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2 : IL LINGUAGGIO DELLA PROSPETTIVA COME METAFORA RETORICA

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2 : IL LINGUAGGIO DELLA PROSPETTIVA COME METAFORA RETORICA

Dimmi come ti configuri rispetto alla retorica e ti dirò chi sei. Renato Barilli

I

Nelle mani di Arcimboldo, la stilistica legata al dominio dell’eccesso e dell’eccentrico andava a influire anche su un genere mimetico come quello del ritratto. Le sue Stagioni (quattro tele eseguite nel 1566) sono figure di profilo, che tuttavia combinano la piattezza della sagoma bidimensionale con la scarsa profondità di dettagli volumetrici, così da sottrarre loro l’integrità. Un’accumulazione di forme così eccessiva tradiva un’inclinazione al grottesco, che fondeva e confondeva ritratto, paesaggio e natura morta. Malgrado l’estroso assemblaggio di oggetti naturali e artificiali, i profili di Arcimboldo si stagliano su sfondi aprospettici. Le forme che contribuiscono a creare l’insieme anatomico riescono a mantenere la loro profondità, ma l’effetto predominante è quello di una superficie affollata, in cui lo scarso spessore del primo piano e la bidimensionalità del piano medio e dello sfondo sono esperimenti con l’ambiguità.

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Giocando sul confine tra i valori superficiali delle linee planimetriche e la profondità dei dettagli volumetrici, Arcimboldo creava un universo pittorico in cui poteva manipolare idea e realtà senza doversi vincolare all’una o a l’altra1

. Giacché sia i teorici che i mecenati si dichiaravano amanti del bizzarro, gli artisti amavano giocare con gli equivoci spaziali, e l’originalità portava alla sperimentazioni con forme sia graziose che sgraziate. Le teste «arcipelago» di Arcimboldo, potevano davvero conferire una fierezza tutta manierista al‘pittore misto’, un artefice del meraviglioso al quale G. A. Gilio affidava il compito di mischiare «cose vere e false» (Trattati, 3:16). La realtà poteva essere manipolata svariate volte nel dedalo senza uscita della mente umana, in cui i demoni della fantasia corteggiavano le ibride proliferazioni dell’irregolarità2

.

Una dopo l’altra, le figure grottesche di Arcimboldo mostrano particolari che vanno a ricollegarsi ai loro titoli: così, dei rami spogli formano L’Inverno (1563, fig. 1). Ciò da luogo a una duplice illusione: la natura appare antropomorfa, mentre i tratti del volto naturali ma non umani aquistano una loro concretezza fisiognomica.

In un momento in cui Leonardo sfruttava le potenzialità della distorsione e della mostruosità nei suoi disegni di tipi umani «bizzarri», il Giambologna scolpiva animali in bronzo e Caravaggio di lì a poco avrebbe presentato un cesto di frutta come legittimo soggetto della rappresentazione pittorica, Arcimboldo tornava alla subordinazione umanistica della natura all’uomo. Sotto forma di Elementi (1563), Stagioni o Mestieri (1574) il pittore milanese riusciva a osservare la realtà solo attraverso la figura umana. Nel giocare allo stesso modo con l’irregolarità e la mimesi, il suo originale approccio metteva in rilievo l’interazione tra falso e probabile.

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II

Il sistema umanistico della prospettiva lineare trasformava gli oggetti in forme proporzionali, per cui corteccia e tessuto, tronco d’albero e gamba, ghirlanda e cerchio, avevano in comune un’omogeneità relazionale, proprio come nel Battesimo di Cristo di Piero della Francesca (1440-50). Arcimboldo inoltre, rendeva possibile l’utilizzo di animali e vegetali per formare un naso, fino a che le loro forme rimanevano anatomicamente realistiche. Per citare Roland Barthes:

il pittore non si stanca mai di utilizzare forme nuove per rappresentare la solita cosa. Vuole dipingere un naso? L’enorme quantità di sinonimi a sua disposizione permette all’artista di scegliere un ramo, una pera, una zucca, del grano, un fiore o un pesce3.

L’interesse non è concentrato solo nel pesce o nel naso, ma sulla volontà di prendersi gioco del concetto stesso di reciprocità. Ogni forma è simile e allo stesso tempo dissimile dalle altre. La similitudine diveniva un concetto ‘bifronte’e la precedenza era data agli effetti metaforici.

La stravaganza era una fonte d’ispirazione per Arcimboldo, il quale nell’Ortolano subordinava gli oggetti ai loro mutamenti di direzione. Sfruttando la duplicità e la reversibilità, l’artista rende la tela allo stesso tempo un ritratto grottesco e una natura morta. Per quanto astratta, la prospettiva lineare accettava lo spazio come legame gravitazionale tra l’uomo e la realtà. Per Arcimboldo invece l’unico centro di gravità era la propria mente, in cui l’eccentricità regnava sovrana. Era l’epoca in cui la rivoluzione copernicana poneva fine alla visione geocentrica dell’universo e non si poteva certo incolpare l’arte se non riusciva a stabilirne una nuova.

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L’immaginazione era alimentata da trasgressioni di ogni genere, e le arti erano travolte da una una nuova poetica della sorpresa. Gli artisti facevano dell’insolito la principale modalità d’invenzione, allo scopo di suscitare stupore. Tra il 1566 e il 1571 Giacomo Zanguidi, conosciuto come il Bertoia, affrescò un’angusta sala del Palazzo del Giardino di Parma con colonne di vetro trasparente, e Michelangelo tra il 1524 e il 1534 pose doppie colonne nella parete del vestibolo della Biblioteca Laurenziana. In questa stessa biblioteca, la scalinata del Vasari, eseguita tra 1555 e il 1568 (fig. 4), discende come un fiume di lava. Mentre gli spazi interni ed esterni vanno a inter-penetrarsi nel vasariano Ninfeo di Villa Giulia (eseguito a Roma dopo il 1552; l’effetto «grotta» nella Sala dei Giganti del Palazzo Tè a Mantova, affrescata da Giulio Romano e terminata nel 1534, elimina la funzione di sostegno del soffitto e delle pareti. Inoltre, le mezze finestre lungo la parte inferiore della sua casa mantovana, danno l’impressione che l’intero edificio stia per sprofondare nel terreno.

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Michelangelo Buonarroti, Vestibolo della Biblioteca Laurenziana e scalinata del Vasari, 1555-68, Firenze.

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A Villa D’Este, presso Tivoli, tra il 1566 e il 1569 Pirro Ligorio diresse la costruzione delle grotte situate a piano terra, mentre il percorso a caverna vicino all’organo ad acqua, conduceva gli spettatori attraverso acquazzoni scatenati da una meteorologia artificiale4 .

La percezione era sconvolta oltre il livello della plausibilità, e la stessa nozione di sopra e sotto perdeva molta del suo peso. Leonardo da Vinci aprì la strada alla prospettiva eccentrica quando eseguì i primi schizzi anamorfici della testa di un bambino e di un occhio. Esercizi prospettici simili favorirono irregolarità mostruose. Inizialmente, Leonardo e Dürer impiegarono l’anamorfosi come curiosità tecnica, ma presto questa divenne un utile strumento per riprodurre effetti di distorsione ottica, e una filosofia della falsa realtà che andò a sostituire il simbolismo umanista della prospettiva lineare come certezza intellettuale. Il Trompe-l’oeil e l’anamorfosi trasformarono la prospettiva in ciò che Gustav René Hocke ha definito «percettivismo» (Perspektivismus)5. Poiché tenta di esprimere il vuoto epistemologico di forma come contenuto e contenuto come forma, un termine così ambiguo si riferisce alle distorsioni visive di una mentalità dal carattere ludico.

Nella sintassi pittorica arcimboldesca, le parti sono ben evidenti a una distanza molto ravvicinata, mentre l’insieme prende vita a distanza. Emerge così un doppio linguaggio, chiaro e misterioso allo stesso tempo. A qualsiasi distanza l’osservatore si ponga, le figure favoriscono la reversibilità: il pesce svela un naso, che indubbiamente è costituito da un pesce. Immagine e significato quindi oscillano tra visione ottica e discernimento intellettuale. Allo stesso modo, l’imponente massa di rocce che costituisce il dio Appennino, eseguito dal Giambologna presso

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Pratolino (vicino Firenze) è d’efficace impatto se osservata da una certa distanza, ma si dissolve in un’enorme miriade di dettagli se la si osserva più da vicino. Lo spettatore, nella doppia veste di partecipe e interprete, era così prigioniero di bisticci retorico-prospettici. Le opere d’arte erano destinate al piacere, presto questo generò un clima di compiacimento piuttosto divertente che andava ad avvalorare la teoretica enfasi posta da Castelvetro sul delectare piuttosto che sul docere6.

III

Spostando la nostra attenzione sui mutamenti tra livello letterale e concettuale di significato, l’opera di Arcimboldo l’Acqua (1566) rappresenta un busto formato da un ricchissimo assemblaggio di animali marini. Il soggetto è contemporaneamente illustrato dalla percezione d’insieme ottenuta da una certa distanza, e negato dal predominio delle singole parti da vicino. Il profilo umano situato tra il particolare e il generale, delinea una metafora ambigua. Ogni forma è portatrice di una doppia verità: una pertinente a se stessa e una legata alla sua appartenenza a un insieme anatomico. La personificazione si basava su meccanismi di spostamento che andavano a sconvolgere i principi della chiarezza. Proprio come le singole parole possono essere polisemiche, così anche i dettagli pittorici potevano significare una cosa ma fungere da un’altra7

. La loro stabilità semantica era messa alla prova oltre i limiti delle ragionevoli

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denotazioni. Pesce e acqua, cioè, oggetto e idea, si prendevano gioco sia dei principi di relazione che di esclusione.

Roland Barthes scrive che ogni volta che Arcimboldo utilizza un pesce per formare un naso o una bocca (come nel caso dell’Acqua), l’artista sfrutta una figura retorica, l’antanaclasi, in cui una data parola è ripetuta con un significato diverso. Allo stesso modo, quando il dorso di un coniglio è modellato come un naso (ad esempio nella Terra) entra in gioco l’annominazione, che evoca una cosa tramite un’altra avente la medesima forma. A modo suo «Arcimboldo è un retore e le sue tele possono essere considerate un autentico laboratorio di tropi»8. L’Acqua è un’opera così piena di pesci e conchiglie, che il principio della contiguità visiva arriva ad avvicinarsi molto all’eliminazione dei vincoli retorici operata attraverso l’uso dell’asindeto. Questa figura retorica costringe il lettore a saltare da un dettaglio all’altro. Arcimboldo sfruttò anche le potenzialità della sineddoche, una figura retorica in cui si menziona la parte per il tutto, come nel caso di fiori e radici secche per simboleggiare l’estate o l’inverno. Le arti andavano così a sfruttare le tecniche di accumulazione e sostituzione.

Il fuoco (1566), rappresentando l’azione o il suo risultato al posto dell’agente, ha un valore metonimico, in quanto i capelli della figura sono costituiti da un fascio di ramoscelli in fiamme. Se l’uomo-fuoco è l’agente, lo stoppino acceso è il prodotto, che a sua volta produce il fuoco; attraverso questa metafora incandescente la metonimia ha fatto quindi il proprio corso. Inoltre, le pistole e i cannoni creano anche un gioco di parole che ruota attorno ai termini fuoco e armi da fuoco. In questo caso la paronomasia genera un approccio ludico all’etimologia, che lega la modernità delle armi da fuoco ai primi atti d’ingegnosità tecnologica, ancora collegati al fuoco.

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Fiammiferi, fuoco e armi da fuoco, entrano nel quadro, attraverso livelli di significato psicolinguistico che tendono a legare le cause agli effetti. Mentre la metonimia trova un limite nell’evidenza del mondo esterno, le metafore mettono alla prova le risorse dell’immaginazione. Per tenere il passo dell’oggetto, il significato si espande in un’esplosione di dettagli, che contraddistinguono la sintetica storia del fuoco come una forma primitiva d’armamento. Come suggerirebbe Derek Attridge, da un punto di vista retorico il titolo e il significato della tela possono essere considerati sia una storia mondiale diacronica che un gioco di parole sincronico9. Arcimboldo, con suo grande piacere, è riuscito a mischiare le due cose in modo tanto perfetto da non permettere né all’una né all’altra di predominare.

Nell’opera arcimboldesca Erode la metonimia permette di rendere visibili sulla testa gli effetti di una fatale decisione. In questa tela il volto dell’infamia è composto di corpi di bambini. Attraverso un processo di miniaturizzazione, la figura retorica ha ridotto un evento storico a un’unica immagine. Il concetto stesso di mimesi è stato capovolto10. Ironicamente, l’aspetto vermicolare delle innocenti vittime ne intensifica il torpore causato da colui che li ha condotti a una tragedia comune. In un certo senso la metonimia ha superato se stessa, poiché la metafora visiva ha permesso alle singole parti di comunicare un insieme di significati che vanno dalla colpa e la vergogna all’omicidio. Dagli schemi pittorici ai tropi letterari implicanti l’eliminazione, la sostituzione, la permutazione, l’estensione, la restrizione e lo spostamento, la tecnica fa ricorso alla mise en miniature di ciò che Gilbert Durant definisce l’eufemistico spazio del fantastico, molto noto agli orafi e collezionisti d’arte manieristi11

. La mimesi, molto spesso, era degradata a un concetto riduttivo che favoriva la frammentazione e l’intensificazione.

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IV

Per dirlo con le parole del Comanini, i capricci manieristi portarono alla luce «cose che non hanno l’essere fuor della mente». Schierato com’era Arcimboldo contro ogni tentativo di mimesi diretta della natura, Flora e Vertumno furono dipinti da un «ingeniosissimo pittore fantastico» (Trattati, 3:257). La fantasia, poiché favoriva l’invenzione piuttosto che l’imitazione, spingeva spesso l’originalità verso l’eccessività del grottesco. Al principio del XVI secolo, scrive Michael Levey, «l’invenzione significava sfidare conapevolmente la natura, e l’arte doveva essere capace di andare al di là dell’imitazione»12

. Benedetto Varchi fece una netta distinzione tra forme sostanziali e contingenti: le prime hanno un carattere mimetico, mentre l’origine delle seconde è da ricercarsi non «nelle cose ma in colui che le fa»13. Dato che supera l’uniformità della natura, la contingenza ricorre alla fantasia, che Martin Kemp descrive come una «immaginazione attiva, capace di fare combinazioni e ri-combinare continuamente impressioni sensoriali, dando forma a nuovi composti in un’infinita abbondanza»14

. L’emulazione produceva capricci, ghiribizzi e grottesche che ostentavano il proprio carattere artificiale attraverso una sconfinata gamma di sembianze grottesche.

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Parecchi disegni (L’agricoltura; La cucina) e dipinti arcimboldeschi (Il Cuoco; Il Fuoco) s’inserivano nella ricca tradizione degli apparati e degli automi15. L’artificialità andava così a operare in una zona franca anticlassica, dove il grottesco rasentava il territorio delle scienze sperimentali16. Dall’apparentemente organico al palesemente meccanico, le figure di Arcimboldo mantengono un’attenzione incredibile sui particolari. Il ritratto «tecnologico» del Bibliotecario potrebbe essere posto al principio di una linea che include i disegni «cubisti» di Cambiaso (anni ’90 del 1500) e i giocatori di tennis fatti con racchette da gioco eseguiti da Bracelli (Capricci, 1624). Sopravvissuto a coloro che scrivono libri e mandano avanti la civiltà, il bibliotecario è un simbolo indistruttibile dell’emergente proliferazione di libri. Invece di rappresentare artisti a lavoro in piena attività creativa, come da stile barocco, (Cervantes, Velázquez) Arcimboldo scelse di sostituire la scrittura creativa con il collezionismo librario, l’inventario invece dell’invenzione.

Il bibliotecario è letteralmente fatto di libri. Come tropo in cui le parti stanno per il tutto, la sineddoche è così ricca che sembra proprio esigere il contesto di una collezione. Il libro simboleggia sia il bibliotecario che la biblioteca. All’inizio la maschera o mascheramento antropomorfo, sembra mischiare antico e nuovo, con l’ostentazione di raffinati segnalibro simili a vessilli cavallereschi in miniatura. In profondità, la figura non dispone di una personalità tale da rivendicare una statura morale o intellettuale. Gli anonimi volumi, vanno a presentare il libro come un oggetto in cui i molti segnalibri ne segnalano solo la consultazione ma non identificano autori o titoli.

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Durante tutto il XV secolo Botticelli, Carpaccio, Antonello da Messina e Pedro Berruguete presentavano come studiosi e figure prominenti, Jerome Augustine e Federico da Montefeltro. Nel Cinquecento invece iniziarono a essere in primo piano l’ambito delle biblioteche e dei libri (Arcimboldo, Doni)17. Il qualitativo divenne quantitativo. In un momento in cui la stampa era sul punto di dare alla conoscenza una portata universale, i libri si diffondevano nell’intimità delle case. Una tenera cura guidava le dita di dame cinquecentesche nello sfogliare tomi petrarcheschi dalle intatte tracce manoscritte, come nell’opera di Andrea del Sarto Dama con il petrarchino e nel Ritratto di Laura Battiferri del Bronzino18. Per contro una poesia di Bettino Trizzo lodava il «nuovo modo di far libri in abondantia». In qualche modo, un tale affastellamento doveva incidere sulla produzione artistica e si può sostenere che le «maniere» abbiano accettato la sfida e, in particolare quella arcimboldesca e petrarchesca, la vinsero. In un periodo temporale relativamente breve, la grande quantità di materiale stampato permise ai libri di circolare in un mondo autonomo. L’abbondanza, se non l’eccesso, andò a influenzare allo stesso modo sia la produzione che la recezione.

Da Cervantes e Velázquez a Vermeer, gli artisti barocchi erano interessati alla creativa attività di penne e pennelli, mentre la struttura fatta di tomi che caratterizza Il Bibliotecario, dimostrava come lo studiolo non fosse da intendere tanto come un luogo di crescita intellettuale, ma come una stanza in cui accumulare volumi. Nonostante si trovi in un luogo di concentrazione di strumenti del sapere il bibliotecario non è in grado né di assimilare conoscenza, né di metterla a frutto. Senza un nome, egli esiste come la vuota sagoma di un «es» professionale. Astutamente le questioni tecnologiche hanno sopraffatto quelle relative alla cultura, la conoscenza e l’ideologia.

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Dagli studioli alle Wunderkammern gli artisti si concentravano in spazi in spazi in cui la compresenza di forme eterogenee incideva sull’integrità di tempo, genere e rappresentazione. Non è certo una curiosità ricordare come Arcimboldo abbia trascorso la maggior parte dei suoi anni più proficui (che vanno dal 1562 al 1587) presso la corte di Rodolfo II, la cui wunderkammern, come la Raritätenkabinett di Bertonio e la grosse Kunstkammer del duca Ferdinando del Tirolo, avevano lo scopo di accogliere il bizzarro e l’innaturale. A sud delle Alpi, lo studiolo di Francesco I a Firenze, presso Palazzo Vecchio, doveva servire da gabinetto di oggettistica rara e preziosa. Rientrava nei doveri di Arcimboldo occuparsi dell’acquisto di reperti antichi, oggetti artistici e animali esotici per i mecenati, cultori delle curiosa artificialia romane. Non è affatto una coincidenza che Atanasius Kircher possedesse egli stesso una wunderkammer, e il suo quadro-puzzle Campus antropomorphus (1646) rappresenta un aggiornamento dei paesaggi antropomorfi di Arcimboldo.

Questi luoghi artificiali portavano nello scenario cumulativo di una memoria enciclopedica tutto ciò che la storia e la geografia avevano disseminato lungo il tempo e lo spazio. Lo stesso atto della «museificazione» fissava in una condizione d’immobilità una serie di oggetti posti l’uno accanto all’altro19

. Questa posizione contigua li rendeva molto simili alle tessere che compongono i ritratti di Arcimboldo. In entrambi i casi, l’arte ricorreva a un linguaggio disgiuntivo capace di dare un inaudito senso di unione, se non di appartenenza, a ciò che era da sempre esistito 20. Verso la fine del XVI secolo, il gusto culturale in entrambi i lati delle Alpi sottopose ad analisi il mondo del meraviglioso, e gli interessi per gli aspetti formali spesso presero un percorso proprio.

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V

La mimesi divenne un artificio retorico sulla scacchiera pittorica di Arcimboldo, che amava scherzare con le trasgressioni e gli spostamenti. Secondo la famosa similitudine di Ferdinand de Saussure, il linguaggio è come una partita a scacchi, e Arcimboldo era davvero un ottimo giocatore. Per amore del virtuosismo, è arrivato a violare i rigidi principi della pittura fino al punto che l’oggetto si nascondeva, la prospettiva tradiva la forma e la composizione si svincolava dalla mimesi.

La sperimentazione così divenne fondamentale per una «bella maniera» che parodiava quella «moderna» di Raffaello e Michelangelo. Durante il XVI secolo era di moda apporre il suffisso –esco ai maestri che facevano scuola. La terminologia artistica era costellata di neologismi che accentuavano l’aspetto aggettivale piuttosto che quello nominale: raffaellesco, leonardesco, bernesco ecc. Le fortunate «maniere» trasformavano le questioni relative al soggetto in variazioni stilistiche note come ghiribizzi, capricci e bizzarrie.

Invece d’incrementare l’unità delle idee, il principio dell’ut pictura poesis divenne un meccanismo di scambi formali tra le arti. Come anche altri artisti Arcimboldo creava un’arte dai materiali di un’altra21. Con il passare del tempo, il successo di un’invenzione (come ad esempio i capricci) si consolidava in cliché. Il risultato, come sosterrebbe Jean Cohen, è quello tipico delle forme artistiche che si alimentano di figure retoriche: inevitabilmente la «poetica strutturale» risveglia «il temibile spettro della macchina, della produzione automatica22». Il consenso generale, in qualche modo riusciva a disciplinare l’eccesso.

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Il linguaggio era il campo di battaglia di questi scambi, e Arcimboldo sembra essersi divertito a giocare con la sua semantica. La retorica aveva la precedenza sul significato, e il lessico della pittura andava così ad acquisire un carattere tautologico. La letteratura fece lo stesso. Ugo Scoti-Bertinelli ha richiamato l’attenzione sulla «manierata» verbosità del linguaggio del Vasari23, infarcito di espressioni come: «varia diversità, discordante concordia, disgraziatissima grazia, havuto s’avesse, avuto non avevamo». Anton Francesco Doni, nella sua Libraria24 del 1557, scriveva che molti libri non sono altro che una «ruota di parole che rimescola parole con altre». La ridondanza diventava auto sufficiente una volta che il linguaggio si dimostrava tendente alla trasgressione e all’ambiguità. Esso in realtà si allontanava dalla sua «origine» e la sua sottaciuta natura ambigua minacciava la sicurezza con la quale comunemente lo si usa25.

Nel suo dibattito sul poema eroico (1562-64), Tasso difendeva la Retorica aristotelica dai suoi molti cattivi usi. Per quanto decisamente critico nei confronti degli istrioni e della teatralità, egli lodava gli artifici letterari. L’uso eccentrico che Tasso faceva del linguaggio era congruo con quello che veniva fatto della prospettiva. Mentre l’eccellenza di stile si basava sul «parlare obliquo o distorto», duplicare le parole era «ancora ornamento ch’arricchisce e fa magnifica la poesia». Il replicare poteva avvenire a inizio o a metà verso, e la «voce raddoppiata» arricchiva particolarmente l’espressione, (particolarmente gonfia il parlare la voce raddoppiata)26. Sembra davvero istituirsi un confronto tra la grammatica multipla del linguaggio visivo arcimboldesco e la sua controparte letteraria. Ciò può costituire un valido argomento a sostegno del concetto di prospettivismo proposto da Hocke.

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Per definizione, il termine «ghiribizzi» si riferisce a qualcosa che non esiste, e si credeva che essi scaturissero da menti inclini a ricercare «ciò che non possiedono27». Parlando di trasgressioni di genere, i capricci e i ghiribizzi possono far riferimento a variazioni su un tema o dalla normalità, atteggiamenti anti-convenzionali, a tutto ciò che si contrappone alla verità o alla natura, o anche a un profilo ridicolo. Con il passare del tempo, la tecnica ha talmente influenzato il genere, che Francesco Patrizi l’ha associata a categorie emotive, più che a regole aristoteliche. Il prodigio poetico acquisiva un consenso alimentato dall’eccentricità.

Come il capriccio e il ghiribizzo, anche la bizzarria rasentava un campo associativo che andava dal dominio del fantastico a quello dello stravagante. Verso la fine del XVI secolo, il termine bizzarro definiva una categoria formale in un contesto di profondo interesse per certe forme eccentriche, come quella strana, contraffatta, ingegnosa, caricaturale e iperbolica. Le dodici fonti del meraviglioso illustrate da Patrizi, includevano la novità, il paradosso, l’aumentazione, l’inusuale, il sovra-naturale e l’inaspettato. Queste forme più che essere rivoluzionarie erano irregolari, e spesso si trovavano negli spazi tra le fasce generiche che separavano ritratti, paesaggi, «rustici» e nature morte. Pertanto, il Guarini poteva mischiare stili drammatici nel Pastor fido (1590) e nel Compendio delle poesia tragicomica (1599) mentre Mario Bettini creava immagini anamorfiche e scriveva una tragedia comica-satirica-pastorale: la Hilarotragoedia Satyropastoralis28.

Nella premessa al terzo libro delle Vite vasariane, si sostiene che la perfezione artistica scaturisca sia dalla regola che dalla licenzia.

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Agli artisti mancava ancora, entro i limiti imposti dalle regole, una libertà che mancandoci ancora nella regola una licenzia, che non essendo di

regola fosse ordinata nella regola e potesse stare senza fare confusione o guastare l’ordine.

Il peso di autorità come Leonardo, Raffaello e Michelangelo era fatto gravare sulla contrapposizione generica di regola e antiregola, tipica dei capricci manieristi. Vasari non incoraggiava la libertà assoluta ma una libertà oltre la regola. Anche Comanini sosteneva che la «sprezzatura artificiosa» avrebbe allontanato l’idea dell’armonica simmetria di «contraposto con contraposto» e di antitesi con antitesi. Per converso, le forme «prive di corrispondenza» (Trattati, 3:362) sarebbero state contrapposte alla natura prevedibile del discorso e della proporzione. Vincenzo Danti aveva questo obiettivo in mente quando definiva la proporzione artificiosa: «la proporzione delle cose ineguali sarà sempre più artifiziosa e causerà maggior bellezza che non farà quella delle cose eguali» (Trattati, i:234)29. L’eccesso iniziava dove finiva la norma e aveva quindi un carattere subordinato. Per quanto stupefacente, il suo risultato non era una sfrenata originalità, ma una creatività piuttosto parassitica, consona alla pigrizia mentale di società salottiere parimenti a proprio agio a Fontainebleau e nella Praga rodolfina.

Che si tratti di un dipinto o di un componimento poetico, l’impressione di sorpresa che si provava di fronte a opere arcimboldesche, si avvicinava a quella che Patrizi definiva la facoltà della meraviglia (la potenza ammirativa) dalla mera funzione iperbolica. L’arte inganna e noi ci lasciamo ingannare volentieri. Mentre la prospettiva lineare restituiva agli osservatori immagini di chiarezza cognitiva, Arcimboldo li poneva nel più

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sfuggente crocevia di piani epistemologici. In qualsiasi momento, l’artista milanese si divertita a mistificare la realtà. La sua propensione alle sostituzioni bizzarre era particolarmente evidente a livello superficiale, dove il suo testo-tableau era più incline a essere retoricamente non sequenziale e pittoricamente non spaziale30.

VI

Con Arcimboldo, il significato simbolico della metafora prospettica (vedere chiaramente è sapere con certezza) portò a un interesse nei confronti degli aspetti meccanici dell’illusionismo pittorico. La pictura estese il proprio autonomo potenziale fino al limite. I soggetti della prospettiva cessarono di essere lineari e divennero «curiosi» e il linguaggio metaforico fece di conseguenza. Per citare Kenneth Burke:

La metafora è uno strumento per vedere qualche cosa in termini di qualcos’altro. Svela l’ecceità di una cosa e la realtà di un’altra. 31

L’eccesso diveniva una vera e propria metodologia, la tecnica si cimentava con il misterioso, ricercava la sproporzione e alimentava il virtuosismo.

Interessato più ai dettagli che all’insieme delle istorie umaniste, Arcimboldo si concentrò sui principi basilari della retorica. Cicerone aveva fornito il modello di queste operazioni, separando gli argomenti estrinseci da quelli intrinseci. I primi dipendono dall’autorità esterna, mentre i secondi sono inerenti al soggetto sotto forma di definizione, enumerazione di parti,

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termini affini, contraddizioni e paragoni con eventi importanti. In termini visivi, gli argomenti «intrinseci» corrispondono ai titoli delle opere di Arcimboldo, alle sue liste-agglomerati di animali, fiori, utensili, armi da fuoco, e alla storia della testa di Erode. Con buona pace delle speranze ciceroniane di far andare la filosofia al passo con la retorica, durante il XVI secolo spesso la seconda prese il sopravvento 32.

Il concetto albertiano di prospettiva può essere definito una «metafora cognitiva»33al punto che riesce a ricreare il mondo esterno. L’Alberti, poiché credeva nella chiarezza visiva portata della certezza intellettuale, poneva la vista e la conoscenza sullo stesso piano. Quell’assioma era d’importanza fondamentale per il simbolismo legato alla prospettiva lineare. Nel mondo dell’arte, i gesti rappresentavano un codice di segni letterario-filosofici, e il pittorialismo retorico dell’istoria era considerata la parte più importante della pittura. Prospettiva, storia e mimesi erano solo aspetti della grammatica figurativa della conoscenza. L’arte perpetuava la convinzione che nel realismo rappresentativo il linguaggio fosse nascosto. Lo spazio umanista aveva in realtà un carattere logico.

Con l’andare del XVI secolo l’Autoritratto in uno specchio convesso di Parmigianino, le anamorfosi di Vignola (Le due regole della prospettiva, 1583) e i trattati di Daniello Barbaro e Paolo Lomazzo andarono a sovvertire gli usi ai quali la prospettiva era stata preposta. Se capovolti, Il Cuoco e L’ortolano di Arcimboldo si trasformano in un piatto di verdure e carne arrostita.

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Parmigianino, Autoritratto in uno specchio convesso, 1524, Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Proprio come il paradosso rivoltava il linguaggio contro se stesso, asserendo i due termini di una contraddizione allo stesso tempo, così l’artista poneva la prospettiva e la mimesi una contro l’altra. Era l’epoca in cui la maccheronica musa della Gastronomia nutriva con pasta e polenta bardi dal carattere giocoso. Uno di questi era Teofilo Folengo, la cui opera eroicomica Baldus (1517), parodiava il poema cavalleresco di Ariosto in un latino a dir poco maccheronico. Roland Barthes sosterrebbe come un tale

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insieme di opere, sia in grado di mettere in primo piano l’interazione tra denotazione e connotazione, che «permette al testo di funzionare come un gioco in cui ciascun sistema si riferisce all’altro, secondo le caratteristiche di una data illusione34.

Arcimboldo arrivò quasi a sfiorare il realismo maccheronico nella sua Cucina, opera del 1569 che illustrava la tecnologia culinaria tramite un ritratto costituito da utensili da cucina. Rispetto alle delizie rabelaisiane fatte di prodotti commestibili pronti al consumo, la gastronomia era ridotta a un insieme di arnesi metallici e argenterie. Il significato faceva altrettanto in un sonetto allegato alla stampa.

Che miri o sciocco questa mia pittura Di tanti al viver nostro atti stromenti, E fai nel tuo pensier vari argomenti, Immagine non è, non è figura.

Quindi Natura a l’Arte adombrar parmi, Che per bisogno si fe’ a l’arte amica. Lungi dal suo costume antico, et empio.

La prima stanza presenta un dubbio, che per due volte nega l’identità al soggetto, che non è né un’immagine né una figura. I collegamenti tra i particolari letterali e l’insieme a carattere simbolico, sono quanto meno bizzarri. Dato che la forma verbale parmi si riferisce a un’opinione più che

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a un fatto, la ricerca di spiegazioni «mimetiche» da parte dell’osservatore, è procrastinata all’ultima terzina. Sebbene ci si aspetti che la preposizione «quindi» segua una sequenza logica, il significato a fine verso si trova a un’impasse. In realtà è accaduta la cosa inversa, la mimesi si è fatta amica del fantastico. Agli osservatori è richiesto di sperimentare l’antico uso di confrontare l’arte con le forme della realtà.

Una volta che la cornice ideologica dei precetti umanistici cominciò a indebolirsi durante il XVI secolo, la composizione iniziò a rivendicare la priorità sull’invenzione. Per amore della novità, l’ordine lasciò spazio a forme irregolari, che esaltavano lo stile e si prendevano gioco del soggetto in questione. Entro i limiti dei proprio ritratti Arcimboldo parodiava ars, ingenium, e mimesi. Al culmine degli allora contemporanei dibattiti sugli «impossibili verisimili» e i «possibili non verisimili» di aristotelica memoria, l’originalità metteva l’accento su immagini non mimetiche.

Il «significato» delle forme artistiche non ruotava più attorno al principio di verità. Successivamente, Nietzsche avrebbe posto un quesito fondamentale, in grado di gettare una luce retrospettiva sulla questione.

Che cos’è dunque la verità?Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticato la natura illusoria35.

Arcimboldo ci rammenta che le illusioni non sono altro che illusioni. Poiché sapeva comandare benissimo l’esercito delle eccentricità linguistiche, la sua arte ostenta un’«apparenza» che evidenzia la sua inaffidabilità epistemologica.

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Il pittore fondamentalmente ha legato la retorica e la prospettiva allo stile. Come segno dei tempi, i ritratti di Arcimboldo indicano che la pittura non vuole essere un’imitazione della realtà ma piuttosto una sua rappresentazione, di fatto, una rappresentazione di una rappresentazione. Il suo volontario errore di categoria metteva alla prova il potenziale ancora non sfruttato delle licenze letterarie e pittoriche. Nelle sue tele, direi, la prospettiva si dimostrava una metafora retorica più che cognitiva.

VII

Agli albori del XVI secolo, il Cortegiano del Castiglione e gli affreschi di Raffaello nella Stanza della Segnatura, spinsero l’idealismo umanista a un livello in cui la il corpus dei principi aristotelico-platonici era così perfettamente sistematizzato, da lasciare pochissimo spazio a eventuali aggiunte, eccezion fatta per un idealismo puramente ornamentale e decorativo.

Dando voce a un’opinione generale, il Tasso scriveva:

Se è vero che l’ornamento fa apparire bello ciò che non lo è, il risultato non sarà la bellezza ma una sua farsa. La bellezza rende le cose belle, mentre l’ornamento le fa solo apparire tali. Perciò la differenza tra ornamento e bellezza è uguale a quella tra vero e falso, realtà e apparenza36.

Gli approcci di tipo edonistico all’arte si distinguevano. Sebbene non sia portatore di alcun insegnamento, la decorazione rende le superfici

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attraenti, inoltre può modificare l’imitazione fino al punto che «anche il bello può trasformarsi, e come il camaleonte, acquisire nuovi colori, nuove forme e nuovi aspetti». L’originalità alimentava la stravaganza, e Arcimboldo era uno dei molti artisti a sostenere che non ci fosse più virtù nelle semplici affermazioni, poiché non c’erano semplici certezze da affermare. Come era normale che accadesse, anche l’eccentricità divenne qualcosa di prevedibile una volta che i ghiribizzi si dimostrarono «tipicamente» irregolari. Come l’ornamento, anche lo stile eccentrico non insegnava. In realtà non aveva neanche una tale pretesa, dato che il suo scopo era il diletto.

La nozione che l’uomo costituisca la misura di tutte le cose era un pilastro dell’arte classica e umanista. Per Arcimboldo l’uomo era la misura di tutto, nel senso che la sua forma conteneva ogni cosa. Dato che non esistevano misure alternative, l’antropomorfismo divideva ancora il cosmo dal caos. Ciò nonostante la dimensione del «tutto» aveva il sopravvento. La forma umana ospitava una moltitudine di oggetti in continuo aumento, più o meno nello stesso modo in cui la Wunderkammer e il Raritätenkabinett custodivano un’immensa varietà di oggetti37

. La misura si era andata perdendo e il mondo degli oggetti era sul punto di tracimare in ogni direzione. Per mantenere un certo senso di ordine, spesso la conoscenza era ridotta a un inventario della realtà, conservato nell’unico spazio di ordine: la tela stessa.La forma divenne un catalogo, che permetteva di presentare oggetti insoliti senza doverli interpretare.

Nell’arte di Arcimboldo, l’uomo non è un’idea ma una forma di carattere grottesco. In quanto recipiente anatomico, il corpo può accogliere una varietà di oggetti. Erwin Panofsky scrive:

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Il grande uomo del Rinascimento asseriva la sua personalità in modo, per così dire, centripeto: fagocitava il mondo circostante fino a che tutto il suo ambiente era stato assorbito dal proprio ego38.

Avendo in mente la superficialità di Arcimboldo, direi che le sue figure non fagocitano il mondo. Piuttosto il mondo si blocca nelle loro gole costringendole a rigurgitarlo sui propri corpi. Dato che non possono né coprire lo spazio, né agire come esseri viventi, quelle figure non sono proprio in grado di fagocitare. In realtà, esse potevano stabilire un contatto con il mondo reale solo ospitandolo nel proprio corpo, il quale diveniva così una specie di scrigno in cui gli oggetti si sostituivano all’infinito.

Le aggiunte egli scarti nel Manierismo, si sono dimostrati ugualmente gargantueschi. Come dice un antico detto, l’uomo è un piccolo mondo all’interno del quale può essere riposto tutto. In questi termini, l’arte aveva solo il compito di rendere l’icastica presenza delle cose più attraente.

Oltre l’imitazione, l’eccentricità manierista ricercava una altérité metaforica che superava la rigidità degli standard legati alla mimesi.

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VIII

Le tensioni tra lo stile espressivo mimetico e quello fantastico divennero gravi verso la fine del Cinquecento. Portavoce della Controriforma, il Cardinal Paleotti censurò i pittori di grottesche che «indulgevano alle «apparenze, dipingendo cose non vere (Trattati, 2:452). Al contrario l’apparenza contava molto per Arcimboldo. Le cose né vivevano né morivano nelle sue tele, dato che il tempo e la vita non entravano nei suoi esangui mosaici. L’artificialità, prendendo una vita propria, sfidava la visione, la percezione e la stessa conoscenza.

Per il gusto della rappresentazione Arcimboldo «simulava» l’immagine dell’uomo e «dissimulava» un mondo di oggetti. Era uno dei molti artisti che si proponevano di dire le cose in modo anormale, facendo prevalere l’affettazione sulla spontaneità. Orgoglioso come poteva esserlo un pavone della propria performance, Arcimboldo impressionò il mondo artistico con uno stravagante panegirico dell’artificio39

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NOTE

1. Per Panofsky questo tratto stilistico è tipicamente manierista. In Idea: A Concept

in Theory, New York 1968, p.74. Allo stesso modo Arnold Hauser trovò «un

tratto manierista nel sovraccarico del primo piano in Parmigianino» in

Mannerism, 1: 204. Vedi anche John Shearman, Maniera as an Aesthetic Ideal,

in The Renaissance and Mannerism: Acts of the Twentieth International

Congress of the History of Arts, vol. 2, Princeton 1963, p.182.

2. Vedi PANOFSKY, Idea: A Concept in Art Theory, pp.90.92; Gustav René Hocke, Manierismus in der Literatur, Amburgo 1959, pp.13-14; Il capitolo sulle sculture bizzarre nel volume di Mario Praz Il giardino dei sensi, pp. 62-70. 3. R. BARTHES, Arcimboldo, p.62.

4. Vedi R. E. WOLF e R. MILLEN, Renaissance and Mannerist Art, New York 1968, p.81; M. ROSTON, Renaissance Perspectives in Literature and in the

Visual Arts, Princeton 1987, p.309.

5. G. R. HOCKE, Die Welt als Labyrinth, Amburgo 1957, p.78. Sulle anamorfosi leonardesche vedi Codex Atlanticus, fol.35v. 1485, Biblioteca Ambrosiana Milano. F.LEEMAN, Hidden Images. Games of Perception. Anamorphic Art.

Illusion. From the Renaissance to the Present, New York 1976, pp.10-11. C.

PEDRETTI, Un soggetto anamorfico, in Studi vinciani, Ginevra 1957, pp.58.76. J. BALTRUSAITIS, Anamorphic Art, New York 1977. F. CLERICI, The Grand

Illusion: Some Consideration of Perspective, Illusionism and Trompe L’oeil in

«Art News Annual», 23 (1954), pp. 109-120. J. C. MARGOLIN, Aspects du

Surréalisme au XVI siècle: Fonction allegorique et vision anamorphotique in

«Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance» 39 (1977), pp. 507-11.

6. Vedi A. SCHOPENAUER, The World as Will and Representation, vol. 2 tr. di e. F. J. Payne New York 1966 pp. 335-36. L’introduzione di Ezio Raimondi al Tesauro nella sua edizione di Trattatisti e narratori del ‘600, Milano 1960, p. 20. G. DEVOTO, Profilo di storia linguistica italiana, Firenze 1964, p. 90. M. PRAZ, Il giardino dei sensi, Vicenza 1975, p.36. C. OSSOLA, Rassegna di testi

e studi sul Manierismo e Barocco, in «Lettere italiane», 27 (1975), pp. 453-55.

7. Vedi A. FLETCHER, Allegory, the Theory of a Symbolic Mode, Ithaca 1970, p.230. W. M. URBAN, Language and Reality, Londra 1939, p.112. S.ULLMAN,

Language and Style, p. 75-77.

8. R. BARTHES, Arcimboldo, p. 30

9. D. ATTRIDGE, Peculiar Language: Literature as Difference from the

Renaissance to James Joyce, Ithaca, New York 1988, pp. 108-109.

10. Vedi A. HENRY, Métonymie et Métaphore, Parigi 1971, pp. 77-78. S.J. FREEDBERG, Observations on the Painting of Maniera, in «Art Bulletin» 47

(34)

(1965) p.189. S. STUART, On Longing: Narratives of the Miniature, the

Gigantic, the Souvenir, the Collection, Baltimora 1984, p.74.

11. G. DURANT, Les structure anthropologiques de l’imaginaire, Poitiers 1969, p. 490. Sulle tecniche linguistiche vedi T. TODOROV, Synecdoches, in «Communications» 16 (1970), p. 31.

12. M. LEVEY, Early Renaissance, Baltimore 1967, p. 80.

13. Come dalla traduzione di D. Summers Michelangelo and the Language of Art, Princeton 1981, pp.210-11. Per i commenti pp. 103-109-10, 128-29.

14. M. KEMP, Leonardo da Vinci: The Marvelous Works of Nature and Man, Londra 1981, p.160.

15. Le macchine avevano una connotazione simbolica durante il Medioevo, ma successivamente rivendicarono autonomia dalla filosofia e dalla religione. Gli

automi così entrarono in territori in cui l’ingegno umano dominava l’acqua (con

le fontane), fuoco (con i giochi pirotecnici e i vastissimi incendi a Castel Sant’Angelo e Piazza Navona) e il mito. Vedi E. BATTISTI, L’Antirinascimento, Milano 1962, pp. 230-36. J. BALTRUSAITIS, Le miroir, Parigi 1978.

16. R. HARBISON, Eccentric Spaces, New York 1977 p. 42. Francesco I promosse un nuovo tipo di mecenatismo scientifico che promosse artisti come Buontalenti e Giambologna. Presso la Villa Demidoff di Pratolino, il Dux Mechanicus aveva i

teatri di automi (situati in sei grotte) i quali favorirono una duratura curiosità nei

confronti delle forme geometriche. In precedenza Paolo Uccello aveva ridotto dei soldati a pupazzi, nei brani per la battaglia di San Romano, mettendo così in scena «un rozzo sogno d’invulnerabilità» in teatri in cui le armi tintinnavano rumorosamente ma non ferivano.

17. Vedi M. A. CAWS, The Eye in the Text: Essays on Perception, Mannerist to

Modern, Princeton 1981, pp. 135-37.

18. Vedi J. MIROLLO, Mannerism and Renaissance Poetry: Concept, Mode, Inner

Design, pp. 99-101.

19. Vedi P. VALÉRY, Degas, Manet, Morisot, New York 1960, p. 205. R. HARBISON, Eccentric Spaces, pp.140-47.

20. Le tele museali di De Chirico richiamano alla mente la tradizione manierista (come quella tipica del periodo di reggenza di Francesco I) del giardino antiquario, in cui la raccolta di flora esotica integrava, per così dire, l’insieme di animali rari del Giambologna nella grotta di Villa Medici (1540). Le riproduzioni del mondo della natura e della storia in un unico luogo, erano artificiali tanto quanto le trattazioni dello stesso tema da parte dei Surrealisti.

21. Vedi B. MIGLIORINI, Lingua e cultura, Roma 1948, p.20. E. BATTISTI,

L’Antirinascimento, p.129. P. BAROCCHI, in Trattati, 3:398. F.C.

LEGRAND-F. SLUYS, Arcimboldo et les Arcimboldesques, Aaltar 1955, p.13 S.J. FREEDBERG, Observations on the Painting of Maniera, p. 189. F. DE SAUSSURE, Cours de linguistique general, Parigi 1955.

(35)

22. J. COHEN, Théorie de la figure, in «Communication», 16 (1970). P. 25. Vedi J. BALTRUSAITIS, Anamorphic Art, p. 81. G. R. HOCKE, Die Welt als Labirinth, Amburgo 1957, p. 96.

23. U. S. BERTINELLI, Giorgio Vasari: scrittore, Pisa 1905, p. 203. Vedi anche A. B. OLIVA, L’ideologia del traditore: arte, maniera, manierismo, Milano 1981, p. 200.

24. In Scritti scelti di Pietro Aretino e Anton Francesco Doni, Torino 1962, p. 428 25. T. CAVE, The Cornucopian Text: Problems of Writing in the French

Renaissance, Oxford 1979, p. xviii.

26. T. TASSO, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, Bari 1959 traduzione mia.

27. Tali forme elusive potevano essere concepite solo in uno stato d’isolamento (favellare spesso da sé medesimo), tra sonno e veglia (sonneferare) in Giovan Battista Gelli, Capricci del Bottaio (1548) in Opere di Giovan Battista Gelli, Torino 1968, p. 148. Traduzione dell’autore. Il Doni associava il termine

ghiribizzoso a una mente fantastica e stravagante (Cervel balzano, fantastico, ghiri bizzoso) in Scritti scelti di Pietro Aretino e Anton Francesco Doni, p. 427.

28. Vedi C. OSSOLA, L’autunno del Rinascimento, Firenze 1971, pp.173-74. G, HARPHAM, On the Grotesque: Strategies of Contradiction in Art and

Literature, Princeton 1982, p. 8.

29. Vedi A. BLUNT, Artistic Theory in Italy 1450-1600, Londra 1968, p. 91.

30. Vedi B. WEINBERG, A History in the Literary Criticism in the Italian

Renaissence, Chicago 1961, 2:774 G. NENCIONI, Tra grammatica e retorica,

Torino 1983, pp. 78-79. Per una storia del Manierismo a Praga sotto Rodolfo II vedi R.J.W. EVANS, Rudolph the II and his World, Oxford 1973. In particolare pp. 162-95, 243.74.

31. K. BURKE, A Grammar of Motives, Berkley 1974, p. 504.

32. G. CASTOR, Pléiade Poetics: A Study in Sixteenth Century Thought and

Terminology, Cambridge 1964, pp 126-29.

33. Sulla questione della prospettiva come forma simbolica vedere l’importante saggio di Panofsky Die Perspektive also Symbolische Form in «Vorträge der Bibliothek Warburg» 4 (1924-25) pp. 258-330. Anche G. C. ARGAN, Origins of

Perspective Theory in the Fifteenth Century, in «Journal of the Warburg and

Courtauld Institutes» 9 (1946), p. 100. Vedi anche H. WEINRICH, Semantik der

Kuhnen Metapher, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und

Geistesgeschichte», 37, n. 3, p. 335. G. RYLE, The Concept of Mind, Londra 1949, p. 16.

34. R. BARTHES, S/Z, New York 1974, p. 9.

35. F. W. NIETZSCHE, On Truth and Falsehood in their Extra-Moral Sense, in The

Complete Works of Nietzsche, vol. 2 Early Greek Philosophy, ed. O. LEVY

(36)

36. Il Minturno over de la bellezza, nell’edizione di Ettore Mazzali dei Dialoghi del Tasso, in Opere, Napoli 1969, p. 2:315, 321, 328. Per i commenti di Mazzali p. 355. G. BRIGANTI, Italian Mannerism, Lipsia 1962 p. 13. S. J. FREEDBERG,

Observations on the Painting of Maniera, p. 191.

37. Vedi A. LUGLI, Naturalia et Mirabilia, Milano 1983.

38. E. PANOFSKY, Meaning in the Visual Arts, New York 1955, p. 136.

39. Vedi E. R. CURTIUS, European Literature and the Latin Middle Ages, New York 1963, pp. 274, 282. A. P. DE MANDIARGUE, Arcimboldo the Marvelous, New York 1977, pp. 88.

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