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Introduzione - La giustizia riparativa come secondo binario

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Academic year: 2021

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Introduzione - La giustizia riparativa come secondo binario


Nel presentare l’argomento di questo lavoro vorremmo perdere in prestito, come del resto molti hanno già fatto trattando di restorative justice (o giustizia riparativa), l’immagine allegorica della divinità 1 bendata che regge in una mano la spada e nell’altra la bilancia. 


Il significato di questi attributi è universalmente noto: la benda simboleggia l’imparzialità di una giustizia uguale per tutti, che non daba a chi ha davanti, la bilancia l’equità delle decisioni, in cui la pena deve essere proporzionata alla colpa, infine la spada, a rappresentare la forza di cui il diritto si serve per imporsi alla collettività.


Ora, se vogliamo proseguire con la metafora, la restorative justice offre un paradigma del tutto alternativo a quello classico qui raffigurato, anche dal punto di vista rappresentativo-simbolico; per rispondere agli interrogativi del nostro tempo sulla funzione della pena e, più in generale, sulla legittimità del diritto penale, e sul significato del concetto stesso di giustizia da un punto di vista sostanziale e non solo formale, infatti, si spoglia di tutti gli attributi tradizionali: rinuncia alla benda e diventa una giustizia che vede benissimo chi ha davanti, tenendo presente le sue condizioni di vita, la realtà sociale da cui proviene, le prospettive che gli sono state date, conseguentemente abbandona la bilancia, perché si accorge dell’incommensurabilità dei valori in gioco nel processo penale, ma sopratutto dell’iniquità di misurazione astratte e asetticamente oggettive; da ultimo rinuncia alla spada, perché ha verificato l’inefficacia e la dannosità di un’imposizione violenta del diritto che, attraverso la retribuzione, si impone sopratutto sui più deboli ed

G. Mannozzi, La giustizia senza spada. Uno studio comparato su

1

giustizia riparativa e mediazione penale., Giuffrè Editore, Milano, 2003, p.1; G. Mannozzi, G. A. Lodigiani, Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone., Il Mulino, Bologna, 2015, p.39

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emarginati senza prevedere delle alternative che veramente possano aprire un percorso di rieducazione e risocializzazione.


La restorative justice riesce a fare tutto questo grazie alle caratteristiche strutturali che le sono proprie e che analizzeremo nella seconda parte della trattazione: informalità, dialogo tra le parti, flessibilità delle soluzioni e quindi adattabilità a tutte le stazioni di conflitto.


Vogliamo precisare, però, che nella prospettiva che qui abbiamo adottato, e che auspichiamo informi la politica criminale del futuro, la riparazione non è un “terzo binario” del sistema sanzionatorio, come invece è stata dogmatizzata nel dibattito sulla Wiedergutmachung che ha occupato la fine degli anni ’90 in Germania, bensì si inserisce a 2 pieno titolo alla base della risposta penale come un secondo binario (ridotta al minimo e per gli incapaci la misura di sicurezza), 3 alternativo alla pena criminale, che abbia una sua influenza dall’inizio della commisurazione della sanzione, fino all’estinzione del reato, in qualche caso, e non solo come attenuazione o limitazione della stessa, come succede attualmente.


Inoltre, secondo grande vantaggio dell’approccio riparativo, si tratta di restituire il conflitto ai suoi protagonisti, pur senza trascurare la cornice di garanzie che il diritto sostanziale e processuale predispone: la mediazione, che è il maggiore strumento di attuazione del paradigma ristorativo, infatticerca di recuperare il rapporto tra autore, vittima e società che il sistema tradizionale, nella sua logica giuridico-coercitiva, ha sempre trascurato di ricostruire. 
4

Cfr. C. Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, Riv. it. dir. e

2

proc. pen., 1987, p.3

M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena. Contro la

3

pena come raddoppio del male., Riv. it. dir. e proc. pen., fasc. 3, 2013, p.1208

M. Donini, op.cit., p.1208

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Quello che tentiamo di dire è che, citando le parole di autorevole dottrina, “non è tanto la pena imposta che produce il distacco di una persona dalla società: la pena imposta è la conseguenza di quel distacco, perché la risposta del sistema dovrebbe orientarsi in senso opposto favorendo una responsabilità agita e non subita. […] La situazione descritta può essere diversa solo per chi vive una carriera criminale o è inserito in un circuito che abbia rotto i ponti con i valori della società civile - è il punctum dolens del dibattito sul diritto penale del nemico e dei “criminali irriducibili” - e ciò non a seguito di un singolo delitto grave, ma per l'inevitabile sommarsi di condotte recidivanti e pene relative o per l'innesto di misure di prevenzione anche successive alla pena.” 
5

Quindi, quello che cercheremo di fare è appunto sottolineare la necessità di una giustizia che, per essere veramente tale, debba vere la vista di un falco, la bilancia adeguatamente calibrata per ogni situazione diversa e specifica che le si presenta e la spada ai suoi piedi, dimenticata.


Per far questo in un primo momento cercheremo di evidenziare tutte le carenze del paradigma retributivo tradizionale, ancora oggi, purtroppo, determinante nelle scelte del nostro legislatore (lo dimostrano i continui aumenti dei limiti edittali con cui si spera, invano, di porre in essere un’efficacia politica criminale di prevenzione generale); in seguito analizzeremo invece le caratteristiche principali del paradigma alternativo della giustizia riparativa, rendendone evidenti le risorse e i vantaggi; infine intraprenderemo una critica degli istituti riparativi, o che comunque danno una certa rilevanza al risarcimento del danno ai fini della pena, presenti nel nostro ordinamento (l’attenuante ex art. 62, comma 1 n° 6 c.p., l’oblazione c.d. discrezionale, il procedimento

M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena., cit., p.

5

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ex art. 35 D.Lgs. n° 274/2000, etc…), criticandone le lacune e prospettando alcune correzioni utili a migliorarne l’efficacia; in conclusione abbiamo voluto dare un’occhiata al futuro, con le innovazioni proposte del legislatore in tema di estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie (Disegno di legge C. 2798, presentato il 23 dicembre 2014, c.d. d.d.l. Orlando) e le elaborazioni della dottrina, a dire il vero ancora più originali, riguardo l’inserimento della fattispecie del “delitto riparato” nel nostro ordinamento penale. 6

M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare

6

il sistema sanzionatorio., in www.penalecontemporaneo.it, 18 maggio 2015, p.16

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1. La pena in crisi - La risposta al reato come “il” problema del 7 diritto penale


In questa prima parte dell’elaborato ci si prefigge l'obiettivo di interrogarsi sugli aspetti più problematici del nostro sistema penale in riferimento a quella che è la risposta sanzionatoria “classica” (e, a dire il vero, inveterata) al reato.


In altre parole, si cerca di mettere in discussione l'accettabilità teorica e la reale utilità pratica di una pena che si configura sempre e comunque con una fortissima componente retributiva, spesso ignorando le valide alternative che un approccio riparativo può invece offrire.


E' importante analizzare quelli che ormai ne sono divenuti gli aspetti critici, se non altro perché si tratta di un problema che affonda le sue radici nella stessa questione ontologica del diritto penale: tale branca del diritto pubblico, infatti, si caratterizza in quanto alla previsione normativa di un fatto denominato reato fa corrispondere una determinata conseguenza che prende il nome di pena. 
8

Per quanto la precedente constatazione possa apparire scontata e quasi superflua, questa ci porta a realizzare con quanta evidenza il problema della pena sia “il” problema dell'intero sistema di diritto penale.


Espressione presa in prestito (con gratitudine) dall’omonimo libro di

7

L. Eusebi, La pena “in crisi”. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Editrice Morcelliana Brescia, 1990, p.1

G. De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, G. Giappichelli

8

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1.1 La pena utile 
9

“La crisi della pena è diretta conseguenza dell’impossibilità di riproporre un fondamento ontologico della stessa. La teoria della pena diventa pertanto storia di una sempre più improbabile giustificazione quando essa cessa di essere “pena giusta” per diventare “pena utile”” ; così Massimo Pavarini ci illustra in poche, incisive, battute 10 lo storico passaggio consumatosi fra la teoria assoluta della pena di kantiana memoria, la cui applicazione prescinde da qualsiasi contingenza in quanto


imperativo categorico rivolto alle superiori esigenze dell'etica, e le c.d. teorie relative, a noi sicuramente più vicine e familiari, che, al contrario, ricercano una fondazione teleologica alla stessa così da giustificarne l’irrogazione.


Aver sostituito a un principio di punizione universale un fine pratico è stato, per il diritto penale, sicuramente un cattivo affare , per quanto 11 inevitabile alla luce di una concezione moderna dei rapporti fra Stato e cittadino: se, infatti, la pena perde la sua giustificazione di assoluta giustizia per riproporsi come pena utile, una pena “laica”, ecco che presta il fianco ad una conseguente, e più che legittima, critica dei fini; ed è proprio a questo punto che comincia la sua crisi.


I primi a interessarsi alla ricerca di un fondamento teleologico della pena furono, non a caso, i filosofi utilitaristi del settecento: con la Rivoluzione francese e la fine dell’Ancien Régime, infatti, si sgretolano le basi ideologiche a sostegno dell’assolutismo e, di contro,

Anche questa espressione, quanto mai efficace, frutto dell’intuizione

9

di M. Pavarini in La pena “utile”, la sua crisi e il suo disincanto: verso una pena senza scopo, Rassegna penitenziaria e criminologica n°1/1983, p.1

M. Pavarini, op.cit., p.3

10

M. Pavarini, op.cit., p.3

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si riscopre il concetto di contratto sociale come piattaforma imprescindibile per la nascita e lo sviluppo della società moderna.
 Il contrattualismo, per l’appunto, suggerisce prepotentemente l’idea alla base di quello che poi prenderà il nome di paradigma retributivo, tuttora fondante in modo prevalente la nostra attuale concezione di pena e le funzioni ad essa attribuite.


Innanzitutto, considerando la pena in astratto (quindi, sostanzialmente, il comando di astenersi da una determinata condotta), questa ha un obiettivo generalpreventivo che è coerente con la fondazione contrattuale del diritto penale stesso: in altre parole, i consociati stabiliscono in base ad un accordo quelli che sono gli interessi generali da proteggere e la loro gerarchia e, al tempo stesso, individuano i beni contrattualmente disponibili e quindi sacrificabili per l’interesse generale ; la minaccia di una pena come conseguenza 12 dell’infrazione a quanto stabilito dalla legge penale dovrebbe, a questo punto, costituire un primo motivo di dissuasione nei confronti dei cittadini.


Per quanto riguarda la pena in concreto, una volta che sia stato posto in essere il reato e quindi l’avvertimento espresso dal legislatore si sia rivelato insufficiente, sempre la fondazione sinallagmatica del rapporto punitivo impone che si stabilisca una sorta di proporzione fra la gravità dello stesso e la commisurazione della pena da irrogare di conseguenza.


Apparentemente questa impostazione risulta strutturata secondo logica e, almeno in astratto, priva di contraddizioni, proprio per questo è difficile non subirne in qualche modo il fascino; ad una più approfondita analisi, tuttavia, risulta subito evidente come la forza di tale progetto consista sostanzialmente nell’aver assolutizzato e universalizzato le forme, invero storicamente determinate, della

M. Pavarini, La pena “utile”, cit., p.4

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società liberale di fine Settecento, nel seppur nobile tentativo di riempire quel vuoto fondazionale responsabile della crisi della pena modernamente intesa; anche se questo ha significato adottare, in assenza di un qualsiasi fondamento etico, un principio in grado di apparire universale e oggettivo, ma in realtà deducibile soltanto in base alle dinamiche di quel mercato e di quella società (che non 13 possono certo dirsi analoghe a quella odierna, in un contesto del tutto diverso, caratterizzato da un accentuato pluriclassismo e un “problematico” multiculturalismo, da cui, conseguentemente, provengono istanze decisamente differenti).


Inoltre, rivolgendo per un momento la nostra attenzione a quella che è stata la prima (e per un certo periodo l’unica) forma di espressione della pena, ossia quella carceraria, ci accorgiamo che si tratta anche in questo caso di una sanzione storicamente particolare e ben contestualizzabile nell’ambito di una società liberale ai suoi albori, proprio perché si sostanzia nella sottrazione di quello che è uno dei suoi valori fondanti, se non il principale caposaldo: la libertà personale.


Per di più, spostandosi sul piano della prevenzione speciale, notiamo come nella fase dell’esecuzione penale il condannato divenga oggetto di una volontà pedagogica, riconducibile ad un obiettivo di normalizzazione della devianza (per altro condiviso dalla medesima ideologia borghese in un’ottica di parificazione delle situazioni soggettive), che non tarderà a declinarsi in una vera e propria “ossessione correzionale” ; la stessa che tuttora pervade un certo tipo 14 di atteggiamento nei confronti di una popolazione carceraria considerata come fruitore meramente passivo del percorso trattamentale predisposto dall’autorità penitenziaria.


M. Pavarini, La pena “utile”, cit., p.5

13

M. Pavarini, op.cit., p.10

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Con il successivo sviluppo del Welfare State si era, invero, prospettata un’evoluzione del modello correzionale in senso positivo e umanizzante: con la predisposizione di agenzie pubbliche funzionali alla gestione dei problemi di disagio sociale della popolazione (povertà, devianza psichiatrica, tossicodipendenze, etc…), infatti, si poteva intravedere almeno il tentativo di un progetto realmente rivolto alla risocializzazione e all’eliminazione delle disuguaglianze sostanziali derivanti dalle condizioni di vita di alcune fasce di cittadinanza.


Purtroppo, i duri colpi che lo stato assistenziale ha subito negli negli ultimi anni con le crisi economiche che si sono susseguite dopo il boom del dopoguerra hanno in parte determinato una contrazione della spesa pubblica, tale per cui alcune fondamentali prestazioni delle agenzia pubbliche suddette sono state fortemente limitate.


Conseguentemente al dissesto subito da quel sistema politico-sociale su cui si fondava, anche il modello correzionale c.d. positivo è stato vittima di numerosi attacchi non solo sul piano pratico, ma anche su quello teorico: gli elevati costi economici necessari al suo mantenimento, a questo punto, non sembrano più sostenibili né giustificabili proprio perché il settore assistenziale viene etichettato come “improduttivo” e quindi sacrificabile; per altro la drastica riduzione dell’intervento sociale determina ancora una più drammatica caduta di funzionalità dei servizi sociali e così, in un circolo vizioso, il modello correzionale risulta ancora più incapace di perseguire gli scopi che si era prefissato e i suoi detrattori hanno gioco facile nel definirlo assolutamente utopico; del pari la prospettiva del recupero sociale del criminale viene considerata espressione di un pietoso buonismo e il carcere finisce per essere paradossalmente valorizzato proprio in quanto alieno da ogni fine special-preventivo in una 15

M. Pavarini, La pena “utile”, cit., p.25

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prospettiva meramente, e miseramente, retributiva.


Proprio in questo clima di esasperante critica ad un tentativo di politica criminale, volto non solo al recupero e alla risocializzazione dei condannati, ma anche a una seria prevenzione generale dei reati attraverso misure di ammortizzamento delle disuguaglianze sociali, si affaccia un’idea, frutto del nuovo realismo criminologico, che, sfortunatamente, non solo verrà discussa negli ambienti intellettuali, ma verrà anche utilizzata a livello politico per aver gioco facile nell’influenzare (e falsare) la percezione del crimine da parte dell’intera società, semplificando i problemi afferenti alla gestione della criminalità per ottenere il consenso di un’elettorato che si sente sempre più insicuro e minacciato.


Sostanzialmente si tratta di negare che la soluzione positiva delle contraddizioni sociali sia il modo più efficace di combattere la criminalità, affermando, al contrario, che l’andamento della stessa dipende in maniera assai limitata dalla situazione socio-economica del soggetto e che il suo aumento sia da ricondursi ad un declino dell’attività punitiva. 
16

Ma soprattutto, l’invocazione al ricorso alla “mano forte della repressione” viene alimentata dal fatto che le forme di illegalità, soprattutto economica, di cui si rendono protagonisti i c.d. “colletti bianchi” (quindi soggetti assolutamente inseriti e socializzati, che non avrebbero alcun motivo cogente per delinquere) vengono presentate come meno pericolose rispetto alla criminalità di strada di cui la “gente comune” ha più facilmente esperienza. 
17

In questo modo l’attenzione dell’opinione pubblica viene spostata su quelle forme di violenza criminale contro la persona e la proprietà che ingenerano più facilmente allarme sociale nella cittadinanza, quasi nel

M. Pavarini, La pena “utile”, cit., p.25

16

M. Pavarini, op.cit., p.26

(11)

tentativo di “distrarla” da tutta una serie di reati che in realtà si prospettano addirittura più dannosi per la collettività, non solo in termini di costi economici, ma anche di fiducia nell’ordinamento statale e di tenuta complessiva di un sistema improntato alla giustizia sociale.


A questo punto, proprio perché sono soprattutto le classi lavoratrici a subire la criminalità di strada, si scatena quella che senza indugio potrebbe essere definita come una “guerra fra poveri”: perché mai, infatti, si dovrebbe prestare tanta considerazione al soggetto emarginato che rapina, al disoccupato o al tossicodipendente che ruba, etc… se le vittime di questi delinquenti sono persone che provengono quasi sempre dal loro stesso ambiente sociale e hanno scelto, invece, di non infrangere la legge attentando all’incolumità personale o alla proprietà di altri? 
18

E’ in questo “brodo primordiale” di incertezza e ostilità che hanno modo di svilupparsi le (quanto mai temibili) teorie sulla “meritevolezza della pena”: queste asseriscono l’esistenza di un “referente oggettivo” della stessa, facendo riferimento esplicito al comune “sentire” della gente, sul fondamento del quale si può sempre determinare la pena in concreto come quella che “il criminale si è meritato” e che il “bisogno di sicurezza” della collettività esprime. 
19 E’ evidente, per altro, come in un contesto del genere si faccia riferimento al concetto di meritevolezza non certo in un’ottica garantista di limitazione del quantum di irrogazione della pena, ma piuttosto per “agganciare” la commisurazione della stessa al “public panic”, all’allarme sociale che, con opportuni accorgimenti che sicuramente contemplano anche la strumentalizzazione dei mezzi di

M. Pavarini, La pena “utile”, cit., p.26

18

M. Pavarini, op.cit., p.26

(12)

comunicazione pubblica, può essere facilmente pilotato. 
20

La “penosa rassegna di qualunquismo ammantato di risibile consistenza scientifica” su cui si basano le conclusioni del nuovo 21 realismo criminologico fin qui illustrate, invero, non fa altro che confermare come la risposta retribuzionistica al reato, adottata nella speranza di garantire un sistema in cui la legge sia uguale per tutti, non si riveli altro che una mera sofisticazione concettuale: Marx ci insegna che il diritto è una componente della sovrastruttura, dunque è il risultato dei rapporti di produzione attuali ed è funzionale alla loro conservazione ; il riferimento costante che queste teorie fanno 22 all’interesse generale, al contenuto lesivo di certe condotte nei confronti degli interessi materiali della collettività, la riproposizione dello schema sinallagmatico nella giustificazione della pena per chi ha violato l’accordo associativo fondato sulla reciprocità, etc… tutto questo è un mero tentativo di oscurare quello che è il carattere fondamentalmente classista del sistema penale per come al momento 23 strutturato e operante in una realtà assolutamente disomogenea, attraversata da forti tensioni e disuguaglianze economico-sociali, alimentate dalla crescente disoccupazione e dalle conseguenze di una gestione quantomeno maldestra del fenomeno dell’immigrazione clandestina.


Inoltre bisogna considerare che l’istituzione del diritto penale in una società diseguale si accosta alle altre istituzioni della socializzazione (come la scuola, gli istituti di controllo della devianza minorile, i servizi sociali in generale, etc…) che, in mancanza di risorse atte a

M. Pavarini, La pena “utile”, cit., p.26

20

M. Pavarini, op.cit., p.27

21

Cfr. in generale K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca, Bompiani,

22

2011

M. Pavarini, op.cit., p.28

(13)

garantirne l’efficienza, contribuiscono al processo di marginalizzazione, differenziando gli individui e in tal modo legittimando lo status quo dei rapporti sociali. In altre parole, la 24 discriminazione della maggior parte della popolazione criminale risale a molto prima dell’ingresso in carcere, appunto a un precedente contesto di povertà economica, assistenziale e culturale, e l’applicazione selettiva delle sanzioni penali, per loro natura stigmatizzanti, è essenziale al mantenimento della verticalità della scala sociale, contrastando fortemente l’uscita dalla marginalità di questi soggetti.


A conferma di quanto fin qui sostenuto si riportano i dati Istat relativi al 2015: fra i detenuti adulti attualmente presenti nelle carceri italiane, considerando sia i condannati che coloro che sono sottoposti ad una misura cautelare, il 31,45% è recluso per rapina, il 22, 56% per delitti di furto e il 33, 89% per reati concernenti gli stupefacenti e le sostanze psicotrope ; in altre parole poco più dell’85% della popolazione 25 carceraria attuale, fra italiani e stranieri, si compone di criminali di strada.


Traendo le conclusioni di questa riflessione iniziale, non si vuole certo trascurare il dato per cui chiaramente le forme di piccola-media criminalità sono di gran lunga più comuni e frequenti dei grandi reati economici come la bancarotta fraudolenta o il falso in bilancio, quindi è del tutto logico che le percentuali relative ai detenuti per la prima tipologia di crimini siano maggioritarie rispetto alle altre. Ciò che però è assolutamente necessario sottolineare è che il dogma della prevenzione mediante retribuzione, cui le teorie relative della pena fanno riferimento, non risulta più seriamente sostenibile, non solo da

M. Pavarini, La pena “utile”, cit., p.29

24

Istat, Dati relativi ai detenuti adulti presenti nelle carceri italiane

25

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un punto di vista teorico, ma anche da un punto di vista pratico, in quanto i tassi di recidiva, in base ai dati raccolti dal DAP, si aggirano intorno al 70% per chi non usufruisce di misure alternative alla detenzione. 
26

Anzi, proprio perché si parla di un dogma, in realtà si tratta di una concezione che non è mai stata seriamente messa in discussione, nonostante le riforme del sistema penitenziario e la previsione dei riti alternativi nel processo penale.


Un prevenzione seria, infatti, richiede un impegno decisamente diverso da quello fino ad ora profuso dalle varie iniziative di gestione del problema della criminalità: l’aver conferito al solo diritto penale il compito di contrastare la commissione dei reati ha di fatto deresponsabilizzato altri settori dell’intervento pubblico che invece avrebbero potuto apportare un contributo assolutamente decisivo e determinante in questo campo. Inoltre, fondare a priori la dinamica preventiva sulla riproposizione analogica di una pena inflitta esclusivamente sulla base del disvalore attribuito al fatto illecito, 27 non solo risulta inutile, ma anche dannoso, come abbiamo visto in precedenza facendo riferimento al processo di marginalizzazione degli individui sotto posti alla pena carceraria.


Il problema, in realtà, è superare quell’idea collettiva per cui può darsi una criminalità estranea all’assetto sociale, un criminalità di cui quest’ultimo risulti autorizzato a disconoscere ogni corresponsabilità, arrivando a concepire l’agente di reato come qualcosa di radicalmente

Osservatorio delle misure alternative del Dap (2007), in

26

www.giustizia.it

Cfr. L. Eusebi, Appunti critici su un dogma: prevenzione mediante

27

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“altro”, cioè come un vero e proprio “nemico” della società stessa.
28 In altre parole, è necessario rivedere le dinamiche che favoriscono la commissione dei reati e che, nella quasi totalità dei casi, rimangono 29 ampiamente trascurate nella gestione quotidiana della giustizia penale proprio a causa delle caratteristiche strutturali e funzionali del processo.


In conclusione, appurato che la questione criminale non è esclusivamente infrapenalistica, che non è reperibile un pena “giusta in sé” che possa prescindere da un qualsiasi giudizio razionale o morale, ma tenendo comunque presente che esiste un problema di promozione al rispetto delle regole democraticamente sancite in merito alla tutela, diretta e indiretta, dei diritti umani, non ci si può semplicemente limitare a cercare una giustificazione a posteriori dello schema punitivo retributivo; bensì bisogna chiedersi se possa 30 esistere un’alternativa che possa riportare le persone (non a caso definite come “le grandi assenti del processo penale” ) al centro della 31 risoluzione del conflitto causato dal reato, non solo facendo riferimento al reo, ma anche alla vittima, e potendo così creare le condizioni ideali per perseguire efficacemente un obiettivo di adesione spontanea ai valori protetti dall’ordinamento.


Questa alternativa, da circa venticinque anni a questa parte, è stata intravista in quel gruppo di procedimenti che viene ricondotto

L. Eusebi, Appunti critici su un dogma., cit., p.1159; per un

28

approfondimento del concetto di “diritto penale del nemico” cfr. in generale A. Pagliaro, “Diritto penale del nemico”: una costruzione illogica e pericolosa, Cass. pen., 2010, p.2460 e F. Mantovani, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, p.470 L. Eusebi, op.cit., p.1161 29 L. Eusebi, op.cit., p.1160 30 L. Eusebi, op.cit., p.1163 31

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all’alveo della c.d. giustizia riparativa, ossia, molto in generale, quell’insieme di attività di incontro, dialogo, prestazione di attività risarcitorie, restitutorie e, per l’appunto, riparatorie che favoriscono l’incontro tra autore e vittima con l’obiettivo di risolvere il conflitto ingenerato dal reato cercando di evitare il ricorso al processo o alla sanzione penale.


Per rendere ancor più evidente la validità di questa controproposta ci si è prefissi l’obiettivo di evidenziare ancora più specificamente quelle che sono le (gravi) carenze dell’attuale impostazione retributiva della sanzione penale, per poi prospettare le risorse, purtroppo ancora inesplorate, che può offrire il paradigma riparativo e più in generale la gestione alternativa delle controversie.


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1.2 La funzione di prevenzione generale negativa e positiva


Recuperando quanto accennato in precedenza circa le finalità che fin dalla sua origine sono state attribuite alla pena retributiva onde giustificarne il fondamento teleologico, prendiamo le mosse da quella che viene tradizionalmente designata come funzione di prevenzione generale.


Rappresentando il reato un episodio gravemente disfunzionale rispetto a quella che è l'esigenza di conservazione degli assetti sociali interni alla comunità di riferimento, è naturale che la prima preoccupazione che si attribuisce al sistema penale sia proprio quella di prevenzione di tali fenomeni, a maggior ragione considerando che non risulterebbe possibile fare ricorso ad una misura idonea a ricostituire l'integrità del bene giuridico tutelato dalla previsione penale infranta. 
32

Infatti, in quest’ottica, la logica della sanzione penale non può essere ricondotta a quella propria della responsabilità civile che si esprime nella previsione di sanzioni restitutorie o risarcitorie proprio in considerazione del fatto che, in quel caso, è possibile una restituzione dello status quo ante e quindi l'eliminazione delle conseguenze derivate dal danno prodottosi, in quanto la norma penale implica una valutazione fondata sull'inerenza di certe offese ad una dimensione sociale più ampia che evidentemente non si presta ad essere ricondotta ad un mero danno economico. Non potendo quindi la pena essere 33 chiamata a svolgere una funzione meramente compensatrice dell'offesa arrecata, ecco che il suo ruolo primario non può che essere colto con riferimento ad un momento necessariamente anteriore, ossia l'obiettivo di impedire e prevenire la commissione dell’illecito. 
34

G. De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, cit., p.3

32

G. De Francesco, op.cit., p.3

33

G. De Francesco, op.cit., p.4

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Tale obiettivo di prevenzione generale, come è noto, si persegue nel rivolgere alla pluralità di consociati il comando di astenersi dal compimento di determinate condotte stigmatizzate dalla norma incriminatrice minacciando, in caso di inosservanza, l'erogazione di una pena. 
35

Conseguentemente, dato che un simile assetto sottende la preoccupazione di evitare il più possibile la commissione dei fatti di reato, la pena viene ad assumere delle caratteristiche tali da renderla la più grave risposta sanzionatoria contemplata dall'ordinamento: il suo contenuto proprio consiste nella privazione o limitazione della libertà personale del soggetto che dovrà esservi sottoposto, in considerazione del fatto che questo bene primario dell'individuo viene a collocarsi al vertice dei diritti di rango costituzionale, tanto da essere proclamato come inviolabile dall'art. 13 della nostra Carta fondamentale. 
36

L'assetto concettuale fin qui analizzato potrebbe essere specificato nell'espressione “funzione di prevenzione generale negativa” proprio perché la minaccia della sanzione è volta a scongiurare il compimento di un atto considerato offensivo del bene giuridico protetto dalla norma penale; tuttavia, più di recente, si è riaffacciata nel panorama della dottrina giuridica (perché a livello embrionale si tratta di un’elaborazione già presente, ad esempio, in Bentham ), anche grazie 37 al fondamentale contributo della scienza sociologica, una diversa e più sofisticata accezione della stessa prevenzione generale, questa volta in un senso che potremmo definire “positivo”.


Non si può non osservare, infatti, che le scelte sul piano repressivo sono strettamente intrecciate con quei processi di sedimentazione di

G. De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, cit., p.4

35

G. De Francesco, op.cit., p.5

36

Cfr. in generale J. Bentham, An Introduction to the Principles of

37

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interessi e valori interni alla coscienza e all'esperienza collettiva di un gruppo sociale, cui il diritto penale è chiamato a dare sostegno ma anche e soprattutto legittimazione sul piano politico e giuridico. 38 Questo perché, ovviamente, nel momento in cui il legislatore pone mano alla creazione delle norme penali, non può certo ignorare il richiamo delle istanze emergenti dalla collettività e l'intensità con cui queste vengono avvertite meritevoli di tutela dai suoi componenti; del resto, una volta che il legislatore abbia recepito tali esigenze, la loro cristallizzazione in un modello legale conferma il significato e l'importanza della loro preservazione. 
39

Proprio in questo si sostanzia la prevenzione generale positiva: la circostanza che determinate condotte vengano accompagnate da una sanzione non più soltanto morale e sociale, ma dotata di un carattere giuridicamente vincolante e particolarmente afflittivo, fa sì che i valori alla base di tali prescrizioni risultino ulteriormente accreditati e consolidati all’interno della collettività, rendendone evidente il significato ai fini della sua sopravvivenza e facendo in modo che i consociati vi aderiscano spontaneamente. 
40

Tuttavia è proprio passando in rassegna le due accezioni di funzione generalpreventiva, che ci si trova faccia a faccia con la prima “crepa concettuale” in quelle che sono le basi della pena come tradizionalmente e attualmente intesa.


Formalmente, infatti, nel momento applicativo si dichiara di guardare in primo luogo al passato, in ossequio al principio di legalità e al divieto di retroattività, al fine di garantire una sanzione proporzionata che si lega alla responsabilità personale per il fatto e rispetta il divieto di accollare al singolo porzioni di pena che dipendano da fatti futuri

G. De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, cit., p.9

38

G. De Francesco, op.cit., p.9

39

G. De Francesco, op.cit., p.9

(20)

commessi da terzi; tendendo quindi a escludere, correttamente, le esigenze generalpreventive del sistema, confinate al livello superiore della pena minacciata. 
41

Nonostante questa dichiarazione di principio, però, se consideriamo la prevenzione generale come un fine legittimo e giuridicamente vincolante della pena fin dall'inizio, data l'influenza sostanziale che questa ha nella costruzione delle cornici edittali, soprattutto per quanto riguarda i limiti minimi, non possiamo non ammettere che almeno una parte della pena irrogata è il prodotto dell'accollo al singolo della preoccupazione di evitare il fatto futuro di terzi, con buona pace di Kant e del secondo imperativo categorico della ragion pratica che impone di trattare l’uomo solo come fine e mai come 


mezzo. 
42

Dunque, innanzitutto, è proprio sulla base di questa osservazione che intendiamo fondare l'inaccettabilità della prevenzione generale quale fine giuridico della pena in qualche modo vincolante per il giudice in fase di decisione.


Tuttavia è necessario tenere presente un ulteriore l'elemento che si rivela fondamentale nella determinazione a livello legislativo del quantum di pena comminabile in conseguenza del reato: il principio di proporzionalità. Teoricamente quest'ultimo rappresenta una garanzia per l'intero complesso penale: il fatto che la risposta sanzionatoria sia proporzionata alla gravità e all'offensività dell'illecito non solo fa sì che il sistema sia percepito dalla collettività come giusto e imparziale, ma ha anche dei riflessi diretti sull'efficacia e l'efficienza dello stesso da un punto di vista pratico.


M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena. Contro

41

la pena come raddoppio del male, Riv. it. dir. e proc. pen., 2013, p. 1171

Cfr. in generale I. Kant, Critica della ragion pratica, Editori Laterza,

42

(21)

Tuttavia questa premessa, apparentemente garantista, si incrina non appena ci si pone il problema dei criteri in base ai quali si stabilisce la proporzione; i valori in gioco si rivelano subito incommensurabili : 43 qual è l'unità di misura in base alla quale l’art. 624 c.p. fa corrispondere al furto una reclusione da sei mesi a tre anni? E, se la tutela della libertà personale è più importante della tutela della proprietà, perché per il sequestro di persona il minimo edittale stabilito dall’art. 605 c.p. per la reclusione è il medesimo? Secondo quali parametri “scientifici” sono “misurati” i beni giuridici protetti dall'ordinamento in proporzione alle pene? Inoltre, dato che la colpevolezza dovrebbe, secondo il dato costituzionale, porsi come parametro per individuare il limite massimo alla pena applicabile, e quindi un indicatore concreto di determinazione della pena giudiziale scevro di preoccupazioni general-preventive, come si bilancia con i beni giuridici di cui sopra?


Si vede chiaramente come si tratti di entità del tutto prive di una base epistemologica di raffronto: regna un “convenzionalismo relativistico” , per cui, come sostiene Ferrajoli, “non esistono criteri 44 naturali, ma solo criteri pragmatici basati su valutazioni etico-politiche o d'opportunità, per stabilire la qualità e la quantità della pena adeguata a ciascun reato. Ne consegue che il problema della giustificazione del tipo e della misura della pena è un problema morale e politico, ossia interamente di legittimazione esterna.” 
45

Sostanzialmente, quindi, la pretesa “scientificità” del principio di proporzione in funzione di garanzia e argine alle pretese generalpreventive dell'ordinamento si risolve in un nulla di fatto.


M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena., cit., p.

43

1174

M. Donini, op.cit., p.1175

44

L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Editori

45

(22)

In coerenza con quanto sostenuto fino a questo punto, per altro, neanche la prevenzione generale positiva, cui abbiamo in precedenza accennato, potrebbe mai arrivare a fondare una pena accettabile: nonostante il fine pedagogico che questa di propone, anche attraverso un riferimento più diretto al complesso valoriale pubblicamente tutelato, i limiti edittali imposti alle sanzioni penali rimarrebbero comunque sguarniti di parametri di riferimento adeguatamente “oggettivabili”. 
46

Per risolvere efficacemente la descritta crisi fondazionale della pena 47 - tale da determinare quasi uno strabismo della stessa nel momento in cui, in sede legislativa, tiene presenti esigenze generalpreventive guardando al futuro, mentre in fase attuativa pretende di concentrarsi soltanto sull'individuo e sulla sua personale storia, facendo riferimento solo al passato - non resta che prendere una posizione netta e affermare che la pena non può in nessun caso avere scopi di prevenzione generale. 
48

Con questa dichiarazione, per altro, non si vuole far riferimento al solo momento applicativo (come già evidenziato in precedenza, è lampante come si produca una madornale ingiustizia nel punire un individuo per prevenire fatti altrui, violando il principio della personalità della responsabilità penale di cui all’ art. 27 Cost.), ma anche, e soprattutto, in sede comminatoria: la prevenzione generale non può costituire un fine giuridicamente vincolante della pena perché in questo modo ne influenza fin dall’origine la costruzione, e questo inevitabilmente si riflette in sede di commisurazione giudiziale della

M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena., cit., p.

46 1179 M. Donini, op.cit., p.1181 47 M. Donini, op.cit., p.1185 48

(23)

stessa. 
49

Occorre allora distinguere rigorosamente fra fini della pena e funzioni generalpreventive: anzitutto queste ultime, come abbiamo già in precedenza accennato, non sono esclusive del sistema penale ma, anzi, sono un concetto socio-politico che concerne l'intero ordinamento e, primariamente, ambiti extrapenali (come il settore dell'educazione o quello dei servizi sociali); per quanto riguarda i fini, invece, questi consistono propriamente in concetti tecnico-giuridici con un contenuto normativo-deontologico vincolante per il giudice nella commisurazione della pena. 
50

All'origine di questa distinzione stanno ineludibili esigenze di garanzia perché i fini della pena applicata, in aderenza con quello che è il dettato costituzionale scandito all’interno dell’art. 27, sono, per quanto possibile, di realizzare o comunque di non superare una proporzione con il fatto e con la colpevolezza per il fatto, secondo esigenze di giustizia e individualizzazione, e di tendere alla risocializzazione/non desocializzazione del condannato per il futuro. 51

Ecco che, tecnicamente, la pena può avere solo ed esclusivamente un fine special-preventivo; se si ammettesse, viceversa, che la pena minacciata possa avere anche un fine tecnico di prevenzione generale, il giudice, nell'applicarla non potrebbe ignorare tale esigenza; allo stesso tempo, chi nega questo scopo-funzione in sede applicativa non può coerentemente ammetterlo in fase di minaccia: di nuovo, sarebbe contraddittorio riconoscere al legislatore la legittimità di un fine giuridico che il giudice poi non sia diligentemente tenuto a

M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena., cit., p.

49 1189 M. Donini, op.cit., p.1187 50 M. Donini, op.cit., p.1188 51

(24)

realizzare. 
52

Alla luce di quanto detto è fondamentale, già in sede legislativa, impedire che la finalità generalpreventiva della politica criminale, nella sua dimensione di contrasto all’illegalità, si trasformi in uno scopo giuridico capace annullare le condizioni della sua stessa legittimità. 
53

In altre parole il penalista deve occuparsi esclusivamente delle condizioni giuridiche (deontologiche, normative, prescrittivi) della pena applicata, ossia l’unica veramente esistente come realtà giuridico-penale , la sola che abbia un riscontro concreto. 
54

Certo, la pena minacciata ha un’importante funzione sociologica e politica, e, insieme ad essa, lo ha la percezione sociale del meccanismo punitivo nella sua componente di contributo alla costruzione dei valori dell’ordinamento e degli stessi diritti fondamentali; ma "nelle aule di giustizia, dove si risponde di fatti già commessi, si parla un linguaggio diverso e non è ammissibile che le paure e le insicurezze sociali trasformino le condizioni del giudizio di responsabilità (offesa, bene giuridico, causalità, dolo, colpa, proporzione, etc…) in un prodotto della prevenzione generale”. 
55 Si riscontra, pertanto, in maniera piuttosto lampante, una pericolosa contraddizione epistemologica nel momento in cui si cerca di dare una patina di scientificità ai criteri in base ai quali vengono stabiliti i limiti della pena irrogabile, e nel contempo ci si accorge che quest’ultima ha una spiegazione quasi esclusivamente politica. 
56

M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena., cit., p.

52 1189 M. Donini, op.cit., p.1192 53 M. Donini, op.cit., p.1191 54 M. Donini, op.cit., p.1191 55 M. Donini, op.cit., p.1192 56

(25)

A questo punto, proprio in quanto si dà per assodato che l’unico fine propriamente giuridico della pena possa essere quello specialpreventivo, ecco che il primo passo verso una riforma che garantisca una risposta equa e realmente proporzionata al fatto di reato potrebbe sostanziarsi proprio nello smantellamento della “tirannia generalpreventiva” dei minimi edittali, già di per sé piuttosto alti , 57 che, ad esempio, limita fortemente l’autentica personalizzazione e individualizzazione della pena che potrebbe aversi con l’applicazione motivata dell’art. 133 c.p. relativo ai criteri di valutazione della gravità del reato che il giudice deve tenere presente. 
58

Tuttavia, il problema non si limita alle cornici edittali perché in realtà il sistema italiano pullula di istituti che, per come sono regolati, condizionano integralmente sin dall'origine la costruzione e la commisurazione della pena (si vedano ad esempio il sistema delle circostanze, la distinzione delitti/contravvenzioni, una colpevolezza che è funzionale solo alla limitazione del quantum di pena, invece di avere, fin da subito, un peso decisivo nella sua determinazione, etc…) . 
59

Sul piano applicativo, la conseguenza più importante di questa situazione si traduce in un meccanismo di distorsione che porta a fraintendere la funzione che la discrezionalità del giudice ha nel momento della commisurazione della pena: nell'applicare di fatto una giusta critica personalistica alla prevenzione generale, infatti, il magistrato rimane imbrigliato da vincoli di calcoli aritmetici effettuati a posteriori, al fine di correggere le distorsioni delle cornici edittali; in questo modo la decisione è governata dall'esigenza di ricostruire la

M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena., cit., p.

57 1199 M. Donini, op.cit., p.1199 58 M. Donini, op.cit., p.1196 59

(26)

pena legalmente inflitta partendo da quella finale intuita come giusta, così che il rapporto si inverte e la commisurazione della pena giudiziale arriva a governare la definizione del titolo legale della responsabilità, proprio perché, ad esempio, si privilegia una diversa qualificazione del titolo di reato, oppure si applicano o disapplicano alcune circostanze per raggiungere un risultato altrimenti impossibile, dato che, per l’appunto, i minimi edittali per quel tipo di illecito sono già troppo alti. 
60

Lo stesso legislatore, in realtà, rimane condizionato da questo tipo di meccanismo proprio perché costruisce le regole sapendo che verranno applicate in quel modo, secondo una logica che lo induce a stabilire determinate soglie di pena in relazione agli istituti sostanziali e processuali (come ad esempio i riti alternativi) utilizzabili. 
61

Questo non-sistema ha come conseguenza la percezione, da parte 62 della collettività, di un diritto penale che, per quanto nelle intenzioni si sforzi di essere certo, autorevole ed ugualitario, nella pratica ha come risultato una pena incerta, sia nell’an che nel quantum, inattendibile per quanto riguarda la proporzionalità al fatto e, conseguentemente, nella sostanza ininfluente sui comportamenti del resto della cittadinanza, dunque incoerente nei suoi obiettivi; in altre parole tutto il contrario di ciò che si vorrebbe perseguire attraverso una strategia di generalprevenzione.


Infine, completando quanto fin qui illustrato, ci si vuole spostare su un piano prettamente pratico al fine di smentire in modo ancora più adeguato la non dimostrata efficacia intimidatoria del precetto penale in un’ottica generalpreventiva.


M. Donini, Per una concezione post-riparatoria della pena., cit., p.

60 1199 M. Donini, op.cit., p.1200 61 M. Donini, op.cit., p.1198 62

(27)

Ora, che l'ordinamento penale abbia una certa capacità di incidere sugli atteggiamenti sociali nei confronti dei beni tutelati è assolutamente plausibile, come del resta abbiamo visto in precendenza; tuttavia, tale plausibilità necessita di un supporto argomentativo empirico-razionale per essere dimostrata, e in ogni caso ancora non prova quali elementi della disposizione penale producano tale effetto. 
63

Per l’appunto, prendendo ad esempio il caso del consumo di sostanze stupefacenti (ma in realtà è una prospettiva agevolmente estensibile ad altri ambiti di intervento del diritto penale), si scopre qualcosa di interessante circa il ridimensionamento della centralità attribuita alla dimensione intimidatrice del precetto di legge: si rivela ampiamente indifferente l'entità o la tipologia della pena minacciata; ciò che rileva è piuttosto la certezza e l'effettività della stessa. 
64

A questo proposito è interessante riportare i risultati di alcune indagini svoltesi tra gli anni ‘80 e i primi anni ‘90 in Germania, patria di alcune delle maggiore ricerche sul tema della generalprevenzione, finalizzata a verificare empiricamente l’incidenza delle norme penali sui comportamenti individuali : il dato emergente più significativo 65 riguarda la netta prevalenza dell’efficacia preventiva attribuibile alle c.d. variabili del controllo interno (persuasione soggettiva della legittimità del divieto, attaccamento al sistema dei valori fondamentali, etc…) rispetto a quelle del controllo esterno, rappresentate da controspinte estranee all’interiorizzazione dell’esigenza di tutela del bene giuridico in gioco e agenti in termini di

L. Eusebi, La pena “in crisi”., cit. 1990, p.20

63

L. Eusebi, op.cit., p.21

64

Cfr. H. Schöch, Empirischen Grundlagen der Generalprävention, in

65

Festschrift für Jescheck, Berlino, 1985, p.1080 e C. Berlitz - H.W. Guth - R. Kaulitzki - K.F. Schumann, Grenzen der Generalprävention. Das Beispiel Jugendkriminalität, in Krim. Journal, 1987, p.13 ss.

(28)

pura forza. 
66

Queste conclusioni potrebbero apparire a prima vista scontate, posto che la maggior parte dei cittadini rispetta comunque le prescrizioni della legge penale per autentica convinzione e non per mera costrizione; tuttavia quel che si deduce dall’esperimento descritto non è tanto la prevalenza del controllo interno, quanto la sostanziale inoperatività di quello esterno una volta che il primo abbia fallito: in altre parole l’intimidazione manterrebbe un ruolo assolutamente marginale. 
67

A ulteriore sostegno della scarsa incidenza preventiva dei livelli di pena stabiliti a corrispondenza di un determinato reato è interessante sottolineare come la punizione attesa dagli intervistati per la sua eventuale commissione sia stata valutata molto al di sopra delle entità effettivamente inflitte e come la funzione della pena sia stata esclusivamente individuata, per la stragrande maggioranza delle risposte, nella prevenzione speciale. 
68

La maggior efficacia preventiva attribuibile alla certezza della pena rispetto all'entità minacciata può ritenersi dipendente, del resto, più che dal fattore intimidatorio, prima ancora dalla percezione da parte dell’agente potenziale di non poter portare a compimento con significativa probabilità il disegno complessivo legato all’intento criminoso; quindi sembra che la controspinta reale alla criminalità, e in particolare alla criminalità grave, si situi in modo del tutto prevalente sul piano dell'autorevolezza morale con cui il divieto sappia imporsi al singolo, della certezza delle conseguenze di

Cfr. H.-J. Albrecht, Die generalpräventive Effizienz von

66

strafrechtlichen Sanktionen, in AA.VV., Empirische Kriminologie, a cura di G. Kaiser, Friburgo in Brisgovia, 1980, p.318

L. Eusebi, La pena “in crisi”., cit., p.25

67

Cfr. H. Schöch, Empirischen Grundlagen der Generalprävention.,

68

(29)

un'eventuale infrazione e della velocità di reazione del sistema. 
69 In altre parole, si torna a sottolineare il ruolo primario della generalprevenzione positiva, ovviamente sempre considerata come scopo dell'ordinamento in generale e funzione sociopolitica (non fine tecnico-giuridico) del diritto penale, e del suo obiettivo morale-pedagogico di orientamento culturale dei consociati , che opera 70 sinergicamente a un sistema di giustizia veloce, certo ed efficiente.
 In questo quadro, dunque, è importante chiarire ancora una volta che la penalizzazione potrebbe non risultare del tutto inutile a stimolare la percezione collettiva della gravità e dell'antisocialità di determinate condotte, ma comunque il rialzo dei limiti edittali (che spesso risponde a logiche emergenziali del tutto scoordinate e incoerenti rispetto all’impianto complessivo del sistema) si rivela del tutto privo di significato rispetto all’obiettivo generalpreventivo che, in questo senso, potrebbe essere conseguito da qualsiasi pena sufficiente a evidenziare, adeguatamente e senza banalizzazione, la frattura della norma giuridica determinata dal reato. 
71

Del resto, uno dei principali studiosi tedeschi di prevenzione generale, coerentemente con quanto fin ora sostenuto, ribadendo la centralità della “sensibilità criminale soggettiva”, conclude nel senso secondo cui si aprirebbero “considerevoli spazi per nuove strategie

Cfr. in generale D. Dölling, Rechtsgefühl und Perzeption des

69

Strafrechts bei delinquenten und nichtdelinquenten Jugendlichen und Heranwachsenen, in Jahrbuch für Rechtssoziologie un Rechtstheorie, a cura di E.J. Lampe, 1985, p.7; circa il rapporto fra diritto penale e sistema sociale dei valori, e, sui nessi tra morale e riconoscimento sociale delle norme penali v. anche S. Karstedt-Henke, Die Stützung von strafrechtlichen Normen und Sanktionen durch das Rechtsgefühl. Ein kognitionszentriertes Ansatz, ivi, p.235

G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli

70

Editore, 1989, p.531

Cfr. H. Schöch, Empirischen Grundlagen der Generalprävention.,

71

(30)

sanzionatorie, a scopo riabilitativo, risarcitorie o di diversione, certamente compatibili con l’idea di prevenzione generale” anche al di fuori dell’area bagatellare. 
72

Per altro, sempre per quanto riguarda la dimensione “promozionale” del diritto penale, è importante sottolineare il ruolo, non sempre valorizzato, che nella gestione della prevenzione generale ha il principio di extrema ratio. 
73

Negli ultimi anni, infatti, si è negligentemente trascurato di determinare i criteri di definizione della stretta necessità dell’intervento punitivo, senza dissipare l’indeterminatezza che ne avvolge il campo d’azione; tanto da far insorgere il dubbio che tale principio sia stato adoperato più come alibi per la mancata attivazione di quelle serie strategie preventive sul terreno politico sociale o comunque sul piano di quella legislazione in materia extrapenale cui prima si faceva riferimento, che come effettiva barriera dell’ipertrofia penalistica (mediante la quale, per altro, lo Stato rivela la propria 74 inefficienza ).
75

Tale principio, nondimeno, sarebbe indiscutibilmente utile per evitare una fin troppo facile identificazione fra l’inderogabilità della tutela penale di un determinato bene e la pena detentiva : in altre parole, 76 garantendo ex ante la possibilità di fare ricorso alla pena retributiva in un’ottica di extrema ratio, ecco che il sistema migliorerebbe la propria

Cfr. Schöch, Zur Wirksamkeit der Generalprävention, in AA.VV.,

72

Der Sachverständige im Strafrecht - Kriminalitätsverhutüng, a cura di C. Frank e G. Harrer, Berlino - Heidelberg - New York - etc., 1990, p. 95

L. Eusebi, La pena “in crisi”, cit., p.62

73

L. Eusebi, op.cit., p.63-64

74

Cfr. P.A. Albrecht, Das Strafrecht auf dem Weg vom liberalem

75

Rechtsstaat zum sozialen Interventionsstaat. Entwicklungstendenzen des materiellen Strafrechts, in KritV, 1988, p.200

L. Eusebi, op.cit., p. 64

(31)

efficienza ed autorevolezza, perché la risposta ai reati gravi sarebbe sicuramente più veloce e certa, non limitandosi ad una minaccia di pena che resta simbolica in quanto sicuramente non materializzabile in un contesto in cui l’attività dell’autorità giudiziaria è soffocata dalla ipercriminalizzazione e dal sovraffollamento carcerario, e anche la propria efficacia generalpreventiva, in quanto il ricorso a una gestione alternativa, per esempio attraverso la mediazione, del fatto di reato e alle sue conseguenze garantirebbe in misura maggiore la spontanea adesione degli individui ai valori condivisi dalla collettività e protetti dall’ordinamento, con un minor spreco di risorse ed evitando, in ogni caso, la strumentalizzazione del singolo a fini generalpreventivi.


Sorprendentemente, però, lo spostarsi del baricentro della prevenzione generale dall’intimidazione al consolidamento della fedeltà al sistema di valori condiviso dai consociati è venuto di fatto a coincidere, dal punto di vista temporale, con l’affermarsi delle correnti neoretributive, le quali, com’è noto, rielaborano in termini di stabilizzazione sociale i contenuti tradizionalmente assunti dalla pena ispirata all’idea di retribuzione, con particolare riguardo alla soddisfazione di quel bisogno emotivo di pena dei cittadini che del sinallagma retributivo costituisce, in particolare in questo caso, l’unico parametro di riferimento disponibile. 
77

Sembra che la presa d’atto dell’inaffidabilità di una giustificazione intimidativa della pena, paradossalmente, non si sia poi sostanziata in un clima per così dire “antirepressivo” o quantomeno in una critica delle sanzioni tradizionalmente previste dai codici, quanto piuttosto in una loro diversa e più sofisticata legittimazione. 
78

Una modulazione particolarmente interessante di questo connubio tra prevenzione generale positiva e retribuzione consiste, prendendo in

L. Eusebi, La pena “in crisi”, cit., p.33

77

L. Eusebi, op.cit., p.33

(32)

prestito alcune nozione della psicanalisi, nel considerare la pena come strumento atto a compensare, nella psicologia dei cittadini, la frattura costituita dalla commissione del reato, la quale potrebbe compromettere l’equilibrio intrapsichico dell’individuo, ove non si desse soddisfazione al fisiologico bisogno di punizione. 
79

Parte della dottrina italiana ha infatti sostenuto la “radicalità 80 intrapsichica, ossia l’universale necessità” delle esigenze emotive di punizione che sorgono nel resto della comunità in conseguenza del reato, e che quindi sono comuni a tutti gli individui a prescindere dal contesto sociale di provenienza e dalla loro formazione, per quanto i fautori di una più moderna concezione della pena si ostinino a ignorarlo e a degradare le relative istanze come assolutamente irrazionali. 
81

In modo ancora più esplicito, e traducendo questo discorso in termini psicodinamici, si sostiene che il Super-io esiga, appunto per la salvaguardia dell’equilibrio intrapsichico di ciascuno, che ogni perdita di controllo dell’Io sulle proprie pulsioni interiori antisociali subisca la controcarica di una colpevolizzazione e conseguente repressione: non sarebbe tanto il pericolo esterno rappresentato dal danno sociale ad essere tenuto, dunque, quanto il pericolo interiore, o allarme, rappresentato dalla sopraffazione dell’Io da parte delle forze istintuali distruttive. 
82

In sostanza, l’eteropunizione altro non è che un meccanismo di difesa di cui il Super-io ha bisogno, nell’interiorità di ciascuno, per giustificare una sorta di autopunizione nel momento in cui “limita” le

L. Eusebi, La pena “in crisi”, cit., p.34

79

E. Morselli, La prevenzione generale integratrice nella moderna

80

prospettiva retribuzionistica, Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, p.52 E. Morselli, op.cit., p.51

81

E. Morselli, op.cit., p.52

(33)

pulsioni in vario modo aggressive dell’Io. 
83

Quest’angoscia interiore, data dall’infranto equilibrio oggettivo e soggettivo preesistente alla commissione del reato, si tradurrebbe in quello che viene chiamato “sentimento di giustizia”, non essendo quest’ultimo altro che la trasposizione nella sfera cosciente dell’esigenza inconscia di tale risposta difensiva e reattiva in senso compensatorio e ristabilizzatore .
84

Per altro, a questo punto del ragionamento, si arriva ad una conseguenza sorprendentemente interessante per il tema che ci accingiamo a trattare nel prosieguo: uno dei motivi principali per sostenere l’approccio neoretributivo, sempre secondo questo ordine di idee, infatti, consisterebbe nel riportare la colpevolezza, da mero limite della pena a suo fondamento. 
85

In altre parole, quasi assecondando l’eco di un ritorno alla teoria assoluta della pena di matrice kantiana nello sganciare quest’ultima dalla funzione di prevenzione generale negativa, intesa come suo fine tecnico giuridico (nel senso in precedenza precisato), proprio perché in realtà si tratterebbe di “tabuizzare” in modo inconsapevole le istanze di fondo del primordiale e insopprimibile bisogno di pena di ogni individuo, il fine meramente retributivo verrebbe a costituire, in quest’ottica, una vera e propria garanzia per il singolo che finalmente si troverebbe a non essere più strumentalizzato per esigenze di stabilizzazione della collettività, proprio in quanto la misura della sua punizione sarebbe limitata alla (e non dalla) sua colpevolezza, così da avere una pena dal presupposto esclusivamente soggettivo a tutela del

E. Morselli, La prevenzione generale integratrice nella moderna

83

prospettiva retribuzionistica, cit., p.52

E. Morselli, Il significato della capacità a delinquere per

84

l’applicazione della pena, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1977, p.1342 E. Morselli, La prevenzione generale integratrice nella moderna

85

(34)

singolo da indebite ingerenze statali. 
86

Questo spunto riflessivo, notevole nonostante le sue premesse, però, viene sviluppato in una direzione quantomai inquietante: dismessi gli abiti di strumento di funzione generalpreventiva negativa, infatti, si riscoprono gli effetti della pena riconducibili all’alveo della prevenzione generale positiva attraverso la retribuzione, e quindi, secondo quanto accennato prima, all’obiettivo di consolidamento e orientamento culturali in chiave di mantenimento della comune coscienza giuridica mediante la soddisfazione di quel sentimento di giustizia cui abbiamo fatto riferimento ; ma questa forma di “fedeltà” 87 non viene direzionata tanto nei confronti dei valori protetti dall’ordinamento, quanto proprio nei confronti di quest’ultimo.


Dunque, in merito alla definizione dell’ambito e delle modalità di azione del diritto penale “più essenziale della difesa dei singoli beni giuridici concreti è il compito di assicurare nei cittadini una stabile atteggiamento legalitario di fronte ai beni giuridici, e cioè la fedeltà verso lo Stato e il rispetto della persona (della vita, della salute, della libertà, dell’onore, etc… altrui). […] 


La semplice difesa dei beni giuridici ha una finalità puramente negativo-preventiva, di polizia, mentre il compito centrale del diritto penale è di natura positiva, etico-sociale. In quanto proscrive e punisce l’effettiva defezione dai valori fondamentali della coscienza legale e giuridica, esso manifesta, nel modo più incisivo a sua disposizione, la validità assoluta di questi valori positivi di condotta, educa il giudizio etico-sociale dei cittadini e rafforza in loro un durevole atteggiamento di fedeltà verso la legge. In questa funzione etico-sociale sta il

E. Morselli, La prevenzione generale integratrice nella moderna

86

prospettiva retribuzionistica, cit., p.67 E. Morselli, op.ult.cit., p.70

(35)

compito più importante del diritto penale” . Quindi la pena come 88 “corrispettivo del disvalore dell’azione" ha il potere di risolvere la tensione generata dalla commissione del delitto, per cui il fatto accaduto viene privato della sua dimensione lacerante, con un conseguente sentimento di soddisfazione, al quale sarebbe demandato il compito di garantire l'esistenza dello Stato, consolidandone l'autorità, secondo l'antico brocardo “punitur qui peccatum est, ne res publica detrimentum auctoritatis capiat”. 
89

Bisogna però precisare a questo punto che, per i neoretribuzionisti, sebbene possa profilarsi anche un fine di prevenzione generale della pena, questo effetto è da ricondursi esclusivamente in via indiretta e mediata al meccanismo sociale della retribuzione attraverso cui si procura il soddisfacimento del sentimento di giustizia, quindi esclusivamente con riferimento all’inflizione della pena, non certo alla sua minaccia in astratto. In sintesi si può pertanto affermare che la 90 prevenzione generale positiva, intesa quale mantenimento della comune coscienza giuridica, non è un funzione, né tanto meno “la” funzione della pena, bensì l’effetto primario della sua natura retributiva che non è fine a se stessa, ma obbedisce a precisi imperativi volti al mantenimento intrapsichico dell’individuo. 
91

A questo proposito, per altro, è fondamentale sottolineare come la retribuzione non miri al puro e semplice soddisfacimento dei bisogni emotivi di ritorsione o vendetta, ma sia un vero e proprio modo di

Cfr. H. Welzel, Studien zum System des Strafrechts, in

88

Abhandlungen zum Strafrecht und zur Rechtsphilosophie, Berlino - New York, 1975, p.7

E. Morselli, La prevenzione generale integratrice nella moderna

89

prospettiva retribuzionistica, cit., p.72 citando E. Beling, Die Vergeltungsidee und ihre Bedeutung für das Strafrecht, Aalen, 1976, p.7

E. Morselli, op.cit., p.74

90

E. Morselli, op.cit., p.77

(36)

neutralizzare il turbamento del fatto criminoso dalla coscienza collettiva, quindi non un mero istinto “di pancia”, ma un meccanismo radicato nel profondo della psiche umana funzionale alla rimozione sana del delitto dalla sfera cosciente e alla difesa dell’Io.


Ora, innanzitutto non si vede come questa formulazione non possa risultare in qualche modo allarmante: vedere il fine, anche solo accidentale, della pena retributiva nell’affermazione dell’ordinamento giuridico, nella salvaguardia dell’autorità dello Stato o della legge violata significa non considerare che l’affermazione del diritto può soltanto essere sempre uno scopo secondario e mai uno scopo finale 92 della gestione giuridica della realtà sociale.


Questo tipo di considerazione evoca infatti lo spettro di un pericoloso (e vuoto) legalismo che pare non aver alcun riguardo del contenuto della prescrizione, quanto piuttosto al suo mero rispetto formale a prescindere dal dato sostanziale: l’autorità della legge, infatti, non è un ulteriore valore da tutelare rispetto agli interessi reali che vi stanno dietro, ma soprattutto non ha una valenza autonoma; al contrario questa è mutuata da quella delle singole norme la cui efficacia, consistente nella tutela dei beni giuridici, essa garantisce. 
93

In altre parole, porre l’attenzione solo sull’autorità della norma e non sull’interesse da tutelare attraverso di essa significa far diventare il servo padrone, ma c’è addirittura chi fa diventare padrone il servo del servo sostenendo che l’unico bene da tutelare sia l’autorità statale , 94 senza considerare che quest’ultima interessa all’ambito politico

F. Exner, La funzione di tutela e la funzione retributiva della pena,

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in La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel., a cura di L. Eusebi, Giuffrè Editore, 1989, p.21

F. Exner, op.cit., p.21

93

Cfr. E. Beling, Die Vergeltung und ihre Bedeutung für das

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