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La Cassazione "incamerata": brevi note pratiche - Judicium

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CHIARA GRAZIOSI

La Cassazione "incamerata": brevi note pratiche

1. Il pedigree della riforma - 2. La pluralità della cameralizzazione: la modifica del rito preesistente… - 3. … e l'introduzione di un nuovo modulo camerale - 4. È stato introdotto un nuovo modello di motivazione?

1. Il pedigree della riforma – Per una minima immediata comprensione dell'ultima delle numerose riforme somministrate al rito della cassazione appare opportuna una previa sintesi degli elementi più significativi da cui può dirsi, almeno in parte, originata.

Con d.m. 28 giugno-4 luglio 2013 il Ministro della Giustizia istituì una commissione per elaborare proposte di interventi nel processo civile, la c.d. Commissione Vaccarella, che in data 3 dicembre 2013 depositò una relazione e un articolato quale esito dei propri lavori.

Nella relazione, a proposito del giudizio in cassazione, dopo avere definito "particolarmente grave"

il "problema dell'arretrato" presso la Suprema Corte, veniva suggerita, tra l'altro, quale

"innovazione più rilevante", mediante la modifica dell'articolo 375 c.p.c. e parzialmente dell'articolo 366 c.p.c., la "generalizzazione della trattazione in camera di consiglio dei ricorsi assegnati alle sezioni semplici: meccanismo che, mentre agevola il lavoro della Corte sottraendolo alla

"strozzatura" dell'udienza, non comprime il diritto di difesa delle parti, le quali non soltanto possono chiedere la trattazione in udienza dei ricorsi che presentino questioni di diritto di particolare importanza (anche per la loro novità), ma possono interloquire sulla relazione (o

"opinamento") con la quale il relatore esterna la decisione che proporrà al Collegio". Al riguardo la relazione aggiunge altresì che "la tendenziale generalizzazione di questo "modulo decisorio"

sembra notevolmente più utile alle parti non solo per l'accelerazione che imprime alla definizione dei ricorsi, ma anche perché non è seriamente contestabile che la possibilità di interloquire per iscritto durante l'iter formativo della decisione discutendo il progetto di decisione predisposto dal relatore costituisce uno strumento per l'esercizio del diritto di difesa assai più efficace che non la discussione orale, svolta in udienza ignorando l'orientamento del relatore".

Pertanto, nell'articolato proposto, l'articolo 375 veniva modificato sostituendo l'incipit del primo comma "La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio" con il seguente dettato "La Corte pronuncia con ordinanza in camera di consiglio", nonchè mutando il n.5 del primo comma e aggiungendo un secondo comma.

A fronte, quindi, di un n.5 del primo comma statuente la pronuncia camerale con ordinanza quando la Corte riconosce di dovere "accogliere o rigettare il ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza", veniva proposto un n.5 per cui la Corte

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avrebbe pronunciato con ordinanza camerale nel caso in cui riconoscesse di dovere "accogliere o rigettare il ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale, salvo che la pubblica udienza sia opportuna per la presenza di una questione di diritto di particolare importanza, ovvero per l'evoluzione del diritto o per garantire l'uniformità della giurisprudenza." E il secondo comma, riecheggiando la modifica dell'incipit del primo, avrebbe precisato che "la disposizione di cui al numero 5) del precedente comma non si applica nei casi in cui la Corte pronuncia a sezioni unite".

Questa cameralizzazione, peraltro, era impostata su un'espansione del modulo di cui all'articolo 380 bis c.p.c., come aveva ben lasciato intendere la relazione accessoria all'articolato proposto:

nell'articolo 376 c.p.c., pertanto, si prospettava la introduzione di un quarto comma di questo tenore:

"Decorso il termine di cui all'articolo 370, comma terzo, ciascuna parte può proporre al presidente della sezione istanza motivata affinché il ricorso sia trattato alla pubblica udienza"; all'articolo 379 c.p.c. si modificava il secondo comma, lasciando l'ultima parola alle parti per obbligo del pubblico ministero di esporre per primo la sua posizione, abrogando il terzo e il quarto comma; e infine, e soprattutto, dell'articolo 380 bis c.p.c. - che in questo quadro avrebbe disciplinato ogni rito camerale - il secondo comma riproponeva la nuova sequenza pubblico ministero-difensori (lo si modificava pertanto stabilendo che dopo la comunicazione del decreto e della relazione il pubblico ministero avrebbe avuto la facoltà di presentare conclusioni scritte non oltre dieci giorni prima della data stabilita per l'adunanza e i difensori delle parti la facoltà di depositare memorie non oltre cinque giorni prima) e nel quarto e ultimo comma veniva espunto il riferimento ai nn. 2 e 3 del primo comma dell'articolo 375.

Poco più di un anno dopo, l'11 marzo 2015, alla Camera dei Deputati, quale frutto della c.d.

Commissione Berruti (nota anche come Commissione degli Undici), veniva presentato dal Ministro della Giustizia in concerto con il Ministro dell'Economia e delle Finanze il disegno di legge n. 2953, avente per oggetto la "Delega al Governo recante disposizioni per l'efficienza del processo civile", nella cui introduzione si segnala immediatamente l'incidenza dei lavori della commissione Vaccarella, qualificati come "un'ampia base di conoscenza dei problemi essenziali delle forme di tutela prevista dal codice, con l'indicazione di possibili soluzioni tecniche", e pertanto meritevoli di esser tenuti "nella debita considerazione, non solo per economia di energie". E infatti per il rito del grado di cassazione si definiscono gli interventi proposti come "nel segno di un uso più diffuso del rito camerale", specificando poi le ragioni di una tale scelta nel senso che i precedenti, recenti interventi sul giudizio di cassazione - "farragine legislativa" - avrebbero portato al risultato della

"introduzione di una normativa assolutamente paradossale relativa al rito camerale" giacché il meccanismo dell'articolo 380 bis c.p.c. comporta che "il difensore che si vede prospettare una sconfitta si trovi di fronte ad una possibilità difensiva assai più grande di quella che addirittura gli compete nel momento in cui la causa invece viene attribuita al teoricamente più garantito rito dell'udienza pubblica", e cagiona altresì, quale "ulteriore risultato", una "doppia fatica del relatore": "tutto ciò rende questo rito del tutto irragionevole" per cui "contraddice la sua funzione, così che accade …che ancora troppe siano le cause che, sebbene di agevole definizione e nelle quali sostanzialmente il ricorrente si duole solo di aver perduto la causa e ripete argomentazioni

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già esaminate dal giudice di merito, giungono all'udienza pubblica". Ergo, è proprio la modifica dell'articolo 380 bis c.p.c. che viene identificata come la strada da percorrere (imboccando quindi, in realtà, una direzione opposta alla scelta della commissione Vaccarella) "ritornando allo schema classico dell'udienza in camera di consiglio" e ispirandosi alla "felice esperienza" vissuta dal giudice di legittimità penale grazie agli articoli 610 e 611 c.p.p., considerato altresì che "non si vedono ragioni di distinguere strutturalmente il giudizio camerale secondo che si tratti di giudizio civile o di giudizio penale". In tal modo la proposta del disegno di legge, adattando il suddetto sistema penale alla giustizia civile, sarebbe pervenuta "ad un risultato processuale assolutamente compatibile con i principi costituzionali". Si rileva inoltre che allo stato l'arretrato della Suprema Corte "è enorme", per cui da un lato deve effettuarsi la formazione dei ruoli "non tanto e non solo in considerazione dell'anzianità delle cause, ma della loro rilevanza economica, sociale e comunque nomofilattica, per evitare che nell'attesa si consolidino correnti giurisprudenziali inutilmente costose", e dall'altro deve prescriversi "alla Corte di adottare modelli di motivazione, anche assertivi, che comunque abbandonino la tentazione di sistemazione scientifica, a tutti i costi, degli istituti adoperati o anche solo sfiorati" dato che la sua sentenza "dev’essere atto di autorità motivato anche solo con riferimento ai propri indirizzi e, comunque, secondo un'assoluta esigenza di sintesi". Queste affermazioni si inquadrano nel convincimento, esternato dalla "Analisi tecnico- normativa" allegata al disegno di legge, che "il processo civile italiano è un insieme di tecnicalità progressive, l’una creata dall'altra, che rendono faticoso il suo risultato naturale, ossia la sentenza", laddove "il processo civile deve essere strumento di attuazione delle regole sostanziali certamente attraverso il controllo dei suoi gradi, ma soprattutto a mezzo dell'intrinseca qualità economica delle sue tecniche, capace di comporre in modo moderno il diritto di criticare con l'interesse generale". In quest'ottica "la comprensibilità del processo da parte di chiunque è costretto ad utilizzarlo è condizione essenziale della sua eticità. Le parti debbono sapere chi, almeno in astratto e con una sensata prognosi, vincerà o perderà" per cui il processo,

"abbandonando il mito dell'imprevedibilità della decisione come dimostrazione della imparzialità del giudizio, deve consentire una soluzione comprensibile anche per la sua ordinaria prevedibilità", dovendo d'altronde quest'ultima incidere pure sulla sua durata. E nella allegata ulteriore "Analisi dell'impatto della regolamentazione" si ribadiscono tali concetti, e si afferma, quanto al ricorso per cassazione, che "la legge 9 agosto 2013 n. 98 ha introdotto una disciplina del rito camerale farraginosa e defatigante", mentre occorre intervenire "nel segno di un uso più diffuso del più celere rito camerale", prospettiva in cui "si potrebbe individuare un modello pressoché unico di processo civile supremo", il cui fine è "semplificare il rito nel giudizio davanti alla Suprema Corte, valorizzando la sua funzione di giudice di legittimità".

Pertanto l'articolo 1, secondo comma, del disegno di legge, alla lettera c) presenta quattro interventi da attuare con i decreti legislativi: "1) revisione della disciplina del giudizio camerale, attraverso l'eliminazione del procedimento di cui all'articolo 380-bis del codice di procedura civile, in previsione dell'udienza in camera di consiglio, disposta con decreto presidenziale, con intervento del procuratore generale, nei casi previsti dalla legge, in forma scritta e possibilità di interlocuzione con il medesimo, parimenti per iscritto, da parte dei difensori; 2) interventi volti a

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favorire la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, anche attraverso la razionalizzazione della formazione dei ruoli secondo criteri di rilevanza delle questioni; 3) adozione di modelli sintetici di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, se del caso mediante rinvio a precedenti, laddove le questioni non richiedano una diversa estensione degli argomenti; 4) previsione di una più razionale utilizzazione dei magistrati addetti all'Ufficio del massimario e del ruolo, anche mediante possibilità di applicazione, come componenti dei collegi giudicanti, di quelli aventi maggiore anzianità nell'Ufficio".

Dunque la l. 25 ottobre 2016 n. 197 di conversione con modifiche del d.l. 31 agosto 2016 n.168, che è entrata in vigore il 30 ottobre 2016, come si verrà ora ad esaminare sinteticamente, trae dalla proposta di riforma Vaccarella la dilatazione del rito camerale e, dalla proposta di riforma Berruti l'eliminazione del contraddittorio con il giudice, tale dovendosi qualificare l'articolo 380 bis c.p.c.

nel previgente dettato per cui le parti esprimono la loro posizione su quella sorta di provvedimento ipotetico che deve depositare il relatore e il collegio, infine, da ciò trae gli esiti.

La differenza con il progetto Vaccarella si focalizza nella mancata unificazione del rito camerale delle sezioni semplici, che tale progetto prevedeva dilatando in sostanza l'articolo 380 bis c.p.c., mentre nella legge appena promulgata si crea una biforcazione: decisione da parte della sezione semplice ai sensi dell'articolo 375, secondo comma, o decisione da parte della sezione semplice a ciò specificamente destinata ("apposita") ex articolo 380 bis c.p.c. - attualmente, secondo la ripartizione tabellare, sesta sezione civile della Corte di cassazione -. E il primo quesito che si prospetta, dunque, riguarda logicamente l'eventualità di un futuro intervento unificante.

Da ultimo sulla fase formativa (in senso lato, poiché non vi ha avuto incidenza) della novella, è utile ricordare, in quanto primo consistente rilievo delle criticità, che sull'emendamento modificativo del disegno di legge n. 4025, presentato dal governo per la conversione in legge del d.l. 31 agosto 2016 n. 168, l'Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile ha inviato il 3 ottobre 2016 al Ministro della Giustizia e ai Presidenti delle Camere un documento contenente alcune sintetiche ma specifiche censure alle norme del codice di rito poi comunque novellate secondo tale emendamento, censure addotte sul presupposto, tra l'altro, del porre in dubbio la "congruità del mezzo rispetto al fine".

In primo luogo nel documento si rileva che "lo smistamento tra camera di consiglio e trattazione all'udienza pubblica resta comunque soggetto ad una valutazione relativa al caso concreto; cambia la regola, che diventa il procedimento camerale, mentre la trattazione all'udienza diventa un'eccezione. Sono, però, evanescenti e contraddittori i criterii in base ai quali la scelta deve essere compiuta". Secondo l'Associazione suddetta, infatti, "il novellato secondo comma dell'art. 375 c.p.c. non indica chi abbia il potere di valutare l'opportunità della trattazione del ricorso alla udienza pubblica: se questa scelta implichi una decisione della Corte, nella sua composizione collegiale, ovvero del relatore, ovvero del presidente del collegio, o del presidente della sezione. In base alla prima soluzione, è evidente che la riforma appesantisce il compito della corte, perché il collegio dovrebbe preventivamente valutare se il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio

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o se debba essere trattato all'udienza e, poi, decidere su di esso. Sarebbe imposta una doppia valutazione".

In secondo luogo il documento sostiene che il nuovo terzo comma dell'art. 377 c.p.c. attribuisca, senza ulteriori specificazioni, al "primo presidente", al "presidente della sezione semplice", al

"presidente della sezione di cui all'articolo 376, primo comma ", il compito di ordinare la rinnovazione della notificazione e l'integrazione del contraddittorio. In tal modo non sarebbero regolati i rapporti tra i presidenti, si prescinderebbe dalla considerazione che il collegio ha il potere di decidere dell'ammissibilità e della procedibilità del ricorso e, quindi, avrebbe anche la possibilità di modificare o revocare il provvedimento presidenziale. La norma inoltre presupporrebbe che il

"presidente" esamini i ricorsi al fine di valutare la validità della notificazione e la necessità dell'integrazione del contraddittorio, "il che non appare realistico".

Ad analoghi rilievi, secondo il documento, si presterebbe poi il primo comma del nuovo art. 380 bis c.p.c., in base alla quale il "presidente" "fissa con decreto l'adunanza", "se è stata ravvisata una ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso": in tal modo non sarebbe indicato a chi viene attribuito il potere di "ravvisare" tali ipotesi, la cui valutazione è comunque rimessa al collegio.

Ancora, il documento lamenta che viene esclusa non solo la trattazione in pubblica udienza, ma anche la possibilità che le parti siano sentite in camera di consiglio, giudicando ciò "contrario alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e alle indicazioni della Corte costituzionale, in riferimento al diritto all'udienza pubblica; la disposizione convenzionale, infatti, è interpretata nel senso che comunque deve essere garantito il diritto delle parti ad essere sentite". Viene poi notato che nel secondo comma dell'art. 391 c.p.c. è stata aggiunta la menzione dell’"ordinanza", laddove

"nel terzo comma, inalterato, soltanto il decreto avrebbe efficacia esecutiva, mentre l'art. 474 c.p.c.

richiede l'espressa previsione dell'efficacia esecutiva per i provvedimenti diversi dalle sentenze".

Conclude l'Associazione nel senso che la riforma risulterà "sostanzialmente inutile, senza offrire alcun valido contributo alla riduzione dei tempi".

2. La pluralità della cameralizzazione: la modifica del rito preesistente… - Quel che, a ben guardare, appare maggiormente rilevante nella riforma è - come già più sopra si accennava - l'istituzione di due canali che conducono alla decisione in adunanza in camera di consiglio, l'uno preesistente e "corretto" nell'ottica della commissione Berruti - il rito della sezione apposita per le fattispecie indicate dall'articolo 375, primo comma, nn.1 e 5 c.p.c. -, e l'altro introdotto dal nuovo secondo comma dell'articolo 375 c.p.c.

La riforma del rito della sezione apposita, cioè della sesta sezione civile della Cassazione, si concretizza nell'ennesima versione dell'articolo 380 bis c.p.c. Inserito dall'articolo 10 d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, era stato novellato prima dall'articolo 47, primo comma, lettera c), l. 18 giugno 2009 n. 69, e poi dall'articolo 75, primo comma, lettera b), d.l. 21 giugno 2013 n. 69, convertito con modifiche in l. 9 agosto 2013 n. 98. La sua persistente caratteristica, comunque, era da identificarsi

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nella disposizione di un contraddittorio inclusivo anche (seppur parzialmente, trattandosi di organo collegiale) del giudicante, poiché la relazione del "relatore della sezione" doveva essere notificata al pubblico ministero e agli avvocati delle parti, che avrebbero potuto quindi replicarvi: estrema dilatazione del principio di cui all'articolo 101, secondo comma, c.p.c. inserito dalla l. 18 giugno 2009 n. 69 (articolo 45, tredicesimo comma) come resa allo svuotamento dell'incidenza della difesa tecnica generato dalla c.d. terza via.

Ben comprendendo il legislatore che una simile dilatazione del contraddittorio tale da inserirvi un progetto di decisione da presentare come una sorta di proposta contrattuale alle parti significa aggravamento, e quindi inefficienza, della funzione giurisdizionale, e che non è necessaria per tutelare i diritti delle parti private, essendo queste munite di difensore tecnico, il nuovo articolo 380 bis c.p.c. ha “potato” nella massima misura quello che era, in effetti, un meccanismo ridondante.

L'ambito di applicazione è rimasto lo stesso: inammissibilità, manifesta fondatezza o manifesta infondatezza come previsto dai nn.1 e 5 del primo comma dell'articolo 375 c.p.c. Deve identificarsi, invece, a chi spetta di valutare l'applicabilità alla causa del rito della sezione apposita a dette fattispecie, cioè della sesta sezione civile. Nel previgente testo, era inequivoco il conferimento del suddetto potere valutativo al relatore, che lo esercitava appunto depositando la relazione, a ciò facendo seguito l'automatica fissazione dell'adunanza con decreto del presidente, come agevolmente si evince dal combinato disposto del primo e dal secondo comma del previgente articolo 380 bis c.p.c.

Ora la formulazione è diversa, e già - come si è visto - si è censurata la norma perché non lascerebbe intendere in modo inequivoco proprio a chi viene attribuito il potere valutativo che conduce all'adunanza ex articolo 380 bis c.p.c. Il primo comma di quest'ultimo stabilisce invero che

"su proposta del relatore" il presidente della sezione "fissa" con decreto l'adunanza "indicando se è stata ravvisata un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso". Qualora più o meno intenzionalmente si opti per una lettura coerente con la tradizionale conformazione dell'istituto, si dovrebbe ritenere che la valutazione è racchiusa in quella "proposta del relatore". Peraltro, non si può negare che ora il legislatore la qualifica "proposta": anche se poi non esplicita che il presidente abbia uno spazio di discrezionalità (il presidente "fissa", e non "può fissare", recita il testo), ciò non toglie che una proposta è priva di ogni valore decisorio per chi ne è il destinatario, onde non è escludibile in modo assoluto che il presidente possa anche non accoglierla, non esplicando appunto la proposta, in quanto tale, alcun effetto vincolante. Peraltro, questo intralcio letterale potrebbe essere superato - riconducendo appunto il meccanismo, in parte qua, a quello antecedente alla novella - tenendo conto del terzo e ultimo comma dell'articolo 380 bis c.p.c., il quale stabilisce che, "se ritiene" che non ricorrano le fattispecie di cui ai nn.1 e 5 dell'articolo 375, primo comma, "la Corte in camera di consiglio rimette la causa alla pubblica udienza della sezione semplice". Dunque, sembra sostenibile che solo il collegio, dopo una valutazione in camera di consiglio, possa privare di effetto la valutazione del relatore. D'altronde, se si ritenesse che il presidente non ne sia vincolato, emergerebbe la difficoltà di identificare la fonte normativa del suo potere di rimettere già in questo stadio la causa alla pubblica udienza della

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sezione semplice, senza cioè che il collegio abbia potuto esprimere alcuna propria valutazione (e ciò nonostante che il provvedimento del presidente è stato ampliato fino a una monocratica cognizione sommaria dal terzo comma dell'articolo 377 c.p.c. di cui si tratterà infra). E se la valutazione del relatore, poi, non si esterna più, comunque, in una vera e propria relazione, tuttavia la sua

"proposta" non può che costituire un provvedimento scritto, in cui il relatore, per adempiere al suo compito visto che la valutazione non spetta al presidente, dovrà indicare quantomeno quel che il presidente dovrà a sua volta esternare nel decreto. Anche qui l'interpretazione può essere duplice:

indicazione meramente assertiva (come già appare prevalere) o indicazione, per quanto concisa, illustrativa/motivata. Non si potrà peraltro non tener conto della ratio di semplificazione e di accelerazione, impressa nella novella, per non regredire al farraginoso sistema del vero e proprio progetto di sentenza.

Un’ulteriore novità introdotta nel precedente sistema governante la sesta sezione civile della Suprema Corte è identificabile proprio nel terzo comma del novellato articolo 380 bis c.p.c. Mentre, in precedenza, qualora non ritenesse sussistenti i presupposti del suo intervento, la sesta sezione, senza alcun provvedimento motivato, doveva inserire la causa nel canale ordinario della pubblica udienza, ora la sua valutazione comporta ancora la remissione della causa alla pubblica udienza, ma in un contesto in cui tale non è più la procedura “ordinaria”. Poiché questo logicamente non può essere inteso come estensione dell’ambito di giurisdizione della sesta sezione civile oltre i nn.1 e 5 del primo comma dell'articolo 375 c.p.c., ne deriva che il suo collegio non compie la valutazione- filtro, per così dire, canonica del secondo comma dell'articolo 375 c.p.c., e cioè non valuta se "la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto": e ciò è esplicitato proprio da quest'ultima norma laddove indica come presupposto della pubblica udienza dinanzi alla sezione semplice la suddetta valutazione-filtro "ovvero che il ricorso sia stato rimesso dall'apposita sezione di cui all'articolo 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio", determinando le due vie di afflusso come alternative. In tal modo, invero, se la sezione sesta non “spinge” sul concetto di manifesta fondatezza o manifesta infondatezza dilatandolo, il flusso di cause che perviene alla pubblica udienza diventa del tutto eterogeneo: da un lato quel che non si è ritenuto riconducibile ai nn. 1 e 5 del primo comma dell'articolo 375 c.p.c.; dall'altro - e non è la stessa cosa, ovviamente – le cause che presentano una particolare pregnanza nomofilattica tale da renderne opportuna la trattazione in pubblica udienza. Il che potrebbe creare qualche perplessità sotto il profilo costituzionale dell'uguaglianza, in riferimento alla fruizione del rito che ora fornisce il maggior grado di contraddittorio, cioè il rito della pubblica udienza, il quale, oltre al contraddittorio cartolare - non è stato toccato l'articolo 378 c.p.c. -, sfocia in una discussione cui deve (a differenza del rito camerale nuovo, dove, come si vedrà, ne ha la mera facoltà) partecipare il pubblico ministero (ora prima dell'intervento dei difensori delle parti) e che è stata conservata, anzi potenziata per quanto concerne lo jus constitutionis visto quanto si è appena rilevato a proposito del PM, non rivestendo una particolare incidenza la soppressione della facoltà di deposito delle eventuali osservazioni dei difensori sulle conclusioni del pubblico ministero dato che queste sono divenute anteriori all'intervento degli avvocati. La perplessità costituzionale può essere accresciuta dall'ultimo periodo dell'articolo 376,

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primo comma, c.p.c. che la novella ha sostituito: mentre il testo previgente stabiliva che, nel caso in cui la sezione apposita per le fattispecie di cui ai nn.1 e 5 del primo comma dell'articolo 375 c.p.c.

non definisse il giudizio, "gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all'assegnazione alle sezioni semplici", il nuovo testo è il seguente: "Se, a un sommario esame del ricorso, la suddetta sezione non ravvisa tali presupposti, il presidente, omessa ogni formalità, rimette gli atti alla sezione semplice". Con il testo previgente sarebbe stato sostenibile che il collegio della sesta sezione potesse valutare anche in modo approfondito l'insussistenza delle fattispecie di cui ai nn.1 e 5 del primo comma dell'articolo 375, benché non fosse neppure in tale contesto previsto un provvedimento motivato per disporre la rimessione al primo presidente; ora è esplicito che si tratta di una cognizione sommaria. Tuttavia, a prescindere dalle scelte concrete del collegio, è ben più sostenibile che ciò era già intrinsecamente presente nel meccanismo della rimessione anteriore alla novella, proprio perché non veniva emesso alcun provvedimento e quindi non veniva a formarsi alcun giudicato interno neppure sui profili della inammissibilità. Il nuovo testo si limita pertanto ad esplicitare in modo più inequivoco quanto era insito dal testo previgente.

3. … e l'introduzione di un nuovo modulo camerale - Il secondo canale per pervenire all'adunanza in camera di consiglio è quello introdotto, come novità nel senso di inversione della regola ordinaria, dalla novella del 2016. Che si tratti, ora, del principio generale, rispetto al quale sussistono solo eccezioni, è indicato dall'articolo 375, secondo comma, c.p.c.: "La Corte, a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio in ogni altro caso", in riferimento così al residuo del primo comma dell'articolo stesso, cioè ai suoi numeri 1, 4 e 5 (la novella ha abrogato i numeri 2 e 3). Le eccezioni alla regola sono dunque quella già appena esaminata della "esenzione" dal rito ex articolo 380 bis c.p.c. ovvero mediante la sesta sezione civile, le fattispecie previste dall'articolo 374 c.p.c. ovvero la pronuncia a sezioni unite, e infine quella che dovrebbe costituire a monte il filtro dell'attribuzione del rito camerale, ovvero il caso in cui "la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciarsi"

la Corte a sezione semplice.

Della prima eccezione (provenienza dalla sesta sezione) si è trattato, e non è opportuno soffermarsi su quanto previsto dall'articolo 374 c.p.c. non essendo stata toccata in alcun modo tale norma dalla novella in esame. Rimane dunque la terza eccezione, che costituisce il discrimen tendenzialmente più usuale, nell'intento del legislatore, rispetto all'udienza pubblica, cioè il suo filtro. La norma, come si è appena visto, letteralmente non indica chi valuta che "la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto": però, logicamente, questi non può che essere il presidente della sezione semplice allorquando esercita la sua funzione di assegnazione dei ricorsi, il quale in tale circostanza dovrà ora effettuare una cognizione ben più approfondita di quella del sistema previgente, limitata alla correttezza dell'attribuzione tabellare della causa alla sezione. Che il ruolo del presidente sia stato incrementato, ben superando il livello del provvedimento interno amministrativo di applicazione della ripartizione tabellare, viene poi confermato dalla modifica dell'articolo 377 c.p.c., il quale riconosce ora la sostanza di cognizione del provvedimento del presidente qualificandolo "decreto preliminare" e includendovi, tramite

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l'aggiunta di un terzo comma, ulteriori oggetti di valutazione, ovviamente sommaria nel senso che non potrà condizionare la valutazione del collegio: "il primo presidente, il presidente della sezione semplice o il presidente della sezione di cui all'articolo 376, primo comma, quando occorre, ordina con decreto l'integrazione del contraddittorio o dispone che sia eseguita la notificazione dell'impugnazione a norma dell'articolo 332, ovvero che essa sia rinnovata".

È già stato criticato, come sopra si è visto, il nuovo terzo comma dell'articolo 377 c.p.c. nel senso che attribuirebbe senza specificazioni al primo presidente, al presidente della sezione semplice, al presidente della sesta sezione la competenza di ordinare la rinnovazione della notificazione e l'integrazione del contraddittorio: si contesta che non siano regolati i rapporti tra i presidenti, si rimarca che comunque il collegio ha il potere di decidere sull'ammissibilità e sulla procedibilità del ricorso e si reputa non realistico che il presidente esamini i ricorsi per verificare la regolarità della notificazione e la necessità dell'integrazione del contraddittorio.

Fermo che, ovviamente, il decreto preliminare non stabilizza alcunché rispetto alla cognizione del collegio relativa al contraddittorio, appare peraltro sufficientemente agevole identificare quando interviene il primo presidente, il presidente della sezione semplice o il presidente della sesta sezione: quando cioè deve fissare l'udienza o l'adunanza - per le sezioni unite il primo, per la sezione semplice secondo - o unicamente l'adunanza - per il terzo -. Che poi il presidente operi valutazioni sulla corretta struttura del contraddittorio è evidentemente un obbligo che gli è stato conferito per accelerare e semplificare, obbligo che non appare quindi censurabile, considerato anche che fruisce comunque degli effetti della c.d. attività di spoglio.

Più complesso, invece, appare l'aspetto del contenuto della valutazione che il presidente della sezione semplice deve effettuare per secernere le cause destinate al rito ora "ordinario", cioè al rito camerale, da quelle destinate al rito della pubblica udienza. Infatti il legislatore, sempre nel secondo comma dell'articolo 375 c.p.c., indica come oggetto della valutazione non, in via diretta, la sussistenza di "particolare rilevanza della questione di diritto" che il ricorso propone, bensì che la presenza di questa particolarmente rilevante questione di diritto abbia un effetto tale da rendere

"opportuna" la trattazione in pubblica udienza. Si tratta di una valutazione in concreto, la quale d'altronde, visto lo stadio in cui viene espletata, è sommaria. E, anche se finora la giurisdizione di legittimità non è mai stata monocratica, il collegio non ha poi il potere di mutarla, perché non ha - a differenza del collegio della sesta sezione, per quanto questo lo eserciti attraverso il presidente,

"omessa ogni formalità", portando peraltro la causa in un'altra sezione (articoli 376, primo comma, secondo periodo, e 375, secondo comma, c.p.c.) - il potere di rimettere la causa all'udienza pubblica davanti a sezione semplice, residuandogli soltanto, per fare accedere a udienza pubblica, la remissione alle sezioni unite ex articolo 374, secondo comma, c.p.c. Il legislatore ha evidentemente ritenuto che, una volta svolto il contraddittorio cartolare di cui all'articolo 380 bis.1 c.p.c. introdotto dalla novella, non vi sia più alcun motivo per intensificare il contraddittorio. Il collegio, peraltro, non può neppure richiedere l'intervento nel contraddittorio cartolare del pubblico ministero, tutto rimanendo cristallizzato dalla decisione espressa nel decreto preliminare. Quantomeno per l'intervento del pubblico ministero a difendere lo jus constitutionis l'assoluta mancanza di un potere

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“revisionale” del collegio sul decreto preliminare potrebbe destare perplessità, considerato quel che dovrebbe essere il ruolo del PG, e considerato soprattutto che il decreto è un provvedimento privo di motivazione in forza del combinato disposto degli articoli 377 e 135, ultimo comma, c.p.c. Dal canto suo, poiché la causa viene chiamata in adunanza per averla il presidente ritenuta priva di alcuna significatività oltre lo jus litigatoris, la scelta del PM nel senso di partecipare al contraddittorio cartolare potrebbe intendersi come frutto di una valutazione difforme da quella del presidente: e ciò significa che, tendenzialmente, se quest'ultima è condivisa dal PM, l'intervento del PM nel contraddittorio dovrebbe mancare.

D'altronde, il decreto preliminare avvia la sequenza di comunicazione dettata dal secondo comma dell'articolo 377 c.p.c. e può includere contenuti come quelli del terzo comma dell'articolo 377 c.p.c., il che appare incompatibile con una sua revocabilità, vista pure l'esigenza di celerità (in tal senso intendendosi ormai il costituzionale valore della ragionevole durata) del processo che è particolarmente intensa nel giudizio di legittimità. Non appare, quindi, configurabile neppure uno spazio per le parti per presentare istanza di revoca/modifica del decreto preliminare. Tutt'al più, nel testo del ricorso o del controricorso, o anche in una posteriore istanza (similmente a quanto si è visto essere stato prospettato nel progetto Vaccarella) anteriore all'intervento del presidente, potranno essere addotte specificamente e motivatamente la significatività nomofilattica della questione di diritto e l'opportunità da essa derivante di un contraddittorio dispiegato nella massima misura.

La scelta del rito prevista in questo modo, sulla base di una valutazione sommaria e monocratica, potrebbe pertanto creare criticità sul piano dell'articolo 3 Cost., sempre che sia possibile far valere una concreta lesione al diritto di difesa per non essere stato tutelato integralmente sotto il profilo del contraddittorio. Non appare escludibile, invero, che un diritto possa "sfuggire" al criterio egualitario dell'articolo 3 perché processuale e non sostanziale, pur tenendosi in conto la necessità collettiva - anche economica - di un giudizio celere oltre che equo. Si potrebbe qui aprire, peraltro, pure il profilo della rimessione in termini come canone generale, per le ipotesi in cui si manifestino jus superveniens o il revirement di un orientamento giurisprudenziale fino ad allora qualificabile certa lex e la memoria scritta mediante la quale si realizza senza più replica orale il contraddittorio non abbia potuto considerarli. Laddove, infatti, la causa non sia decisa nell'adunanza per le più varie ragioni, ciò comporta la fissazione di un'altra adunanza, ma questo non significa affatto che ripeta, automaticamente, il contraddittorio cartolare. Ritenere tuttavia che la fissazione a nuovo ruolo comporti, se per gli elementi sopravvenuti il contraddittorio non ha avuto modo di tutelare pienamente i diritti delle parti, la riattivazione del contraddittorio cartolare, decorrendo i termini anziché dal decreto preliminare dal provvedimento di rinvio, che espressamente lo disponga, potrebbe essere una soluzione congrua sotto il profilo, appunto, della sopravvenienza di novità.

Come pure potrebbe sostenersi che, se il novum si verifica nel lasso di tempo intercorrente tra il provvedimento di rinvio e la seconda adunanza, sia proponibile un'istanza di rimessione in termini:

tuttavia ciò incontrerebbe ostacolo se la data della seconda adunanza, non essendo appunto automaticamente la data rispetto alla quale retroagiscono i termini per un ulteriore contraddittorio

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cartolare, non venisse comunicata alle parti. Rimane invece chiusa ad ogni interpretazione correttiva la riserva assoluta conferita al presidente di scegliere, sulla base di una valutazione sommaria di

"opportunità", il tipo di contraddittorio di cui fruiranno le parti.

Rectius, più che di tipo (nel senso di orale o cartolare) si tratta di grado del contraddittorio. La causa trattata in udienza pubblica, dopo gli atti fondamentali per ogni parte (ricorso e controricorso, con eventuale ricorso incidentale a cui può far seguito relativo controricorso), offre contraddittorio anche con le memorie ex articolo 378 c.p.c. fino a cinque giorni prima dell'udienza e poi, con il testo ora vigente dell'articolo 379 c.p.c., con una discussione orale in cui gli avvocati intervengono dopo il pubblico ministero. Gli stadi sono dunque tre, e il contraddittorio può definirsi misto tra cartolare e orale.

Con il rito camerale della sezione semplice, invece (articolo 380 bis.1 c.p.c.), dopo la prima fase cartolare comune al rito dell'udienza pubblica - ricorso, controricorso, eventuale ricorso incidentale ed eventuale relativo controricorso - il contraddittorio si contrae nella possibilità di un unico secondo stadio: eventuale deposito da parte del pubblico ministero di "conclusioni scritte" non oltre venti giorni prima dell'adunanza (eventualità, come sopra si è visto, che si potrebbe intendere il legislatore auspica non si verifichi); eventuale deposito da parte degli avvocati di "memorie" non oltre dieci giorni prima dell'adunanza. Si noti che l'articolo 379 c.p.c., al novellato secondo comma, impone al pubblico ministero di "esporre oralmente le sue conclusioni motivate": nell'articolo 380 bis.1 c.p.c. il pubblico ministero non è tenuto a intervenire nel contraddittorio, e se interviene non gli è chiesto di depositare conclusioni motivate. Le parti nelle loro memorie, se le presentano, dovrebbero apportare argomentazioni, vista la natura dell'atto, mentre a ciò espressamente non è tenuto il PM: il che non vieta, è ovvio, che le conclusioni scritte, nel caso in cui decide di intervenire, siano supportate da qualche argomentazione per sua libera scelta in tal senso, ma conferma l'intento di diminuire il livello di partecipazione della parte pubblica alla contesa tra i litigatores, la cui tutela dei diritti sposa una impostazione, per così dire, tradizionalmente privatistica, tale da ravvisarvi l’interesse soltanto del titolare.

L'unica eccezione a questa riduzione del ruolo del PM si rinviene in quella sottospecie del rito camerale dinanzi alla sezione semplice che è stata introdotta con l'articolo 380 ter c.p.c. per il procedimento di decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza, ove al primo comma si stabilisce che il presidente gli deve chiedere "le sue conclusioni scritte", che sono poi (secondo comma) notificate insieme col decreto del presidente che fissa l'adunanza almeno venti giorni prima di questa agli avvocati delle parti, i quali possono depositare memorie non oltre cinque giorni prima della fissata adunanza, cui comunque non parteciperanno, come non vi parteciperà il PM (terzo comma).

Tornando ad una valutazione complessiva del rito ora "ordinario", risulta poi evidente che in un contesto di contrazione del contraddittorio in due stadi le memorie delle parti potrebbero assumere una incidenza più rilevante di quanto non la assumano le memorie ex articolo 378 c.p.c., il che conduce a rilevare un'altra connotazione della riforma del 2016: il legislatore non ha toccato le

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modalità di redazione degli atti difensivi del grado di legittimità in direzione di una qualche ordinata chiarezza (come era stato fatto in precedenza, soprattutto con il noto quesito di diritto, che ha patito una sorte negativa), e tantomeno di freno ad una prolissità che tale redazione può sovente inficiare. Al contrario, il meccanismo che si sta esaminando potrebbe cagionare un ulteriore allontanamento dai canoni (pur auspicati ovunque, ormai, anche sull'esemplare modello della giurisdizione amministrativa, in sede di protocolli) di nitida concisione. Quindi questa asimmetria della novella potrebbe produrre effetti negativi sulla desiderata accelerazione del giudizio, poiché la decisione del giudice è, anche, il frutto degli atti processuali delle parti (lo specimen pure sotto questo aspetto è sempre il processo amministrativo, dove alla valorizzazione della motivazione semplificata si pone in parallelo il controllo della “sinteticità” degli atti delle parti).

Non si può non considerare, infatti, che l'amplificazione del rito camerale viene intesa dal legislatore come strumento di accelerazione e semplificazione, implicitamente riconoscendo nell'udienza pubblica quella intralciante "strozzatura" che già la commissione Vaccarella vi aveva rinvenuto. Gli elementi di semplificazione, peraltro, sono da identificarsi soltanto in: 1) contrazione del contraddittorio, coagulato alla fase scritta, che di per sé non incide sul profilo temporale, essendo notorio che le udienze pubbliche non hanno effetto sulla produttività dell'ufficio; 2) contrazione del provvedimento del giudice di legittimità da sentenza in ordinanza. E questo è l'ulteriore argomento da affrontare, per meglio comprendere l'intento del legislatore.

4. È stato introdotto un nuovo modello di motivazione? - Se, invero, nulla modifica - formalmente, per quanto si è appena osservato - il legislatore del 2016 in ordine al contenuto del ricorso, la qualificazione come ordinanza del provvedimento, per così dire, ordinario della Cassazione civile è evidentemente finalizzata ad una accelerazione semplificatoria che, come enuncia l'intestazione della legge (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, recante misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa), conduca alla definizione rapida del contenzioso, ovvero alla eliminazione, o quantomeno notevole riduzione, dell'arretrato di cause pendenti presso la Suprema Corte.

Quale sia effettivamente la differenza di motivazione tra sentenza e ordinanza era agevolmente rinvenibile prima di questa riforma nel codice di rito. Premesso che il grado di legittimità è rimasto l'unico privo della motivazione contestuale, la scissione tra sentenza e ordinanza come apparato motivazionale era già stata notevolmente erosa dalla l. 18 giugno 2009 n. 69. Tale novella, all'articolo 45, diciassettesimo comma, aveva sostituito il n.4 dell'articolo 132, secondo comma, c.p.c. - che prevedeva "la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione" - con il seguente dettato: "la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione". Inoltre, con l'articolo 52, quinto comma, aveva sostituito il primo comma dell'articolo 118 disp. att. c.p.c. - per cui "La motivazione della sentenza di cui all'articolo 132 numero 4 del codice consiste nell'esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione" - così stabilendo: "La motivazione della sentenza di cui all'articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della

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causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi". È ovvio che tale espressa legittimazione del riferimento ai precedenti conformi, non essendo stato questo mai vietato (a differenza del riferimento ad autori di dottrina rimasto intatto nel terzo comma dell'articolo 118) ed anzi, già ben prima del 2009 costituente l'ordinario pilastro su cui veniva a fondarsi l'apparato motivazionale quanto alle ragioni di diritto al di fuori ovviamente del leading case, per conservare allora un qualche significato doveva intendersi come la manifestazione di una sorta di pressing da parte del legislatore all'utilizzo dei precedenti, ovvero all'inserimento di elementi entro certi limiti ontologicamente assertivi, in quanto motivati esclusivamente per relationem innestandosi in una corrente giurisprudenziale di cui veniva così potenziata la natura tralatizia. Ciò era stato confermato, si nota per inciso, dal tentativo del 2013, quando cioè l'articolo 79 d.l. 21 giugno 2013 n. 69 sostituiva il primo e il secondo comma dell'articolo 118 in questione con una norma più inequivocamente iconoclasta vista l'introduzione di una esclusività ("La motivazione della sentenza di cui all'articolo 132, secondo comma, numero 4, del giudice consiste nella concisa esposizione dei fatti decisivi e dei principi di diritto su cui la decisione è fondata, anche con esclusivo riferimento a precedenti conformi ovvero mediante rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi o di altri atti di causa…"), che non a caso venne a cadere nella conversione con modifiche attuata dalla l. 9 agosto 2013 n. 98.

L'ordinanza invece, all'articolo 134 c.p.c., non è mai stata rielaborata dalle novelle a proposito della sua motivazione, e il primo comma della norma la definisce semplicemente "succintamente motivata". Se l'ordinanza deve affrontare sia questioni di fatto sia questioni di diritto, dunque, la sua motivazione sarà su entrambe succinta; il che non la differenzia oramai dalla sentenza, la cui motivazione, nei procedimenti assoggettati ratione temporis alla riforma del 2009, non include più l'esposizione dello svolgimento del processo, e a sua volta è "concisa" (articolo 132 c.p.c.) ovvero

"succinta" (articolo 118 disp. att. c.p.c.).

I limiti di queste rapide note impediscono di effettuare una ricostruzione della giurisprudenza di legittimità sulla conformazione dell'apparato motivativo. Non si può non rilevare, comunque, che le tracce di una tradizionalista contrapposizione tra la motivazione "ampia" propria della sentenza e quella "succinta" dell'ordinanza (cfr. per esempio Cass. 21800/2013, Cass. 14390/2005, Cass.

1049/1980) sono ormai cancellate da una impostazione complessiva che vede la motivazione della sentenza come concisa/sufficiente anche mediante i meccanismi acceleranti della formulazione implicita e per relationem (ancora per esempio, Cass.25509/2014, Cass.8294/2011, Cass.

5241/2011, Cass. 22801/2009, Cass. 17145/2006, Cass. 5550/2004) oltre alla semplificazione sortita dalla c.d. ragione più liquida (cfr. per tutte Cass. 17214/2016, Cass.12002/2014 e S.U.

9936/2014).

Le vie interpretative dell'incremento dell'utilizzazione dell'ordinanza in un contesto come quello della riforma in esame, allora, sono duplici: mero inserimento, nettamente prevalente dal punto di vista statistico, del provvedimento "ordinario" nella specie dell'ordinanza, oppure ulteriore spinta nel senso della riforma del 2009 e del fallito tentativo del 2013 ad una motivazione il più possibile scarna, che attinga nella massima misura a interventi precedenti e quindi diminuisca - il che è

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logico, dal momento che la causa affidata al rito a sua volta "ordinario", cioè al rito camerale ex articolo 380 bis.1 c.p.c., deve caratterizzarsi per la sua insignificanza giuridica - il grado di esame del caso concreto tendendo all’irrigidimento tralatizio della giurisprudenza. Attraverso questo metodo il legislatore, se si segue questa interpretazione, mira ad attuare le indubbie esigenze urgenti di definizione del contenzioso.

In sostanza, ciò verrebbe raggiunto mediante una gerarchia dell'oggetto di giurisdizione, riflesso in modo direttamente proporzionale sull'apparato motivativo del provvedimento che ne esterna l'esercizio: in primo grado, la inammissibilità o la soluzione manifesta, affidata alla sezione apposita; in secondo grado, la carenza di significatività nomofilattica, affidata alla sezione semplice in rito camerale; in terzo grado, l'emersa incompatibilità con l'articolo 375 nn.1 e 5 c.p.c. e i ricorsi relativi a questioni di diritto che è opportuno discutere in pubblica udienza, affidata (pur con evidente eterogeneità) alla sezione semplice in pubblica udienza; in quarto grado, la necessità di intervento delle Sezioni Unite, dove, tendenzialmente in toto, si coagulano la nomofilachia e l’evoluzione del diritto vivente. L'efficacia di questa struttura a piramide, a prescindere da ogni questione di dubbio costituzionale e sovranazionale, sarà dimostrata, naturalmente, dalla sua attuazione, poiché nessuna legge è una profezia. Come tutte le novelle con cui il legislatore nell'ultimo ventennio ha perseguito una superiore efficienza del sistema giudiziario, già patisce censure a livello accademico il cui esame non rientra realmente nello scopo di queste pratiche note.

Gli aspetti incidenti sulla comprensione delle norme – scopo di questo breve appunto - sono stati già sinteticamente considerati, potendosi soltanto aggiungere che la questione della privazione della pubblica udienza non appare, in realtà, problematica rispetto alla CEDU, poiché, alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il giudizio deve essere valutato, ai fini del rispetto dell'articolo 6 par.1 CEDU, nella sua globalità, non confinandosi quindi ad un unico grado (a parte che la Suprema Corte, come giudice di legittimità, non avrebbe giurisdizione piena). Non si può, comunque, negare le criticità, già sopra esposte, che emergono in ordine al convogliamento nei vari

“gradi” del rito di cassazione, anche perché la discrezionalità non motivata di chi assegna non ha alcun riscontro, neppure nel parallelo sistema del giudice di legittimità penale (pur richiamato, come si è visto, quale esempio positivo e giovevole dal progetto Berruti), dove pure si è recentemente espanso il c.d. rito non partecipato, ma non per valutazione discrezionale caso per caso bensì per interpretazione nomofilattica (S.U. pen. 51207/2015) di norme legislative (articoli 325 e 611 c.p.p.), la normativa (articolo 611 c.p.p.) peraltro ivi fondando da sempre, e quindi anche in precedenza, l'esenzione di determinate cause dalla pubblica udienza. Rimane, poi, un’ulteriore criticità sistematica che è difficile eludere visto l'attuale arretrato che assedia il giudice di legittimità: la Suprema Corte è, per così dire, il luogo di una chimica precipitazione di cause dal contenuto e dalla storia procedurale quantomai eterogenei, e ciò sia per interventi legislativi riduttivi di filtri (dalla ormai risalente soppressione della Commissione Tributaria Centrale al recente "saltum" del secondo grado concedendo al giudice d'appello una cognizione sommaria e così veicolando in Cassazione la sentenza di primo grado) sia per la giurisprudenza estensiva del ricorso straordinario. Il legislatore del 2016, ben consapevole come si è visto dell'esigenza di un cambiamento di rotta, non ha però introdotto nella novella del 2016 alcuna incidenza sull'afflusso

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dei ricorsi, lasciando nel ruolo di convitato di pietra l'articolo 111 Cost. anche laddove la correzione dei suoi eccedenti effetti non richiederebbe, trattandosi di mere interpretazioni, alcunché di invasivo, ovvero una riforma costituzionale.

Riferimenti

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