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L’ASPETTATIVA DI VITA DEI PAZIENTI CON PARALISI CEREBRALE NELLA VALUTAZIONE MEDICO LEGALE DELLE SPESE DI ASSISTENZA

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L’ASPETTATIVA DI VITA DEI PAZIENTI

CON PARALISI CEREBRALE NELLA VALUTAZIONE MEDICO LEGALE DELLE SPESE DI ASSISTENZA

Dr. Luigi Mastroroberto - Dr. Federica Mela∗∗

Negli ultimi due decenni l'evoluzione della dottrina e della giurisprudenza in tema di valutazione e ristoro del danno alla persona in Responsabilità Civile ha portato nel nostro Paese ad identificare tre sole voci di danno risarcibile: il danno biologico o danno alla salute, che rappresenta l’essenza stessa del danno alla persona, dal quale, ma solo eventualmente (ricorrendone cioè i presupposti giuridici e medico-legali) possono discendere il danno patrimoniale ed il danno morale.

Ma se questa impostazione giuridica trova oggi, da un punto di vista concettuale e teorico, una applicazione ormai quasi omogenea su tutto il territorio italiano, non altrettanto si può affermare se si analizzano nei dettagli la prassi peritale medico-legale e, soprattutto, i criteri liquidativi utilizzati per monetizzare le sopra citate tre componenti del danno. E ciò vale sia allorquando si discute di piccoli danni (le cosiddette “micropermanenti”), sia (ed è questo senza dubbio il dato più inquietante) se ad oggetto del risarcimento vi è una grave menomazione.

Si verifica dunque un fenomeno del tutto anomalo, che mette in dubbio l’essenza stessa della Giustizia, il registrarsi cioè di risarcimenti che, a fronte di condizioni menomative analoghe, variano in misura significativamente diversa a seconda delle prassi e degli orientamenti seguiti nelle singole sedi giudiziarie.

E’ in tal senso dimostrativa la pubblicazione di uno studio condotto dal Gruppo di Ricerca C.N.R. sul Danno alla Salute, coordinato dai Proff. Bargagna e Busnelli (Ed. CEDAM, 1996) che ha raccolto un numero significativo di sentenze emesse da 74 Tribunali italiani nell'ultimo decennio, classificandole per entità delle menomazioni accertate ed analizzando in che misura è stato calcolato il risarcimento ed in base a quali voci di danno.

Medico Legale, Consulente di Direzione dell'Unipol, Bologna

∗∗Medico Legale, Bologna

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Di particolare interesse e di stretta attinenza col tema che intendiamo trattare è l’analisi che emerge da questo studio circa i cosiddetti macrodanni.

Nella tabella che segue, tratta appunto dalla pubblicazione dello studio condotto dal Gruppo di Ricerca sul Danno alla Salute, vi è la rappresentazione sinottica di alcune sentenze relative a casi di gravi menomazioni, caratterizzate cioè da valutazioni di danno permanente biologico uguale o superiore al 75%.

Sentenze riguardanti casi con grandi menomazioni (≥70) (importi in migliaia di lire)

Analizzando le voci relative alle sentenze emesse da questi Tribunali, risulta chiaro come non sempre ritroviamo una corrispondenza tra le lesioni accertate, i postumi residuati e la valutazione in percentuale del danno permanente biologico riconosciuto in sede peritale. Rileviamo ad esempio che nelle sentenze di Lodi e di Forlì è stato riconosciuto un danno biologico con percentuali pari al 90%

per casi di tetraplegia, mentre in quelle di Palermo, Vicenza e Venezia è stata individuata la percentuale del 100% per casi di paraplegia.

Ci sembra però, a conferma di quanto si diceva sopra, che la maggiore disparità si rilevi soprattutto nel criterio economico seguito nella monetizzazione delle varie voci di danno, cosa che evidentemente porta alla fine ad assegnare risarcimenti così profondamente diversi, anche in casi di menomazioni

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analoghe verificatesi in soggetti di pari età e senza che in essi tale differenza trovi giustificazione in componenti specifiche dei singoli casi esaminati, quali ad esempio il danno patrimoniale emergente o da lucro cessante.

Avvicinandoci così a ciò che rappresenta l’oggetto di queste considerazione, rileviamo che per quanto attiene le spese di assistenza future (che pure in casi di macroinvalidità rappresentano un elemento di danno di tutto rilievo) alcuni Tribunali le hanno quantificate con un valore annuo di spesa calcolato forfettariamente e moltiplicato per il coefficiente di capitalizzazione relativo all’età, altri le hanno liquidate con criterio equitativo.

È evidente invece che il processo di capitalizzazione delle spese future si deve basare essenzialmente su due parametri:

ƒ il costo annuale delle cure;

ƒ l’aspettativa di vita del leso, ovvero il numero di anni che si presume quel soggetto ancora vivrà.

Focalizzando la nostra attenzione sul secondo dei due, dal momento che rappresenta l’aspetto di pertinenza più propriamente medico legale, vogliamo di seguito proporre, a titolo di riferimento, alcuni dei più importanti e recenti studi esistenti in letteratura sull’aspettativa di vita riguardanti, in particolare, i soggetti affetti da paralisi cerebrale.

L’aspettativa di vita degli individui con questa patologia (e più in generale con disabilità croniche) è stata infatti oggetto di numerosi studi da parte della comunità scientifica internazionale per due ordini di motivi: in primo luogo in quanto tale patologia rappresenta la causa più comune di handicap fisico nei bambini e la sua prevalenza è in aumento a seguito del miglioramento della sopravvivenza dei nati pre-termine; in secondo luogo in quanto comporta evidenti ed importanti ricadute sia di ordine sociale, legate alla pianificazione di servizi volti alla assistenza sanitaria e alla educazione di questi soggetti, sia più propriamente medico-legali, correlati essenzialmente a finalità risarcitorie.

E già la prima, ovvia considerazione è che gli sforzi degli scienziati (medici, statistici, epidemiologi) nel creare registri ad hoc (che raccolgono tutti gli individui con paralisi cerebrale nati da una certa data in poi in una determinata regione geografica) e nel cercare di creare tabelle di riferimento della

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aspettativa di vita quanto più possibile “personalizzate” a seconda del tipo e della severità del quadro disfunzionale cognitivo e/o motorio presentato dal soggetto e del suo impatto familiare e sociale, non avrebbero motivo di essere qualora la sopravvivenza di questi pazienti fosse sovrapponibile a quella di tutti gli altri soggetti di pari età, esenti da tale patologia.

Dalla letteratura consultata sull’argomento, infatti, se è vero che non risulta una univocità di vedute sul peso (singolo o in associazione) dei fattori che, come vedremo, influenzano la sopravvivenza dei nati con paralisi cerebrale, pur tuttavia emerge chiaramente e costantemente che:

1. la aspettativa di vita dei soggetti affetti da paralisi cerebrale è inferiore a quella media dei soggetti di pari età;

2. la gravità del quadro psico-motorio è inversamente proporzionale alla sopravvivenza dei bimbi, nel senso che maggiore è la compromissione delle capacità funzionali neuro-motorie e cognitive del soggetto, minore è la sua aspettativa di vita.

Tra l’altro, “The University of California Life Expectancy Project”, basandosi sui principali studi esistenti sull’argomento, ha evidenziato che negli ultimi 20 anni non vi è stato un miglioramento nella sopravvivenza degli adulti e nei bambini affetti da paralisi cerebrale con la possibile eccezione dei bambini affetti dalle forme più severe.

Ciò assodato, è importante precisare che per “aspettativa di vita” non si intende un giudizio prognostico su quanti anni vivrà una persona (ossia circa la sua sopravvivenza media). Si tratta invece di un concetto che fa riferimento al numero medio di anni di vita che un individuo di una certa età statisticamente ha dinnanzi, calcolato con riferimento ad un gruppo molto ampio di soggetti di pari età.

Se è vero, dunque, che il principale parametro dal quale dipende l’aspettativa di vita è l’età, è tuttavia corposa l’evidenza scientifica che dimostra, come sopra accennato, che l’aspettativa di vita degli individui con paralisi cerebrale è influenzata da molti fattori di cui i principali sono rappresentati dalle capacità funzionali di base (capacità motorie e di alimentarsi) e dalle capacità cognitive (ad es.

comunicazione verbale e non verbale), ancorché per alcuni Autori queste ultime sembrano rivestire un ruolo di minore importanza (va comunque evidenziato che, generalmente, a disabilità neuro-motorie gravi corrispondono deficit cognitivi altrettanto gravi).

Per questo motivo si è sentita la esigenza di “personalizzare” il giudizio sulla aspettativa di vita di

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questi pazienti attraverso una analisi dettagliata dell’intero quadro menomativo presentato dal soggetto, raffrontandolo quindi con quello di migliaia di individui in analoghe condizioni cliniche.

Uno degli studi più quotati sull’aspettativa di vita nelle persone severamente disabili è quello di Eyman e collaboratori (1990) effettuato su 99.543 persone con deficit dello sviluppo psicomotorio seguite dal “Dipartimento dei Servizi sullo Sviluppo” della California nel periodo compreso tra marzo 1989 e ottobre 1997. Basandosi su registri di valutazione dello sviluppo dei soggetti (Client Development Evaluation Reports – CDER) compilati presso il Dipartimento, gli Autori evidenziarono che le funzioni correlate statisticamente con la mortalità erano la capacità di deambulare e il suo grado, la mobilità, la capacità di lavarsi e di mangiare e la necessità di alimentarsi mediante gastrostomia. I soggetti vennero definiti “immobili” se non potevano neppure camminare carponi o mettersi proni;

“incapaci di alimentarsi” se necessitavano di altre persone per nutrirsi.

Ebbene, i ricercatori rilevarono che se una persona era affetta da un ritardo mentale severo o profondo, non era in grado di provvedere autonomamente alla mpropria igiene intima ed era alimentata attraverso una gastrostomia, la sua aspettativa media di vita era solo di 4-5 anni se all’inizio dello studio aveva una età compresa tra 1 e 24 anni.

In particolare, Eyman e collaboratori rilevarono che la mobilità (o la immobilità) era il più importante singolo fattore statistico predittivo del rischio di mortalità. Se un soggetto immobile era in grado di essere alimentato da altri la sua aspettativa di vita raddoppiava da 4-5 anni a 9-10 anni; se era presente qualche residua capacità funzionale motoria, la aspettativa di vita raddoppiava ancora. In altre parole, nel gruppo che, oltre ad essere immobile, era alimentato da altri e non in grado di pulirsi, solo il 6%

era vissuto altre i 40 anni (ovvero il 94% era morto prima di raggiungere questa età).

E se è vero che gli individui oggetto di questo studio erano eterogenei dal punto di vista della causa della disabilità neuro-motoria (nel senso che questa ricerca raccoglie anche soggetti con cerebropatie post-traumatiche e metaboliche), è tuttavia altresì vero che i risultati sulla aspettativa di vita non erano modificati dal fatto che il paziente fosse affetto da paralisi cerebrale neonatale, per cui questa ricerca conserva la sua validità anche per gli individui affetti da quest’ultima malattia.

Alcuni anni dopo Hutton e coll. (1994) valutarono 1251 soggetti con paralisi cerebrale nati tra il 1966 e il 1984 nella regione del Mersey nel Regno Unito utilizzando registri ad hoc ospedalieri e

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particolare venne analizzato l’effetto sulla sopravvivenza dei soggetti di tre capacità funzionali: la capacità deambulatoria, la destrezza manuale e la abilità mentale. Venne altresì valutato l’eventuale influenza sulla aspettativa di vita dei p. del sesso, del peso e dell’età gestazionale alla nascita. E’ bene sottolineare che circa un terzo dei soggetti inclusi nello studio presentava tetraplegia; circa un quarto una disabilità motoria severa, più di un quinto una severa disabilità manuale e circa un terzo un ritardo mentale severo.

Ebbene, gli Autori riscontrarono che le morti si concentravano nei gruppi di soggetti con disabilità più severe e che il gruppo di peso normale alla nascita (>2.500 g) conteneva la maggior parte dei soggetti con disabilità definita severa in ciascuna delle tre categorie di disabilità (deambulazione, destrezza manuale, abilità mentale): il 24% era infatti costretto su una sedia a rotelle e non in grado di spingersi autonomamente ed aveva una disabilità manuale severa e il 37% un ritardo mentale severo.

Ancora una volta fu evidenziato che l’incapacità di muoversi era il più importante singolo fattore statistico predittivo della mortalità, mentre la severità del ritardo mentale era il fattore meno predittivo dei tre presi in considerazione.

Gli autori dimostrarono infatti che se era contestualmente presente in un soggetto con paralisi cerebrale una grave menomazione della funzione deambulatoria tale da richiedere una carrozzella e l’assistenza per spingerla, un severo deficit della manualità con incapacità di vestirsi e di alimentarsi senza assistenza ed una severo ritardo mentale (QI <50), allora l’aspettativa di vita media si riduceva a 17-20 anni. In altre parole la percentuale di sopravvivenza (a 20 anni di età) dei bambini moderatamente o severamente disabili era circa del 50%.

I risultati vennero quindi riassunti nei seguenti diagrammi:

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FIG 1 – Sopravvivenza dei soggetti con paralisi cerebrale in relazione alla capacità deambulatoria (la linea punteggiata rappresenta il 95% dell’intervallo di confidenza).

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FIG2 – Sopravvivenza dei soggetti con paralisi cerebrale in relazione alla destrezza manuale.

FIG3 – Sopravvivenza dei soggetti con paralisi cerebrale i relazione alla abilità mentale.

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FIG4 – Sopravvivenza dei soggetti con paralisi cerebrale in relazione al peso alla nascita.

L’anno successivo Crichton e coll. (1995) analizzarono 3.189 casi di paralisi cerebrale riportati in un Registro di Sorveglianza Sanitaria della British Columbia nati dal 1952 al 1989 suddividendoli in 4 categorie di gravità della paralisi cerebrale (quadriplegia spastica e paraplegia; emiplegia e monoplegia; atetosi e altre forme) e in tre categorie di ritardo mentale (non esistente o modesto;

moderato; severo o profondo). I fattori prognostici presi in considerazione erano la gravità della paralisi cerebrale, l’epilessia e il ritardo mentale.

I risultati furono così riassunti:

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Fig. 1 – Correlazione tra tipo di paralisi cerebrale e percentuale di sopravvivenza a 38 anni.

Fig. 2 – Correlazione tra tetraplegia spastica e percentuale di soggetti che sopravvivono fino a 38 anni.

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Fig. 4 – correlazione tra ritardo mentale severo e percentuale di soggetti che sopravvivono fino a 38 anni di età.

Strauss D e Shavelle R., , ricercatori statunitensi della University of California, in uno studio pubblicato nel 1998 sul “Journal of Insurance Medicine”, basandosi su un database costituito da 42.371 persone di tutte le età affetta da paralisi cerebrale (di cui il 52% tetraplegiche), hanno evidenziato che la presenza o la assenza di tetraplegia costituisce il più importante fattore che influenza la sopravvivenza dei p. con paralisi cerebrale:

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Paralisi cerebrale- Fig.1a: mortalità annua (in percentuale) dei p. con paralisi cerebrale a seconda della presenza o assenza di tetraplegia e in rapporto a quella della popolazione degli Stati Uniti. Fig.1b: eccesso di mortalità dei p. con paralisi cerebrale con o senza tetraplegia rispetto alla popolazione normale. Fig.1c: Rischio Relativo di mortalità dei p. con e senza tetraplegia in rapporto a quello della popolazione normale. Fi.2a: Rischio Relativo di mortalità a seconda dell’età.

Tali ricercatori hanno quindi elaborato come esempio la seguente tabella che confronta la mortalità annua età-specifica e l’aspettativa di vita di un soggetto di sesso maschile di 11 anni con paralisi cerebrale e tetraplegia con quella di un soggetto sano di pari età:

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A conclusioni similari (ovvero che il grado di disabilità influenza pesantemente la sopravvivenza) è pervenuto un altro studio pubblicato da ricercatori del Regno Unito (Hutton JL et all) su “Arch Dis Child” del 2000 che ha preso in esame 596 soggetti affetti da paralisi cerebrale nati tra il 1960 e il 1990. Da tale ricerca infatti, è emerso che più di un terzo dei soggetti con disabilità severa (ossia incapaci di alimentarsi, vestirsi e camminare autonomamente) sono morti prima dei 30 anni; di quelli con disabilità cognitiva severa, il 63% è vissuto fino a 35 anni (il 58% con disabilità motoria severa e il 53% con disabilità manuale severa), mentre almeno il 98% dei pazienti senza disabilità severa è giunto fino a 35 anni.

Secondo questo studio dunque, la maggioranza dei pazienti affetti da paralisi cerebrale senza disabilità severa giungerebbe all’età adulta, mentre ciò non accadrebbe, accadrebbe anzi il contrario, per i soggetti portatori di disabilità gravi, incapaci di deambulare, vestirsi, lavarsi ed alimentarsi autonomamente. Questi ricercatori hanno altresì introdotto il concetto di “Lifestyle Assessment Score” (LAS) che sta ad indicare l’impatto della disabilità sui bambini e le toro famiglie e che fa riferimento a vari parametri (indipendenza fisica, aggravio economico, integrazione sociale, scolastica,

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lavorativa, ecc.).

Fig. 1 – Sopravvivenza dei pazienti con paralisi cerebrale con differenti livelli di disabilità:

A – in base al LAS (Lifestyle assessment Score) B – in base al deficit funzionale manuale

C – in base alla disabilità cognitiva C – in base alla disabilità deambulatoria

Infine, nel 2001 autori australiani (Blair E et all.), basandosi sul “Western Australia Cerebral palsy register” comprendente 2014 persone nate con paralisi cerebrale tra il 1958 e il 1994, hanno messo in luce che i fattori più importanti che influenzano la sopravvivenza di questi soggetti sono rappresentati, in ordine di importanza, dal deficit cognitivo, da quello motorio severo e dalla età gestazionale della madre alla nascita, atteso che i bambini nati dopo la 32a settimana di gestazione sarebbero a rischio di

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mortalità più di quelli nati pretermine.

Questi autori hanno classificato la severità della paralisi cerebrali in quattro categorie a seconda della gravità clinica del deficit motorio:

• Minimale: segni motori presenti, ma senza deficit funzionali;

• Blanda: i sintomi si traducono in qualche deficit funzionale;

• Modesta: tra blanda e severa, ad es. un soggetto in grado di deambulare con presidi appositi;

• Severa: scarsa motilità volontaria, sebbene la stessa possa essere acquisita, QI permettendo

Questi autori hanno evidenziato che la mortalità eccede 1% per anno nei primi 5 anni di vita, si riduce fino all’età di 15 anni dopodiché rimane attorno allo 0.35% per i successivi 20 anni. Questo studio ha confermato il dato trovato da altri ricercatori secondo cui il fattore predittivo più importante sarebbe la disabilità intellettiva, ma tutte le forme di disabilità contribuirebbero a ridurre l’aspettativa di vita.

I risultati sono stati quindi tradotti nei seguenti diagrammi:

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La fig. 1 mostra che circa il 6% di tutti i soggetti con paralisi cerebrale muore prima dell’età di 5 anni e un altro 11% tra i 5 e i 40 anni. Ad età più avanzate tuttavia la sopravvivenza è stata stimata su un numero molto esiguo di individui.

La fig. 2 mostra la percentuale di sopravvivenza dei soggetti con paralisi cerebrale a seconda del quoziente intellettivo (i.e. del ritardo mentale). Di quelli con profondo deficit intellettivo si stima che il 22% muoia prima dei 5 anni e il 50% prima dei 18 anni, comparato al 10% e al 24% rispettivamente di quelli con deficit intellettivo severo e al 2.8% di quelli con il quoziente intellettivo più elevato.

L’apparente declino della mortalità con l’età in quelli con deficit funzionale severo può essere causato al piccolo campione numerico presente a queste età.

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La fig. 3 mostra che la sopravvivenza è inversamente correlata alla severità della disabilità motoria.

Queste misure del deficit sono combinate nel “overall disability score” che correla bene con la percentuale di mortalità stratificata per età. Questa correlazione esponenziale è mostrata dal grafico sottostante: il rischio di mortalità si incrementa del 60% per ciascuna unità di incremento in disability score.

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La figura 5 mostra che i bambini con paralisi cerebrale nati prima della 33ª settima di gestazione tendono a sopravvivere più a lungo di quelli a nati a termine o moderatamente pretermine.

Ad analoghe conclusioni sono giunti anche recentemente Hutton e Pharoah (2002) che hanno analizzato i dati di un gruppo di 1.942 bambini con paralisi cerebrale nati dal 1966 al 1989 in una definita regione geografica inglese. Hanno infatti evidenziato che una disabilità motoria severa è associata ad una sopravvivenza a 30 anni del 42% e un severo deficit cognitivo a una sopravvivenza a 30 anni del 62%. Una disabilità visuale severa è associata ad una percentuale di sopravvivenza a 30 anni del 38, mentre deficit uditivi influiscono poco sulla sopravvivenza.

Gli stessi autori hanno altresì studiato la sopravvivenza dei pazienti in relazione al loro peso alla nascita.

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Strauss e Shavelle in una ricerca pubblicata nel 1999 hanno evidenziato che le cause dell’aumento della mortalità dei soggetti con paralisi cerebrale rispetto alla popolazione generale sono da imputare a malattie del sistema circolatorio (specie nelle età più basse) e ad infezioni respiratorie.

Per quanto attiene l’aspettativa di vita dei soggetti con paralisi cerebrale in età adulta la ricerca di riferimento può considerarsi quella effettuata sempre da Strauss e Shavelle nel 1998 su 23.795 individui di età uguale o superiore a 15 anni al momento dell’ingresso nello studio.

La necessità di valutare l’aspettativa di vita degli individui con paralisi cerebrale di età superiore ai 15 anni separatamente da quelli in età pediatrica al momento dell’ingresso nella ricerca si basa essenzialmente sulla osservazione che da un lato, con l’accrescimento l’individuo acquisisce sempre nuove abilità funzionali (che, evidentemente, non possono essere oggetto di valutazione in un bambino di pochi mesi o anni), dall’altro, la mortalità di questi soggetti è statisticamente più elevata nei primi anni di vita e decresce poi progressivamente con l’avanzare dell’età, pur restando nel complesso inferiore, come abbiamo visto, rispetto a quella di una persona di pari età sana (si assiste così al

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paradosso che più a lungo un soggetto con paralisi cerebrale vive, più probabilità ha di sopravvivere).

Ebbene gli Autori hanno evidenziato che alcuni parametri, quali la eziologia della paralisi cerebrale, la localizzazione della disfunzione motoria (tetraplegia, emiplegia, paraplegia, diplegia, ecc.), la presenza o meno di epilessia, le capacità cognitive e comunicative, non influenzano significativamente l’aspettativa di vita dei soggetti con paralisi cerebrale di età adulta, mentre altri parametri quali la capacità di alzare la testa dalla posizione supina, la capacità di rotolare o sedersi, nonché le modalità con il soggetto si alimenta (mediante gastrostomia, aiuto di altre persone o autonomamente, anche se con le dita) incidono notevolmente sulla sopravvivenza di questi individui.

Strauss e Shavelle hanno considerato in particolare tre gruppi di età: 15, 30 e 45 anni, differenziandoli a loro volta sulla base del possesso o meno degli individui delle abilità funzionali appena sopra elencate, da sole o in associazione.

Hanno quindi elaborato il seguente grafico e la tabella sottostante:

Curve di sopravvivenza dopo i 15 anni di età per 8 gruppi di soggetti suddivisi in base al livello di capacità funzionali. Le curve mostrano la percentuale di soggetti che sopravvivono un certo numero di anni. I tempi di sopravvivenza (o aspettativa di vita) medi sono:

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ƒ p. alimentati con gastrostomia (TF= tube fed) e incapaci di sollevare la testa (ULH = unable to lift head when lying on stomach): 7.8 anni;

ƒ p. alimentati con gastrostomia (TF), capaci di sollevare la testa (LH), ma incapaci di rotolare: 10.1 anni;

ƒ p. alimentati da altri (FBO= fed by others), ma non in grado di alzare la testa: 11.3 anni;

ƒ alimentati con gastrostomia (TF), in grado di alzare la testa e rotolare: 14.7 anni.

ƒ per gli altri gruppi la mediana di sopravvivenza è superiore ai 16 anni di durata dello studio.

(FS= feeds self, in grado di alimentarsi da soli, ance se solo con le dita).

In conclusione, con la revisione della letteratura degli ultimi anni che si è occupata del calcolo delle aspettative di vita dei soggetti affetti da paralisi cerebrale, si è voluto soprattutto suggerire un metodo a che, in tutti quei casi in cui il medico legale è chiamato a fornire le opportune indicazioni valutative riguardanti soggetti con gravissime menomazioni, che hanno quindi perso la autonomia e sono dipendenti da terzi anche per gli atti più elementari della vita quotidiana, si possa giungere a dare indicazioni scientificamente fondate sulle aspettative di vita di questi soggetti e, dunque, sul numero di

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anni di cui occorre legittimamente tener conto per capitalizzare le spese future di assistenza. Lo studio della letteratura ci dice infatti che, pur discutendosi dello stesso gruppo di macrodanno, all’interno del quale la maggior parte dei soggetti è portatore di gravissimi handicap e, dunque, di danni permanenti biologici elevatissimi, vi è la possibilità di analizzare alcune caratteristiche della condizione menomativa che hanno implicazioni prognostiche quoad vitam di maggior rilievo rispetto ad altre, fino a consentire la identificazione di quei soggetti che hanno attese di vita maggiori rispetto ad altri e, dunque, necessità per tempi maggiori di supporti assistenziali e terapeutici.

E’ pertanto auspicabile che approfondimenti come questo vengano effettuati anche per altre categorie di macrolesi.

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