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Itinerari evolutivi della responsabilità civile di Ferdinando Santosuosso

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Academic year: 2022

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Itinerari evolutivi della responsabilità civile

di

Ferdinando Santosuosso*

Premessa

Mi sembra opportuno ripercorrere, per sommi capi, quelle altre tappe del recente cammino della materia della responsabilità civile che sono ormai entrate a far parte del nostro patrimonio giuridico, evidenziandone ovviamente le novità relative ai principi o alle fattispecie. In questa rapida carrellata avrò come punto di riferimento la giurisprudenza, oltre che della Cassazione, soprattutto della Corte Costituzionale, la quale, com'è noto specie negli ultimi quindici anni, ha contribuito alla nazionalizzazione di una materia così ricca di problemi e di contrasti e, forse proprio per questo, di fascino. Certo si comprenderà qualche limite di riservatezza, nella esposizione di idee, che sono comunque personali e non della Corte, di cui io sono soltanto uno dei quindici componenti.

Di questa breve "storia delle idee" fanno evidentemente parte anche le tante questioni di cui si è parlato circa l'accertamento e la liquidazione dei danni arrecati alla persona (ed in particolare alla capacità lavorativa generica e specifica,) a causa dei sinistri o di altri fatti illeciti, nonché le delicate questioni concernenti le diverse modalità di valutazione del danno emergente e del lucro cessante, alla luce delle pronunce della Cassazione, specie della nota sentenza delle Sezioni Unite n. 1712 del 1995.

Concezione di fondo

Anzitutto qualche osservazione generale nell'ampio orizzonte della materia della responsabilità civile. Com'è noto, il nostro codice, caso non unico nei sistemi occidentali, non contiene una definizione di danno, limitandosi soltanto a definire l'obbligazione risarcitoria conseguente alla causazione di un danno ingiusto: "Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto", così recita la norma fondamentale dell'art. 2043 c.c., con una formula che, attraverso il richiamo alle figure del dolo e della colpa, sembrava modellata sulle antiche concezioni del danno civile, inteso piuttosto come sanzione di un comportamento che come ripristino di una situazione violata. Ma già in questa concezione di fondo la responsabilità civile si è andata sempre più evolvendo nel senso che ciò che conta non è tanto punire un comportamento, quanto, invece, reintegrare il danneggiato nello status quo ante, puntando l'attenzione più sulla vittima che sull'autore dell'illecito.

Anche il nostro codice, seguendo l'influenza di una lunga e consolidata tradizione di pensiero (è stata ricordata una sentenza della Corte di Torino del 1893, circa la patrimonialità del pregiudizi subiti dalla persona), appare improntato fondamentalmente al concetto della patrimonialità del danno. In altre parole, pur non sussistendo una rigorosa equazione "danno risarcibile = danno patrimoniale", è tuttavia da notare che l'intera disciplina della responsabilità civile sembra finalizzata, attraverso il pagamento di una somma di denaro, alla ricostruzione di una lesione patrimonialmente apprezzabile, con un meccanismo che fa capo ad un quadro normativo sostanzialmente analogo, sia per la materia contrattuale che per quella extracontrattuale. Le norme dettate nella materia negoziale (artt. 1223, 1226 e 1227 c.c.), infatti, sono espressamente richiamate dall'art. 2056 c.c., ed il sistema si completa con altre due norme coerenti con le premesse: da un lato l'art. 2058 c.c., che limita la possibilità del risarcimento in forma specifica a due condizioni (con ciò implicitamente confermando che il risarcimento "per equivalente" è la regola), dall'altro l'art. 2059 c.c., che restringe l'area del risarcimento del danno non patrimoniale al soli casi previsti dalla legge, quasi a voler garantire la

"chiusura" del sistema rispetto a possibili figure anomale di risarcimento. Qualcuno auspica che tale norma (quella dell'art. 2059) possa trovare (in via interpretativa o meglio di legittimità

* Giudice Corte Costituzionale, Roma

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costituzionale) una più adeguata aderenza alla realtà sociale moderna. Ma su questo problema ritornerò più avanti, per maggiori precisazioni, circa il danno alla salute e nel rapporto di lavoro.

Natura del diritto leso

Devo accennare subito ad una delle tappe fondamentali del cammino. Si diceva prima del termine

"danno ingiusto" di cui all'art. 2043 c.c., e questa espressione ci impone, in nome di quella "storia delle idee" già menzionata, di ricordare un punto che ha subito una profonda evoluzione. La generica formulazione letterale della norma era stata riempita di contenuto, per lungo tempo, con l'esclusivo richiamo alla figura del diritto soggettivo e, in particolare, del diritto soggettivo assoluto. Non ogni forma di danno, secondo la più remota giurisprudenza, poteva ricevere la qualifica di "in-iustum" o

"contra ius" Soltanto quel diritto soggettivo poteva essere fatto valere erga omnes, e quindi era suscettibile di subire una generalizzata lesione da parte di tutti i consociati, dando luogo ad un'obbligazione risarcitoria. In tal modo per molti anni l'illecito extracontrattuale è stato collegato soltanto alla lesione dei diritti reali e dell'incerta categoria dei diritti della personalità, senza alcun margine per i diritti di credito.

Questi ultimi si riteneva possono essere soddisfatti, oppure violati, soltanto dalla persona del creditore, per cui è impensabile una tutela aquiliana del diritto di credito.

Com'è noto, la triste vicenda del calciatore Meroni, ucciso in un sinistro stradale, fu l'occasione della svolta dell'ordinamento giuridico nazionale, tragica ironia della sorte ha voluto che fosse ancora una volta la squadra di calcio del Torino, già colpita dal dramma di Superga, al centro di un sottile dibattito giurisprudenziale e dottrinale. L'apertura della giurisprudenza, grazie alla nota pronuncia delle Sezioni Unite del 1971 di segno inverso rispetto a quella del caso Superga, ha liberato una prospettiva nuova e feconda, anche se non priva di rischi ma nonostante questi rischi la Suprema Corte ammise il risarcimento sulla base del convincimento che quel calciatore, per le sue particolari doti, potesse offrire delle prestazioni infungibili, la cui perdita rappresentava un danno irrimediabile per la società del Torino, che non poteva non essere risarcito.

La giurisprudenza, quindi, presupponendo che non esista una figura singola di danno, tende ad evolversi ammettendo di volta in volta la possibilità di un risarcimento di natura extracontrattuale di altre posizioni ritenute meritevoli di tutela; ma compie tale operazione mantenendo fermo l'orientamento per cui danno ingiusto può esistere solo in caso di violazione di un diritto soggettivo, assoluto o relativo che sia. L'affermazione, recentemente ribadita dalla Cassazione (sent. 14 novembre 1996, n. 9984), subisce deroga per l'ipotesi di responsabilità civile derivante da reato, nel qual caso la stessa Suprema Corte ammette che l'ingiustizia è in re ipsa, senza bisogno di provare la violazione di un diritto soggettivo (sent. 11 febbraio 1995, n. 1540).

Riservatezza e concorso con la responsabilità contrattuale

Tentare un'organica ricostruzione delle molte fattispecie concrete che hanno fornito alla giurisprudenza occasione di progredire nella materia del danno risarcibile, è impresa difficile, per cui mi limiterò ad alcune ipotesi, recenti e non, che mi sembrano meritevoli di specifica riflessione.

Si possono prendere le mosse dalla figura del cosiddetto diritto alla riservatezza, che oggi è patrimonio acquisito dalla nostra giurisprudenza, ma che ha dovuto compiere un buon tratto di strada prima di vedersi riconoscere a pieno titolo. Il caso della principessa Soraya contro l'editore Rusconi che nel 1975 (sent. n. 2129) portò la Cassazione alla sentenza che ebbi l'onore di redigere attirò all'epoca l'interesse dell'opinione pubblica per gli aspetti umani, ma anche e soprattutto l'interesse del giuristi, perché il diritto alla riservatezza venne esattamente definito, riconosciuto come diritto autonomo della persona e meritevole di tutela. E questo diritto, da quel momento ha visto crescere sempre di più i propri confini, ricevendo tutela non solo in sede civile e penale ma anche amministrativa. Recentemente, com'è noto, il legislatore è intervenuto creando un'apposita Autorità

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preposta al controllo ed alla gestione delle banche dati, proprio al fine di garantire la tutela del diritto di riservatezza del singolo in ordine ad una serie di informazioni delle quali non è consentita la divulgazione. E tale tutela porta con sé, inevitabilmente, una serie di problemi connessi con l'uso ormai generalizzato dei computers.

Sempre dalla casistica meno recente, ricordo il famoso caso del falso De Chirico. Com'è noto, si trattava dell'acquisto di un quadro falso, recante però la firma autografa del maestro. Qui la Cassazione, (sentenza n. 2765 del 1982), ha ravvisato una lesione dell'integrità del patrimonio e, più in particolare, del "diritto di determinarsi liberamente nello svolgimento dell'attività negoziale relativa al patrimonio, costituzionalmente garantito entro i limiti di cui all'art. 41 Costituzione ". Ma quella pronuncia va ricordata anche perché la Suprema Corte riconobbe la contemporanea esistenza di due distinte azioni l'una, di carattere contrattuale, nei confronti di chi aveva venduto il quadro falso spacciandolo per autentico, l'altra, di carattere extracontrattuale, nel confronti dello stesso De Chirico, colpevole di aver fornito il crisma di autenticità ad un'opera non sua.

I nuovi scenari della responsabilità civile si sono evoluti in diversi settori, come ad esempio quello del risarcimento per le varie attività professionali, sui quali non è possibile qui soffermarsi.

Altre estensioni della tutela aquiliana

Quanto mai attuale è il danno per la comunicazione di notizie inesatte (si pensi al caso dell'INPS che fornisce al lavoratore dati erronei circa la sussistenza del requisiti contributivi minimi per il diritto alla pensione, sicché il lavoratore presenta le proprie dimissioni e solo dopo apprende di non avere diritto a percepire la pensione). E la materia delle false o inesatte comunicazioni coinvolge direttamente anche l'attività bancaria, sulla quale mi soffermerò tra poco.

La ripercussione dell'evento dannoso sui componenti della famiglia è un terreno nel quale la giurisprudenza ha più volte riconosciuto l'ammissibilità di un risarcimento del pregiudizio conseguente alla perdita non solo di diritto agli alimenti, ma di altre chances, ossia al venir meno di concrete aspettative legittime: la Cassazione (sent. del 1982) ha ribadito di recente, con due sentenze (21 maggio 1996, n. 4671, e 17 settembre 1996, n. 8305), che il coniuge ed i figli hanno diritto ad agire nel confronti dell'autore del fatto illecito per ottenere il risarcimento del danni subiti (immediati, ma anche probabilmente futuri) in conseguenza delle lesioni patite dal congiunto, diritto che per il coniuge si traduce nella regolarità della vita coniugale, mentre per i figli nel diritto all'educazione e ad un normale sviluppo psicofisico.

Il generale riconoscimento di una tutela aquiliana del credito e delle legittime aspettative porta ad affiancare al danno arrecato alla famiglia il caso analogo dell'uccisione del componente di una comunità religiosa (mi permetto, su questo punto, di rimandare ad un mio remoto ma specifico saggio).

Vanno inoltre senz'altro richiamate, siccome fenomeni della moderna società industriale, le figure del danno da inquinamento atmosferico e del danno ambientale (oggi espressamente riconosciuto dalla legge e vedremo fra poco il problema del danno da fumo), mentre sempre attuale rimane il caso della doppia vendita immobiliare, sulla quale nuovi spunti potranno venire dalla recentissima innovazione dell'art. 0645 bis, nel codice civile relativo all'obbligo di trascrizione del contratto preliminare (decreto - legge 31 dicembre 1996, conv. in legge 28 febbraio 1997, n. 30).

Danno aquiliano nei rapporti commerciali

La prassi del rapporti commerciali, sviluppatosi con l'evolversi della vita sociale, ha costretto il giudice di legittimità a pronunciarsi su una serie di materie che meritano qualche ulteriore accenno.

E' stato più volte ribadito dalla Suprema Corte, ad esempio, che la presentazione di un'istanza di fallimento infondata, alla quale faccia seguito la revoca del crediti da parte delle banche, costituisce un illecito istantaneo generatore di una responsabilità di carattere extracontrattuale (sent. 8 febbraio

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1990, n. 875). Analogamente, una sentenza di quest'anno (26 marzo 1997, n. 2679) ha affrontato la spinosa questione del danno conseguente alla pubblicazione, nell'apposito bollettino tenuto dalla Camera di Commercio, di un protesto cambiario illegittimo. Qui la Cassazione, con doverosa prudenza, ha affermato che il protestato, per avere diritto al risarcimento, deve provare, eventualmente anche con presunzioni, di aver subito conseguenze patrimoniali per la lesione della propria reputazione commerciale, potendo ottenere dal giudice una valutazione (equitativa) di tale danno solo ove ne abbia realmente dimostrato l'entità. Nessun automatismo, dunque, ma necessità di una prova.

La materia della pubblicazione dei protesti nel bollettino della Camera di Commercio, d'altra parte, è stata oggetto anche della sentenza n. 151 del 1994 della Corte Costituzionale. In quell'occasione si dubitava della legittimità costituzionale della legge 12 febbraio 1955, n. 77, per mancanza di una distinzione idonea ad impedire la pubblicazione di protesti levati per fatti non imputabili al debitore. La Corte, ha dichiarato non fondata la questione, evidenziando come il sistema, nel suo complesso, unito all'evoluzione della giurisprudenza, già preveda l'esistenza di altri strumenti (quali la sospensione della pubblicazione ex art. 700 c.p.c., la pubblicazione del motivi di rifiuto del pagamento, le successive rettifiche etc.) idonei a salvaguardare in modo equilibrato le ragioni dei debitori incolpevoli e quelle della certezza del rapporti giuridici in un campo tanto delicato.

La materia del diritto bancario è forse quella in cui la giurisprudenza è dovuta più spesso intervenire, il che spiega facilmente l'importanza che il ricorso al credito è venuto assumendo nella pratica quotidiana.

E' del gennaio di quest'anno la sentenza (8 gennaio 1997, n. 72) con la quale la Cassazione ha ribadito che dalla normativa del sistema bancario presa nel suo complesso derivano una serie di particolari doveri, la cui inosservanza si traduce, di volta in volta, in ipotesi di colpa omissiva (culpa in omittendo) generatrice di responsabilità extracontrattuale.

Anche in diversi casi di attività bancaria, la Suprema Corte ha ravvisato (es. sent. 13 gennaio 1993, n. 343), accanto alla responsabilità contrattuale per violazione del rapporto di mandato, anche quella a titolo extracontrattuale, per violazione dei doveri di correttezza e diligenza che gravano sugli istituti di credito. Ancora una volta, quindi, si è ritenuto che dalla violazione di un dovere generico di correttezza possa derivare un danno ingiusto risarcibile al sensi dell'art. 2043 c.c..

Recente è pure una pronuncia (sent. 2 marzo 1996, n. 1641) in tema di assegno circolare "non trasferibile", mai pervenuto nella disponibilità del beneficiario in quanto sottratto subito dopo la spedizione da parte del richiedente.

Interessi legittimi

Laddove la giurisprudenza, invece, mantiene una costante chiusura è sul punto dell'ammissibilità di un risarcimento per violazione di interessi legittimi. Numerose pronunce delle Sezioni Unite, anche severamente criticate, mantengono fermo questo baluardo, da alcuni considerato solo come un retaggio del passato o come il protrarsi di un'ingiustificata area di irresponsabilità per la pubblica amministrazione. Si tratta, com'è evidente, di un problema di grande complessità, oggi particolarmente attuale alla luce del fervente dibattito politico e sociale relativo al corretto funzionamento della pubblica amministrazione, nel quadro più generale delle riforme istituzionali.

Tuttavia la Corte Costituzionale, con una lontana sentenza (n. 35 del 1980) che non ha avuto seguito, aveva già avvertito la gravità del problema, qualificando come "deplorevole" il comportamento di un'amministrazione comunale responsabile di una serie di atti amministrativi illegittimi, reiterati in spregio alle decisioni del giudice amministrativo; si trattava, già di allora, del delicato problema dell'ammissibilità di una domanda risarcitoria in conseguenza del mancato rilascio di una concessione edilizia.

Non è certo questa la sede per approfondire direttamente una questione tanto delicata, ci si limita,

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perciò, ad una breve riflessione. Da un lato, infatti, di fronte ad un'attività amministrativa troppo spesso inefficiente ed incapace di soddisfare le legittime aspettative del cittadino, occorre chiedersi se l'orientamento giurisprudenziale dominante non finisca con l'attribuire alla pubblica amministrazione una sorta di immeritato "beneficio", tanto più che una domanda risarcitoria, ove essa, dovrebbe sempre attraversare l'iter faticoso del giudizio amministrativo di annullamento.

Dall'altro, in chiave non direttamente giuridica in presenza di un dibattito sulla riforma delle istituzioni ove l'attenzione si incentra sempre di più sulla necessità che ogni potere dello Stato non esorbiti dalle proprie competenze negare ogni spazio alla risarcibilità degli interessi legittimi può risolversi, in concreto, in una copertura delle posizioni "forti", laddove un'apertura della giurisprudenza sarebbe di indubbio incitamento alla moralizzazione della vita pubblica.

Danno alla salute

Si è già detto, prendendo l'avvio dal testo del nostro codice civile, che il concetto di danno si richiamava, secondo l'orientamento tradizionale, a quello di patrimonio, quasi come se non potesse amnmettersi l'uno senza l'altro. In realtà il danno alla persona può essere distinto in danno alla salute con o senza riflessi pecuniari, e in danno da sofferenza con o senza riflessi pecuniari. Sia il danno alla salute che quello da sofferenza, ove in grado di causare conseguenze patrimoniali, sono stati pacificamente ricompresi nell'ambito dell'art. 2043 c.c., con diritto al risarcimento, il danno da sofferenza senza risvolti patrimoniali è stato classificato come danno "morale", risarcibile nel limiti dell'art. 2059 c.c., descritto dalla giurisprudenza come il turbamento ingiusto dello stato d'animo, ovvero come squilibrio o riduzione delle capacità intellettive della vittima; nella nozione di danno morale, ad esempio, una recente sentenza della Cassazione ha ricompreso anche le sofferenze fisiche e morali sopportate in stato di incoscienza durante il periodo di coma (sent. 6 ottobre 1994, n.

8177).

Il danno alla salute privo di conseguenze pecuniarie, invece, ha dovuto percorrere un lungo cammino per vedersi riconoscere come figura autonoma, diversa sia dal danno patrimoniale che da quello morale.

Sono state già da altri ripercorse qui le varie tappe che hanno portato il c.d. danno biologico dagli incerti passi iniziali fino al riconoscimento di una ampia tutela. E tuttavia non va taciuto che è stata proprio la Corte Costituzionale, con la storica sentenza n. 184 del 1986, a suggellare il cambiamento che già si faceva strada nelle corti di merito ed anche all'interno della Cassazione. La citata sentenza è stata ritenuta di fondamentale importanza perché, sottraendo la risarcibilità del danno biologico agli angusti limiti dell'art. 2059 c.c., ha enucleato meglio il concetto del valore "uomo", cioè questa autonoma figura di danno, da affiancare a quello patrimoniale in senso stretto (fisico e psichico), nonché a quello morale, e da risarcire indipendentemente dall'esistenza di questi ultimi (e quindi cumulabile).

A parte il fatto che, come ben sanno i magistrati chiamati ad operare negli uffici di merito, spesso il danno biologico è, in concreto, l'unico risarcibile, stante la difficoltà di provare quello patrimoniale inteso rigorosamente come danno emergente e lucro cessante, la sentenza costituzionale sopra indicata ha avuto l'ulteriore merito di collocare il danno alla salute, attraverso l'art. 2043 c.c., direttamente nell'ambito dell'art. 32 della Costituzione, consentendo di spostare la tutela risarcitoria dal terreno della legge ordinaria a quello della Carta fondamentale, affermando che il diritto alla salute assume un ruolo prioritario all'interno del sistema.

E di recente, sulla scia dell'ulteriore sentenza n. 372 del 1994 in materia di danno biologico da morte, la Corte Costituzionale ha ribadito, con l'ordinanza n. 293 del 1996, che danno morale e danno biologico, pur conducendo entrambi al risarcimento economico, sono entità differenti, sicché il danno morale non gode della copertura di cui all'art. 32 della Costituzione ed è risarcibile nei limiti di cui all'art. 2059 c.c., senza che tale scelta discrezionale del legislatore possa ritenersi in contrasto con gli invocati parametri di cui agli artt. 24 e 32 Cost.. Ma ulteriori passi avanti in questa materia

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possono forse attendersi prossimamente dalla Corte Costituzionale, la quale, a proposito della differenza di liquidazione per gli eredi a seconda dell'immediatezza o meno della morte, ha ritenuto recentemente legittima l'ultima legge sui trapianti nel dare un'unica nozione sul momento in cui si determina la morte.

Trattamenti sanitari

La materia del danno alla salute, tuttavia, impone l'apertura al settore dei trattamenti sanitari con alcune recenti pronunce della Corte Costituzionale a proposito di danno conseguente alle vaccinazioni obbligatorie. La sentenza n. 307 del 1990, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della legge 4 febbraio 1966, n. 51 nella parte in cui non prevede, a carico dello Stato, un'equa indennità per il caso di danno derivante, al di fuori dell'ipotesi di cui all'art. 2043 c.c., da contagio o da altra apprezzabile malattia causalmente riconducibile alla vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica. Ed il legislatore ha dato esecuzione al disposto della Corte con la legge n. 210 del 1992. Tuttavia anche questa legge, quanto agli artt. 2 e 3, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima, con sentenza n. 118 del 1996, là dove tali norme prevedevano un'ingiusta limitazione temporale dell'obbligo di indennizzo a carico dello Stato. Quest'ultima sentenza è particolarmente importante in quanto pone a confronto le esigenze della collettività relative alla protezione da certe malattie (nel caso, la poliomielite) con quelle dei singoli che, sottoponendosi alla vaccinazione obbligatoria, possono contrarre, sia pure in remota ipotesi, la malattia. Nella motivazione la Corte ha evidenziato che la menomazione della salute derivante da trattamenti sanitari può condurre a tre diverse conseguenze:

a) risarcimento pieno del danno, ex art. 2043 c.c., in caso di comportamenti colpevoli;

b) diritto ad un equo indennizzo, ex art. 32 Cost., se il danno, pur non derivante da illecito, sia stato subito in conseguenza dell'adempimento di un obbligo legale;

c) diritto a misure di sostegno assistenziali negli altri casi.

E' interessante notare che la Corte Costituzionale, nell'affrontare la delicata materia del rapporto tra diritti del singolo e tutela della collettività, si è occupata anche della sieropositività da infezione HIV. Con la sentenza n. 218 del 1994, infatti, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, terzo e quinto comma, della legge 5 giugno 1990, n. 135 nella parte in cui non prevede accertamenti sanitari dell'assenza di sieropositività all'infezione da HIV come condizione per l'espletamento di attività che comportano rischi per la salute del terzi.

Come si vede, quindi, il rapporto tra diritto del singolo e diritto della collettività alla protezione della propria salute si intreccia con quello del risarcimento del danno.

Il fatto di aver accennato ai trattamenti sanitari obbligatori, infine, impone un fugace richiamo della sentenza n. 238 del 1996 della Corte Costituzionale, sentenza emessa nel famoso caso della Madonna di Civitavecchia, con la quale la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.

224, comma 2, c.p.p., nella parte in cui consente che il giudice, nell'ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell'indagato o dell'imputato o di terzi, al di fuori di quelle specifiche previste nei "casi" e nei "modi" dalla legge. Spetta al legislatore, a questo punto, riempire di contenuto il vuoto creato da questa sentenza.

Danno nel rapporto di lavoro

La discussione sopra impostata sul danno biologico e, più in generale, sulla categoria del danno non patrimoniale, ci riporta a materie molto delicate, quella cioè della liquidazione degli infortuni sul lavoro e quella dell'esercizio delle azioni di surroga e di rivalsa da parte degli assicuratori sociali.

In queste materie, gli interventi della Corte Costituzionale sono stati frequenti e decisamente innovativi.

Com'è noto gli artt. 10 e 11 del T.U. n. 1124 del 1965 stabiliscono, pur con tutte le limitazioni di

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cui tra poco diremo, il principio dell'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni occorsi al lavoratore, con conseguente diritto dell'ente assicuratore sociale (INAIL) ad esercitare azione di regresso, contro le persone civilmente responsabili, per le somme pagate a titolo di indennità e per le spese accessorie, l'art. 1916 c.c. fissa la regola della c.d. surrogazione "reale"

dell'assicuratore (in generale), mentre l'art. 28 della legge n. 990 del 1969 detta regole particolari per il caso in cui l'infortunio sia conseguente a sinistro stradale.

Gli interventi della Corte Costituzionale in questa materia possono essere raggruppati, con una sistemazione esemplificativa, in due filoni.

Le sentenze del primo gruppo (n. 22 del 1967, n. 102 del 1981, n. 118 del 1986 e n. 499 del 1995) hanno eliminato, in sostanza, la pregiudiziale penale a carico del danneggiato, riducendo il campo di operatività dell'esonero. La sent. n. 22 del 1967, infatti, ha allargato la responsabilità del datore di lavoro, estendendola anche al fatto del dipendente del cui operato il primo debba rispondere, oltre a consentire al giudice civile la cognizione ai fini del risarcimento anche in presenza di un reato estinto per prescrizione (e non solo per morte e per amnistia). Le sentenze n. 102 del 1981 e n. 118 del 1986 hanno proseguito nell'opera di riduzione della pregiudizialità penale, con ciò quasi anticipando il nuovo c.p.p., per il quale vige la regola della separazione tra giudizio penale e giudizio civile (art. 75 c.p.p.). In ultimo, con la sent. n. 499 del 1995, la Corte ha spiegato che la sentenza di patteggiamento, pur non avendo natura di sentenza di condanna, è a questa equiparabile, salva restando l'impossibilità di fare stato in sede civile o amministrativa (art. 445 c.p.p.). Il che implica che al giudice civile è certamente consentito, in caso di patteggiamento, quell'accertamento incidentale del quale il rimettente paventava l'inammissibilità.

Le sentenze del secondo gruppo, invece, hanno compiuto un'opera progressiva di erosione del principio dell'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile, sulla scia dei cennati orientamenti in tema di danno biologico.

L'iter logico seguito dalla Corte ha inizio con la sent n. 87 del 1991, ove si critica il fatto che il danno alla salute venga escluso dalle prestazioni economiche a carico dell'assicuratore sociale e si aggiunge che lo stesso deve ritenersi risarcibile da parte del datore di lavoro secondo le regole generali della responsabilità civile (ossia, senza l'esonero).

In un secondo tempo, con la sentenza n. 356 del 1991, la Corte ha ribadito che la copertura fornita dalle assicurazioni sociali non ha ad oggetto il danno biologico, sicché per tale voce non può operare l'esonero dalla responsabilità, trattandosi di materia estranea alla garanzia assicurativa.

Parallelamente a ciò si è proceduto alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 1916 c.c.

"nella parte in cui consente all'assicuratore di avvalersi, nell'esercizio del diritto di surrogazione nei confronti del terzo responsabile, anche delle somme da questi dovute all'assicurato a titolo di risarcimento del danno biologico".

Il disegno si completa con la sent. n. 485 del 1991 con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 11, primo e secondo comma, del d.P.R. n. 1124 del 1965 "nella parte in cui consente all'INAIL di avvalersi, nell'esercizio del diritto di regresso contro le persone civilmente responsabili, anche delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica".

Ne deriva che, laddove si tratta di somme dovute dall'assicuratore sociale, l'esonero del datore di lavoro, cui si affianca il diritto di regresso dell'INAIL per le prestazioni erogate in favore del lavoratore, non può riguardare voci di danno estranee alla copertura assicurativa, quale appunto il danno biologico.

Fumo passivo nei luoghi di lavoro Ci avviamo verso la fine di questi itinerari.

La materia trattata ha visto puntare l'attenzione anche sul problema delicato del danno alla salute e sul possibili risvolti nell'ambito del rapporto di lavoro. Credo quindi non fuori luogo fare qualche

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riflessione su di una recente sentenza della Corte Costituzionale, la n. 399 del 1996, a proposito del c.d. fumo passivo nel luoghi di lavoro.

Il caso vi è forse già noto: un folto gruppo di dipendenti di una grande banca di Torino si rivolge al Pretore del lavoro perché condanni il datore ad attuare alcune misure di tutela del lavoratori contro i danni alla salute conseguenti al fumo passivo nel luoghi di lavoro. Il Pretore accoglie la domanda, ma il Tribunale, gravato di appello, solleva la questione davanti alla Corte.

Presupposto interpretativo dal quale muove il Tribunale è che la normativa esistente non preveda un divieto di fumare in tali luoghi, e che non sia possibile una lettura estensiva del sistema (artt. 2087 c.c. e 9 St. Lav.). Anche la Corte Costituzionale riconosce che non è ancora ravvisabile nel diritto positivo un divieto assoluto e generalizzato di fumare in ogni luogo di lavoro chiuso. Ma tale osservazione non si traduce in un'inammissibilità della questione, com'era avvenuto con una precedente sentenza in materia (n. 202 del 1991), poiché la Corte compie uno sforzo interpretativo, tale da consentire una diversa lettura del sistema. Ne deriva che alle norme considerate poco più che programmatiche, quali l'art. 2087 c.c. e l'art. 9 St. Lav., si riconosce ora una forte valenza precettiva, circa il rigoroso obbligo del datore di vigilare sulla salute del dipendenti, con conseguente sua responsabilità se non attua di volta in volta tutte le misure necessarie alla salvaguardia della salute stessa.

La Corte ha avuto piena consapevolezza delle difficoltà applicative in una simile decisione per la notevole diversità delle situazioni concrete, tanto da ritenere di dover dare, sia pure in via generale, una ulteriore indicazione ai giudici di merito. Di qui anche l'affermazione che "la tutela preventiva dei non fumatori nei luoghi di lavoro può ritenersi soddisfatta quando, mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze, il rischio derivante dal fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che la loro salute sia messa a repentaglio".

Ancora una volta, dunque, la Corte si è trovata a dover compiere difficili mediazioni fra contrapposte esigenze, ed ancora una volta viene ribadito che il diritto alla salute, come già è avvenuto nella materia della responsabilità civile, costituisce principio cardine dell'ordinamento, consentendo e, forse, imponendo scelte a prima vista non praticabili da parte del giudici di merito.

D'altra parte, svincolando il contenuto di questa sentenza dalle contrastanti interpretazioni giornalistiche che ha avuto, non può essere taciuto che la normativa italiana è sempre più pressata dall'obbligo di attuazione di quella comunitaria; proprio il D.P.R. n. 626 del 1994, le cui norme sul punto sono state oggetto del giudizio della Corte, costituiscono attuazione di direttive CEE, ed è noto che la tutela della salute assurge ormai a problema fondamentale per tutta l'umanità, sia a livello europeo che mondiale.

Sguardo al futuro

Nel chiudere questa breve panoramica sul lungo e continuo cammino in tema del risarcimento del danno, cerco di formulare qualche riflessione rivolta all'avvenire.

Come s'è visto, la materia in esame è quanto mai fluida, mutevole, tale che non è possibile azzardare alcuna precisa ipotesi su quello che potrà essere il futuro della responsabilità civile. Tra qualche anno, probabilmente, ci ritroveremo in un altro convegno a discutere di quelle che chiameremo ancora, con un'espressione da me formulata molto tempo fa, le "nuove frontiere" del danno ingiusto, magari commentando fattispecie di responsabilità aquiliana che oggi ci sembrano impossibili o, comunque, lontane. Ciò avviene ovviamente anche perché i nostri tempi sono sempre più rapidi, e quello che oggi si fatica a comprendere domani è già vecchio, condannato ad un'improvvisa senescenza dall'incalzare del progresso.

La mancanza di strumenti normativi specifici induce la magistratura anche ad un uso innovatone, per certi versi addirittura pretorio, dell'art. 700 c.p.c., allo scopo di fornire quella tutela cautelare che la Corte Costituzionale, in più recenti sentenze, ha ritenuto essere attributo essenziale del diritto di

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agire e resistere in giudizio protetto dall'art. 24 della Costituzione.

Ecco, quindi, che l'allargarsi progressivo delle figure di danno risarcibile contiene in sé il rischio potenziale di un qualche arbitrio, per cui è forse esatta l'osservazione di chi ritiene che domani il concetto di danno ingiusto si risolverà in sostanza nella valutazione comparativa degli interessi in gioco, tale che l'uno venga ritenuto concretamente prevalente sull'altro. Osservazione questa tanto più suggestiva ove si rifletta sulla sempre crescente severità con la quale viene ammessa la c.d. prova

"liberatoria"; e non è mancato chi ha notato come l'orientamento attuale sia nel senso di garantire comunque un risarcimento all'avente diritto, pur senza che si giunga all'estrema socializzazione del sistema (o al totale snaturamento degli strumenti della responsabilità civile), ma superando le sofisticate distinzioni e le sottili qualificazioni, oggi ancora non molto chiare e precise (come invece pare si stiano già orientando le norme comunitarie europee).

Quello che appare acquisito, in ogni modo, è che la categoria del danno "ingiusto" è in continua evoluzione, per cui si deve escludere sia che la colpevolezza diventi l'unico criterio di imputazione, sia che il diritto soggettivo rappresenti l'unica fattispecie ammessa al risarcimento.

Mi pare opportuno conclusivamente sottolineare ancora una volta l'importanza e la delicatezza del compito che la giurisprudenza è chiamata ogni giorno a svolgere. Dal caso Meroni fino alle ultime sentenze che ho appena richiamato, è stata soprattutto la giurisprudenza di merito, di legittimità e di costituzionalità, a dimostrare una capacità di adattamento alla realtà delle situazioni, interpretando e quasi plasmando le norme in relazione ai fenomeni concreti che di volta in volta attendevano dai giudici un'appagante risposta. Ma se la sorte futura di questa complessa materia dipenderà dalla capacità con cui i magistrati sapranno cogliere ed interpretare i fermenti che si faranno strada nella società civile, un grosso aiuto potrà venire dalla dottrina e da altri operatori del diritto, fra i quali vanno annoverati, oltre agli avvocati, anche i medici legali e gli assicuratori.

Soltanto così, cercando tutti con pazienza ed umiltà le risposte ragionevoli ed equilibrate ai problemi della vita sociale, si potrà fare in modo che le tecniche di risarcimento del danno diventino sempre più un valido strumento di tutela di chi ha subito un torto e non, invece, una sorta di farraginoso e lento meccanismo che finisca col proteggere solo posizioni dominanti. Questo è il prossimo futuro che dobbiamo augurarci.

Riferimenti

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