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I Luce e Notte nel Proemio di Parmenide

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Academic year: 2021

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I

Luce e Notte nel Proemio di Parmenide

1 Il viaggio sul carro

1.1 Il viaggio sul carro nel quadro tradizionale dell’ispirazione poetica

Parmenide, come è noto, ha introdotto il suo poema con un proemio, inserendosi, anche sotto questo aspetto, nel solco della poesia epica tradizionale. La sua struttura presenta, peraltro, aspetti molto differenti rispetto a quelli che caratterizzano i proemi dell’epica tradizionale a noi nota.

Protagoniste dei primi versi del proemio sono delle cavalle che conducono, su di un carro, il narratore della vicenda attraverso un percorso ben determinato. Immediatamente dopo viene precisato che delle fanciulle (kou§rai) sono alla guida di questo cocchio1. Come ha osservato Cerri nel suo commento al testo, il pubblico parmenideo posto ex abrupto di fronte a questa immagine, deve essere stato spinto a credere che le aurighe immortali poste alla guida del carro non fossero altro che le Muse e che il percorso dell’autore sul carro rappresentasse il solco della narrazione poetica2.

1

Alcuni studiosi, tra cui Ferrari (2007) p. 205, hanno messo in evidenza l’eccezionalità dell’incipit del proemio di Parmenide. Siamo del resto certi che si tratti dell’inizio del poema perché Sesto Empirico (Adv. Math. VII 111) – la nostra unica fonte per i primi versi – introduce la lunga citazione (B 1.1-30) con queste parole: “cominciando il Peri; fuvsew~ scrive così” (ejnarcovmeno~ gou§n tou§ Peri; fuvsew~ gravfei tou§ton to;n trovpon). La pratica di iniziare il racconto in medias res ha, peraltro, un carattere tradizionale. Si veda, a titolo di esempio Od. I 10, tw§n aJmovqen ge, qeav, quvgater Diov~, eijpe; kai; hJmi§n e il commento a questo verso in Lanata (1963) p. 3: “che il racconto inizi «da un punto qualsiasi» significa che all’ordine cronologico o meglio cronachistico, ne è sostituito uno diverso e più ampio, poetico”.

2

Cfr. Cerri (1999) p. 171 e pp. 102-3. Si consideri, inoltre, a questo proposito, l’uso dell’espressione oi[mh per definire “la pista narrativa” che la Musa indica all’aedo di seguire nelle rappresentazioni odissiache di VIII 74, 481; XXII 347. Tale termine è associato da antica data al sostantivo oi\mo~ “sentiero”, come indicano Hainsworth (Heubeck-West-Hainsworth 1988) nel suo Commento a Od.VIII 74 e DELG s.v. oi[mh. Si consideri anche l’espressione oi\mo~ ajoidh§~ in h. Merc. 451 e Pind. O. IX 57. Pagliaro (Pagliaro 1953 pp. 34-40) per primo, ha ricondotto poi i due termini al senso primo di “legare” da cui quello di “traccia”, intendendo quindi oi[mh come “traccia narrativa che il poeta segue”, con enfasi sull’aspetto connettivo del termine. Tesi ripresa poi da Lanata (1963) pp. 1-19, Durante (1976) pp. 176-7, Belardi (1981) pp. 4-5, Di Donato (1999) pp. 145-54.

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1.1.1 Il carro delle Muse

Diversi elementi di questa rappresentazione possono aver contribuito a fornire tale idea. L’immagine del carro guidato dalle Muse come simbolo della composizione poetica era infatti piuttosto diffusa all’epoca, soprattutto nella tradizione lirica. Se ne serve infatti Pindaro in diverse delle sue odi3. Si noti, peraltro, che alcune di queste presentano tali affinità con la rappresentazione proemiale di Parmenide che, pur non permettendo di determinare con certezza un’influenza diretta tra i due autori, spingono almeno a supporre che entrambi facciano riferimento a una tradizione comune. Nella VI Olimpica (vv. 22-27) – per citare l’esempio più noto – il poeta ordina a Fintis – secondo gli scoli (S 37b, c, d, e) auriga di Hagesías, il vincitore della gara sul carro cui questa ode è dedicata – di aggiogare il vigore delle mule (hJmivvonwn...kei§nai) in modo da percorrere una via pura (keleuvqw/... kaqara§/4), così da giungere alla stirpe degli uomini (pro;~ ajndrw§n kai; gevno~), oggetto della lode. Le mule sanno come fare strada per questa via (oJdo;n aJgemoneu§sai tauvtan ejpivstantai5) perché hanno già ricevuto corone ad Olimpia: pertanto bisogna aprire per loro le porte degli inni (crh; toivnun puvla~ u{mnwn ajnapitnavmen aujtai§~)6.

Già Esiodo, negli Erga, aveva rappresentato il momento della sua iniziazione poetica attraverso l’immagine delle Muse che lo instradano per l’impervia via del canto, utilizzando l’espressione e[nqa me to; prw§ton ligurh§~ ejpevbhsan ajoidh§~ (“dove, per la prima volta, mi fecero intraprendere la via del canto melodioso” 659), forse già presupponendo la metafora del carro della poesia 7.

3

Tra cui si vedano, in particolare, O. VI 23-7, IX 81 e seg., P. IV 247, X 65 e seg, I. II 2, VIII 61 e seg. Pae. VIIb 10-20. Tra gli altri testi della tradizione lirica in cui compare questa immagine cfr. B.

Epin. V 176-8, Tim. XIX 234 e seg.

4

Cfr. Parmenide B 1.3, 27. 5

Cfr. Parmenide B 1.4-5. 6

Cfr. Parmenide B 1.15-20. Si deve a Fränkel Parmenidesstudien, “NGG” 1930, alle pp. 1-6 di Fränkel (1975), il merito di avere richiamato l’attenzione per primo sulle chiare analogie tra il proemio di Parmenide e l’apertura della terza triade della VI Olimpica di Pindaro (vv. 22-7). Un altro classico studio che si concentra su questo confronto, alla ricerca di una fonte comune, è Bowra (1937). Per una ricca discussione critica sulle diverse ipotesi relative al rapporto tra il proemio parmenideo e questo passo pindarico si veda il bell’articolo di D’Alessio (1995) che suggerisce anche un confronto con Pae. VIIb. Per la tesi fortemente ipotetica secondo cui Pindaro e Parmenide si sarebbero incontrati presso il tiranno Ierone di Siracusa e sulla forte influenza che il primo avrebbe esercitato sull’opera del secondo cfr. Capizzi (1975) p. 60, Capizzi (1982) e Martinelli (1987) p. 18

7

Cfr. Ferrari (2005) p. 11. Si consideri che ejpibaivnw + Genitivo viene usato comunemente per indicare il “metter piede, l’entrare (LSJ set foot on, get upon, mount on)” e piuttosto diffuso appare l’uso specifico per indicare l’atto di salire a cavallo, su un carro (Il. VIII 44), su una nave, su un letto. Come osserva lo stesso Ferrari, peraltro, già in età arcaica era piuttosto comune l’uso metaforico

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Il fatto, poi, che Empedocle in un frammento che presenta evidenti punti di contatto con il testo parmenideo, dopo avere invocato la Musa in termini fortemente tradizionali (kai; sev, polumnhvsth leukwvlene parqevne Mou§sa / a[ntomai ... 31B3 vv. 3-4), le chieda di mandargli ciò che è lecito ascoltare ai mortali “che vivono alla giornata”, conducendo da lui un carro facile da guidare (pevmpe par∆ Eujsebivh~ ejlaouvs∆ eujhvnion a{rma 31 B 3.5) dimostra quanto l’immagine del “carro della poesia” fosse diffusa all’epoca e potesse venire utilizzata anche all’interno di un’opera poetica che, come quella di Parmenide, rivolgeva la sua attenzione ai nuovi temi sapienziali di carattere fisico-cosmologico.

Si può quindi sostenere, con un buon margine di certezza, che l’immagine del carro, pur presente entro una struttura molto complessa quale quella del proemio parmenideo, sia stata interpretata dal pubblico nel quadro tradizionale dell’ispirazione del poeta da parte delle Muse.

1.1.2 “Fin dove l’animo giunga…”

Ciò si può inferire anche sulla base di altri indizi di carattere microcontestuale. La formula o{son t jejpi; qumo;~ iJkavnoi non è mai attestata in questa forma nella tradizione epica arcaica giunta fino a noi, ma è chiaramente strutturata sulla base di formule tradizionali8. Dal punto di vista formale, l’espressione qumo;~ iJkavnoi è quasi identica alla parte finale della formula a[co" kradivhn kai; qumo;n iJkavnei (“il dolore raggiunge il cuore e l’animo”), più volte attestata nell’epica omerica9. Appare peraltro significativo che, nel testo parmenideo, si verifichi un evidente mutamento della funzione sintattica di qumov~: se, nella poesia tradizionale, il termine indicava la sede in cui giunge il dolore, in Parmenide assume il ruolo di forza attiva che spinge il soggetto in una direzione10.

dell’espressione (cfr. Ferrari (2005) p. 119 n. 17). Per l’uso transitivo di baivnw / ejpibaivnw si veda l’espressione parmenidea ejpeiv m jej~ oJdo;n bh§san poluvfhmon (B 1.2). Sulle corrispondenze tra l’immagine parmenidea del viaggio sul carro e alcune analoghe rappresentazioni all’interno della poesia vedica cfr. Durante (1976) pp. 132-33.

8Per l’espressione formulareo{son t j ejpi; cfr. Il. III 12, XV 358, XXI 251, Od. XII 114. 9

Cfr. Il. II 171, VIII 147, XV 208, XVI 52, XIX 307, Od. XVIII 274. 10

Cfr. Ferrari (2005) p. 119. Il passaggio di qumov~ da sede dove giunge il dolore a soggetto del “giungere” / “andare”, può essere favorito dalla vicinanza semantica e prosodica con le formule o{te qumo;" ajnwvgoi “quando l’animo comandi” spesso connessa all’azione del bere (Il. IV 263, VIII 189,

Od. VIII 70, XVI 141) e o{te min gluku;" u{pno" iJkavnoi “quando il dolce sonno raggiunga” (Il. I 610,

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Tale funzione sembra paragonabile a quella che novo~ e qumov~ ricoprono in alcune formule impiegate da Omero per qualificare l’attività dell’aedo. Nel I canto dell’Odissea Telemaco rimprovera la madre che non vuole che Femio, l’aedo, “procuri piacere” – scil. eseguendo il suo canto – “nella direzione in cui il suo animo si slanci” (tevrpein o{pph/ oiJ novo~ o[rnutai v. 347); mentre nell’VIII canto Alcinoo manda a chiamare a palazzo il divino aedo Demodoco, a cui “un dio donò il canto in sommo grado, a procurare diletto, dove l’animo solleciti a cantare” (… tw§/ gavr rJa qeo;~ peri; dw§ken ajoidh;n / tevrpein, o{pph/ qumo;~ ejpotruvnh/sin ajeivdein vv. 44-5)11.

Nella tradizione omerica, quindi, attraverso queste formule sembra definirsi l’iniziativa personale dell’aedo che sceglie in quale direzione avviare il suo canto tra le varie tracce narrative (oi[ma~)) che la Musa gli ispira12. Parmenide, utilizzando, quindi, una formula strutturalmente e semanticamente assimilabile a quelle omeriche ora prese in considerazione, aiuta il pubblico a delimitare il margine di intervento personale dell’autore nell’azione drammatica narrata nel proemio: le cavalle trasportano il kouros, “fin dove l’animo giunga”13. Si può, del resto presumere che il pubblico abbia còlto una significativa differenza tra le formule che definiscono l’iniziativa personale dell’aedo e quella impiegata da Parmenide per indicare l’azione dell’autore: mentre l’animo dell’aedo è libero di scegliere in quale direzione spingere il suo canto – quali piste narrative seguire, tra quelle che, grazie alla Musa, ha a disposizione – il percorso che il kouros parmenideo deve percorrere sembra essere

11

Per una distinzione del significato di queste formule a seconda che vi compaia il termine qumov~ (Od. VIII 45) o il termine novo~ (Od. I 347) indicanti due distinti livelli di autonomia e consapevolezza da parte dell’aedo nella scelta della trama narrativa, cfr. Di Donato (1999) 145-54, il quale rimanda, a sua volta, alle classiche pagine di Snell (1946) pp. 29 e seg della tr. it. (Torino 1963). In diretta relazione con questo passo parmenideo cfr. Casertano (1978) – in (19892) pp. 49-50 n. 11 –. Al fine

della nostra indagine appare interessante che Lanata (1963) pp. 9-10, pur distinguendo nei due passi omerici da noi qui presi in esame tra il significato di qumov~ “non come volizione razionale, ma piuttosto stato di eccitazione psichica, trasporto passionale” e novo~ come “volizione razionale”, veda in entrambe le formule in cui compaiono questi termini un riferimento all’autonomia del poeta rispetto all’intervento della divinità. Per un’analisi approfondita del termine qumov~ cfr. Caswell (1990), in particolare le pp. 22-7 sulla sua relazione con novo~ rispetto all’attività conoscitiva.

12 Preferisco tradurre o{pph/ dandogli un senso locale “dove” piuttosto che modale “come”. Il valore locale sembra infatti adattarsi meglio all’immagine tradizionale della scelta, da parte dell’aedo, di seguir una tra le tracce narrative (oi[ma~) che ha a disposizione, grazie all’ispirazione della Musa. Entrambi i significati sono riportati in LSJ s.v. o{ph. Si veda, del resto, come o{pph/ assuma un valore locale, in senso letterale, in una formula molto simile a queste due riferite al canto dell’aedo: nel XXI canto dell’Odissea (342 cfr. XVI 81) Penelope promette a Odisseo – sotto le mentite spoglie di un mendico – di rivestirlo e di farlo “scortare dove il suo cuore e il suo animo comandano” (pevmyw d jo{pph/ min kradivh qumov~ te keleuvei), nel caso in cui riesca a tendere l’arco di Odisseo e a fare passare la freccia attraverso le dodici scuri.

13In tutte e tre le formule (le due odissiache e quella parmenidea troviamo la struttura avverbio (o[pph/ / o{son) - sogg. (qumov~ / novo~) - verbo di movimento o di stimolo al movimento (o[rnutai / ejpotruvnh/sin / iJkavnoi).

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già definito, e l’azione del qumov~ determina quindi non la direzione, ma l’ampiezza del tratto che l’autore riesce a percorrere.

1.1.3 La definizione del percorso: una questione testuale

Tale percorso viene poi ulteriormente definito come “strada dai molti canti della daimon, che porta colui che sa per tutte le città” (… oJdo;n ... poluvfhmon ... / daivmono~, h} kata; pant∆ a[ãsÃth fevrei eijdovta fw§§ta vv. 2-3). Si tratta di una definizione complessa, di difficile interpretazione, anche in ragione dello stato corrotto in cui ci è giunto il v. 3.

In primo luogo sembra infatti problematico capire se il pronome relativo h{ vada riferito a daivmwn o a oJdovn. Secondo Ferrari, riferire la relativa a daivmwn si adatterebbe meglio a una struttura del verso piuttosto comune nella tradizione omerica ed esiodea, impiegata dallo stesso Parmenide solo due versi prima in relazione alle cavalle (B1.1). Questa sarebbe costituita da 1) un nome proprio o comune di forma dattilica o spondaica a principio di esametro, seguito da 2) un pronome relativo a principio del secondo dattilo e 3) dalla definizione del personaggio fino a colmare la misura del verso14. È vero, peraltro, che riferire la relativa a oJdovn – come fa la maggior parte degli editori e commentatori più recenti –, suggerendo l’associazione con l’espressione iliadica oJdo;n laofovron (XV 682 “strada maestra” ma letteralmente “strada che porta il popolo” da lavo~ + fevrw) può avere aiutato a definire, per contrasto, il carattere specifico della via percorsa dal protagonista del proemio parmenideo come un percorso divino che non porta “i molti”, ma solo “colui che sa” attraverso le sue tappe conoscitive15. Data la centralità che le immagini di strade e percorsi hanno all’interno del poema parmenideo come simboli di ricerca e di conoscenza, sembra dunque preferibile riferire la relativa a oJdovn, come può suggerire anche l’uso dell’espressione th§/ ferovmhn all’inizio del verso successivo con cui si fa di nuovo riferimento al cammino su cui il kouros viene condotto16. È peraltro vero che la presenza del pronome relativo femminile h{, in questa posizione ambigua, anche

14Ferrari (2005) pp. 120-1. La relativa veniva riferita alla daivmwn già da Bowra (1937) – nella rist. del 1953 p. 50 – e da Untersteiner (1958). Dello stesso avviso anche Miller (2006) p. 18 n. 28.

15Cfr. infra cap. 3 pp. 108-10. Tra gli altri, riferiscono la relativa a oJdovn Tarán (1965), Reale in Reale-Ruggiu (2003), Casertano (1978), Coxon (1986), Cerri (1999). Alcuni di essi richiamano l’attenzione non solo sull’espressione di Iliade XV 682, ma anche sull’ingiunzione pitagorica attestata in Porfirio

V.P. 42 (ta;~ lewfovrou~ mh; badivzein) che invita a evitare le strade maestre, percorse dalle masse. 16

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qualora non debba essere riferito alla daivmwn può avere forse già suggerito all’uditorio, il genere femminile della divinità cui si fa riferimento in questo verso17.

Ancora più problematico appare definire la natura del percorso per cui il giovane viene condotto. La tradizione manoscritta di Sesto Empirico – unico testimone per questa sezione del testo parmenideo – riconduce infatti a una lettura priva di senso: PANTATH18. In realtà, che lo stato del testo sia questo è chiaro solo da quando Coxon (1968) ha dimostrato che pavnt ja[sth – ritenuta fino ad allora l’unica lezione tradita portatrice di significato – non era altro che il frutto di una cattiva lettura da parte di H. Mutschmann del codice N della tradizione di Sesto. In precedenza, la maggior parte degli editori aveva accolto pavnt ja[sth nel testo anche sulla base del confronto con un verso – peraltro di lettura difficile e controversa – tradito in una delle tavolette rinvenute nel Timpone grande di Turi, datata al IV-III secolo a.c.19.

Se si considera, peraltro, che, per trovare un senso a questo verso del poema parmenideo, bisogna comunque intervenire sul testo, non appare cattiva la scelta di alcuni studiosi di accogliere pavnt ja[sth come congettura20. Come è stato osservato dai sostenitori di questa scelta testuale, infatti, pavnt ja[sth richiamerebbe da vicino la formula odissiaca pollw§n d jajnqrwvpwn i[den a[stea kai; novon e[gnw (“di molti uomini vide le città e conobbe il pensiero”) con cui ci si riferisce al viaggio di Odisseo nei primi versi del poema omerico. Questo richiamo espressivo avrebbe il merito di stabilire da subito quella relazione tra la natura del viaggio conoscitivo del kouros

17

Per l’idea che questa ambiguità nell’uso del pronome relativo sia intenzionale cfr. Kingsley (2002) pp. 370-2. Va comunque tenuto conto della possibilità che il pubblico, in questo momento della narrazione, non abbia ancora chiaro quale sia il genere della divinità, come hanno osservato Burkert (1969) p. 4 e Cerri (1999) pp. 97, 169. Cosgrove (2011) p. 30 riprende una precedente lettura di Cornford (1952) p. 118 n.1 secondo cui daivmono~ sarebbe Helios, vista la corrispondenza tra il percorso che il giovane percorre e quello del carro del Sole.

18

Nel ramo A della tradizione si vede anche uno iota sottoscritto sotto la h finale. Su questo particolare hanno posto speciale enfasi Cordero (1982) e Cerri (1997) per sostenere le loro congetture.

19

Il testo del verso della lamina, secondo la lettura di Diels – accolta da Kern (1922) – è infatti {Hlie Pu§r dia; pant’ a[sth nivseai (492.3 F). L’uso di questa espressione in riferimento al percorso diurno di Helios nella tavoletta turiina potrebbe costituire un forte argomento in favore dell’inserimento di pant’ a[sth al v. 3 del poema parmenideo se non fosse che Diels, nel leggere il verso della lamina, si basa proprio sul confronto con il pant’a[sth del terzo verso del proemio di Parmenide, al tempo ancora considerata come lectio tradita. Il testo di questo verso della tavoletta è infatti di lettura molto dubbia e perciò aperta a diverse interpretazioni, come appare chiaro dall’apparato riportato in corrispondenza del fr. 492 F (= 47 K). Si tenga a mente che la lezione pant’ a[sth al v. 3 del poema parmenideo era stata accolta a testo come variante testuale in DK, Untersteiner (1958) e Tarán (1965).

20

Tra questi si ricordino Renehan (1992), Lesher (1994), Ferrari, a partire da Ferrari (2003) p. 197, Cosgrove (2011) pp. 42-44.

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parmenideo e le peregrinazioni di Odisseo la cui importanza per la ricezione del poema di Parmenide è stata riconosciuta da tempo21.

La congettura pavnt ja[sth potrebbe peraltro avere un senso coerente con l’immagine del proemio parmenideo, se si intendesse il viaggio del giovane sul carro per una strada che attraversa tutte le città come la rappresentazione mitica di un percorso che porta attraverso la totalità delle cose conoscibili dall’uomo, fino alla soglia che ne costituisce il limite. Intendendo kata; pant ja[sth in questo modo, la definizione della via non presenterebbe grosse differenze rispetto a quella proposta da Cerri sulla base della sua congettura – fondata peraltro su fini osservazioni paleografiche – panq’ a{ t’ e[h/ (“per tutte le cose che siano”), ma avrebbe il vantaggio di non interrompere la rappresentazione mitica con un’espressione astratta che ben si adatta al seguito del poema, ma che non appare molto coerente con la qualità del discorso che occupa la maggior parte del proemio22. Pur consapevoli dell’assoluta incertezza del senso di questo verso, si sceglie quindi di accogliere con riserva la congettura pant ja[sth, che, seppur tutt’altro che sicura, sembra meglio adattarsi al suo contesto rispetto alle altre proposte finora23.

1.1.4 La strada “dai molti canti”

Nonostante l’incerta lettura del v. 3 renda difficile capire la natura del percorso che conduce all’incontro con la dea, si può comunque ipotizzare che l’uso dell’epiteto poluvfhmon (“dai molti canti”) riferito alla strada, possa aver anch’esso

21Per un confronto tra la rappresentazione delle peregrinazioni di Odisseo e il viaggio conoscitivo di Parmenide infra cap. 3, p. 106 n.1, pp. 127-28.

22

Cfr. Cerri (1997). La congettura è stata poi accolta in Cerri (1999) pp. 166-67. Si noti, per inciso, che Sassi (2001) p. 223 osserva che l’uso del congiuntivo del verbo “essere”, proposto da Cerri, andrebbe contro l’usus scribendi parmenideo.

23 Bisogna infatti ammettere che anche la lettura del verso con pant’ a[sth non è di immediata comprensione e – come è stato osservato da chi rifiuta questa congettura – la definizione di una via che attraversa tutte le città appare in contrasto con la rappresentazione che dello stesso percorso dà la dea come di un cammino lontano dalla pista degli uomini (B1.27). Le congetture proposte per questo verso sono davvero molto numerose. Tra le più interessanti ricordiamo quella di Heyne pavnt ja[nthn, accolta nell’edizione di Coxon (1986) che, sulla base del confronto con Il.VIII 399-400 Bavsk ji[qi, \Iri tacei§a pavlin trevpe mhd je[a a[nthn / e[rcesq j, sostiene che questa definizione della via percorsa dal kouros ben si adatti alla contrapposizione con il palivntropo~ kevleuqo~ di 28B 6.9. Pelliccia (1988), invece, dopo aver espunto anche le lettere TATH, considerate frutto di un errore di dislocamento, sulla base delle ultime lettere del verso 3 e le prime del v. 4 (fw§ta / th§/ ferovmen), propone la congettura h{ kata; pa§n <to; ejo;n> fevrei. Interessante anche Cordero (1982): h} kata; pa§n tauvthi. Per una ragionata e aggiornata rassegna relativa a questo problema testuale si veda Palmer (2009) pp. 376-8. Per una rivalutazione delle due antiche congetture kata; pavnt jaji>dh§ (Fülleborn 1795) e kata; pavnt jajdah§ (Karsten 1835) cfr. Kingsley (2002) p. 377 n. 108.

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contribuito a far leggere questa immagine come una rappresentazione dell’ispirazione del poeta da parte delle Muse. In una delle sole due occorrenze di poluvfhmo~, all’interno del corpus dell’epica greca arcaica giunto fino a noi, infatti, tale termine compare come attributo dell’aedo Femio nel momento in cui Odisseo lo risparmia, insieme all’araldo, dalla strage finale24. Pindaro, inoltre, nella VIII Istmica, definisce poluvfamon il qrh§no~ che le Muse versarono su Achille morto25. Appare quindi probabile che il fatto che la strada percorsa dal carro sia definita poluvfhmon abbia contribuito a farla recepire come un’immagine della composizione poetica.

È pure possibile che, in questo passo, Parmenide abbia voluto sfruttare anche il significato che poluvfhmon sembra avere nella sua altra occorrenza omerica. Nel II canto dell’Odissea (v. 150) viene infatti così definito il luogo in cui si sta svolgendo l’assemblea, a Itaca, nel momento in cui si presenta come teatro del prodigio delle due aquile, prefigurante il ritorno e la vendetta di Odisseo26. In Erodoto V 79, probabilmente influenzato dal modo in cui questo termine viene impiegato nel secondo passo odissiaco da noi preso in considerazione, la Pizia indica ai Tebani venuti a consultare l’oracolo di riportare il suo discorso ej~ poluvfhmon, cioè in assemblea, nel luogo in cui gli uomini si riuniscono e confrontano i loro discorsi.

Poluvfhmo~ sembra quindi indicare, in questi due passi, il luogo sociale in cui si confrontano molti discorsi e in cui un prodigio o un oracolo viene sottoposto alla discussione comune. Una strada come quella rappresentata nel proemio parmenideo, che conduce “l’uomo che sa” attraverso tutta la realtà terrena, potrebbe quindi anche essere intesa come un percorso in cui diversi discorsi di conoscenza vengono condivisi e discussi27. L’epiteto poluvfhmon, nello stesso momento in cui guida il pubblico a vedere nell’immagine del proemio parmenideo la rappresentazione dell’ispirazione poetica dell’autore da parte delle Muse, può forse avere contribuito a

24

Odisseo, infatti, così si rivolge all’araldo Medonte, risparmiato dalla strage, insieme all’aedo: ajll∆ ejxelqovnte~ megavrwn e{zesqe quvraze / ejk fovnou eij~ aujlhvn, suv te kai; poluvfhmo~ ajoidov~ (“ma, usciti dalla sala, sedete fuori, / lontano dal massacro, in cortile, tu e l’aedo dai molti canti” Od. XXII 375-6). 25

Cfr. I.VIII 56a-61. 26

L’intera scena è narrata in Od. II 146-207. 27

Diels (20032) p. 29, seguito poi da Kranz VS I, p. 228, traduce poluvfhmon come “vielgerühmt”. Lo stesso significato è stato proposto da Burnet (1892), e ripreso poi anche da Guthrie (1965), Mansfeld (1964), Casertano (1978), KRS, venendo poi adottato nel LSJ che traduce il termine in riferimento al nostro passo di Parmenide come “much spoken of, famous”. Si tratta, peraltro, di un significato non altrimenti attestato nella tradizione greca arcaica a noi giunta. Ma, per una difesa di questo significato del termine, cfr. Kingsley (2002) pp. 375-7. Poluvfhmon, peraltro, non viene inteso in questo modo dagli altri più recenti editori del poema parmenideo (Coxon (1986), Cerri (1999), Ruggiu in Reale-Ruggiu (2003)). Cosgrove (2011) p. 41-42, in accordo con la sua personale interpretazione del viaggio, dà a poluvfhmo~ un senso analogo a quello di poluvpeiro~ in B 7.3.

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definire, insieme al genitivo daivmono~ e alla formula seguente di controverso significato, il nuovo carattere di questo percorso rispetto al solco poetico tradizionale.

1.2 Il carro del Sole

Al v. 5, all’immagine proemiale viene aggiunto un nuovo elemento: alla guida del carro vengono poste delle giovani (kou§rai) che indicano al kouros la strada da seguire. Sulla base degli elementi che abbiamo fin qui considerato, il pubblico avrà dunque, in un primo momento, riconosciuto in queste fanciulle le Muse, guide e ispiratrici nella composizione poetica. L’identificazone delle kou§rai con le Eliadi al v. 9 ( JHliavde~ kou§rai) deve avere probabilmente suscitato nel pubblico un sentimento di forte sorpresa, come è stato messo in evidenza da Cerri nel suo commento.

1.2.1 Il mito di Fetonte

Con il nome Eliadi (hJliavde~) veniva infatti definito un gruppo di divinità femminili, le figlie di Helios, il Sole28. Per quel che sappiamo dalla tradizione mitica a noi nota, queste divinità ricoprono un ruolo piuttosto rilevante nel mito di Fetonte, il figlio del Sole. In questo mito si racconta di come Fetonte, con la complicità delle sue sorelle, di nascosto dal padre, si sia messo alla guida del carro paterno, e di come Zeus, dopo averlo scoperto, lo abbia punito, incenerendolo con la sua folgore. Le sorelle, complici e addolorate per la fine del fratello, sarebbero state poi trasformate in pioppi29. Alcuni studiosi hanno quindi ipotizzato che Parmenide, ponendo le Eliadi alla guida del carro, abbia deliberatamente scelto di richiamare alla memoria questo mito, volendo presentar il kouros come una sorta di “fortunato Fetonte”, che, al contrario del figlio del Sole, riuscirà a portare a termine il viaggio sul carro solare. In questo modo, sarebbe stata posta in evidenza la legittimità del viaggio di Parmenide,

28

Sul valore simbolico di Helios e delle Eliadi nella cultura greca antica si veda il classico Kerényi (1944).

29

Tra le antiche testimonianze di questo mito si vedano Hes. fr. 311 M.W., Aesc. frr. 68-73 N., Eur. frr. 771-4 K attribuiti alla tragedia Phaëton, Eur. Hipp. 735-41, Plat. Tim. 22 c-d, Ap. Rod. IV 596-609. Si vedano poi anche Ov. Met. I 750 e seg., Ig. Fab. 154 che, oltretutto, è la nostra testimonianza per il frammento esiodeo. Nella Teogonia vv. 986-91, peraltro, il nome Fetonte è attribuito al figlio di Eos e Cefalo, rapito da Afrodite e posto dalla dea come custode del suo tempio.

(10)

in opposizione all’azione trasgressiva di Fetonte30. Risulta peraltro problematico determinare come il mito di Fetonte possa essere stato conosciuto e rifunzionalizzato dall’eleate. In Omero, infatti, non vi è alcun riferimento a questo mito. Ne abbiamo una prima attestazione in una delle Eoie di Esiodo31, che potrebbe però essere stata inserita nella raccolta solo in epoca successiva32. Sappiamo, peraltro, che Eschilo ha composto una tragedia intitolata JHliavde~ di cui restano solo pochi frammenti (frr. 68-72 R.). La tragedia doveva appunto avere per oggetto il mito di Fetonte, ma, a causa dello stato frammentario del testo, non sembra possibile capire come Eschilo abbia voluto presentare tale racconto. Determinare – come qualcuno ha tentato di fare33 – se Parmenide abbia conosciuto e sia stato influenzato dalla tragedia eschilea o viceversa, appare impossibile, anche in ragione del poco materiale a nostra disposizione. La notizia che Eschilo ha composto una tragedia che ha per oggetto il mito di Fetonte intitolata “Eliadi” appare a noi interessante come testimonianza del fatto che, nell’epoca in cui Parmenide operava, questo mito era noto e poteva venire utilizzato per esprimere nuovi significati.

1.2.2 Le Eliadi e le Muse Eliconie: due immagini a confronto

Il fatto che, nella tradizione mitica a noi nota, le Eliadi vengano comunemente associate al mito di Fetonte, peraltro, non deve spingerci a pensare che la loro comparsa nel proemio parmenideo abbia solo la funzione di spingere il pubblico a mettere in rapporto l’impresa parmenidea con quella dello sfortunato figlio del Sole.

Quel che appare più importante, nell’inserimento delle Eliadi all’interno della complessa immagine del proemio, è proprio la natura distintiva di questo gruppo di divinità: il fatto di essere figlie di Helios. Sembra fondamentale, infatti, capire in che modo il fatto di porre le Eliadi alla guida del carro si ponga in relazione alla tradizionale immagine del poeta che sale sul carro delle Muse e così tentare di

30 Diversi studiosi hanno messo in evidenza il rapporto tra il racconto narrato nel proemio di Parmenide e il mito di Fetonte, tra cui Kranz, Ueber Aufbau und Bedeutung des Parmenideischen

Gedichtes, in “Sitzungsberichte der Königl.-Preussischen Akademie der Wissensch.”, 47, 1916, pp.

1158-76, Bowra (1937), Couloubaritsis (1986), p. 87, 139-40 e Kahn (2009) p. 214. 31fr. 311 M-W.

32

Cfr. Cerri (1999) p. 172. 33

(11)

comprendere che significato possa avere il fatto che la funzione del carro della poesia sia qui ricoperta dal carro del Sole.

A tal fine appare interessante, in primo luogo, capire se e come il pubblico abbia potuto apprezzare la nuova funzione simbolica delle Eliadi nell’immagine parmenidea proprio attraverso la sua associazione con la rappresentazione delle Muse nei primi versi della Teogonia di Esiodo34. Il poema esiodeo si apre con l’immagine delle Muse che si avviano alla discesa dell’Elicona, avvolte da molta nebbia, di notte, cantando (e{nqen ajpornuvmenai kekalummevnai hjevri pollh§/ / ejnnuvciai stei§con perikalleva o[ssan iJei§sai Teog. 9-10). Si può inoltre ipotizzare che, proprio alla fine della discesa, queste dee abbiano incontrato Esiodo che pascolava i suoi armenti alle pendici del monte35. Tale immagine può essere stata richiamata, per contrasto, dalla rappresentazione, nel proemio parmenideo, delle Eliadi che, dopo aver respinto dal capo i velami, lasciano la casa della Notte per andare verso la luce a prelevare il

kouros36. In entrambe le immagini, infatti, il luogo in cui si incontrano l’autore e le divinità è la Terra, il livello cosmico in cui normalmente l’uomo vive e agisce. L’incontro viene peraltro presentato attraverso processi quasi contrapposti. Le Muse esiodee infatti scendono dalla dimensione alta, prossima al cielo, sulla terra, nascondendo il loro aspetto nella nebbia e agendo di Notte (ejnnuvciai), mentre le Eliadi salgono dalla dimora della Notte – tradizionalmente collocata nelle regioni infere, qualificate come hjeroventa, “avvolte dall’oscurità”37 – liberandosi dai velami da cui erano avvolte in questi luoghi, per mostrarsi pienamente al kouros. Anche la meta cui tendono le Muse e le Eliadi, pur essendo la stessa, la Terra, si qualifica in maniera contrapposta in relazione al luogo da cui provengono le due collettività divine: la discesa delle Muse sulla Terra è avvolta dalla notte, mentre il viaggio delle Eliadi è indirizzato verso la luce (ej~ favo~ v. 10).

34

Cfr. Pellikaan-Engel (1978) pp. 6-8, Cerri (1999) pp. 102-3 e Arcari (2011) pp. 7-14, che riconosce nella costruzione di questa immagine parmenidea un esempio di allontanamento dal modello tradizionale dall’interno.

35

In realtà non è chiaro se la circostanza in cui le Muse scendono dall’Elicona sia la stessa in cui incontrano Esiodo, ma appare probabile, anche per dare un senso alla loro discesa dal monte. Cfr. West (1966) Comm. ad loc.

36 Pellikaan-Engel (1978) pp. 6-7 osserva il corrispondente uso dei due participi per indicare l’inizio del movimento delle Eliadi, nel proemio parmenideo (prolipou§sai v. 9) e delle Muse in quello esiodeo (ajpornuvmenai v. 9).

37

La dimora della Notte, essendo tradizionalmente collocata nel Tartaro viene – secondo quanto ci tramanda la Teogonia esiodea, unica descrizione della casa della Notte che possediamo dall’antichità rappresentata come avvolta da nubi oscure. Cfr. Th.744-5, 757 e, sul Tartaro come luogo tenebroso cfr. e.g. Th. vv. 723a e 729.

(12)

1.2.3 Le figlie di Helios

La peculiarità della costruzione dell’immagine parmenidea si fonda, del resto, proprio sulla natura specifica delle Eliadi come figlie del Sole e sulla sovrapposizione simbolica tra carro della poesia e carro solare. Se da un lato, infatti, le Eliadi, essendo un gruppo ben definito di kourai divine, possono essere messe facilmente in associazione con le Muse – le kourai di Zeus (kou§rai Dio;~ aijgiovcoio)38 – la loro identità di prole solare le pone in strettissima connessione con le qualità distintive del loro padre, Helios.

Come è ovvio, il primo tratto caratterizzante questa divinità è il suo essere portatore di luce per i mortali e gli immortali. Ciò appare confermato anche solo a partire dalla sua genealogia: sia nella Teogonia (vv. 371-4), che nell’Inno omerico al

Sole (vv. 2-9), Helios è presentato come figlio di Iperione e di una sua sorella, Theia –

in Esiodo – o Eurifaessa nell’Inno omerico. Sue sorelle sono Selene – la Luna – e Eos – l’Aurora –. Mentre il nome del padre, annoverato tra i Titani nella Teogonia, JUperivwn – che compare anche nella tradizione omerica, sia come attributo, che come nome di Helios39 – sembra riferirsi al tragitto diurno del Sole (“colui che va in alto”40), il nome della madre nella tradizione innodica, eujrufavessa “che risplende per largo tratto”, è connesso con la luminosità. Nella stessa direzione spinge anche la maggior parte dei suoi epiteti distintivi (faevqwn “splendente”41, hjlevktwr “raggiante”42, faesivmbroto~ “che porta luce ai mortali”43 e delle formule che lo qualificano, come, ad esempio, o}~ faivnei qnhtoi§si kai; ajqanavtoisi qeoi§sin).44 La sua azione di portatore di luce è continua, perché Helios è instancabile, ajkavma~.45

38

Cfr. e.g. Il. II 598, h. Hom. XXXII 2, Hes. Th. 25, 29, 51-2, 81, 966, 1022. 39

Cfr. Il. VIII 480, XIX 398, Od. XII 176, h.Hom. II 26, 74. 40

Cfr. Kirk (1990) Comm. ad Il. VIII 480 “who goes overhead”, forse in origine comparativo di u{pero~ (cfr. lat. superior) e Richardson (1974) Comm. ad v. 26.

41

Cfr. Il. XI 735, Od. V 479, XI 16, XIX 441, XXII 388, h. Hom. XXXI 2, Th. 760. Si noti che, secondo un procedimento tipico della cultura greca arcaica, faevqwn è anche il nome dello sfortunato figlio di Helios, mentre Faevqousa e Lampetivh sono i nomi attribuiti alle figlie del Sole, poste a guardia delle sue mandrie e delle sue greggi nell’isola di Trinacria (Od. XII 132).

42 hjlevktwr compare spesso come nome del Sole (Il. XIX 398, VI 513), per cui vedi le osservazioni nella nota precedente.

43Cfr. Od. X 138, 191, Th. 958. 44

H. Hom. XXXI 8.

45

(13)

Secondo una concezione tipica della cultura greca arcaica, per cui vi sarebbe una diretta relazione tra la capacità di emettere luce e la facoltà visiva, il Sole, concepito come prima fonte di luce per mortali e immortali, sarebbe anche la divinità dotata di vista acuta e completa per eccellenza46. Ciò appare evidente sia da alcune formule che gli vengono tradizionalmente attribuite nella tradizione epica, come, ad esempio, jHeliov~ q j, o}~ pavnt j ejfora§/~ kai; pavnt j ejpakouvei~47, che da alcuni episodi mitici in cui Helios compare come unico testimone, in quanto dotato della vista più acuta e penetrante.

Nell’Inno Omerico a Demetra, Helios e Ecate sono gli unici dèi che sentono la

voce di Persefone nel momento in cui viene rapita, e Helios è il solo in grado di assistere al ratto e di seguirne il percorso fintanto che il carro di Ade non entra negli inferi. Per questo motivo, Demetra ed Ecate si recano a interrogare lui – il testimone più attendibile – “che vigila sugli dèi e sugli uomini ” ( jHevlion d ji{konto qew§n skopo;n hjde; kai; ajndrw§n v. 62) e, dall’etere, con i suoi raggi, estende le sue facoltà visive per tutta la terra e il mare (ajlla; su; ga;r dh; pa§san ejpi; cqovna kai; kata; povnton aijqevro~ ejk divh~ katadevrkeai ajktivnessi, vv. 69-70).

Helios è anche colui che, nell’Odissea, all’interno del racconto degli amori di Ares e Afrodite, oggetto del canto di Demodoco alla corte dei Feaci, assiste all’adulterio e lo comunica ad Efesto48. Questa immagine e il ruolo che Helios vi ricopre appare particolarmente interessante se la si considera in relazione a un altro episodio mitico che forse la presuppone49: l’inganno di Zeus da parte di Era nel XIV libro dell’ Iliade. A Era che, ricorrendo all’inganno, si rifiuta di giacere con Zeus sulla cima dell’Ida per paura che qualcuno degli dèi li possa vedere e possa correre a dirlo a tutti gli altri (XIV 329-40), il Cronide risponde dicendo che addenserà una nube dorata (ejgw; nevfo~ ajmfikaluvyw / cruvseon: 343-44) attraverso cui nemmeno Helios

46

Si veda il ricco e interessante articolo Mugler (1960), in particolare pp. 66-8. Mugler osserva inoltre che le due azioni di “vedere” e di “risplendere” sono così strettamente legate nell’immaginario greco che una stessa espressione verbale può spesso significare entrambe le azioni. Si consideri ad esempio la duplice valenza di aujgavzein, aujgavzesqai come “risplendere, illuminare con i propri raggi” (e.g. Eur.

Hec. 636) e “vedere” (e.g. Il. XXIII 458). Mugler osserva inoltre come il qualificativo poluderkhv~, con cui Esiodo definisce la luce, designi, allo stesso tempo, il potere della visione che la luce irradiata conferisce a fenomeni luminosi come il giorno e l’aurora, e l’intensità del loro riplendere per cui cfr. e.g. Hes. Th. 451, 755.

47Cfr. Od. XI 109, XII 323, Ap. Rod. 4. 229. Si veda poi Aesc. Pr. 91 dove a Helios viene attribuito l’epiteto panovpthn, e l’aggettivo pantovpta~ riferito a Helios, tratto dal Prometeo Liberato (fr. 192. 5 N).

48

Cfr. Od. VIII 266-366, in particolare i vv. 271 e 302 per il ruolo di Helios come testimone dell’adulterio.

49

(14)

potrebbe distinguere con lo sguardo, “nonostante la sua luce sia la più penetrante a vedere” (ou| te kai; ojxuvtaton pevletai favo~ eijsoravasqai 345).

1.2.4 Limiti delle funzioni tradizionali di Helios

La capacità di vedere di Helios è quindi molto ampia, ma non assoluta, e vi sono elementi che non può penetrare. Non sembra infatti in grado di vedere attraverso le nubi e l’aer, come appare evidente, anche dal passo dell’ XI canto dell’Odissea in cui si afferma che Helios non riesce a vedere con i suoi raggi il popolo e la città dei Cimmeri perché avvolti da nebbia e da nube50. I Cimmeri abitano infatti “i confini del profondo Oceano”, molto vicino all’accesso all’Ade – dove si recherà Odisseo a consultare l’anima di Tiresia – in un luogo che condivide con le regioni infere l’oscurità, rappresentata attraverso la diffusione dell’aer51. In queste regioni oscure, ai

limiti dei luoghi in cui l’uomo può giungere, e al di là di essi, il Sole non sembra esercitare le sue funzioni di portatore di luce e di somma vedetta.

Allo stesso modo, infatti, nella Teogonia (vv. 758-61), Esiodo dice che il Sole, mentre compie il suo percorso verso il cielo e poi dal cielo alla terra, non vede con i suoi raggi Hypnos e Thanatos che vivono con la madre Notte nella sua casa nel Tartaro. Appare quindi abbastanza chiaro che Helios si limiti a esercitare le sue funzioni sulla terra e in cielo, controllando tutto ciò che accade nelle regioni umane e divine, mentre porta la luce ai mortali e agli immortali. Proprio per questo motivo, viene tradizionalmente invocato nei giuramenti o chiamato a testimonianza in momenti di particolare gravità52.

Il fatto che Helios non eserciti le sue funzioni nelle regioni infere sembra ancora più paradossale se si pensa che, da alcune testimonianze di epoca arcaica, si può ricostruire l’immagine di Helios che di notte, nel momento in cui non splende in cielo, compie un altro viaggio, in una coppa divina, nell’Oceano, sotto terra, attraverso gli abissi della Notte, dalla regione delle Esperidi a quella degli Etiopi, per

50Cfr. Od. XI 12-19.

51

Si consideri anche soltanto l’epiteto hjerovei~ riferito al Tartaro in varie occorrenze omeriche e esiodee e.g. Il. VIII 13, h. Hom. IV 253, Th. 119, 682, 721, 723a, 736, 807, Hes. frr. 30.22 M-W. Per l’associazione dell’Ade con zovfo~ hjerovei~ cfr. e.g. Il. XV 191, h. Hom. II 79-80, 336-7.

52Per alcuni esempi di Helios invocato nei giuramenti cfr. Il. III 104, 277; XIX 258-65. Alcuni passi in cui Helios compare come testimone garante di giustizia in episodi di straordinaria gravità sono Aesc. A. 1323, Ch. 985-6, Pr. 91, Eur. Med. 1251.

(15)

poi da lì riprendere il suo viaggio celeste sul carro53. Allo stesso modo, il tentativo di dare una collocazione al Sole, nel momento in cui è assente dalla Terra e quindi non percepibile dall’uomo, spinge a collocare le porta del Sole, proprio come quella dei cammini di Giorno e Notte, nelle ragioni infere54.

Il fatto che Helios non esercitasse, nelle regioni tartariche, il suo ruolo tradizionale risulta confermato dall’episodio, narrato nel XII canto dell’ Odissea, in cui la divinità solare minaccia di scendere nell’Ade e di splendere tra i morti nel caso in cui Zeus non faccia pagare una pena adeguata ai compagni di Odisseo che hanno sacrificato le sue vacche. Helios, infatti, minaccia di sconvolgere l’ordine cosmico, esercitando le sue funzioni nell’unico piano del cosmo in cui non le praticava in precedenza, a beneficio, quindi, dei morti invece che dei vivi e degli dèi55. Zeus promette, pertanto, di vendicare l’oltraggio subito da Helios, e riesce, in questo modo, a far sì che la divinità solare continui a svolgere il suo ruolo, mantenendo così intatto l’equilibrio del cosmo56.

Parmenide, quindi, ponendo alla guida del carro le Eliadi al posto delle Muse, vuol trasmettere l’idea che il kouros percorra sì un cammino di ispirazione divina, ma del tutto peculiare e differente da quello tradizionale. Il giovane viene, infatti, totalmente assorbito nell’immagine del carro del Sole che, in questo eccezionale viaggio, lo porta insieme alla luce, attraverso il suo tragitto diurno. La scelta delle Eliadi come guide del carro, quindi, se da un lato richiama l’immagine delle Muse alla guida del cocchio della poesia – in entrambi i casi trattandosi di un gruppo di

53 Cfr. Stesich. 6D, Mimn. 10D, Pherecyd. fr. 18a J. In Stesicoro, di notte, Helios, sulla coppa, varcando l’Oceano, va negli “abissi della notte oscura” (poti; bevnqea nukto;~ ejremna§~ v. 3) a ricongiungersi con madre, moglie e figli. Si confronti inoltre h. Merc. 68-9 in cui Helios si immerge nell’Oceano, sotto terra, con cavalli e carro e Aesc. fr. 192 Radt. Una diversa ricostruzione del tragitto del Sole nel periodo notturno è data da Marinatos (2010).

54

Od. XXIV 11-4.

55

Per altri esempi di dèi che minacciano di utilizzare i loro poteri per alterare l’ordine cosmico cfr. Il. VIII 5-26 in cui Zeus, oltre a minacciare di precipitare nel Tartaro chi, tra gli dèi, sorprenda prestare aiuto ad Achei o Troiani, li sfida – per dimostrare la sua assoluta superiorità rispetto a loro e agli uomini – ad appendere alla volta celeste una gomena d’oro e a cercare, tutti insieme di tirarlo giù. Anche così egli, tirando dall’altra parte, riuscirebbe vincitore in questa sorta di tiro alla fune, sollevando mare e terra, che attaccherebbe a un picco di Olimpo, lasciando tutte le cose appese a mezz’aria. Cfr. h. Cer. (305-13, 331-3) in cui Demetra, dopo il ratto della figlia, tiene celati i semi, non permettendo che la terra li faccia germogliare, facendo così morire di fame la stirpe degli uomini e privando gli dèi delle offerte sacrificali.

56Alla minaccia di Helios di scendere nell’Ade e di risplendere tra i morti, duvsomai eij~ jAi?dao kai; ejn nekuvessi faeivnw, (Od. XII 383) Zeus risponde imponendogli di continuare a risplendere per gli immortali e per gli uomini mortali sulla terra datrice di grano, dal momento che egli stesso distruggerà con il suo fulmine la nave di Odisseo e compagni ( jHevli j, h\ toi me;n su; met’ ajqanavtoisi faveine, / kai; qnhtoi§si brotoi§sin ejpi; zeivdwron a[rouran: / tw§n dev k jejgw; tavca nh§a qoh;n ajrgh§ti keraunw§/ / tutqa; balw;n keavsaimi mevsw/ ejni; oi[nopi povntw/ (XII 385-8).

(16)

giovani divinità femminili – dall’altro connota questo viaggio in termini profondamente nuovi. Il giovane prende parte all’immagine mitica del percorso del Sole sulla terra e, come compagno delle Eliadi immortali in questo viaggio (cfr. B 1. 24), partecipa della loro luce e del potere conoscitivo di questa.

1.2.5 Il kouros sul carro del Sole

L’immagine del carro che porta la luce diurna sulla terra attraverso un ben definito percorso è, del resto, come tutte le rappresentazioni mitiche, un’immagine plastica che può assumere diversi aspetti ed essere quindi portatrice di differenti significati57. La rappresentazione del carro del Sole, diffusa già a partire dall’età arcaica, secondo quanto attestato in alcuni Inni Omerici e in parte della tradizione lirica58, non compare mai in questa forma in Omero.

Nel XXIII canto dell’Odissea, del resto, si narra che Atena, per rendere più lunga la prima notte dopo il riconoscimento tra Odisseo e Penelope, impedisce il normale alternarsi del giorno e della notte, arrestando la Notte proprio nel punto estremo del suo percorso sulla Terra e trattenendo l’Aurora nel limite segnato da Oceano, non permettendole di aggiogare i cavalli che conducono il suo carro, Lampo e Fetonte, portatori di luce per gli uomini59. Nel momento in cui viene descritto un evento eccezionale rispetto al regolare avvicendarsi della luce e delle tenebre sulla terra, la normale immagine del sorgere del sole o dell’aurora assume la forma più complessa della rappresentazione della divinità che personifica la prima luce del mattino – Eos, l’aurora – alla guida di un carro trainato dai cavalli. I nomi dei puledri appaiono, oltretutto, piuttosto significativi. Fetonte, come si è visto, compare anche come epiteto di Helios e come nome di uno dei suoi figli, mentre con il corrispettivo

57

Sulle immagini mitiche e, in particolare, sul significato polivalente che esse assumono in quanto oggettivazioni plastiche di determinate funzioni psicologiche, soggette a modifiche formali e funzionali, nel corso della loro trasmissione nel tempo e nello spazio, si confronti in particolare Gernet (2004). Per un’analisi del contributo di Gernet allo studio della leggenda greca come documento di protostoria sociale si veda, oltre ovviamente alla prefazione e alle singole introduzioni alle tre sezioni di Gernet (2004), Di Donato (1990) pp. 119-130.

58

Cfr. h. Hom. II 88-9, IV 68-9, XXVIII 13-16, XXXI 9, 14-6, Mimn. 10D, Aesch. fr.192 Radt. Ovviamente l’immagine del carro del Sole è presupposta nel mito di Fetonte.

59 Od. XXIII 241-6. Per altri esempi in cui una divinità, in occasioni eccezionali, altera la regolare alternanza tra il giorno e la notte, intervenendo direttamente sul corso delle divinità che regolano il loro avvicendarsi cfr. Il. XVIII 239-42 in cui Era accelera il normale corso del Sole, dopo che gli Achei, grazie al potente grido di Achille, sono riusciti a recuperare il corpo di Patroclo appena ucciso e h.

Hom. XXVIII 13-6 in cui è lo stesso Helios a trattenere i suoi cavalli, nel momento della nascita di

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femminile di questi nomi, Lampetie e Faethousa, sono chiamate le figlie di Helios poste a guardia dei suoi armenti nell’isola di Trinachía nell’Odissea60.

Che con Lampo o Fetonte si indichi un attributo del Sole, o uno dei suoi figli, o il nome dei cavalli del carro, si fa sempre riferimento, con diverse immagini, al carattere splendente della luce diurna. Uno stesso concetto può essere quindi inserito in diverse rappresentazioni mitiche, assumendo ogni volta funzioni e aspetti differenti proprio perché – come è stato osservato da Vernant agli albori della sua riflessione sul pensiero greco – nella prima esperienza religiosa greca, i processi di astrazione non coinvolgono la distinzione, formulata in epoca successiva, tra sostanza e qualità. Una qualità divina, infatti, esprimendo una potenza attiva, può definire qualcosa di reale alla stessa maniera di ciò che noi definiamo sostanza61. Allo stesso modo, il ciclico sopraggiungere e venir meno della luce del giorno può essere rappresentato in molteplici modi: alla guida del carro, infatti, possono essere posti sia Helios, che Eos, che le Eliadi e la biga può essere condotta da cavalli provvisti di nome o da anonime cavalle.

La plasticità delle immagini mitiche viene quindi sfruttata da Parmenide per creare una rappresentazione estremamente complessa, portatrice di nuovi significati. Un “uomo che sa”, un giovane, l’autore dell’opera, entra a far parte dell’immagine mitica che tradizionalmente rappresenta la durata della luce diurna sulla terra. Si tratta di un evento straordinario, come appare anche dalla particolareggiata descrizione del movimento del carro, in cui il moto dell’asse nei mozzi, surriscaldato dal vorticoso girare delle ruote, produce uno stridore di zufolo (B 1. 6–8).

Le Eliadi, infatti, durante il loro viaggio diurno, mentre portano la luce, prelevano il giovane – mostrandosi completamente a lui al contrario delle Muse esiodee – e lo integrano nell’immagine solare, in modo tale che egli, partecipando all’azione che viene rappresentata, ne diventa uno degli elementi costituenti, assumendone i tratti caratteristici. Il protagonista del proemio parmenideo, pertanto, non può seguire qualsiasi traccia come l’aedo omerico, ma viene condotto attraverso un percorso divino – quello della luce del sole – che gli permette di vedere e

60

Lavmpon e Lampetivh sono entrambi connessi etimologicamente con lavmpw “give light, shine” e lamprov~ compare tra gli attributi del Sole come portatore di luce (cfr. e.g. Il. I 605).

61

Cfr. Vernant J. P. Abstrait et concret dans l’experience religieuse, introduzione allo schema di tesi (1956-7) letto durante il corso di Antropologia del mondo antico, Pisa, a.a. 2008-2009 (materiale temporaneamente depositato presso l’unità di ricerca di Antropologia del Mondo Antico del Dipartimento di Filologia classica dell'Università di Pisa).

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conoscere, proprio come il Sole, la totalità delle cose che si verificano sulla terra. Questo viaggio, peraltro, rappresentando il percorso del carro solare, ha come meta proprio la soglia del mondo infero, dove il kouros può accedere ad una diversa e più profonda forma di conoscenza che non pertiene al Sole e alle sue qualità62.

2 L’attraversamento della soglia

Nel proemio parmenideo si passa infatti direttamente dall’immagine del movimento vorticoso del carro trainato dalle cavalle e guidato dalle Eliadi, a quella delle porte dei percorsi di Giorno e di Notte, cinte da un’architrave e da una soglia di pietra. Queste due immagini si susseguono tra loro come fotogrammi, senza che venga ben spiegata la loro relazione reciproca. Sembra abbastanza probabile, peraltro, che il pubblico, dopo aver riconosciuto nella prima immagine una forma rielaborata della rappresentazione del carro del Sole in cui è stato integrato l’autore del poema, riconosca nella porta la soglia che separa la dimensione terrena, percepibile e quindi conoscibile dall’uomo, dalla dimensione infera in cui trova collocazione tutto ciò che è assente e perciò non immediatamente accessibile alla conoscenza dell’uomo.

2.1 Le porte dei cammini di Notte e di Giorno e la direzione del viaggio

Questo deve essere stato chiaro già a partire dai primi versi dedicati alla descrizione della soglia che recitano in questo modo: là vi sono le porte dei cammini

di Notte e di Giorno, / e li cingono un’architrave e una soglia di pietra (e[nqa puvlai nuktov~ te kai; h[matov~ eijsi keleuvqwn / kaiv sfa~ uJpevrquron ajmfi;~ e[cei kai; lavino~ oujdov~ vv. 11-2).

Nell’VIII canto dell’Iliade (vv. 10-17), infatti, nel momento in cui Zeus minaccia di precipitare nel Tartaro chi sorprenda tra gli dèi ad allontanarsi dall’Olimpo per aiutare Achei o Troiani, in questo luogo – situato molto lontano, tanto al di sotto dell’Ade quanto il cielo lo è dalla terra – vengono collocate delle porte di ferro e una soglia di bronzo (e[nqa sidhvreiaiv te puvlai kai; cavlkeo~ oujdov~)63.

62

La presenza delle Eliadi e il grande valore simbolico che Parmenide sembra dare alla luce hanno spinto alcuni studiosi a vedere qui rappresentata un’esperienza religiosa di illuminazione, propria di alcune pratiche misteriche. Cfr. infra cap. 4 p. 231 n. 74.

63

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Nell’ampia e più sistematica descrizione dello spazio ipogeico presente nella

Teogonia di Esiodo, inoltre, la medesima soglia viene definita con un’espressione

formulare molto simile a quella omerica: e[nqa de; marmavreaiv te puvlai kai; cavlkeo~ oujdov~ (là poi porte di marmo e soglia di bronzo v. 811) 64.

Anche solo a partire da questi pochi riferimenti testuali, appare evidente il fatto che Parmenide, riprendendo un tale formulario tradizionale, abbia voluto riferirsi alla zona liminare tra la dimensione terrestre e quella infera: le porte dei cammini di Notte e di Giorno. Si tratta, con ogni probabilità, della stessa grande soglia – quella della casa di Notte – che compare nella descrizione degni inferi della Teogonia, “dove Notte e Giorno avvicinandosi / si salutano scambiandosi di posto” (... o{qi Nuvx te kai; JHmevrh a\sson ijou§sai / ajllhvla~ proseveipon ajmeibovmenai mevgan oujdo;n / cavlkeon vv. 748-50): là una tra le due divinità torna nella casa, aspettando il momento del suo viaggio (w{rhn ojdou§ 754), mentre l’altra va sulla Terra, la prima portando la luce che molto vede per i mortali (hJ me;n ejpicqonivoisi favo~ poluderke;~ e[cousa 755), l’altra i suoi figli Sonno e Morte65.

Nonostante le numerose e controverse discussioni relative al percorso e alla meta del viaggio del kouros nel proemio, sulla base dei riferimenti alle immagini tradizionali note a Parmenide e al suo pubblico – come molti studiosi hanno osservato66 – appare abbastanza evidente che le Eliadi, dopo avere abbandonato la

È infatti possibile cogliere alcune differenze nelle sfumature di significato che assumono i termini Ade e Tartaro, a seconda che compaiano nei poemi omerici piuttosto che nell’opera esiodea. In Esiodo, infatti, con il termine Ade ci si riferisce al dio che regna sulle anime dei defunti, mentre, con il sostantivo Tartaro, si indica un luogo dalla struttura complessa, dove vengono reclusi i Titani sconfitti. Nei poemi omerici, invece, Ade può indicare sia il sovrano dei morti che il luogo dove questi trovano la loro definitiva collocazione, mentre il Tartaro sembra configurarsi come uno spazio distinto, la cui funzione essenziale sembra essere quella di ricettacolo delle divinità punite da Zeus. Sulla questione si veda Cerri (1995). Si noti, peraltro, come, nel pensiero mitico tradizionale le porte di Ade assumano un particolare significato in quanto limite e passaggio dalla dimensione dei vivi a quella dei defunti. Si confronti, a questo proposito, l’epiteto di Ade pulavrth~ o le formule del tipo jAi?dao perhvsein / perhvsw o ejcqro;~ gavr moi kei§no~ oJmw§~ jAi?dao puvlh/sin / o{~ ... cui lo stesso Cerri fa riferimento. 64 Si osservi che il ramo k della tradizione manoscritta della Teogonia ha come variante di cavlkeo~, lavino~, lo stesso epiteto che viene riferito alla soglia nel poema di Parmenide. Si tratta chiaramente di una variante tradizionale. Per la nozione di variante tradizionale cfr. Gentili (1984) pp. 297-310 della quarta edizione (Milano 19954).

65

Si veda, a questo proposito, quanto afferma Cerri (1995) p. 89: “In questo orizzonte, la porta del Giorno e della Notte si identificava con la porta dell’Ade, era un luogo ben preciso dell’immaginario collettivo, evocava associazioni mentali altrettanto precise e valori saputi. Qualsiasi poeta avesse usato la formula, sapeva in anticipo che il pubblico non poteva che intenderla nel suo senso tradizionale e convenzionale, in quello cioè di porta dell’Ade, che segna il confine tra mondo dei vivi e mondo dei morti, tra superficie terrestre e spazio ipogeico”.

66

Tra questi si vedano, in particolare Morrison (1955), Burkert (1969), Furley (1973) pp. 1-5, Pellikaan-Engel (1978) pp. 51-62, Sassi (1988a) ripreso in Sassi (2009a) pp. 217-29, Cerri (1995) pp.

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casa della Notte per andare sulla Terra, verso la luce, abbiano prelevato il giovane, nel corso del loro viaggio diurno, per portarlo nel luogo da cui loro stesse sono venute, il luogo in cui, del resto, si pensava che il carro solare trovasse una sua collocazione nel periodo in cui non esercitava le sue funzioni sulla terra. Non appaiono infatti abbastanza convincenti le argomentazioni di coloro che, concependo l’esperienza descritta da Parmenide come una sorta di illuminazione, immaginano il viaggio del

kouros come un percorso verso la luce67.

È vero, peraltro, che uno dei loro argomenti più solidi è stato ripreso, in anni recenti, da Ferrari per sostenere la sua ricostruzione della sequenza narrativa del proemio dell’eleate. Il significato dei vv. 8-10, infatti, differisce sostanzialmente a seconda che si scelga di riferire l’espressione eij~ favo~ “verso la luce” a spercoivato pevmpein “si affrettavano a scortarmi” o al participio prolipou§sai “avendo lasciato” con cui si allude al momento in cui le Eliadi, prima dell’incontro con il giovane, lasciano la casa di Notte. Nel primo caso, infatti, verso la luce sarebbe diretto il carro con il kouros, scortato dalle Eliadi. Nel secondo, invece, eij~ favo~ indicherebbe la direzione in cui le sole Eliadi si volgono nel momento in cui lasciano la casa infera di Notte e si dirigono verso le regioni supere e luminose per prelevare il giovane e ricondurlo nel luogo da cui il loro viaggio è partito. Secondo Ferrari la seconda ipotesi sarebbe da respingere perché le cavalle e il carro, costituendo l’immagine metaforica del carro della sophia, non possono essere concepite e descritte indipendentemente dall’autore, ma devono essere inscindibilmente unite a lui. Lo studioso sostiene, pertanto, che la sequenza del racconto, nel proemio, non coincida con quella della narrazione: il viaggio descritto nei primi versi indicherebbe un momento successivo 87-96 poi in Cerri (1999) pp. 96-110, Kingsley (1999), Gemelli Marciano (2009), Palmer (2009) pp. 52-61.

67 L’ipotesi di una collocazione celeste del viaggio e della sua meta è prevalsa soprattutto tra i primi interpreti del proemio, a partire da Diels (1897) e da Kranz (1916), passando per Jäeger (1947) pp. 95-98, Guthrie (1965) pp. 9-10, Bowra (1937). Contro l’ipotesi di una catabasi e in favore di un viaggio verso una porta celeste si è poi schierato di recente Kahn (2009) pp. 210-5. Per una schematica contrapposizione tra i punti a sostegno di questa lettura e quelli in favore della rappresentazione del viaggio del kouros come catabasi, si veda Mourelatos (1970) pp. 14-6 della seconda edizione (Las Vegas-Zurich-Athens 20082), il quale, tra l’altro, giunge alla conclusione che Parmenide abbia

volutamente costruito, nel suo proemio, una topografia che mischi insieme elementi che spingono verso una collocazione supera della meta del viaggio e elementi che invece portino a leggervi un percorso verso il basso, in modo tale che sia impossibile l’identificazione di luoghi e persone sulla base della mitologia nota attraverso l’epica tradizionale. Nella stessa direzione Miller (2006) pp. 18-24. Buone rassegne sulle varie ipotesi relative alla direzione del viaggio del kouros e sulle diverse interpretazioni del proemio, in generale, compresa quella allegorica e quella sciamanica, si trovano in Couloubaritsis (1986) alle pp. 76-129 della seconda edizione (Bruxelles 1990) e in Pellikaan-Engel (1978) pp. 63-78.

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rispetto all’incontro con la dea, in modo tale che il poeta-sapiente sia rappresentato mentre percorre il cammino che conduce “colui che sa” per tutte le città, solo dopo essere stato istruito dalla divinità. Soltanto dopo l’esperienza iniziatica dell’incontro con la dea il protagonista della narrazione proemiale può infatti – secondo Ferrari – attraversare la strada riservata a coloro che sanno68.

Ora, se è vero che il carro descritto nel proemio parmenideo può venire associato al carro della poesia / sophia – difficilmente concepibile separatamente dal poeta che vi viene condotto – e che la forza delle cavalle che lo trainano sembra dipendere direttamente dalla spinta del qumov~ dell’autore, è anche corretto dire che – come si è visto – la stessa immagine può essere associata a quella del carro del Sole, che invece gode di una sua tradizionale indipendenza e può essere concepita indipendentemente dalla presenza del poeta. Secondo la nostra ricostruzione, infatti, il protagonista del proemio verrebbe integrato nell’immagine tradizionale del cocchio solare solo dopo che le Eliadi hanno abbandonato la dimora di Notte e hanno intrapreso il loro regolare percorso diurno. È vero, inoltre, che l’enfasi posta sulla rappresentazione del carro, sul movimento vorticoso delle sue ruote e sulla natura del percorso che segue (vv. 1-8) sembra adattarsi meglio a descrivere il carattere eccezionale del difficile cammino che porta all’incontro con una dea – al di là dei limiti del mondo normalmente accessibile all’uomo – che a rappresentare il viaggio dell’iniziato che diffonde orgogliosamente per ogni dove il sapere divino a cui ha appena avuto accesso. Il fatto che la dea stessa, poi, sottolinei l’eccezionalità della strada percorsa dal giovane per arrivare fino a lei, definendola come una via “ben lontana dal tracciato degli uomini” (h\ ga;r ajp jajnqrwvpwn ejkto;~ pavtou ejstivn v. 27), si spiegherebbe meglio se venisse riferita alla rappresentazione del viaggio straordinario descritto nei primi versi del proemio. Il carattere eccezionale di questa esperienza, peraltro, ben giustificherebbe il fatto che il protagonista del proemio venga riconosciuto come “colui che sa” già prima di incontrare la dea: non tutti, infatti, possono venire istruiti direttamente da una dea, ma solo colui che già ha le qualità conoscitive necessarie per percorrere il cammino che permette di raggiungerla69.

68

Per questa lettura del proemio cfr. Ferrari (2003), Ferrari (2007) pp. 97-114, Ferrari (2010) pp. 150-66. E già in questa direzione Havelock (1958) p. 117.

69

Sul significato tecnico di eijdw;~ fwv~ cfr. infra cap. 3 p. 110 n. 13. Cosgrove (2011) ha peraltro sostenuto che la formula eijdw;~ fwv~ nel poema parmenideo, definisca l’uomo dedito alla ricerca secondo il metodo tradizionale basato sull’osservazione visiva della realtà e che, quindi il viaggio descritto nei vv. 1-4 definisca la tradizionale ricerca di un uomo che si presenta come l’esponente

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Per giungere al luogo dell’incontro con la dea, il kouros deve quindi attraversare – scortato dalle divinità solari – la soglia dei percorsi di Giorno e Notte, che viene così ad assumere un ruolo fondamentale all’interno del suo viaggio, ponendosi come punto di passaggio da una dimensione del reale, simbolicamente legata alla luce, corrispondente – a quanto sembra – a una certa qualità di conoscenza, ad un’altra da cui attingerà, attraverso il discorso di una divinità, una forma di sapere completamente nuovo. Prima dell’immagine finale dell’arrivo del kouros, guidato dalle cavalle e dalle Eliadi, al cospetto della dea, il proemio è occupato pertanto dalle due grandi immagini del viaggio sul carro solare e dell’attraversamento della soglia.

2.2 Il punto di incontro tra i tre livelli del cosmo

Uno degli elementi che ha reso particolarmente complessa la collocazione di questa porta sembra essere legato al fatto che Parmenide, volendo porre in evidenza la rappresentazione di questa soglia come punto di incontro tra la luce solare del giorno e la Notte oscura, abbia inserito nella sua descrizione dei tratti, a prima vista, non facilmente spiegabili. Anche in questo caso, infatti, Parmenide sfrutta la plasticità delle immagini mitiche per inserirvi varianti e particolari portatori di un nuovo significato.

Questo luogo viene subito definito e presentato come porta dei percorsi di Giorno e Notte. In un secondo momento, la semplice rappresentazione tradizionale delle porte e della soglia assume una forma più complessa, in cui una soglia di pietra cinge, insieme all’architrave, le porte, in modo tale che l’esplicito riferimento al limite superiore e a quello inferiore dia all’immagine quel carattere di compiutezza, che costituirà una delle qualità fondamentali dell’ontologia parmenidea70.

Al verso successivo, poi (v. 13), Parmenide fornisce nuovi elementi per identificare i limiti segnati dall’architrave e dalla soglia petrigna, sfruttando, anche in questo caso, il carattere flessibile delle immagini mitiche. In Omero e in Esiodo, infatti, le porte degli inferi sono rispettivamente “di ferro” (sidhvreiai) e “di marmo” tipico della iJstorivh ionica. Solo a partire dal v. 5 verrebbe narrata una deviazione da questo viaggio – simbolo della ricerca tradizionale – per accedere, dopo un viaggio lontano dalla pista degli uomini, ad una forma nuova di conoscenza grazie all’incontro con la dea.

70e[nqa puvlai Nuktov~ te kai; [Hmatov~ eijsi keleuvqwn / kaiv sfa~ uJpevrquron ajmfi;~ e[cei kai; lavino~ oujdov~ B 1.11-2. Per l’importanza dell’immagine della sfera nel discorso veritiero cfr. infra cap. 3 pp. 185-96.

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