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La sentenza della Cassazione n. 36037/2017 (Fonte: www.italgiure.giustizia.it)

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SENTENZA

sul ricorso proposto da

Compagnini Salvatore, nato a Palagonia il 6/01/1965;

avverso la sentenza della Corte d'appello di Catania del 25/06/2015;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldí;

udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale dott.

Pasquale Fimiani, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 23/04/2013, pronunciata dal Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Caltagirone all'esito di giudizio abbreviato, Salvatore Compagnini era stato condannato, con la diminuente del rito, alla pena di otto mesi di reclusione e di 2.000,00 euro di multa in relazione al delitto di cui all'art. 73, comma 5 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, accertato in Palagonia in data 9/08/2012, per avere coltivato, all'interno della propria abitazione, 6 piantine di cannabis dell'altezza circa di 90 cm ciascuna, contenenti complessivamente un quantitativo di principio attivo pari a 1,070 grammi di THC puro, corrispondente a circa 42,8 dosi medie singole. Con tale provvedimento, l'imputato era stato, invece, assolto in relazione alla detenzione di una pianta di cannabis già essiccata del peso di circa 7 grammi, nonché, di 2,5 grammi di sostanza stupefacente del tipo marjivana, celati in una scatola all'interno di una

Penale Sent. Sez. 3 Num. 36037 Anno 2017 Presidente: CAVALLO ALDO

Relatore: RENOLDI CARLO Data Udienza: 22/02/2017

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cassettiera; ciò sul presupposto che tale materiale fosse, in realtà, finalizzato ad un consumo esclusivamente personale da parte dello stesso Compagnini.

2. Avverso la pronuncia di primo grado propose appello l'imputato, lamentando che la coltivazione non fosse assolutamente idonea a ledere il bene giuridico protetto, atteso che lo stupefacente ricavabile dalle piantine non sarebbe stato destinato a terze persone. Nel frangente l'appellante osservò, altresì, come le piante di cannabis costituissero il frutto di un'attività di coltivazione domestica e non di una coltivazione eseguita secondo le regole della buona tecnica agraria. Ciò che, nella sua prospettazione, avrebbe dovuto, quindi, portare alla piena assoluzione anche rispetto alla condotta di coltivazione.

3. Con sentenza in data 25/06/2015 la Corte d'appello di Catania confermò la pronuncia di primo grado, sottolineando come la condotta di coltivazione ascritta a Salvatore Compagnini, considerato il quantitativo di manjuana ottenibile (pari a due volte la soglia consentita per la detenzione personale), dovesse ritenersi idonea ad offendere concretamente l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice, attraverso il pericolo di una ulteriore diffusione della sostanza stupefacente prodotta. Nell'occasione, la Corte territoriale, richiamandosi ad un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ribadì l'irrilevanza della distinzione tra coltivazione domestica e coltivazione tecnico-agraria.

4. Avverso la sentenza di appello, Compagnini ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore fiduciario, deducendo due distinti motivi di doglianza, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

4.1. Con il primo, la difesa dell'imputato censura, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e la erronea applicazione dell'art. 73 d.P.R. n. 309/90, nonché la mancanza, illogicità, contraddittorietà della motivazione. Ciò in quanto, i giudici di merito, pur assolvendolo dalla detenzione di stupefacente a fini di spaccio, lo hanno invece condannato per la coltivazione delle sei piantine, nonostante la accertata destinazione della manjuana dalle stesse ricavabile ad un uso esclusivamente personale e mancando, dunque, nella condotta contestata, l'effettiva capacità di minacciare la salute delle persone attraverso una ulteriore diffusione della sostanza stupefacente in quel modo prodotta.

Sotto altro profilo, il carattere "domestico" e non "tecnico-agricolo" della coltivazione di un esiguo numero di piante, idoneo a produrre un modesto quantitativo di droga, non sarebbe riconducibile al concetto di coltivazione di cui agli artt. 26-28 del D.P.R. n. 309/90, dovendo tale attività refluire nel più ampio concetto di detenzione e dovendo, quindi, essa considerarsi penalmente irrilevante ove finalizzata, in via esclusiva, al consumo personale del coltivatore.

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Secondo il ricorrente, anche accedendo all'indirizzo che individua l'azione tipica della coltivazione nella realizzazione di una situazione di "pericolo presunto", ai fini della configurabilità del delitto in questione dovrebbe, comunque,

riscontrarsi, secondo la stessa giurisprudenza della Suprema Corte, la sussistenza della "offensività in concreto", da escludersi in presenza di condotte di tale levità da rendere "sostanzialmente irrilevante l'aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcuna ulteriore diffusione della sostanza".

4.2. Con il secondo motivo, l'imputato si duole, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., della mancanza di motivazione della sentenza di appello, la quale si limiterebbe a confermare integralmente la sentenza di primo grado, senza indicare i criteri di giudizio utilizzati, con conseguente impossibilità di ricostruire l'iter logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale.

CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato.

2. Muovendo dall'esame del primo motivo di doglianza, giova innanzitutto ricordare che l'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 punisce, tra le altre, la condotta di colui il quale coltiva, senza autorizzazione, piante dalle quali sono ricavabili sostanze stupefacenti o psicotrope.

La questione interpretativa centrale posta dalla previsione normativa in esame concerne la rilevanza penale da attribuire alle condotte di coltivazione che siano finalizzate alla produzione di sostanza stupefacente destinata al consumo esclusivamente personale del coltivatore.

La tesi prevalente in giurisprudenza accede alla soluzione negativa, muovendo dal mancato inserimento delle condotte di coltivazione - così come di quelle di fabbricazione - tra le ipotesi contemplate dall'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, che individua le fattispecie di illecito amministrativo connesse alla detenzione per uso esclusivamente personale dello stupefacente.

Nondimeno, tale opzione ermeneutica viene generalmente "temperata" da una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo, sicché la condotta di coltivazione della pianta viene ritenuta penalmente rilevante soltanto in quanto concretamente offensiva (Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011, dep. 28/06/2011, P.G. in proc. Marino, Rv. 250721, secondo cui la condotta inoffensiva impedisce, ex art. 49 cod. pen. l'integrazione del reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del

1990).

Quello di offensività, come ovvio, è però un concetto di relazione, che assume significato e sostanza in rapporto all'oggetto dell'offesa e, quindi, al bene giuridico tutelato; nonché, sotto un diverso angolo visuale, in rapporto allo stesso grado dell'offesa e, in particolare, al fatto che, ai fini dell'integrazione della fattispecie incriminatrice, sia richiesta l'effettiva lesione del bene giuridico

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ovvero la semplice messa in pericolo, concetto, quest'ultimo che rimanda, a sua volta, alle categorie del pericolo presunto, del pericolo astratto e del pericolo concreto.

Di fronte alla notevole varietà di possibili sviluppi ricostruttivi, già sul piano logico, della nozione in esame, la necessaria offensività della fattispecie in esame viene„ talvolta, declinata in maniera restrittiva, come mera idoneità della coltivazione a produrre la sostanza in vista del consumo; sicché ai fini della rilevanza penale della condotta dovrebbe aversi riguardo alla mera conformità della pianta al tipo botanico previsto e alla sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza (Sez. 4, n. 53337 del 23/11/2016, dep. 15/12/2016, P.G. in proc. Trabanelii, Rv.

268695; Sez. 6, n. 49476 del 4/12/2015, dep. 15/12/2015, Radice, non massimata; Sez. 6, n. 3037 del 8/09/2015, dep. 22/01/2016, Fazzi, non massimata; Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, dep. 24/05/2013, Cangemi, Rv.

255732; Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, dep. 16/05/2013, Colamartino, Rv.

255427); ciò in quanto, si sostiene, il "coltivare" è attività che si riferisce all'intero ciclo evolutivo dell'organismo biologico (Sez. 6, n. 52547 del 22/11/2016, dep. 12/12/2016, Losi, Rv. 268938; Sez. 6, n. 25057 del 10/05/2016, dep. 16/06/2016, P.G. in proc. Iaffaldano, Rv. 266974; Sez. 6, n.

10169 del 10/02/2016, dep. 11/03/2016, Tamburini, Rv. 266513; Sez. 6, n.

6753 del 9/01/2014, dep. 12/02/2014, M., Rv. 258998).

E lungo questa direttrice interpretativa alcune sentenze giungono ad affermare che l'offensività deve essere esclusa soltanto quando la sostanza ricavabile risulti priva della capacità ad esercitare, anche in misura minima, l'effetto psicotropo evocato dall'art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Sez. 3, n.

23881 del 23/02/2016, dep. 9/06/2016, Damioli, Rv. 267382; Sez. 4, n. 44136 del 27/10/2015, dep. 2/11/2015, Cinus, Rv. 264910; Sez. 4, n. 43184 del 20/09/2013, dep. 22/10/2013, Carioti e altro, Rv. 258095; Sez. 4, n. 21814 del 12/05/2010, dep. 8/06/2010, Renna, Rv. 247478; Sez. 4, n. 44287 del 8/10/2008, dep. 27/11/2008, P.G. in proc. Taormina, Rv. 241991; Sez. U, n.

28605 dei 24/04/2008, dep. 10/07/2008, Di Salvia, Rv. 239921; Sez. U., 24 aprile 2008, Valletta, non massimata).

Rileva, nondimeno, il Collegio che una siffatta conclusione finisce per sovrapporre indebitamente due piani, quello della tipicità e quello dell'offensività, i quali devono, invece, essere tenuti ben distinti. Infatti, l'assenza di un qualunque effetto stupefacente nella sostanza prodotta o coltivata non esclude tanto l'offensività, quanto piuttosto la stessa tipicità della condotta, secondo quanto posto in evidenza, in molte occasioni, dalla più attenta dottrina

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penalistica e, di recente, dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n.

109/2016.

2.1. Appare, dunque, preferibile un differente orientamento della giurisprudenza di questa Corte, il quale, pur muovendo, anch'esso, dalla

premessa della necessaria offensività del fatto, giunge tuttavia a un diverso esito i nterpretativo.

Secondo tale indirizzo, infatti, non può ritenersi sufficiente l'accertamento della conformità della pianta al tipo botanico vietato, proprio in quanto sia necessario accertare l'offensività in concreto della condotta. Quest'ultima, a sua volta, proprio in ragione della necessità di un concreto accertamento, è stata intesa nei termini di una dimostrazione della effettiva ed attuale capacità a produrre un effetto drogante, rilevabile nell'immediatezza alla stregua del riscontro della quantità di principio attivo ricavabile (Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, dep. 2/02/2016, Mele, Rv. 265976; Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, dep. 21/01/2016, Marongiu, Rv. 265640; Sez. 6, n. 12612 del 10/12/2012, dep. 18/03/2013, Floriano, Rv. 254891; Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, dep. 14/01/2009, Nicoletti, Rv. 242371).

Sviluppando logicamente questa premessa, alcune pronunce, realizzando un evidente cambio di paradigma ricostruttivo rispetto al primo indirizzo i nterpretativo, hanno condivísibilmente sostenuto che l'offensività in concreto della condotta debba essere intesa, oltre che come effettiva ed attuale capacità della sostanza ricavata o ricavabile a produrre un effetto drogante, anche come concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso (Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, dep. 26/02/2016, Pasta, Rv. 266168; Sez. 6, n. 2548 del 17/12/2015, dep. 21/01/2016, Barbera, non massimata; Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, dep. 9/02/2016, Pezzato e altro, Rv. 265641; Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, dep. 21/01/2016, Marongiu, citata; Sez. 6, n. 33835 del 8/04/2014, dep. 30/07/2014, Pg in proc. Piredda, Rv. 260170; Sez. 3, n. 23082 del 9/05/2013, dep. 29/05/2013, De Vita, Rv.

256174; Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011, dep. 28/06/2011, P.G. in proc.

Marino, in motivazione). E in questa prospettiva, si è coerentemente ritenuto che l'inoffensività "in concreto" ricorra quando la condotta sia così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l'aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa. A tal fine, si è osservato come non sia sufficiente considerare il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, dovendosi valutare anche l'estensione e il livello di strutturazione della coltivazione, in modo tale da verificare, come detto, se da essa possa derivare o meno una produzione potenzialmente idonea ad incrementare il mercato (Sez. 4, n. 3787 del 19/01/2016, dep. 29/01/2016, Festi, Rv. 265740; Sez. 6, n. 33835 del

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8/04/2014, dep. 30/07/2014, Pg in proc. Piredda, Rv. 260170); e dunque, senza che rilevi, per ciò solo, il fatto che la sostanza prodotta dalla coltivazione raggiunga la soglia drogante (Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, dep. 9/02/2016, Pezzato e altro, Rv. 265641, relativa ad una fattispecie in cui la Suprema Corte ha escluso il reato di coltivazione in presenza di una produzione che, pur raggiungendo la soglia drogante, era "assolutamente minima"; Sez. 6, n. 33835 del 8/04/2014, dep. 30/07/2014, Pg in proc. Piredda, citata).

3. Attraverso le sentenze che precedono, la giurisprudenza di legittimità ha, dunque, mostrato di recepire, progressivamente, la lezione della Corte costituzionale che, in più occasioni, ha distinto il piano della tipizzazione legale della condotta di coltivazione - la cui rilevanza penale è correlata ad una astratta offensività (sulla base del dato, oggettivamente incontestabile, per cui l'incremento della provvista di stupefacente esistente aumenta, astrattamente, le occasioni di lesione della salute dei singoli), secondo un modello di incrinlínazione ritenuto, in numerose occasioni, costituzionalmente compatibile (si vedano, tra le altre, le sentenze n. 360 dei 1995, 133/1992, 333/1991 e 62/1986, nonché le ordinanze n. 150 del 1996 e 414 del 1996 e, da ultimo, la sentenza n. 190 del 2016) - dal piano della concreta valutazione giudiziale, in cui l'astratta idoneità offensiva della condotta di coltivazione può stemperarsi nella constatazione che il pericolo di quel vulnus in realtà, in concreto, non sussiste.

Tale condizione ricorre, a parere di questo Collegio, quando la condotta tipica - consistente, cioè, nella coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico, la quale abbia, se matura, raggiunto la soglia di capacità drogante minima - sia, però, del tutto inidonea, in ragione del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione, a determinare la possibile diffusione della sostanza producibile (così Sez. 6, n. 2548 del 17/12/2015, dep.

21/01/2016, Barbera, non massimata). In una siffatta ipotesi, infatti, non ricorre, in concreto, quella possibilità che dalla coltivazione consegua, da un lato, la produzione di quantità potenzialmente indeterminate di stupefacente e che, con essa, possano moltiplicarsi le occasioni di lesione della salute pubblica; e, dall'altro lato, la concreta possibilità di favorire la circolazione della droga e di alimentarne il mercato. Ciò che, pertanto, comporta, in tali casi, una concreta inoffensívità della condotta, ancorché, come detto, astrattamente conforme al tipo legale.

4. Nel caso di specie, le risultanze istruttorie, come riportate dalla Corte territoriale, hanno consentito di accertare che l'attività di coltivazione era pacificamente diretta al consumo personale, non essendo stato rinvenuto alcun concreto elemento indicativo di una diversa destinazione della sostanza da essa ricavata e considerata, soprattutto, l'assoluzione pronunciata di giudici catanesi

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in relazione alla detenzione dello stupefacente costituente prodotto dalla stessa coltivazione. E, inoltre, non vi è alcun dubbio che la coltivazione, realizzata in maniera complessivamente rudimentale, fosse assolutamente poco estesa, anche in ragione della peculiare destinazione dello stupefacente "in produzione".

Pertanto, ritiene il Collegio che, coerentemente con le riportate premesse logico-argomentatíve, l'attività di coltivazione non fosse in grado, nel caso concreto, di recare alcuna lesione della salute pubblica, che in quanto costituente

"la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui" (così la citata sentenza n. 190 del 2016 della Corte costituzionale), non avrebbe potuto essere concretamente vulnerata da una condotta destinata al consumo esclusivo di una sola persona; e, ancora, che alla descritta condotta non potesse essere ricondotta, per le medesime ragioni, una qualche idoneità a favorire la circolazione della droga e di alimentarne il mercato.

4.1. Il primo motivo di doglianza deve, quindi, essere accolto, con conseguente assorbimento del secondo motivo di impugnazione.

5. La sentenza impugnata deve, conclusivamentera -nnullata, senza rinvio,

"perché il fatto non sussiste".

PER QUESTI MOTIVI

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Roma, il 22 febbraio 2017.

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