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Academic year: 2021

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1. La flora spontanea nelle aree urbane

Molte delle piante spontanee presenti in natura si sono evolute adattandosi a crescere ed a diffondersi anche in quegli ambienti caratterizzati da condizioni fortemente limitanti come quelli cittadini (Benvenuti, 2004).

Nonostante vengano definite piante “spontanee”, la loro diffusione può essere in certi casi legata alle attività umane: l’uomo, infatti, attraverso le sue azioni può facilitarne la disseminazione o la propagazione, così come può in vari modi esercitare una pressione selettiva all’interno delle varie specie botaniche (Vincent e Bergeron, 1985).

Andando in giro per le strade e le piazze di una qualsiasi città, capita molto frequentemente di veder crescere varie specie di piante in situazioni dove l’umidità e lo spazio a disposizione degli apparati radicali sono molto ridotti, come ad esempio i muri, i monumenti, i bordi delle strade e le pavimentazioni dei marciapiedi.

Le piante spontanee nei contesti urbani sono, inoltre, sottoposte ad ulteriori fonti di stress, come l’inquinamento atmosferico, quello idrico o il calpestio causato dai pedoni, dagli animali o dai veicoli, che incidono negativamente sulla loro fisiologia e sul loro accrescimento (Benvenuti, 2004; Herngren et al., 2005; Brown e Peake, 2006; Rossini Oliva e Mingorance, 2006; Nali et al., 2007; Bignali et al., 2007).

Le malerbe presenti nelle aree urbane hanno messo così in risalto quei caratteri che consentono loro di sopravvivere anche in quelle nicchie ecologiche altamente antropizzate (Grime, 1979), sfruttando le poche risorse idriche e nutritive ed il poco spazio di cui dispongono per compiere il loro ciclo, riuscendo infine a propagarsi o a riprodursi.

E’ per il fatto di essere particolarmente resistenti e di diffondersi in maniera intensa e rapida, oltre che essere fonte di danneggiamento o comunque di interferenza con le attività prefissate dall’uomo, che le piante spontanee presenti negli ambienti antropizzati vengono definite “infestanti” (Holzner, 1982).

La piante infestanti delle aree urbane possono:

- danneggiare o contribuire a danneggiare le superfici dure che con il tempo possono deteriorarsi totalmente, richiedendo di conseguenza numerosi e costosi interventi di manutenzione;

- rovinare l’estetica di strade, piazze, percorsi pedonali o piste ciclabili, portando ad una condizione di degrado, particolarmente sentita nel “centro città”, che riveste molto spesso il ruolo di elemento di attrazione turistica per l’elevato pregio storico, architettonico, monumentale e urbanistico, ma anche nelle aree periferiche di minor interesse come le zone residenziali o quelle adibite a pubblico servizio;

- intralciare il passaggio dei cittadini, portando, in certi casi, a possibili infortuni dovuti a cadute, allo slittamento degli organi di propulsione dei veicoli (nel caso di biciclette o ciclomotori), o ad altre tipologie di incidenti;

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- occludere i canali della rete fognaria, causare il ristagno idrico e quindi limitare la fruizione dell’area in questione;

- ridurre la visibilità dei conducenti di autoveicoli o motocicli, soprattutto in corrispondenza di incroci e curve pericolose;

- essere fonte di allergeni;

- trattenere la sporcizia stradale ed intralciare le operazioni di spazzamento manuale o meccanico da parte degli operatori ecologici.

Risulta, perciò, indispensabile mettere in atto interventi finalizzati al controllo delle infestanti in area urbana al fine di contenere i danni che esse causano.

I tipi di danno sopra elencati hanno tutti un’elevata rilevanza nei contesti cittadini, tuttavia alcuni di essi (il danno alle superfici dure, quello estetico e quello saniatario - Figura 1.1) hanno un impatto più elevato sulla popolazione e meriterebbero una particolare attenzione da parte dei gestori del verde pubblico.

Figura 1.1. Alcuni esempi di danno provocato da infestanti in area urbana. (Dall’alto a sinistra): intralcio al passaggio pedonale su un marciapiede; limitazione del campo visivo per i conducenti di veicoli stradali; isola spartitraffico gravemente danneggiata della flora spontanea; elevata presenza di infestanti affrancate su una muratura storica.

Per quanto riguarda il danneggiamento delle superfici, la causa principale della loro compromissione è attribuibile all’accrescimento dell’apparato radicale o delle strutture vegetative (rizomi, stoloni, tuberi, bulbi, etc.), che durante il proprio sviluppo, esercitano delle tensioni sulle strutture dei manufatti, che con il tempo portano alla conseguente disgregazione

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dei materiali meno resistenti (asfalto, intonaci, commenti tra i mattoni di un muro o tra i blocchi di una pavimentazione, etc.).

Un’altra causa del danneggiamento delle superfici è dovuta all’azione chimica esercitata dalle radici attraverso l’acidità degli apici radicali e alle proprietà chelanti degli essudati (Caneva e Pinna, 2001; Lisci et al., 2003).

Anche se inizialmente i danni coinvolgono solo le parti più esterne delle superfici, con il tempo queste lesioni possono interessare anche quelle più interne, in seguito all’esposizione ai vari agenti atmosferici ed alla formazione di spazi potenzialmente colonizzabili da parte di altre specie infestanti, che possono rendere precaria la stabilità dei manufatti (Camuffo, 1995; Warscheid e Braams, 2000).

Il “biodeterioramento” delle superfici causato dalle piante superiori è un problema particolarmente sentito nelle aree monumentali ed archeologiche, dove l’esigenza primaria è legata alla loro conservazione e alla loro tutela (Mishra, et al., 1995; Celesti-Grapow e Blasi, 2004) (Figura 1.2).

Figura 1.2. Alcuni esempi di “biodeterioramento” dovuto alla vegetazione spontanea. (Da sinistra): licheni presenti sulla superficie di una antica statua, piante infestanti affrancate su un manufatto storico.

Nonostante ciò, molto spesso dobbiamo far fronte ai vari problemi pratici legati agli interventi di controllo della vegetazione, con particolar riferimento alle modalità di esecuzione, all’efficacia, ai costi ed alle ricadute ambientali, ma è altresì necessario tenere in considerazione la funzione estetico-ricreativa legata alla presenza del verde nelle aree monumentali e con l’importanza scientifico-ecologica delle comunità vegetali presenti (Caneva et al., 1989; Corbetta et al., 2002). Ovviamente non tutte le piante causano gli stessi tipi di danno: le piante erbacee, come ad esempio quelle appartenenti ai generi Parietaria sp.,

Sonchus sp., Conyza sp., sono sicuramente meno distruttive di quelle arboree o arbustive

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specie erbacee perenni (es. Cynodon dactylon) sono più dannose di quelle erbacee annuali (Almeida et al., 1994; Lisci et al. 2003).

Interessante sotto questo aspetto è il contributo di Signorini (1995, 1996) che ha proposto un Indice di Pericolosità (I.P.) delle specie vegetali che si sviluppano nelle aree monumentali ed archeologiche, e che esprime sinteticamente per ciascuna specie vegetale presente nel sito in esame la pericolosità nei confronti delle strutture architettoniche.

L’Indice di Pericolosità, che può variare da un minimo di 0 ad un massimo di 10 (le specie con I.P. da 0 a 3 sono considerate poco pericolose, quelle con I.P. da 4 a 6 mediamente pericolose, quelle con I.P. da 7 a 10 molto pericolose) esprime non solo la capacità di ogni singola specie di arrecare danni a causa delle sue dimensioni o delle caratteristiche degli apparati ipogei, ma anche le potenzialità proprie delle specie di propagarsi e sopraffare le altre, nonché la minore o maggiore difficoltà di essere eliminate tramite lo sfalcio.

Poiché lo sviluppo di piante superiori sulle superfici dure innesca una serie di processi degradativi che devono essere valutati e tenuti sotto controllo costantemente, ma che possono essere limitati riducendo la popolazione di specie vegetali fin dai primi stadi di infestazione, l’Indice di Pericolosità può rappresentare un utile strumento per guidare le scelte tecniche di diserbo sia nelle aree particolarmente sensibili, come quelle monumentali ed archeologiche, che nei diversi contesti urbani italiani, in cui spesso i manufatti architettonici di importanza storica fanno parte integrante dell’urbanistica delle città.

Il danno estetico causato dallo sviluppo incontrollato delle erbe infestanti è particolarmente sentito anche nelle zone residenziali o in quelle adibite a pubblico servizio (Figura 1.3).

Figura 1.3. Alcuni esempi di danno estetico dovuto alla flora spontanea: pista ciclabile (a sinistra) e marciapiede (a destra) in cui le piante infestanti trattengono la sporcizia e complicano il passaggio ai fruitori.

Purtroppo nelle città italiane questo è un evento che avviene di frequente, a causa della poca attenzione che di solito è rivolta alla cura degli spazi pubblici, ma che inevitabilmente si ripercuote in maniera negativa sull’immagine delle municipalità.

Riguardo all’ultima tipologia di danno, quella che interessa l’aspetto medico-sanitario, è ormai noto che durante il periodo di fioritura, i pollini prodotti da alcune piante spontanee erbacee, appartenenti principalmente alle famiglie delle Gramineae, delle Urticaceae e delle

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Asteraceae (Hordeum murinum, Parietaria officinalis, Parietaria diffusa, Artemisia vulgaris, etc.), provocano reazioni allergiche di varia entità in parte della popolazione (Riera et al., 2002; Marcer, 2004; Lessi, 2004) (Figura 1.4)

Da quanto appena detto, appare quindi chiaro che la gestione ed il controllo della flora spontanea risultano essere di fondamentale importanza nella programmazione della cura del verde cittadino.

Figura 1.4. Piante spontanee allergeniche tipiche degli ambienti urbani. (Da sinistra a destra, partendo dall’alto): orzo selvatico (Hordeum murinum), graminacee, vetriola (Parietaria diffusa), ortica (Urtica dioica).

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2. Il controllo delle piante infestanti in area urbana

In Italia, il controllo delle infestanti in ambito urbano viene eseguito prevalentemente facendo ricorso al diserbo chimico o allo sfalcio meccanico.

2.1. L’impiego di fitosanitari nel controllo delle infestanti

Per quanto riguarda il diserbo chimico, questa metodologia di controllo prevede la distribuzione dei principi attivi tramite l’impiego di irroratrici: la semplicità di utilizzo, connessa ai tempi di intervento piuttosto ridotti, ha permesso una grande diffusione di questa pratica in ambito urbano.

Il largo utilizzo di questa metodologia di controllo è dovuto anche agli elevati costi ed ai lunghi tempi necessari per l’esecuzione degli interventi di controllo fisico, nonché all’elevata estensione delle aree da gestire (Arbuckle et al. 2001; Savitz et al. 1997; Howe et al. 2004).

Ciò nonostante, il diserbo chimico presenta alcuni aspetti sfavorevoli, che molto spesso vengono sottovalutati: tra questi c’è senza alcun dubbio, l’impatto negativo sull’ambiente, dovuto ai possibili effetti nocivi che i vari formulati chimici hanno nei confronti dell’uomo, degli animali domestici e dell’ambiente stesso.

La dispersione nell’ambiente dei principi attivi ad azione erbicida è favorita, infatti, da alcuni fattori come il vento o le precipitazioni, che possono causarne, durante le operazioni di diserbo, la deriva nell’aria e nelle acque, sia superficiali che di falda (Nyström et al., 1999; De Vlaming et al., 2000; Okamura et al., 2002).

Dobbiamo inoltre tenere in considerazione che, a differenza del terreno agrario, le superfici dure urbane sono caratterizzate generalmente da un contenuto ridotto di sostanza organica e microrganismi, da una maggiore concentrazione di materiale grossolano drenante (ghiaia e pietrisco) e da una conformazione e disposizione tale da determinare un rapido allontanamento delle acque piovane, indirizzandole verso i canali di scolo (Huang et al., 2004).

E’ per questa ragione che l’impiego degli erbicidi per il controllo delle infestanti in area urbana può contribuire all’inquinamento delle falde acquifere in misura nettamente superiore rispetto a quelli destinati agli usi agricoli (Spanoghe et al., 2005).

A tal proposito, il problema della lisciviazione dei diserbanti utilizzati in ambito urbano è stato oggetto di discussione in molti paesi europei (soprattutto Olanda, Danimarca, Germania, Regno Unito), in seguito all’evidente inquinamento da erbicidi riscontrato nelle acque di falda utilizzate per scopi alimentari (Bannik, 2004; Kristoffersen et al., 2004; Skark et al., 2004; Revitt et al., 2002).

Per quanto riguarda l’utilizzo di questi prodotti, emergono alcuni dubbi anche sulla loro efficacia, che non dipende solo dal tipo di sostanze utilizzate ma anche dalla modalità di distribuzione e dalla tempistica d’intervento.

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Normalmente i diserbanti sono applicati utilizzando, in funzione delle caratteristiche delle aree da gestire, le comuni barre irroratrici di tipo “portato” accoppiate a trattrici o mediante attrezzature spalleggiate dotate di lancia manuale (Figura 2.1).

Figura 2.1. Attrezzature utilizzate per il diserbo chimico nelle aree cittadine: irroratrice portata equipaggiata con lancia manuale (a sinistra) ed irroratrice spalleggiata (a destra).

Di solito, la programmazione degli interventi di diserbo chimico delle aree non-agricole ed urbane viene impostata prevedendo l’esecuzione dei trattamenti concentrati prevalentemente durante periodo primaverile-estivo quando, grazie alle condizioni meteorologiche favorevoli, la maggior parte delle infestanti sono in crescita attiva.

I diserbanti devono essere il più efficaci possibili nei confronti delle malerbe e al tempo stesso avere una bassa tossicità (per l’uomo e gli animali) e un’aggressività molto contenuta nei confronti delle superfici trattate (in particolare nel caso di manufatti d’importanza storica, architettonica, monumentale, etc.).

Tra i numerosi principi attivi presenti sul mercato, il Glyphosate è senza dubbio uno dei più commercializzati, in quanto ha uno spettro di azione molto ampio (essendo un erbicida sistemico non selettivo), ed è caratterizzato da una ridotta tossicità verso gli animali ed una ridotta persistenza nel suolo, grazie al fatto che viene rapidamente degradato ad opera della microflora presente nel terreno). Nonostante ciò, è stato messo in evidenza da alcuni Autori il fatto che questo principio attivo, se distribuito sulle superfici che comunemente sono presenti nei contesti urbani (asfalto, cemento, ghiaia, etc.), va incontro a processi di degradazione e di dispersione che sono notevolmente differenti rispetto a quelli registrati nei terreni agrari (Biblio....). Inoltre, rispetto a quando è entrato sul mercato, negli ultimi anni il numero di specie vegetali che manifestano resistenza nei confronti del Glyphosate è aumentato in maniera evidente.

Per questo motivo i trattamenti di diserbo chimico vengono eseguiti utilizzando miscele di glyphosate ed altri principi attivi, al fine di aumentarne l’efficacia e di ampliare lo spettro d’azione (Miravalle et al., 2001; Muccinelli, 2002).

Nonostante i formulati diserbanti siano in molti casi efficaci, per ottenere un risultato soddisfacente sotto il profilo della riduzione della copertura della flora infestante, sarebbero

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necessari numerosi interventi nel corso dell’anno (almeno 4-6), ma in questo modo gli effetti negativi sulle persone e sull’ambiente verrebbero amplificati.

2.1.1. Regolamentazione dei trattamenti con prodotti fitosanitari in area

urbana.

In Italia, l’impiego dei prodotti fitosanitari nelle aree non agricole, è regolato da alcune leggi; nel caso della Regione Toscana, ad esempio, è in vigore la L.R. 1 luglio 1999, n°36 “Disciplina per l’impiego dei diserbanti e geodiserbanti nei settori non agricoli e procedure per

l’impiego dei diserbanti e geodiserbanti in agricoltura” - Bollettino Ufficiale della Regione

Toscana n°20 (Allegato 1).

L’Articolo 6 della suddetta legge, elenca i requisiti dei principi attivi impiegabili, vietando quelli classificati come “molto tossici”, “tossici” e “nocivi” (per l’uomo e la fauna, terrestre ed acquatica, nonché per la microflora e la microfauna), che devono essere caratterizzati da una bassa persistenza ambientale, accertata nel corso delle pratiche effettuate per la loro registrazione (Comma 1 e 2).

Coloro che intendono impiegare gli erbicidi per scopi non agricoli, hanno l’obbligo di richiedere ed ottenere, presso l’Azienda ASL competente del territorio, il “nulla-osta” di carattere sanitario, che deve essere rilasciato dalla stessa ASL entro un massimo di 20 giorni dalla data di consegna della domanda (Comma 3).

La legge riporta anche che l’area destinata al controllo chimico deve essere delimitata e segnalata dagli addetti ai lavori, con cartelli di pericolo e di divieto di accesso (Figura 2.2), sia durante il tempo necessario per l’esecuzione del trattamento che per tutto l’intervallo di inagibilità (stabilito in almeno 48 ore), per evitare l’esposizione dei cittadini e degli animali domestici ai prodotti impiegati (Comma 4).

Figura 2.2. Cartelli utilizzati per la segnalazione delle aree sottoposte a trattamento chimico. (Da sinistra): cartello di “Divieto di Accesso” e cartello di “Pericolo Sostanze Velenose”.

Qualora sussistano possibili pericoli per la salute pubblica, il Sindaco può vietare l’accesso alle aree trattate per un periodo correlato al tempo di rientro del prodotto impiegato (Comma 5); onde evitare questi rischi vengono escluse dai trattamenti chimici le aree che si trovano a meno di 10 m dalle abitazioni e dai ricoveri dei animali (Comma 6) e dalle strade di pubblico passaggio (Comma 7).

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La legge prevede infine, l’obbligo di manutenzione delle irroratrici impiegate per i trattamenti, finalizzata ad evitare malfunzionamenti che possono rappresentare pericolo per gli operatori e per i cittadini (Articolo 7) e una vigilanza da parte della ASL, dell’ARPAT e di tutti gli altri organi istituzionalmente preposti, tesa a verificare il rispetto delle normative (Articolo 10).

Anche nei paesi del Nord Europa il problema dell’impiego dei prodotti fitosanitari in ambiente urbano è molto sentito e ha portato all’emanazione di leggi che in alcuni casi vietano totalmente l’utilizzo di questi prodotti.

Un esempio è la Danimarca, dove il Governo, sotto la sollecitazione della popolazione stessa, ha condotto una campagna di monitoraggio della qualità delle acque di falda i cui risultati hanno messo in evidenza la presenza di alcuni residui di fitofarmaci in queste risorse idriche.

In considerazione dei risultati ottenuti è stato deciso di abolire l’utilizzo dei fitofarmaci in ambito urbano a partire dal 1 gennaio 2003.

Un altro esempio è la Svezia, dove già nel 1991 circa l’80% delle municipalità avevano legiferato contro l’utilizzo dei prodotti chimici per il controllo delle infestanti e degli agenti fitopatogeni in area urbana.

2.2. Mezzi fisici di controllo delle infestanti su superfici dure.

L’alternativa all’uso degli erbicidi per la gestione delle malerbe in ambito urbano è rappresentata dall’impiego di mezzi fisici diretti (meccanici o termici) o ad azione preventiva (Hansen et al., 2004; Kempenaar e Spijker, 2004).

Come già detto in precedenza, il controllo non-chimico delle infestanti può essere, in alcuni casi, più complesso del diserbo chimico, ma presenta il grande vantaggio di non lasciare residui dopo l’intervento e di permettere quindi l’immediata fruibilità dell’area trattata.

2.2.1. Mezzi meccanici.

Sulle superfici dure, i mezzi meccanici per il controllo delle infestanti sono rappresentati quasi esclusivamente dal decespugliatore, dalle trinciatrici, dai rasaerba, (destinati allo sfalcio dei tappeti erbosi) e dalle spazzolatici rotative, frequentemente utilizzate con successo su asfalto e lastricato (Hein, 1990).

2.2.1.1. Il decespugliatore

Il decespugliatore è un’attrezzatura spalleggiata motorizzata, il cui motore è collegato tramite un’asta rigida all’apparato di taglio, costituito da un disco dentato di metallo o da un rotore, chiamato anche “testa”, che sostiene due fili di nylon (Figura 2.3).

Questa attrezzatura è utilizzata per lo sfalcio di piante erbacee o lignificate e, grazie alla loro versatilità e maneggevolezza, rende possibile il raggiungimento di zone difficilmente accessibili ai mezzi semoventi.

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Figura 2.3. Il decespugliatore. (Da sinistra): struttura dell’attrezzatura; modalità di taglio.

La loro facilità d’utilizzo ha permesso la rapida diffusione dei decespugliatori tra coloro che si occupano di giardinaggio e della cura del verde urbano, proprio per far fronte alle più diversificate situazioni che l’ambiente urbano presenta, diventando così praticamente gli unici mezzi usati per lo sfalcio delle piante infestanti sulle superfici dure.

Nonostante ciò, i decespugliatori presentano alcuni difetti, legati soprattutto alla modalità di taglio che eseguono: infatti, l’elevata velocità periferica raggiunta dai fili di nylon, per la rotazione impressa alla testa dal motore, può causare la proiezione di oggetti (come ghiaia, piccole pietre, lattine vuote, pezzi di metallo, etc.) ad alcuni metri di distanza.

A fine di evitare possibili danni è buona norma ispezionare la zona da trattare, rimuovendo tutti gli oggetti potenzialmente pericolosi, osservando durante il lavoro una distanza di sicurezza di 15 m dalle persone e dalle cose, ed equipaggiare le attrezzature di taglio con involucri o schermi protettivi (Regione Piemonte, 1997).

Giacché queste regole vengono seguite raramente, gli infortuni o i danneggiamenti a terzi causati da un uso improprio dell’attrezzatura, sono all’ordine del giorno nelle nostre città.

Oltre a provocare il lancio di oggetti a distanza, la forte rotazione della testa del decespugliatore può favorire la disseminazione delle infestanti e causare danni alle superfici da trattare o ad altre strutture di diversa natura, come ad esempio i fusti degli alberi.

Nella maggior parte dei casi lo sfalcio eseguito con il decespugliatore determina, quasi sempre, il taglio grossolano di una porzione della parte epigea delle infestanti, senza rimuovere o danneggiare le gemme e i meristemi basali, protetti dalle fessure della superficie trattata.

Per quanto riguarda le trinciatrici sono generalmente utilizzate per lo sfalcio grossolano di superfici inerite di maggiori dimensioni, come le banchine stradali, gli argini dei fiumi o dei canali (Figura 2.4).

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Figura 2.4. Alcuni esempi di trinciatrici utilizzate per il taglio delle piante spontanee, lungo i canali (a sinistra) e le banchine stradali (a destra).

2.2.1.2. Spazzolatici rotative.

Già sperimentate in alcuni paesi del Nord Europa (in particolar modo in Olanda e Danimarca), queste operatrici possono essere equipaggiate con spazzole ruotanti su asse orizzontale o su asse verticale garantendo un’elevata versatilità, in grado di operare in punti difficili come nelle intersezioni tra i marciapiedi e gli edifici o lungo i bordi stradali, dove la presenza delle infestanti e molto frequente.

Le setole degli organi lavoranti (spazzole) devono essere molto robuste, resistenti all’abrasione e all’usura, e possono essere realizzate in materiale plastico o metallico.

Tutte queste attrezzature agiscono per lacerazione ed estirpamento della parte aerea delle infestanti, lasciando i residui vegetali che dovranno essere tolti in seguito (Raffaelli e Peruzzi, 1998b).

Queste attrezzature possono essere molto varie: quelle più semplici sono costituite generalmente da un piccolo carrello trainato dall’operatore, con una o due spazzole ruotanti su asse verticale posizionate anteriormente, azionate da un motore endotermico oppure elettrico.

Da questi modelli ne derivano altri costituiti da piccole equipaggiamenti semoventi che come le precedenti possono essere utili per piccole superfici o per strade strette difficilmente raggiungibili da quelli di maggiori dimensioni.

Le attrezzature più complesse molto spesso vengono accoppiate ad una trattrice o ad attrezzature per il giardinaggio, di tipo semovente, come “lawn-tractors” o “rider”; queste possono essere equipaggiate con un apparato aspirante o spazzante che elimina direttamente i residui vegetali derivanti dall’azione delle spazzole (Figura 2.5).

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Figura 2.5. Alcuni modelli di spazzolatici utilizzate per il controllo delle infestanti su superfici dure. Attrezzatura con spazzole ruotanti ad asse verticale accoppiata a trattrice (in alto a sinistra), semovente carrellata (in alto a destra), equipaggiata con apparato aspirante per i residui vegetali (in basso a sinistra) e ad asse orizzontale (in basso a destra).

Oltre ad intervenire direttamente sulle infestanti, le spazzolatrici svolgono anche un’azione preventiva, in quanto permettono la rimozione parziale o totale di quei residui (polveri, terra, materiale organico) che tendono ad accumularsi ai bordi delle strade, lungo i cordoli dei marciapiedi o tra le fessure di una pavimentazione, e che rappresentano il substrato su cui le infestanti urbane prevalentemente germinano (Hansen et al., 2004).

I principali difetti di queste attrezzature risiedono nella loro ridotta velocità di lavoro, nella necessità di effettuare frequenti interventi di manutenzione, nella loro scarsa efficacia sulle infestanti ben sviluppate o comunque ben affrancate, su superfici non piane, e nell’impossibilità di essere utilizzate su superfici facilmente danneggiabili dai trattamenti meccanici (terra battuta e ghiaia) (Raffaelli e Peruzzi, 1998 a; 1998b; Kempenaar e Spijker, 2004).

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2.2.1.3. Macchine per il controllo fisico delle piante infestanti su superfici inghiaiate.

Si tratta di attrezzature semiportate (cioè portate in fase di trasporto e trainate durante il lavoro) costituite da un telaio rettangolare (dotato di due o quattro ruote) dove generalmente sono inserite in sequenza, su piccoli telai indipendenti, due file di denti elastici che servono a rendere omogenea l’altezza della ghiaia o delle pietre, una lama che taglia le erbe e un’altra serie di denti elastici per ripristinare le giuste condizioni della superficie su cui è passata la macchina. Gli organi lavoranti sono facilmente regolabili mediante martinetti meccanici e possono essere sostituiti con altri molto velocemente (Figura 2.6).

Questa attrezzatura funziona molto bene sulle superfici inghiaiate con uno strato di pietrisco omogeneo, sciolto e non inferiore ai 2 centimetri, con un sottofondo compatto ma senza grosse pietre.

Dal costo molto contenuto, queste attrezzature permettono di eseguire i trattamenti a velocità elevate (8-12 km/h), garantendo così una notevole capacità di lavoro (Raffaelli e Peruzzi, 1998b).

Figura 2.6. Schema di macchina per il diserbo meccanico su strade inghiaiate

2.2.2. Mezzi termici.

Con questa terminologia vengono identificate tutte quelle tecniche che prevedono l’utilizzo del calore come mezzo per il controllo delle infestanti e risultano una valida alternativa ai mezzi meccanici

L’energia necessaria per il trattamento termico può essere trasmesso per mezzo di onde elettromagnetiche, energia elettrica, acqua calda, aria calda, vapore acqueo ed energia termica, sia sottoforma di fiamma libera che di raggi infrarossi (Casini 1994, Ceccatelli e Peruzzi 1995; Peruzzi 1992c; Senza et al.,1991).

Per tutte queste metodologie il principio d’azione consiste nel provocare, attraverso una rapida esposizione al calore, uno “shock termico” dovuto ad un rapido innalzamento della temperatura nei tessuti vegetali.

Dal punto di vista metabolico l’effetto si traduce nella disidratazione dei tessuti, nella denaturazione delle proteine e degli enzimi, nel cambiamento della conformazione delle

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membrane cellulari con conseguente aumento della permeabilità in seguito al danneggiamento dei lipidi di membrana, nell’alterazione della conduttività stomatica, con ripercussioni sulla fissazione della CO2, sulla sintesi dei carboidrati, sull’alterazione dei processi respiratori e sulla

divisione cellulare.

In tal modo le piante sono impossibilitate a proseguire il normale ciclo vegetativo e (se trattate in fase giovanile) vanno incontro in tempi più o meno ridotti ad essiccamento ed a morte (Ellwanger et al., 1973a,b).

2.2.2.1. Apparecchiature a microonde.

Sono attrezzature che utilizzano onde elettromagnetiche con una frequenza elevata o ultra-alta (Ultra Hight Frequency – UHF), che colpendo la flora infestante provocano un forte riscaldamento dei liquidi cellulari e la rapida inibizione dei processi biologici.

I vantaggi di questa tecnica sono dovuti alla possibilità di attuare interventi efficaci anche su piante infestanti in avanzato stadio di sviluppo ed alla scarsa influenza che hanno nei suoi confronti alcuni fattori atmosferici quali il vento e l’umidità relativa dell’aria.

Tuttavia questa tecnica non ha avuto molto successo in ambito urbano, per l’elevato dispendio energetico, per la ridotta capacità di lavoro, per la riconosciuta pericolosità per l’operatore e per gli elevati costi di gestione (Rifai et al., 2003; Sartorato et al., 2005;).

L’utilizzo delle microonde, pertanto, ha avuto una corta diffusione soltanto nel campo del risanamento e della geosterelizzazione dei substrati colturali in serre (Faulkner, 1994; Galigani et al., 1991; Martini et al.,1989; Pelagatti et al., 1992).

2.2.2.2. Apparecchiature a raggi gamma.

Queste attrezzature utilizzano l’emissione di radiazioni prodotte dagli isotopi di alcuni elementi chimici, come ad esempio il 137Cesio e il 60Cobalto.

I semi presenti nel suolo assorbono queste radiazioni e, in base alla quantità assorbita, la loro capacità germinativa diminuisce notevolmente.

Come per quelle a microonde, anche queste attrezzature sono state utilizzate, quasi esclusivamente, per la sterilizzazione dei substrati destinati al giardinaggio, a causa dei grossi problemi relativi alla sicurezza degli operatori e dei cittadini (Casini, 1994; Faulkner, 1994).

2.2.2.3. Apparecchiature a raggi laser.

L’utilizzo di raggi laser (Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation) fu sperimentato intorno agli anni ’70 negli USA.

Questa metodologia di controllo richiede l’impiego di apparecchiature molto complesse e ingombranti, oltre a richiedere un notevole consumo energetico, a causa del quale non ha trovato reali possibilità applicative (Casini, 1994; Mathiassen S.K. et al., 2006).

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Sperimentate recentemente, queste attrezzature sono state introdotte nella gestione delle infestanti in area urbana soprattutto nei paesi del Nord Europa, rivelandosi come una buona alternativa al diserbo chimico e all’utilizzo dei mezzi meccanici.

Le attrezzature ad acqua calda, già impiegate per la pulizia delle strade, sono essenzialmente costituite da un serbatoio contenente acqua (riscaldata da una caldaia alimentata a GPL o a gasolio), da una pompa che mette in pressione il liquido e da una serie di tubazioni che lo portano agli ugelli per la sua distribuzione.

In alcuni casi, all’acqua calda possono essere aggiunti alcuni agenti schiumanti (contenenti zuccheri naturali estratti dal grano e dalla noce di cocco) in grado di determinare un effetto disseccante della vegetazione (Collins et al., 2002) (Figura 2.7).

Figura 2.7. Trattamenti con acqua calda e agenti schiumanti, per il controllo della flora spontanea.

In Svezia queste attrezzature sono principalmente utilizzate nel controllo della flora spontanea lungo le ferrovie: le temperature di esercizio (superiori ai 70°C) permettono di evitare possibili danni ai cavi elettrici ed alle apparecchiature che si trovano vicino alle rotaie.

Il loro utilizzo è però limitato da una bassa capacità operativa, dovuta a consumi elevati di acqua (circa 5 litri/m2 di superficie trattata) e di combustibile necessario al suo riscaldamento,

che comportano frequenti soste per il rifornimento.

Inoltre l’elevata rumorosità di queste macchine in fase di lavoro non ne facilita l’impiego nei contesti urbani.

Il consumo di acqua può essere limitato con l’utilizzo di equipaggiamenti a vapor acqueo (circa 0,5 litri/m2 di superficie trattata), che però richiedono sempre una notevole quantità di

combustibile necessario al riscaldamento dell’acqua.

Rispetto alle macchine a fiamma libera, quelle che utilizzano vapore e acqua calda determinano, a parità di velocità operativa, un riscaldamento della vegetazione e delle superfici trattate più ridotto di circa un quarto, e quindi l’efficienza di trasferimento di energia termica risulta anch’essa notevolmente inferiore.

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Altro svantaggio di queste tipologie di macchine operatrici risiede nel loro ingombro e nell’essere meno versatili rispetto ad alcune tipologie di attrezzature per il pirodiserbo (Hansson, 2002; Kerpauskas et al., 2006).

Infine, un altro metodo di controllo alternativo utilizza attrezzature carrellate, simili a termo-ventilatori, in grado di generare aria calda; impiegata soltanto a livello di sperimentazione nei Paesi del Nord Europa, non ha ottenuto risultati sufficienti per il suo impiego nella gestione della flora infestante.

In Danimarca queste attrezzature vengono destinate all’esecuzione di trattamenti nei luoghi più suscettibili al rischio d’incendio, come ad esempio lungo le piste ciclabili urbane e periurbane (Collins et al., 2002; Hansson, 2002; Hansson e Ascard, 2002) (Figura 2.8)

Figura 2.8. Esempi di controllo termico delle specie infestanti in area urbana in Danimarca, attraverso l’utilizzo di attrezzature a vapore acqueo (a sinistra) e ad aria calda (a destra).

2.2.2.5. Attrezzature per il pirodiserbo.

Tra i mezzi termici utilizzati per il controllo delle infestanti su superfici dure, il pirodiserbo risulta essere indubbiamente quello più efficiente e le attrezzature impiegate per questa tecnica sono inoltre a estremamente versatili, di semplice impiego, e poco costose (Ascard, 1995).

Molto spesso con il termine “pirodiserbo” vengono indicate tutte le tipologie di attrezzature che svolgono un controllo delle infestanti di tipo termico. Al riguardo, è necessario precisare che devono essere invece indicate soltanto quelle attrezzature che utilizzano fiamma libera o raggi infrarossi; queste attrezzature saranno dettagliatamente descritte ed analizzate nel capitolo successivo.

2.2.2.6 Altre soluzioni.

Tra tutte le tipologie di gestione “non chimica” delle infestanti su superfici dure, appare opportuno ricordare che sono disponibili attualmente anche una serie di accorgimenti preventivi, con cui è possibile ottenere un certo controllo della flora spontanea.

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Al riguardo, uno dei sistemi più promettenti consiste nell’uso di particolari tessuti per terreno che vengono posti in lamina prima della stesura dell’asfalto, per ovviare ai problemi creati da piante dotate di organi di propagazione vegetativa molto profondi (come ad esempio

Cirsum arvense ed Equisetum arvense) e che sono quindi dotate della capacità di emergere e

crescere, sfondando e danneggiando la superficie (Figura 2.9).

Questi tessuti sono costituiti da filati di polipropilene, che sono praticamente imperforabili dalla parte apicale delle piante che stanno crescendo nel terreno.

Figura 2.9. Schema di strada asfaltata utilizzando un tessuto per terreno: (A) tessuto per terreno; (B) nuovo asfalto; (C) strato di ghiaia; (D) strato di stabilizzato.

Per la loro corretta stesura è necessario interporre tra tessuto e asfalto un substrato sicuramente non idoneo alla crescita di piante che, se dotate di apparato radicale molto “penetrante”, sono in grado di forarlo vanificando l’opera di prevenzione.

Utilizzando questa tecnica le superfici asfaltate, lastricate, pavimentate con autobloccanti, etc. risultano quasi totalmente protette dal successivo sviluppo delle avventizie.

L’unico problema risiede nel costo molto più elevato di messa in opera che però può risultare economicamente sostenibile in considerazione dell’utilizzazione collettiva delle strade e della successiva bassissima richiesta di operazioni di manutenzione.

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3. Il Pirodiserbo

3.1. Generalità e cenni storici.

L’utilizzo del fuoco per il risanamento del terreno agrario, è presente in agricoltura fin dai tempi più remoti; al riguardo, infatti, una pratica molto diffusa era quella della messa a coltura di terreni “vergini” attraverso l’incendio della vegetazione esistente.

Questa pratica poteva essere utilizzata anche per l’eliminazione dei residui delle coltivazioni, nella fertilizzazione del terreno con le ceneri ed al contempo nell’eliminazione di eventuali parassiti animali e vegetali (Ceccatelli e Peruzzi, 1995; Covarelli e Bonciarelli, 1974; Bonciarelli, 1980; Giardini, 1986).

Il pirodiserbo, nella sua accezione più moderna, rappresenta in agricoltura un mezzo di controllo fisico delle infestanti che agisce in maniera sia selettiva che non selettiva mediante radiazioni termiche generate da apposite attrezzature, rappresentate nella maggior parte dei casi da bruciatori a gas (Peruzzi et al., 1997).

Questa nuova tecnica si è sviluppata in tempi relativamente recenti negli USA, e fonda il proprio meccanismo d’azione sugli effetti che il calore provoca sui tessuti vegetali (Baggette, 1947, 1948; Wright, 1947; Stanton, 1954a, 1954b; Bowser, 1963; Anonimo, 1966; Harris et al., 1968, 1970; Lalor, 1968; Lalor e Buchele, 1968, 1969; Philipsen, 1970; Giorgi, 1994; Ceccatelli e Peruzzi, 1995;).

Infatti, l’acqua contenuta nelle cellule vegetali subisce un rapido processo di innalzamento della temperatura, che conduce alla rottura delle membrane cellulari ed alla devitalizzazione dell’intera pianta, in seguito al blocco del flusso inter-cellulare ed all’evaporazione dell’acqua (Haussmann et al., 1971, Vester, 1986; Senza et al., 1991;).

Il primo brevetto di una macchina per il pirodiserbo risale al 1852, e fu depositato da J.A. Graig di Columbia Arkansas (USA) (Ceccatelli e Peruzzi, 1995).

La tecnica del pirodiserbo iniziò ad essere studiata ed introdotta in campo agricolo negli USA intorno agli anni ’40 del secolo scorso, dopo le prime esperienze di P.C. Mc Lemore effettuate su coltivazioni di cotone ed ananas negli anni ’30.

Le ricerche andarono avanti fino agli anni ’70, momento in cui quasi si interruppero a causa delle difficoltà riscontrate nella diffusione della pratica del pirodiserbo legate alla crisi petrolifera (Baggette, 1947; Wright, 1947; Stanton, 1954; Bowser, 1963; Lalor e Buchele, 1968; Harris et al., 1970; Philipsen, 1970).

La sperimentazione di questa tecnica aumentò notevolmente, tanto che nel 1947 negli USA c’erano ben venticinque centri che lavoravano su queste tematiche (Stanton, 1954a, 1954b) ed alcune grandi aziende del settore, producevano e commercializzavano macchine per il pirodiserbo che utilizzavano come combustibile il GPL.

Negli anni settanta, la crisi petrolifera che portò all’aumento del prezzo del greggio e dei sui derivati (tra cui il GPL) e il contemporaneo sviluppo di nuovi ed efficaci prodotti chimici (gli

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erbicidi selettivi), sembravano poter compromettere l’affermazione e la diffusione delle attrezzature per il pirodiserbo.

Il lavoro di sperimentazione proseguì, invece, in alcuni Paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Svizzera), dove il pirodiserbo venne impiegato, sia per il controllo delle infestanti che per la devitalizzazione della parte epigea di alcune colture (patate e cipolle) in fase di pre-raccolta (Ascard, 1988a,b; Ascard, 1989; Desvaux, 1987)

In Italia, la tecnica del pirodiserbo fu introdotta soltanto negli anni sessanta (Cattabriga, 1965; Pellizzi, 1964), con il contemporaneo inizio delle prime sperimentazioni.

Probabilmente la prima macchina per il pirodiserbo importata nel nostro Paese fu quella acquistata dall’Istituto di Meccanica Agraria di Milano e utilizzata per prove sperimentali su colture di patata, barbabietola da zucchero e mais.

Nello stesso periodo fu fondata la “Società Italiana per lo studio e l’applicazione del Pirodiserbo”, con l’intento di stimolare la conoscenza e la diffusione di questa tecnica. Tutto questo, però, non permise al pirodiserbo di riscuotere subito negli agricoltori il successo tanto desiderato, che si manifestò invece in seguito alla diffusione di tecniche di coltivazione eco-compatibili prima, e dell’agricoltura biologica poi (Peruzzi et al. 2002a, 2002b).

Oggi il pirodiserbo è largamente utilizzato in agricoltura dalle aziende “biologiche”, mentre risultano scarse le applicazioni in area urbana (Raffaelli e Peruzzi, 1998; Hansen et al., 2004; Kempenaar et al., 2005a, 2005b).

Una delle poche sperimentazioni eseguite in ambito urbano, è stata eseguita nel 2004 nella città di Livorno, e tale esperienza ha permesso di verificare come il pirodiserbo possa determinare una significativa riduzione della copertura di infestanti su diverse tipologie di superficie dura, consentendo di controllare il livello di re-infestazione post-intervento in maniera migliore rispetto al diserbo chimico ed a costi praticamente comparabili (Peruzzi et al., 2007c).

3.2. Evoluzione e meccanismi d’azione.

A partire dagli anni trenta, c’è stata una significativa evoluzione delle macchine per il pirodiserbo che ha portato al passaggio dalle macchine a “fiamma libera” (nelle quali la fiamma investe direttamente le piante infestanti), alle recentissime attrezzature a “raggi infrarossi”.

Un notevole miglioramento, si è avuto anche dal punto di vista delle prestazioni operative, soprattutto grazie all’impiego del GPL (Gas di Petrolio Liquefatto) come combustibile per generare la fiamma.

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Figura 3.1. Esempi di attrezzature per il pirodiserbo utilizzate in agricoltura a fiamma libera (a sinistra) ed a raggi infrarossi (a destra).

Al riguardo infatti, tra gli anni trenta e quaranta, le attrezzature utilizzate negli USA per il pirodiserbo (destinate alla pulizia delle ferrovie e dei fossati) utilizzavano come combustibile petrolio, benzina o kerosene e risultavano poco efficaci, in quanto producevano una fiamma instabile e di difficile regolazione.

Queste attrezzature presentavano anche altri problemi, tra cui il possibile gocciolamento di liquido incombusto dai bruciatori (che risultava fitotossico) e richiedevano un flusso di aria forzata o altre soluzioni tecniche per permettere al combustibile di raggiungere una sufficiente pressione. Infine, il processo di combustione di tali sostanze risultava inquinante.

C’era quindi l’esigenza di trovare un combustibile alternativo e l’elevata quantità di GPL disponibile durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale, offrì l’opportunità della sua utilizzazione.

L’impiego del GPL consente di:

- avere un processo di combustione “pulito”, dal momento che si formano CO2 e H2O,

mentre le altre sostanze sono presenti in quantità trascurabile e pressoché insignificante;

- generare una fiamma stabile e facilmente regolabile; - avere un costo ridotto ed essere facilmente reperibile.

Queste caratteristiche hanno favorito la diffusione del pirodiserbo nel continente americano (Bowser, 1963; Cattabriga, 1965; Lalor e Buchele, 1969; Pellizzi, 1964), mentre in Europa, negli anni sessanta, le attrezzature per il pirodiserbo, che venivano prodotte e commercializzate soprattutto in Inghilterra, utilizzavano ancora il kerosene e il propano: il primo serviva per la generazione della fiamma continua, mentre il secondo per il pre-riscaldamento dei bruciatori e per portare in pressione il kerosene. (Anonimo, 1966; Cattabriga, 1965). Ciò era dovuto al prezzo del GPL che, a causa della crisi petrolifera, in Europa rendeva economicamente poco conveniente il suo utilizzo in agricoltura.

Negli ultimi anni, con l’elevata diffusione della gestione biologica ed integrata dell’agricoltura, questa tecnica è stata considerata una reale alternativa al diserbo chimico.

Le ricerche effettuate sul pirodiserbo avevano ovviamente anche la finalità di trovare metodi sempre più efficienti di devitalizzazione delle piante infestanti. A questo proposito fu

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molto importante la sperimentazione eseguita da Lalor e Buchele (Gasparetto, 1971; Lalor e Buchele, 1968, 1969, 1970) su una macchina dotata di bruciatori e di diffusori di aria forzata (diretta sia orizzontalmente che verticalmente) prodotta da un motore elettrico.

Questa attrezzatura permetteva di eseguire il pirodiserbo nell’interfila (attraverso bruciatori centrali) e ottimizzare l’efficienza del trattamento sulla fila (convogliando il calore derivato da due bruciatori laterali); la coltura veniva protetta dal calore per mezzo di una corrente d’aria fredda (Figura 3.2).

Figura 3.2. Schema della macchina per pirodiserbo a” cortina d’aria”, sviluppata da Lalor Buchele in sezione ed in pianta: (1) condotto d’aria orizzontale; (2) condotto d’aria verticale; (3) flusso d’aria generato, (4)

pianta coltivata; (5) bruciatore centrale; (7) bruciatore laterale; (rielaborato da Lalor e Buchele, 1968).

Gli intenti di Lalor e Buchele erano quelli di limitare la perdita del prodotto vendibile, cercando di delimitare al meglio l’area sottoposta al trattamento e di controllare in modo rigoroso l’innalzamento della temperatura.

La necessità di “localizzare” il trattamento ha portato all’utilizzo di particolari protezioni (Figura 3.3), con cui è possibile proteggere le colture, limitare la perdita di calore e l’influenza di fattori ambientali, come il vento (Martini, 1994).

Le innovative apparecchiature a raggi infrarossi, il cui utilizzo è particolarmente indicato la dove esistono un rischi di incendio, consentono infine di effettuare un trattamento molto localizzato migliorando il rendimento del combustibile impiegato, nonostante siano connesse ad una capacità operativa e ad un’efficienza complessiva decisamente inferiori rispetto a quelle delle attrezzature a fiamma libera.

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Figura 3.3. Attrezzature per il pirodiserbo, munite di protezioni (carter) necessarie per la localizzazione del trattamento e per ridurre la dissipazione del calore, causata da fattori ambientali.

3.3. Le moderne macchine per il pirodiserbo.

Le tipologie delle attrezzature per il pirodiserbo a fiamma libera disponibili sul mercato sono molto diversificate, ma fondamentalmente sono operatrici costituite dalle seguenti parti (3.4):

1. il telaio;

2. il serbatoio del combustibile; 3. lo scambiatore termico;

4. i dispositivi di regolazione e di sicurezza; 5. i bruciatori;

6. i dispositivi per mantenere la corretta distanza tra bruciatore e terreno;

Figura 3.4. Schematizzazione di una operatrice per pirodiserbo: (A) contenitore di GPL; (B) telaio; (C) Scambiatore termico; (D) parallelogramma articolato; (E) bruciatore; (F) valvola di comando del bruciatore; (R) regolatore di pressione,

3.3.1. Il telaio.

Ha la funzione di supportare uno o più serbatoi, lo scambiatore di calore (se presente), i dispositivi di regolazione e di sicurezza e, nel caso di macchine portate dalla trattrice o collegate ad un motocoltivatore, i bruciatori con i relativi meccanismi di supporto e di distanziamento dal terreno.

Il telaio è poi completato dagli organi di collegamento al mezzo di propulsione: si passa dalle cinghie delle attrezzature spalleggiate (in questo caso il telaio è una sorta di zainetto), ai

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dispositivi di collegamento ad un determinato tipo di motocoltivatore ed infine al sistema standard di attacco a tre punti della trattrice.

3.3.2. I serbatoi di GPL.

Il serbatoio del combustibile è quasi sempre costituito da una bombola di GPL commerciale di formato variabile tra i 5 kg per le attrezzature spalleggiate, i 15 kg per quelle carrellate ed i 25 kg per quelle collegate ad una operatrice semovente o di tipo portato.

Nelle macchine ad elevata capacità di lavoro vengono usate una serie di bombole in parallelo.

Per problemi di omologazione questa soluzione è preferita a quella che prevede l’utilizzo di un unico serbatoio periodicamente rifornito da un apposito automezzo.

3.3.3. Lo scambiatore termico.

Lo scambiatore termico è impiegato soltanto nelle macchine collegate ad una operatrice semovente o di tipo portato dalla trattrice, e la sua funzione è quella di fornire energia termica alle bombole di GPL durante il trattamento di pirodiserbo (Figura 3.5).

Figura 3.5. Operatrice per il pirodiserbo equipaggiata con scambiatore termico (a sinistra); particolare dello scambiatore termico (a destra).

Il GPL è una miscela di gas che evapora a temperatura ambiente e viene quindi immagazzinata sotto pressione all’interno di apposite bombole di metallo; durante i trattamenti all’interno della bombola avviene il passaggio di fase del combustibile da quella liquida a quella gassosa, con espansione endotermica del gas e conseguente perdita di calore.

Il raffreddamento della bombola, che si manifesta con la formazione di un sottile strato di ghiaccio intorno alla bombola, determina una progressiva diminuzione della pressione di esercizio del gas, che provoca un mal funzionamento del bruciatore e quindi della macchina nel suo complesso (Raffaelli e Peruzzi, 2002).

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L’utilizzo dello scambiatore termico permette di superare queste problematiche aumentando la capacità operativa delle attrezzature.

In commercio si trovano scambiatori termici “a serpentina”, oppure costituiti da una tramoggia metallica (in cui sono alloggiate le bombole) riempita d’acqua, riscaldata dai gas di scarico della macchina motrice o tramite una fiamma alimentata dal GPL dei serbatoi stessi

3.3.4. Dispositivi di regolazione e di sicurezza.

I dispositivi di regolazione e di sicurezza, normalmente presenti sulle attrezzature per il pirodiserbo, sono i seguenti:

- la valvola di regolazione che serve per variare la pressione con cui il GPL giunge agli ugelli, in funzione della temperatura che si intende raggiungere e del consumo di combustibile con cui si intende operare;

- il manometro, per visualizzare la pressione raggiunta dal GPL nel circuito di alimentazione; - la valvole di regolazione di minima e di massima, che permettono di ridurre il consumo di

GPL durante le voltate e i trasferimenti, evitando di danneggiare le colture e di causare la combustione della vegetazione presente sulle testate dei campi;

- una serie di valvole “aperto-chiuso”, poste a monte del circuito di alimentazione di uno o due bruciatori, che permettono, nella fase di accensione, di alimentare solo i bruciatori a cui l’operatore avvicina l’apposito cannello, mentre nella fase di regolazione della macchina, consentono di aumentarne la duttilità, rendendo operativi anche solo una parte dei bruciatori.

I dispositivi di sicurezza consistono di solito in una termocoppia collegata ad un’elettrovalvola posta nel circuito d’alimentazione di ciascun bruciatore, con la funzione di bloccare la fuoriuscita del gas in caso di assenza di fiamma o di pressione insufficiente, con rischio di ritorno di fiamma.

Nelle attrezzature manuali, invece, si trovano la valvola di regolazione della pressione ed il manometro, mentre la quantità di gas in uscita viene regolata intervenendo sui regolatori di minima e di massima e sul grilletto posti sull’impugnatura della lancia.

3.3.5. I bruciatori.

Il bruciatore è l’elemento più importante della macchina, poiché da esso dipende la modalità di formazione della fiamma e di conseguenza il risultato operativo.

Lo scopo è ottenere una fiamma stabile, ben delimitata ai lati e con conformazione “a spazzola”, che, regolandone l’inclinazione rispetto al suolo, riesca a mantenere le temperature

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più elevate in prossimità del terreno, impedendo il verificarsi di rilevanti moti convettivi e riflessioni verso le aree esterne a quella da trattare.

Il numero di bruciatori utilizzabili è variabile: le attrezzature manuali sono equipaggiate normalmente con un bruciatore, mentre le operatrici portate possono avere fino ad un massimo di 12 bruciatori.

Esistono fondamentalmente due tipi di bruciatori per GPL: quelli che impiegano il combustibile in forma gassosa, e quelli che lo utilizzano in forma liquida, definiti “self-vaporizing”.

Questi ultimi sono dotati di una camera, riscaldata dalla fiamma da essi stessi generata, al cui interno avviene la vaporizzazione del combustibile (Figura 3.6).

Figura 3.6 Schematizzazione di un bruciatore “self-vaporizing”: (1) camera di evaporazione; (2) gas liquido; (3) ugello; (4) gas evaporato; (5) condotto del gas liquido; (6) attacco del bruciatore; (7) prospetto del settore A-B; (8) bocca di uscita della fiamma (rielaborato da Garcea, 1987)

Con la comparsa dei primi scambiatori termici efficienti, il primo tipo è divenuto il più utilizzato. Il primo modello di bruciatore a GPL allo stato gassoso di successo fu progettato da H.T. Barr a metà degli anni ’40, ed era a sezione circolare. All’inizio degli anni ’60 i bruciatori più diffusi erano del tipo “Stoneville” a profilo trapezoidale, e del tipo “Arkansas” con camera di combustione orizzontale e deflettore inclinato di 30°. I bruciatori impiegati per le macchine utilizzate in Italia negli ultimi anni sono stati sia di tipo artigianale che industriale (forniti di serie).

Quelli oggi in circolazione sono:

- bruciatori “a cassa”, alimentati da GPL liquido;

- bruciatori “a pentola”, dotati di un unico ugello posto alla base di un cilindro di acciaio e capaci di erogare una fiamma a fascio che determina un forte riscaldamento molto localizzato;

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I bruciatori “a pentola”, come già ricordato in precedenza, sono costituiti da un unico ugello posto al centro di un cilindro in acciaio, che conferisce alla fiamma una forma a fascio, che provoca un riscaldamento molto forte e localizzato.

Il bruciatore a bacchetta è costituito invece da una serie di ugelli posti in fila lungo un tubo alloggiato all’interno di una struttura metallica di protezione, che permette di ridurre l’effetto di possibili fattori esterni (il vento) e di avere una fiamma piatta, ben delimitata sui lati e dalla forma “a spazzola” (Figura 3.7).

Figura 3.7. Esempio di bruciatore a pentola (a sinistra) e bruciatore a bacchetta (a destra).

I bruciatori a bacchetta possono avere larghezze variabili da 10 a 50 cm, ed essere dotati di un numero di ugelli variabile a seconda della distanza a cui sono disposti tra loro: generalmente per un bruciatore da 25 cm si utilizzano 8 ugelli posti ad una distanza di 3,6 cm tra loro, ma nei bruciatori più grandi il numero di ugelli può arrivare a 17 e le distanze tra gli ugelli fino a 5 cm. Gli ugelli, utilizzati anche per le stufe a gas, hanno un orifizio di diametro pari a 0.5 mm.

Prove sperimentali in ambiente controllato effettuate presso l’Università di Pisa, hanno permesso di verificare come il bruciatore a bacchetta consenta di ottenere presta-zioni ottimali in termini di consumo orario di GPL e di controllo delle infestanti, e che quindi sia, tra i vari modelli di bruciatori, quello più indicato per effettuare trattamenti di pirodiserbo che abbiano una buona efficacia rinettante e che siano sostenibili economi-camente (Peruzzi et al., 1997a, b).

Attualmente, in seguito a studi specifici effettuati proprio sulla combustione del GPL e sulla efficienza, funzionalità e semplicità di impiego dei bruciatori, molti costruttori (ed anche i ricercatori dell’Università di Pisa) hanno adottato soluzioni innovative consistenti nell’impiego di un “ugello” esterno che, sfruttando l’effetto Venturi, funziona come una sorta di carburatore, ottimizzando la combustione della miscela “aria-GPL” indipendentemente dalla tipologia dell’erogatore (Peruzzi et al., 2007c; Raffaelli et al., 2007).

Nel caso del bruciatore a bacchetta, è previsto quindi un solo ugello esterno, mentre non vengono più utilizzati quelli a turbolenza direttamente “avvitati” nella “bacchetta” che risulta

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soltanto dotata di fori calibrati (Figura 11). In tal modo aumenta l’efficienza e soprattutto l’affidabilità dei bruciatori, in quanto viene mantenuta costante la composizione della miscela “aria-GPL” e vi sono rischi molto contenuti di malfunzionamenti dovuti proprio ad otturazioni, parziali o totali, dei fori di uscita (Peruzzi et al., 2007c; Raffaelli et al., 2007).

Affinché il diserbo termico sia efficace, è necessario regolare la distanza del bruciatore dal terreno e la sua inclinazione rispetto ad esso tenendo in considerazione le caratteristiche della superficie, il tipo e il grado di sviluppo delle infestanti.

A tal proposito sono state eseguite numerose prove sperimentali con cui è stato dimostrato che la miglior regolazione dei bruciatori si ha con un’altezza dal terreno di 7.5 cm e con un’inclinazione di 35° (Peruzzi et al., 1997b).

3.3.6. I dispositivi per mantenere la corretta distanza tra bruciatore e terreno.

Gi elementi che regolano l’altezza e l’inclinazione dei bruciatori in fase di lavoro, hanno notevole importanza, soprattutto in agricoltura.

Tali equipaggiamenti generalmente sono piccole ruote collegate con la lancia nelle attrezzature carrellate e spalleggiate od a parallelogrammi articolati, dotati di opportuni sistemi di attacco, nelle macchine semiportate.

3.4. Applicazioni del pirodiserbo in agricoltura.

Il pirodiserbo ha trovato largo uso nell’agricoltura biologica, dove non è ammesso l’utilizzo di prodotti chimici per il controllo delle infestanti (Raffaelli e Peruzzi, 2002).

Va precisato però che, in Italia, la diffusione di questa tecnica è stata molto limitata a causa di alcuni risultati poco convincenti, ma soprattutto ad un errato indirizzo di ricerca: infatti in passato si è cercato di perfezionare le attrezzature meccaniche, in particolar modo i bruciatori, tralasciando tutti gli altri fattori che condizionano il risultato finale del trattamento termico.

La scelta delle condizioni di impiego della macchina (inclinazione e distanza dal suolo dei bruciatori, velocità di avanzamento, pressione di esercizio del gas, epoca di intervento) devono essere determinate in base alla densità e allo sviluppo delle specie infestanti nei trattamenti non selettivi ed anche la tolleranza al calore delle piante coltivate in quelli selettivi. La definizione delle corrette modalità d’impiego del pirodiserbo in situazioni molto diversificate ha portato ad ottenere risultati molto interessanti su alcune importanti coltivazioni erbacee e orticole (Peruzzi et al. 2004c, 2005a, 2005b, 2007a, 2007b; Raffaelli et al. 2004, 2005).

Al riguardo è possibile affermare che il pirodiserbo può essere utilizzato con successo in trattamenti non selettivi in pre-emergenza e in trattamenti selettivi di post-emergenza, su colture erbacee, orticole ed arboree (Peruzzi et al. 1997, 1998, 2000).

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Per quanto riguarda le attrezzature utilizzate in agricoltura, sono impiegate macchine a “fiamma libera”, anche perché quelle a radiazioni infrarosse hanno da poco superato la fase sperimentale e sono ancora poche le ditte costruttrici che le producono e le commercializzano.

Tra le operatrici moderne per il pirodiserbo, merita senza alcun dubbio di essere citata, quella costruita presso la Sezione di Meccanica Agraria e Meccanizzazione Agricola E. Avanzi del Dipartimento di Agronomia e Gestione dell’Agroecosistema dell’Università degli Studi di Pisa (Figura 3.8).

Figura 3.8. Trattamenti di pirodiserbo (in alto) e rappresentazione schematica della macchina innovativa per il pirodiserbo realizzata presso il Centro E. Avanzi (in basso): (a) bruciatore; (b) parallelogramma articolato; (c) tramoggia contenente acqua; (d) serbatoio GPL; (e) mensola su cui si posizionano il sistema di controllo dell’afflusso del GPL ai bruciatori; (f) pannello di controllo; (g) tubo flessibile che convoglia i gas di scarico del trattore allo scambiatore termico; (h) scambiatore termico; (i) regolatore di pressione.

Questa attrezzatura è di tipo portato ed è larga 2,5 m, lunga complessivamente 1,2 m e alta 1,3 m, con peso a vuoto di 270 kg. La macchina risulta adattabile sia a trattamenti di pre-emergenza (non selettivi) che a trattamenti di post-pre-emergenza (selettivi) effettuando contemporaneamente una sarchiatura nell’interfila.

L’attrezzatura è equipaggiata con otto bruciatori a bacchetta larghi 25 cm, ciascuno dei quali è dotato sette ugelli a turbolenza che garantiscono una fiamma stabile di buona qualità. Ogni coppia di bruciatori è collegata ad un pannello di controllo e ad una bombola di GPL da 25 kg (ogni bombola è equipaggiata con un regolatore di pressione e con un manometro).

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Le bombole sono alloggiate all’interno di uno scambiatore di calore, costituito da una tramoggia contenente acqua calda, e il riscaldamento dell’acqua è reso possibile dai gas di scarico del trattore, che sono convogliati nella tramoggia tramite un tubo flessibile collegato al tubo di scarico.

L’altezza da terra e l’inclinazione dei bruciatori viene mantenuta costante dal parallelogramma articolato, a cui essi sono collegati. Un sistema di controllo elettronico permette una gestione semplificata della macchina ed una verifica in continuo del suo corretto funzionamento.

Mediante questo sistema, gestito da sensori, pressostati e “microchips” e una centralina (posta nella cabina di guida), è infatti possibile controllare in continuo se i bruciatori sono accesi o spenti e se lavorano a bassa (fase di manovra e di trasferimento) o ad alta pressione (fase di lavoro).

Per i trattamenti in pre-emergenza i bruciatori possono essere equipaggiati con delle coperture metalliche striscianti su apposite slitte, che permettono una maggiore efficienza della trasmissione del calore, evitando nel contempo possibili interferenze legate principalmente all’azione del vento.

Questa macchina è stata utilizzata con successo per la realizzazione di trattamenti di pre-emergenza su carota, spinacio, cipolla, radicchio e finocchio e di post-pre-emergenza su girasole, mais, soia, cipolla e patata (Peruzzi e Raffaelli, 2001a, 2001b, 2001c).

3.5. Applicazioni del pirodiserbo in area urbana.

L’introduzione di questa tecnica per il controllo delle infestanti in ambito urbano è avuta per la prima volta nei Paesi del Nord Europa, come conseguenza dell’applicazione di provvedimenti legislativi che – come gia ricordato in precedenza limitavano fortemente e attualmente vietano completamente l’impiego di erbicidi e altri prodotti fitosanitari (Hansen e Kristoffersen, 2004; Kristoffersen et al., 2004).

Le attrezzature più semplici sono quelle spalleggiate o carrellate (Figura 3.9), che permettono di raggiungere luoghi in cui gli spazi di manovra sono ridotti.

Queste attrezzature sono tuttavia caratterizzate da una bassa capacità operativa (Peruzzi et al. 2002a, 2002b).

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Figura 3.9. Attrezzatura spalleggiata (a sinistra) e carrellata (a destra) per trattamenti di pirodiserbo, entrambe dotate di lancia manuale con bruciatori a bacchetta.

Per trattamenti su superfici di grandi dimensioni è necessario ricorrere ad attrezzature più complesse, accoppiate a trattrici o a piccole motrici per il giardinaggio che normalmente hanno i bruciatori disposti frontalmente, per facilitare la guida in presenza di numerosi ostacoli fissi.

I bruciatori e di conseguenza anche la fiamma, sono rivolti verso la direzione di avanzamento, ma in alcune attrezzature particolari, come quelle per trattamenti ai bordi stradali, i bruciatori possono essere disposti trasversalmente (Raffaelli e Peruzzi,1998b) (Figura 3.10).

Figura 3.10. Attrezzature utilizzate per il controllo della flora spontanea in area urbana. (Da sinistra a destra partendo dall’alto): operatrici portate con bruciatori frontali, laterali e posteriori rispetto a senso di marcia; attrezzatura semovente carrellata (sopra)

Figura

Figura 1.1. Alcuni esempi di danno provocato da infestanti in area urbana. (Dall’alto a sinistra): intralcio al passaggio  pedonale su un marciapiede; limitazione del campo visivo per i conducenti di veicoli stradali; isola spartitraffico  gravemente danne
Figura 1.2. Alcuni esempi di “biodeterioramento” dovuto alla vegetazione spontanea. (Da sinistra): licheni presenti  sulla superficie di una antica statua, piante infestanti affrancate su un manufatto storico
Figura 1.3. Alcuni esempi di danno estetico dovuto alla flora spontanea: pista ciclabile (a sinistra) e marciapiede (a  destra) in cui le piante infestanti trattengono la sporcizia e complicano il passaggio ai fruitori
Figura 1.4. Piante spontanee allergeniche tipiche degli ambienti urbani. (Da sinistra a destra, partendo dall’alto): orzo  selvatico (Hordeum murinum), graminacee, vetriola (Parietaria diffusa), ortica (Urtica dioica)
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