazioni altrui;

• l’interdipendenza, che supera le reazioni di dipendenza e controdipendenza in quanto la centratura non è più sul singolo soggetto ma su ciò che questi propone;

• il feedback si presenta come la reazione a ciò che qualcuno fa, che viene emessa e ricevuta allo scopo di un miglioramento o di un apprendimento individuale; se tale meccanismo è presente a livello di gruppo oltre che nei singoli, ciò implica un buon livello di socializzazione nel gruppo;

• gli equilibri, simili alla difese, servono per diagnosticare un movimento verso la relazione sociale; a volte la situazione raggiunta viene considerata dai membri una conquista da mantenere;

• la presenza di capri espiatori è un fenomeno quasi costante nei gruppi; si basa sulla tacita intesa di tutto il gruppo sul fatto di aggredire senza essere puniti per vedere cosa succede. La scelta del capro espiatorio non è mai casuale e vale la pena tentare di comprendere le ragioni di tale scelta;

• la leadership circolante, opposta ad una leadership fissa, e quindi più funzionale al cambiamento, obiettivo del gruppo;

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• l’accettazione delle differenze da parte dei membri implica che il passaggio alla cultura di gruppo è senz’altro avvenuto.

Alcuni autori poi identificano le dinamiche con le difese, i movimenti messi in atto dai membri del gruppo per sottrarsi ad una minaccia. Ma “definire le dinamiche solo dal loro versante difensivo è come descrivere il corpo umano a partire dal sistema immunitario. I movimenti affettivi di un gruppo non sono solo di fuga da qualcosa, ma anche di ricerca, curiosità, esplorazione, sfida” (G.

Contessa, 1999). Per questo le difese rappresentano un ambito che merita di essere trattato a parte.

1.2.3. Le difese e le disfunzioni che caratterizzano i gruppi

Come avviene in tutti gli organismi vitali anche il gruppo è soggetto a disfunzioni e patologie, di carattere sia endogeno, sia esogeno. Dunque, le difese psichiche possono essere agite non solo da parte dei singoli verso il gruppo, visto come ipotesi di cambiamento e quindi come luogo di minaccia per la propria individualità, ma possono anche essere viste come fenomeno collettivo, agite cioè a livello di gruppo. Tali difese attuate da un gruppo vanno considerate come un vero e proprio dispositivo di autoconservazione, di “difesa contro la pluralità” (E. Spaltro, P. De Vito Piscicelli, 1990), atto a mantenere in equilibrio costi e benefici derivanti da una situazione di stasi o di evoluzione; il gruppo ha bisogno di difendersi da se stesso, dalla crescita, dal cambiamento dell’equilibrio raggiunto, dal compito.

Per disfunzionalità di un gruppo si intende la distanza che si verifica tra le finalità consapevoli ed esplicite di un gruppo, ed il suo reale funzionamento.

Allora, se un gruppo agisce in maniera diversa o contraria rispetto all’obiettivo in precedenza dichiarato, o disposto, esso sta difendendosi dal timore di un cambiamento o dall’ansia connessa ad un passaggio di stato, che l’avvicinamento alle finalità dichiarate inevitabilmente implica.

E’ importante sottolineare che le difese agite da un gruppo non devono necessariamente essere demolite, ma piuttosto rese evidenti, esplicite e

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consapevoli, al fine di offrire al gruppo stesso l’opportunità e la libertà, e non il dovere, di superarle. Solitamente queste difese vengono agite attraverso comportamenti che si presentano apparentemente ragionevoli, per funzionare da copertura e per renderle così opportunamente meno visibili. In genere, poi, esse si presentano come espresse uniformemente da tutti i membri del gruppo, connotate quindi in termini collettivi, pur essendo avanzate solo da alcuni di essi; è il caso in cui gli altri membri non le ostacolano ma le ignorano o le rafforzano.

E. Spaltro (in Trentini, 1980) definisce le difese di un gruppo come quei sintomi di difficoltà che determinano per il gruppo uno stato di permanenza nella “cultura di coppia”, arrestandone così il passaggio successivo ad una

“cultura di gruppo”, implicante la presenza di comportamenti socializzati e non più meramente individualistici. Secondo l’autore le difese che vengono agite in un gruppo sono molteplici, ma è necessario distinguere quelle agite dal singolo individuo, da quelle agite più propriamente a livello di gruppo. Tra queste ultime possiamo raggrupparne alcune:

1. l’accoppiamento, inteso come il dialogo costante ed esclusivo che avviene tra due individui di un gruppo con la complicità dell’intero gruppo. E’ una difesa che impedisce al gruppo di sviluppare pienamente le proprie dinamiche, anche se è funzionale a ridurre gli eventuali livelli di ansia che gli individui vivono per il loro appartenere ad una struttura gruppale;

2. la fuga: nel passato, dove la centratura è su argomenti passati per alleviare la pressione sul presente; all’esterno, discutendo di argomenti esterni al gruppo; in avanti, per cui il gruppo guarda oltre, per non agire sul presente se in esso esiste un’ipotesi di immediato cambiamento; nell’amore, dimostrando una lealtà esagerata al gruppo per non esserne disturbato personalmente;

3. la formazione di sottogruppi, simile all’accoppiamento, si stabilisce però, non tra due persone, ma tra due sottogruppi per cui il gruppo si blocca ad un livello di competitività interna che ne impedisce un certo sviluppo;

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4. la teorizzazione, per cui l’agire viene ridotto al minimo per poter riportare tutto a livello teorico definitorio e verbale; anche qui viene impedito lo sviluppo del gruppo.

Anche tra quelli che l’autore definisce gli “episodi di gruppo” possiamo rilevare alcuni modi di agire che possono essere considerati, in un certo senso, delle vere e proprie difese agite a livello di gruppo. Tra queste possiamo citare la dipendenza e la controdipendenza verso il conduttore del gruppo, la regressione, vista come momento di rassicurazione necessaria a fare dei passi successivi in avanti, il transfert inteso come il trasferimento di precedenti esperienze personali o di gruppo, sulla situazione di gruppo, e la leadership fissa, opposta ad una di tipo circolante molto più instabile e mutevole.

Secondo il parere di Contessa (1999) le spie che determinano l’attivarsi di certe difese sono almeno di cinque tipi: le contraddizioni, le reticenze, le evasioni, le omissioni e i lapsus. Esse vanno naturalmente considerate sia sul piano verbale che non verbale. Le difese che l’autore individua sono le seguenti otto:

1. la fusione, particolarmente attiva nelle fasi iniziali del gruppo, viene agita nel tentativo di negare le difficoltà, per il timore che la nascita del gruppo non avvenga, o nella dinamica di differenziazione, quando si presenta il rischio di una frantumazione del campo gruppale. In un certo senso tale difesa ha la funzione fisiologica di incrementare o accelerare l’appartenenza, ma solo entro certi limiti; oltre questi, infatti, può provocare un’identificazione col gruppo o col leader carismatico dello stesso, pericolosa per la singolarità dei membri. In un gruppo in condizioni di fusione l’interno viene sentito come buono, mentre ogni elemento esterno, oppure interno ma oppositore, come negativo. La fase successiva a questa è una sindrome persecutoria che vede in ogni elemento interno un possibile traditore e in ogni membro esterno un nemico minaccioso. Dunque i singoli membri ed il gruppo sentono la minaccia costante e la fatica di dover tenere insieme una pluralità di elementi contraddittori e conflittuali e la fusione rappresenta la difesa idonea a negare le diversità e a ridurre a singolarità ciò che è plurale. E’ un po’ quella che D.

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Anzieu (1979) definisce “illusione gruppale”, per cui i membri di un gruppo tendono a superinvestire oggettualmente il gruppo come entità superiore;

2. la separazione è generata per motivi opposti rispetto alla difesa precedente.

Essa agisce spesso nella dinamica perinatale del gruppo, quando, invece di cercare ciò che accomuna, tutti i membri sottolineano ciò che li distingue l’uno dall’altro; oppure nelle dinamiche decisionali, in cui il conflitto non viene seguito da una fase negoziale ed il gruppo si frantuma. La funzione fisiologica di tale difesa è quella di tutelare la singolarità e le diversità che, insieme all’unità, sono la vera ricchezza del gruppo, anche se l’idea di unità, in quanto evocatrice di dinamiche distruttrici, di annientamento o di inglobamento del singolo nella totalità, può risultare assai minacciosa per l’individuo. Le forme più tipiche di tale difesa sono uno scissionismo progressivo, l’isolamento, l’individualismo, l’iperconflittualità, il senso di persecuzione da parte del gruppo o l’idea che la felicità risieda altrove.

Probabilmente il contesto culturale odierno che favorisce poco la pluralizzazione dei singoli incentivandoli all’individualismo, spinge fortemente gli individui in gruppo ad agire questa difesa;

3. la dipendenza nei confronti di un’autorità interna (il leader del gruppo), oppure verso l’istituzione o l’organizzazione di provenienza, o fisica verso una persona concreta, o anche solo di tipo ideologico, affonda le sue radici nella paura della libertà, della responsabilità, del potere e della colpa. Le forme con cui questa difesa si manifesta sono la passività, la paralisi decisionale, la sottomissione e il servilismo, la delega e la deresponsabilizzazione, l’impotenza e la bassa autostima. In ogni caso la dipendenza consente di attenuare i sensi di colpa per le proprie azioni e di allontanare il peso di un errore o di un fallimento;

4. la cristallizzazione, che impedisce l’evoluzione sia del gruppo come insieme, sia dei singoli membri, è in grado di offrire sicurezza, stabilità, ordine e prevedibilità, contro ogni rischio, di rottura, perdita o frantumazione, connesso ad un ipotetico cambiamento; si manifesta attraverso la ritualità, il formalismo, le stereotipie e la fissazione dei ruoli;

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5. l’astrazione è una presa di distanza dalla situazione reale del gruppo, specie se questa assume un carattere troppo penoso; comprende quelle comunicazioni e quei comportamenti che astraggono dalla realtà concreta di un gruppo in un determinato momento: ad esempio il fatto di generalizzare piuttosto che specificare, parlare o spiegare piuttosto che agire, teorizzare piuttosto che fare esperienze dirette. L’astrazione rappresenta dunque una vera e propria fuga, una sospensione dal lavoro di consapevolezza e di cambiamento interno; svolge invece una funzione utile quando è affiancata dallo sforzo dell’esperienza concreta, perché raffredda le passioni nel gruppo e consente una migliore visione dei problemi dall’interno;

6. la personalizzazione si connota come difesa, nel momento in cui viene utilizzata per leggere le dinamiche di gruppo in termini strettamente individuali, e non più intesa solo come attenzione e valorizzazione del soggetto nella sua interezza. E’ una difesa che nega l’utilità e la necessità dell’esistenza di differenze all’interno del gruppo, e che rifiuta di vedere altre “regioni” del gruppo come parti del proprio campo gruppale interno; si manifesta in particolar modo nelle situazioni conflittuali o quando il gruppo vuole allontanare da sé un comportamento di risposta ad un bisogno di cui non vuole farsi carico, per gettarlo su un singolo membro del gruppo;

7. l’efficientismo, molto frequente soprattutto nei gruppi di lavoro, ma anche in quelli di apprendimento, è legato all’idea ossessiva di performance e di adempimento al compito, per cui il gruppo si impegna con forza a fare qualcosa, pur di non riflettere su di sé e di non curarsi dei particolari bisogni dei singoli, in poche parole di non affrontare i problemi esistenti; l’azione diventa dunque l’espediente per celare i dubbi, le attese e i problemi esistenti;

8. la sottrazione, rispetto al coinvolgimento personale e ad una reale messa in gioco dei singoli membri, infine, si riferisce al tipo di investimento personale e alla circolazione di energia all’interno del gruppo. Non è solo un fatto di impegno individuale ma anche un fatto di regolazione interna alla condizione di gruppo. Tale difesa si manifesta concretamente ad esempio attraverso

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assenze, ritardi ripetuti, silenzi, scarsità di interventi propositivi, o tramite un ipercontrollo dell’emotività; sono tutti comportamenti individuali che costituiscono una difesa di gruppo qualora diventino un modello di regolazione comune e condiviso, invece che contrastato.

Il presente capitolo non ha nessuna pretesa di esaustività per quanto riguarda l’argomento “gruppi”, ma si pone piuttosto come un punto di vista parziale, in relazione ad una letteratura che si presenta davvero ricca su questo tema. L’intento era quello di inquadrare le caratteristiche essenziali e peculiari che un qualsiasi gruppo presenta proprio in quanto tale, attraverso i contributi di alcuni autori eccellenti che hanno studiato e quindi scritto molto sui gruppi.

Il capitolo successivo vuole invece porre l’attenzione, in modo specifico, sulla dimensione dell’apprendimento, in riferimento sia al contesto specifico del gruppo, sia al concetto di formazione. Si vuole cioè vedere che tipo di rapporto esista tra formazione e apprendimento, nonché verificare quale sia il tipo di apprendimento che la formazione, in tutti i suoi aspetti e nelle forme in cui viene praticata, è in grado di offrire a utenti particolari, quali sono i gruppi di formazione. Si vedrà inoltre qual è oggi il grado di interesse da parte delle organizzazioni verso lo strumento gruppo, quale il suo utilizzo nella formazione per creare i nuovi apprendimenti organizzativi continuamente richiesti.

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Capitolo 2. Apprendimento e formazione

2.1.ALCUNI APPROCCI AL CONCETTO DI APPRENDIMENTO

Qualsiasi tipo di apprendimento, apportando del nuovo e integrandolo con ciò che già è noto, comporta sempre e comunque un certo mutamento, prima di tutto a livello individuale. Infatti gli approcci allo studio del fenomeno dell’apprendimento, proposti già in passato dai diversi autori che se ne sono occupati, hanno un orientamento che si potrebbe definire ‘individualistico’. E’

stata cioè analizzata la dimensione personale dell’apprendimento, ritenendo invece quella organizzativa la risultante della sommatoria degli apprendimenti individuali.

Morgan (1986), in pieno disaccordo rispetto a questo approccio, utilizzando la metafora del ‘cervello’ parla invece dell’organizzazione in termini ‘organicistici’, definendo questa una entità intelligente a sé stante dove l’apprendimento organizzativo è ben lontano dal poter essere considerato somma di apprendimenti individuali, seppure non sia possibile dire che sia indipendente da questi. Ma vediamo come i diversi autori si sono occupati del fenomeno dell’apprendimento individuale.

G. Alessandrini (1994) ha individuato tre diversi approcci in relazione all’apprendimento da parte dell’individuo adulto: l’approccio comportamentistico, quello cognitivistico e l’orientamento “umanistico”.

“La prima visione - sostiene l’autrice (p.152) - anche se presenta sfaccettature diverse nelle varie concezioni, rappresenta l’apprendimento come un fenomeno di associazione tra stimolo e risposta e come acquisizione di abitudini. (...) Secondo invece l’approccio della psicopedagogia cognitiva l’apprendimento non può essere visto semplicemente come una risposta, ma come un processo conoscitivo che nasce dal bisogno di strutturazione- costruzione del reale implicito nell’interazione io/ambiente. (...) Altre teorie dell’apprendimento, come quelle emerse nell’ambito dell’approccio umanistico,

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collegano l’apprendimento al bisogno di crescita della personalità che ristruttura se stessa nell’atto d’apprendere come fatto globale. In quest’ottica l’apprendimento investe la personalità, non solo a livello cognitivo, ma anche a livello emotivo/affettivo”.

L’Autrice prende inoltre in considerazione un’ulteriore tipologia di modelli interpretativi dell’apprendimento, appartenenti ad autori considerati lontani dall’ambito pedagogico. In particolare riporta le idee dell’antropologo- psicologo Bateson, di Polanyi, filosofo della scienza, e di Kolb, appartenente all’ambito della formazione aziendale. Questi diversi contributi hanno rappresentato importanti punti di riferimento per coloro che successivamente si sono occupati di apprendimento organizzativo.

G. Bateson (1976) ha parlato del processo di apprendimento suddividendolo in due differenti meccanismi: il “protoapprendimento”, inteso come apprendimento semplice, e il “deuteroapprendimento”, considerato invece l’apprendimento dell’apprendimento. “L’analisi delle curve di processi di apprendimento meccanico, in esperimenti successivi con lo stesso soggetto, mostrano generalmente la crescita del tasso d’apprendimento” e il termine deuteroapprendimento sta proprio ad indicare “il progresso del suddetto tasso mostrato nel compito dell’apprendere automaticamente”. Alessandrini, quindi, conclude affermando che si può disporre di un tasso di protoapprendimento le cui variazioni progressive interessano il fenomeno del deuteroapprendimento.

Il secondo studioso, Polanyi (1966), dà un importante contributo alla questione occupandosi di quella che è stata definita la “tacit knowledge”.

Secondo questa teoria gli individui conoscono molto di più di quello che riescono ad esprimere, cioè esiste in ogni persona un sapere esplicabile ed uno invece difficilmente codificabile di cui fanno appunto parte quelle conoscenze dette ‘tacite’.

Anche A. Oliviero (in E. Baldini, F. Moroni, M. Rotondi, 1995, p.62) parla di “apprendimenti formalizzati” e di “apprendimenti taciti”. Questi ultimi implicano un coinvolgimento diretto della persona in quanto connotati dalla dimensione dell’emotività: “la dimensione emotiva dà significato a molti dei

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nostri apprendimenti” (...), e pertanto va assunta come “elemento strutturale necessario e fondamentale dei processi di apprendimento e formazione”.

Polanyi stesso ritiene che tali conoscenze, in quanto capaci di generare regole, abbiano una certa influenza più o meno consapevole sui comportamenti degli individui. La stessa idea è stata successivamente ripresa nella teoria epistemologica di Nonaka (1991, 1994), di cui si parlerà più avanti, per essere poi applicata all’ambito organizzativo.

Infine il contributo di David Kolb (1984), risultato molto importante per gran parte degli studi successivi sulla learning organization, propone il modello dell’‘apprendimento esperienziale’.

Il modello riporta quello che secondo Kolb è il ciclo d’apprendimento dei soggetti in una situazione organizzativa. Tale processo ciclico si compone di quattro importanti fasi: l’esperienza concreta, la riflessione sull’esperienza vissuta, la trasposizione delle riflessioni in concetti e teorie, la generazione di soluzioni e la loro applicazione in situazioni nuove. L’Autore ritiene che ci possa essere un vero apprendimento solo nel caso in cui vengano attivate in maniera sequenziale tutte le fasi del processo, anche se, nella realtà, gli individui mostrano forti preferenze, e cioè migliori abilità, per una sola specifica fase di questo modello, nelle diverse situazioni in cui essi si trovano.

Esperienza (concreta)

ESECUTORE RICERCATORE

Sperimentazione Riflessione (attiva) (passiva) SPERIMENTATORE TEORICO

Concettualizzazione (astratta)

Figura 2.1: Il ciclo di apprendimento secondo David Kolb (G.B.J. Bomers, 1991, p. 105).

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G. Bomers (1991), come altri, ha ripreso e adattato questo modello a sostegno dell’idea dell’organizzazione che apprende. Come mostra la Figura 2.1, Bomers rappresenta il modello di Kolb su due assi ortogonali, dove l’asse verticale rappresenta la contrapposizione concreto/astratto, mentre quello orizzontale l’opposizione attivo/passivo. All’interno delle quattro aree che il disegno individua si possono riscontrare altrettanti diversi metodi o ‘stili’ di apprendimento possibili secondo l’Autore. Questa tipologia prevede lo stile del

“ricercatore”, proprio delle persone abili nel generare nuove idee o diverse alternative e nell’affrontare le situazioni da angolazioni differenti; il “teorico”, persona che al contrario è più portata per il pensiero astratto e per la formulazione di nuovi concetti e teorie; lo stile dello “sperimentatore” di cui sono portatrici persone capaci di provare e verificare soluzioni originali; e infine l’“esecutore”, persona pragmatica predisposta all’azione e volta ai risultati.

Vicino al modello “di tipo esperienziale” proposto da Kolb si colloca, per somiglianza, il contributo di Pfeiffer e Jones, qui sotto sintetizzato (Figura 2.2), anch’esso di tipo ‘sequenziale’.

ESPERIENZA

(“fare”)

APPLICAZIONE COMUNICAZIONE

GENERALIZZAZIONE ANALISI

Figura 2.2: Il modello di apprendimento proposto da J. W. Pfeiffer e J. E. Jones (1975).

A partire dall’atto del ‘fare’, proprio nel senso di momento di ‘azione’, il processo di apprendimento prevede passaggi nel senso del ripensamento, della

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verbalizzazione, del confronto e dell’analisi di quanto agito. Ciò che nel modello di Kolb viene definita “riflessione passiva” per il singolo soggetto che apprende qui viene rappresentata da dua differenti fasi (quella della comunicazione e della successiva analisi di questa), in quanto le condizioni del progetto educativo prevedono un processo di apprendimento non individuale ma in gruppo (G. P. Quaglino, 1985). Per quanto riguarda le altre fasi invece si può parlare di sostanziale equivalenza tra i due modelli.

Tra i molti contributi, a dire il vero assai simili tra loro (Newell, 1960;

Miller, 1960; Pounds, 1969; Kolb, 1971; ecc.), quello di Argyris (1976) contiene in sé un elemento di novità che è necessario segnalare opportunamente.

Il processo di apprendimento da lui individuato si discosta da quelli cosiddetti

‘esperienziali’, sia per i passaggi che prevede, che per la logica implicita che lo caratterizza.

SCOPERTA

GENERALIZZAZIONE CONCETTUALIZZAZIONE

AZIONE

Figura 2.3: Il modello di apprendimento secondo Argyris (1976).

Argyris sostiene che un buon modo per apprendere si basa sul confronto tra ciò che il soggetto fa e ciò che vorrebbe fare o pensa sia più opportuno fare, e cioè sul confronto tra “modello in uso” e “modello atteso”. Se il risultato derivante da tale confronto evidenzia scarti o “distanze” di un certo rilievo o comunque significative è possibile avviare un processo di apprendimento (Figura 2.3) che conduca da tale scoperta alla ricerca e formulazione di nuove modalità di azione (attraverso la fase di concettualizzazione), fino alla generalizzazione in un nuovo modello. Al contrario di quanto affermava Kolb egli sostiene che ogni processo di apprendimento può avere inizio a partire da una qualsiasi delle quattro fasi che il modello presenta: ciò comporta pertanto la

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