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Il trattamento terapeutico e la falsa logica del consenso Prof.ssa Virginia Zambrano

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Il trattamento terapeutico e la falsa logica del consenso

Prof.ssa Virginia Zambrano*

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il consenso quale presupposto "soggettivo" di legittimità del trattamento sanitario. - 3. Il fondamento normativo del consenso. - 4.

La natura giuridica del consenso e la capacità a consentire. - 5. 1. Rilievo della forma e modi di manifestazione del consenso. - 5. 2 Il consenso presunto. - 6. Il rilievo degli obblighi di informazione. - 7. Il fondamento giuridico dell'obbligo di informare. - 8. Informazione e consapevolezza. - 8. Gli ulteriori sviluppi del dovere di informazione. - 10. Profili probatori del consenso.

1. Nei protagonisti dei romanzi di Kafka, lo spazio lasciato al loro potere decisionale è decisamente secondario, ed essi piuttosto esprimono lo smarrimento dell'uomo di fronte ad un destino fatto di contingenze. Senza dubbio i suoi personaggi vivono in un mondo di volontà, quindi vogliono e consentono, ma tale volontà, lungi dall'essere espressione di autonoma determinazione, sottende la necessità di accettare regole.

L'uomo responsabile, perché informato e fatto consapevole delle scelte che lo riguardano cessa di appartenere (se mai lo era stato) alla realtà per confluire in una visione dei rapporti, sociali e giuridici, in cui il consenso sembra comporsi secondo un criterio di inevitabilità.

Ecco che allora l'equazione libertà di scelta-assunzione del rischio entra in crisi, ridimensionando, come in altro ambito accade per le limitazioni cui va incontro la libertà contrattuale, l'idea di autonomia morale della personalità.

Sotto il profilo privatistico, lo sfumare dell'autonomia privata nella libertà di iniziativa economica dà conto anche della sostanziale debolezza che possiede la logica del consenso, non in grado di assicurare l'attuazione di un principio di giustizia, se non assistita da meccanismi in grado di evitare abusi1.

Il contraente, il consumatore, l'imprenditore, il professionista, il lavoratore, il cittadino, il malato, e così enumerando, anche quando sembrano in condizione di effettuare una scelta consapevole sono dotati di una fragilità che rende le riflessioni sulla libertà di autodeterminarsi meri esercizi teorici.

La contraddizione si avverte nel momento in cui, da un lato, si rivaluta in chiave partecipativa la posizione della persona e, dall'altro, si osserva come il consenso esca sconfitto dalle vicende nelle quali maggiore dovrebbe essere la sua esaltazione.

La stessa identificazione del malato quale consumatore di servizi sanitari, cui deve essere assicurata libertà di scelta e garantito uno standard di prestazione secondo parametri di efficienza, se sottolinea l'attenzione del legislatore verso la persona malata, non esce dal vago di una fattispecie descrittiva che attribuisce posizioni

* Professore Associato di Diritto Privato Comparato, Università di Salerno.

1 Cfr., G. GORLA, La «logica-illogica» del consensualismo o dell'incontro dei consensi e il suo tramonto, in Riv. dir.

civ., 1966, p. 272 ss.; L. RAISER, Il compito del diritto privato, Milano, 1990, p. 56 ss.; P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, p. 134 ss.

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soggettive, ma non si occupa di verificarne la concreta realizzazione, perché anzi, proprio il rinvio operato dagli artt. 1 e 2 della legge 1998/281 alla tutela del consumatore rafforza il convincimento che il consenso, da solo, sia un mezzo di tutela piuttosto improbabile.

Né in senso diverso depone l'evoluzione del diritto alla privacy, culminata nella l.

1996/675, dove l'intervento del Garante deve intendersi concepito in funzione di garanzia, rispetto ad un consenso che non è in grado di assicurare alcun controllo sui propri dati.

Dal canto suo, la Convenzione di Oviedo del 1997, dove pure il richiamo al consenso è compiuto in funzione di salvaguardia della dignità della persona umana (art. 5, comma 1), non contiene alcuna indicazione circa la natura e il tipo di rischi che devono formare oggetto di informazione, lasciando sostanzialmente ai giudici il difficile compito di definire le condizioni affinché il paziente possa esprimere un consenso libre et éclairé 2.

Su queste premesse trovano fondamento talune riflessioni sul consenso al trattamento medico.

2. Il ruolo centrale che la manifestazione di volontà assume nel trattamento medico-chirurgico è testimoniato dallo spazio occupato dal consenso nelle azioni di responsabilità medica dove, in una prospettiva attenta ad esigenze di tutela della dignità della persona, funge da strumento di controllo della liceità e correttezza nello svolgimento del rapporto.

Le origini filosofiche del consenso al trattamento medico-chirurgico si possono collocare nella storia e nella tradizione pragmatica proprie dello spirito calvinista che, agli inizi del XVI sec., andava diffondendosi in Francia e Germania.

L'homo oeconomicus di cui discorre Max Weber, in cui non trovano spazio le paure e le fragilità che ne indeboliscono i processi decisionali, e per il quale neppure la malattia può essere un ostacolo per il buon andamento degli affari, fa nascere nel medico l'obbligo di informare accuratamente il paziente dei rischi del trattamento, per consentirgli di pianificare la propria attività.

Prende consistenza, progressivamente, l'immagine di un paziente sempre meno disposto a vivere esperienze di «abandon aveugle» e sempre più interessato ad un coinvolgimento responsabile nelle scelte relative alla propria salute3.

Al rigore di questa impostazione si contrappongono, però, i casi in cui è necessario non rivelare al malato una prognosi infausta, per non compromettere le condizioni psichiche del destinatario della prestazione, giacché – manco a dirlo, tanto appare ovvio – il consenso è un diritto del paziente, non un suo dovere, e se questi rifiuta il

trattamento ne va, comunque, rispettata la volontà4.

2 Cfr., P. FRAISSEIX, La protection de la dignité de la personne et de l'espèce humaines dans le domaine de la biomédecine: l'exemple de la Convention d'Oviedo, in Rev. int. droit comp., 2000, p. 375 ss. Più analiticamente, sui profili di tutela della privacy, invece, E. GIANNANTONIO - M. G. LOSANO - V. ZENO-ZENCOVICH, La tutela dei dati personali. Commentario alla l. 675/96, Padova, 1997, passim.

3 Cfr., L. BRUSCUGLIA, Commento alla l. 13 maggio 1978, n. 180, in Nuove leggi civ. comm., 1979, p. 179.

4 M. PARADISO, Il dovere del medico di informare il paziente, in AA. VV., La responsabilità medica, Milano 1982, p. 144; A. DE VITA, La colpa professionale, in La giurisprudenza per massime e il valore del precedente, Padova,

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Ma – di là da riflessioni di natura antropologica cui l'appartenenza a diverse culture pur potrebbe dare origine, allorché si tenti di definire in astratto il tipo di condotta esigibile dal medico – bisogna convenire che, quando si discorre di informazione e di consenso, ci si muove sull'incerto terreno di ciò che i francesi definiscono humanisme médicale, a ricordare come, di là da qualsiasi affermazione di principio, si tratta di un profilo che supera il rigore impositivo delle regole, siano esse giuridiche o disciplinari5.

In effetti, il dibattito sul fondamento giuridico del consenso – se, cioè, esso vada identificato nel diritto di ciascuno di autodeterminarsi, ovvero attenga, più specificamente, al rispetto dell'integrità fisica della persona – si è sviluppato nella prospettiva kantiana che attribuisce rilievo al consenso, ma a prescindere da una condizione di consapevolezza, cui è invece necessario approdare affinché il consenso possa considerarsi effettivo.

L'affermarsi del principio di autodeterminazione, unitamente alla necessità di porre rimedio ad uno squilibrio informativo che nel rapporto medico-paziente vedeva questi «incompetente» a fronte delle conoscenze tecniche del primo, ha prodotto un ribaltamento di prospettiva nel senso di rivendicare al paziente un diritto di partecipazione, che evoca una sorta di health enterprise dove medico e paziente, superata la contrapposizione, sarebbero impegnati in una fattiva opera di collaborazione6.

Quando, però, dalle astratte affermazioni, si passa a verificare le condizioni in presenza delle quali possa dirsi intervenuto un consenso illuminato e consapevole all'atto medico, ci si rende conto che la vera partita si gioca sul terreno dell'informazione e sulla difficoltà di fissare i criteri della disclosure, continuando ad essere rimesso alla sensibilità del medico il compito di definire il quantum di informazione da veicolare al paziente, in relazione alla capacità che questi possiede di intenderla adeguatamente.

1988, p. 334. La discrezionalità del medico trova nel cd. privilegio terapeutico le condizioni per una riespansione. La riserva di rivelazione su cui esso si fonda testimonia la difficoltà, per il medico, di rassegnarsi al rifiuto del paziente di sottoporsi alle cure e si riflette nell'esigenza di una documentazione che non investe, se non in casi specifici, il consenso. Dal canto suo, il nuovo codice deontologico stabilisce, all'art. 30, comma 4, che talune informazioni, specie se riguardanti prognosi gravi o infauste, debbano "essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza". Analogamente a quanto accade nell'ordinamento americano, al medico è dunque imposto un dovere di informazione dai contenuti estremamente ampi. La possibilità di mitigare i contenuti della comunicazione, in presenza di gravi quanto inevitabili esiti della malattia, evidenzia come il quantum della rivelazione continui a rimanere affidata esclusivamente alla sensibilità del medico. Conferma si ricava da Cass., 8 aprile 1997, n.

3046, in Giur. it., 1998, c. 227, dove i giudici riconoscono che "l'operatore sanitario deve contemperare l'esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento". Sul pericolo di trasformare il medico nel vero arbitro della decisione, A. CONTI, Errore medico e dovere di informare il paziente, nota a Pret. Nuoro, 18 maggio 1996, in Riv. med. leg., 1998, p. 1173. Per quanto attiene all'esperienza anglo-americana, cfr., I. KENNEDY & A. GRUBB, Medical Law, London-Dublin- Edinburgh, 1994, p. 212 ss.

5 A. GAMBARO, La responsabilità medica nella prospettiva comparatistica, in AA. VV., La responsabilità medica, cit., p. 39; G. SCALFI, Consenso e fiducia nel rapporto medico-paziente, ivi, p. 137.

6 Si è osservato, G. FERRANDO, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza, in Riv. crit. dir. priv., 1998, p. 68 che, attraverso il consenso, il paziente diventa protagonista del processo terapeutico. In realtà, eccezion fatta per quei casi in cui sono prospettabili più opzioni, lo spazio che residua al paziente è, di solito, piuttosto marginale e si riduce alla decisione di accettare o rifiutare la cura. In questo senso discorrere di partecipazione è eccessivo. L'unica cosa che veramente importa al paziente è la guarigione, e la stessa possibilità di controllare l'operato del medico, attraverso l'informazione, è più teorica che reale.

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Le difficoltà cui si accennava sono puntualmente avvertite dalla giurisprudenza che, anche se in maniera non sistematica, procede ad un ampliamento degli obblighi di informazione e, ora in ragione della maggiore sicurezza offerta dal rimedio contrattuale, in ordine alla determinazione delle conseguenze dannose dell'inadempimento, imposta il discorso in termini di valutazione dell'inesattezza della prestazione, sì da cadere nella sfera di applicazione dell'art. 1218 cod. civ.; ora considera che gli obblighi di informazione siano espressione di quel comportamento di buona fede che l'art. 1337 cod. civ. impone alle parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto7; ora lega arbitrarietà dell'intervento ed esito infausto, attraverso un'operazione di cui è manifesto l'intento, per cui il problema dell'informato consenso non concerne la tutela della personalità morale degli individui, ma è piuttosto un'ipotesi in cui il rischio insito nell'intervento terapeutico è trasferito dal paziente, che ne è normalmente gravato, al curante8.

Il fatto che le argomentazioni della dottrina siano tutte svolte come se si trattasse di un problema di tutela della personalità morale è una delle tante sfasature che il confronto fra le diverse formanti di un sistema ci restituisce9.

3. Le basi normative del consenso all'atto medico si rinvengono nel frammentario quadro offerto dal codice civile (art. 5 cod. civ.), dalla Costituzione (artt. 2; 13 e 32) e da qualche disposizione contenuta in leggi di settore ed in talune leggi regionali.

L'evoluzione dottrinale che si è compiuta, a partire dalla rigorosa ed al tempo stesso scarna formulazione dell'art. 5 cod. civ., vale a dar conto, per un verso, del progressivo ridimensionamento subito dalla norma in esame, in considerazione del superamento della logica proprietaria che ne aveva ispirato la formulazione, e, per l'altro, del significato assunto dal consenso quale mezzo di tutela della persona10.

Le obiezioni della dottrina si sono appuntate essenzialmente sullo schema offerto dall'art. 5 cod. civ., norma in cui la tutela dell'integrità fisica è connessa all'idea di disponibilità, e quindi rimane affidata al potere che ciascuno ha sul proprio corpo, al punto da far ritenere che gli atti di disposizione si esauriscano tutti in «rapporti privatistici e non già pubblicistici», escludendo qualsiasi forma di protezione che non sia quella che spetta al titolare del diritto11.

7 App. Bologna, 21 novembre 1996, in Resp. civ. prev. 1997, p. 374; Trib. Genova, 3 gennaio 1996, in Danno e resp.

1997, p. 94; Trib. Roma, 14 febbraio 1995, in Gius 1995, p. 643 (s.m.). Di responsabilità aggravata si discorre in Cass.

18 luglio 1975, n. 2439, in Giust. civ., 1975, I, p. 1389 dove i giudici non si allontanano dal terreno della colpa professionale dovuta ad errore: il caso era relativo ad un intervento di ernia discale che tuttavia non si era mostrato risolutore, sì che il paziente era stato sottoposto ad altre due operazioni, da una delle quali era residuata la derelizione di un ago che avrebbe poi provocato un grave processo infiammatorio alla radice nervosa della regione lombare.

8 Cfr., App. Milano, 2 maggio 1995, in Foro it., 1995, I, c. 1418.

9 A. GAMBARO, op. cit., p. 42.

10 F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1989, p. 51. Il richiamo espresso al consenso informato, ma non ai contenuti dell'informazione, si incontra in una serie di leggi che riguardano per lo più l'attività di sperimentazione (art. 1, lett. b, d. l. 16 giugno 1998, n. 186; art. 2, d. l. 11 febbraio 1997, in tema di importazione di medicinali registrati all'estero; art. 1, d. l. 27 maggio 1996, n. 291; art. 1, d. l. 25 marzo 1996, n. 161;

art. 2, d. m. 13 ottobre 1995, sulle tecniche di counselling da utilizzare per i rilievi epidemiologici da HIV; art. 5, Provv. CUF, 17 gennaio 1997) o la disciplina delle attività trasfusionali: art 19, d. m. 15 gennaio 1991 sul consenso del donatore di sangue; l. 4 maggio 1990 n. 107; d. m. 19 dicembre 1990.

11 Così, M. PESANTE, Corpo umano (atti di disposizione), in Enc. dir., vol. X, Milano, 1962, p. 656; A. DE CUPIS, I diritti della personalità, in Tratt. dir. civ. comm., diretto da Cicu e Messineo, IV, t. 1, Milano, 1982, p. 60; M.

BESSONE - G. FERRANDO, Persona fisica (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, p. 200; C.

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Sottoposto alle continue sollecitazioni di un'etica in trasformazione, l'art. 5 cod.

civ. è apparso inadeguato ad offrire risposta agli interrogativi sollevati dalla scienza medica. Lo stesso concetto di integrità fisica si è modificato, assumendo una connotazione statica, a fronte del più ampio e comprensivo termine salute, intesa quale condizione di benessere psico-fisico, che si connota per contro dinamicamente12.

Il dibattito, sull'art. 5 cod. civ. ha finito così con l'assumere un tono speculativo e, accanto a chi ha affermato l'impossibilità di recuperare, per via interpretativa, l'articolo in esame, non in grado di reagire ai problemi dell'inseminazione artificiale, dei trapianti, delle tecniche di intervento sui geni13, si è posta altra parte della dottrina che – pur partendo dalla medesima premessa – ha definito l'ambito di applicazione dell'art. 5 cod. civ. in relazione agli atti dispositivi a contenuto patrimoniale14.

Per superare il ridimensionamento dell'art. 5 cod. civ., che questa interpretazione consegna, altri, auspicando una lettura del codice civile alla luce dei principi costituzionali, ha sottolineato come tale soluzione consentirebbe di restituire una specifica funzione all'art. 5 cod. civ., chiamato ad operare quale strumento di controllo della meritevolezza degli atti di disposizione del corpo umano15.

Della ricchezza di questa discussione non si rinviene, però, traccia in una giurisprudenza che appare, più che altro, intenta a definire i limiti alla disponibilità16. A ben vedere la dottrina, anche quando collega il consenso alla libertà di effettuare le scelte relative alla propria salute, rifiuta di pensare al consenso come al fondamento esclusivo di legittimità dell'attività medico-chirurgica, in quanto individua in esso una forma di tutela imperfetta.

Il consenso si presenta, in altri termini, quale requisito qualificante del trattamento sanitario, condizione necessaria, ma non per questo sufficiente, per la valutazione

CHERUBINI, Tutela della salute e atti di disponibilità del corpo, in AA. VV., Tutela della salute e diritto privato, a cura di Busnelli e Breccia, Milano, 1978, p. 76. In giurisprudenza l'eco di queste affermazioni si rinviene in Cass. pen.

31 gennaio 1934, in Foro it., 1934, II, c. 146, in cui i giudici non si discostano da quanto emerso nel corso del giudizio, sia di primo grado (Trib. Napoli 28 novembre 1931, in Giust. pen., 1932, II, p. 592), che d'appello (App. Napoli 30 aprile 1932, in Giust. pen., 1932, II, p. 1679), dove la non punibilità del medico, in seguito all'ablazione della ghiandola sessuale, trovò giustificazione nel consenso dell'avente diritto.

12 P. PERLINGIERI, La personalità umana nell'ordinamento giuridico, Camerino-Napoli, 1972, p. 311; S. RODOTÀ, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, 1992, p. 211.

13 B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Dir. soc., 1983, pp. 50-52.

14 M. BESSONE - G. FERRANDO, Persona fisica, cit., p. 202; G. FERRANDO, Consenso informato, cit., p. 56.

15 P. D'ADDINO SERRAVALLE, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, Camerino-Napoli, 1983, p. 185. In questa prospettiva cfr., C. M. D'ARRIGO, Autonomia privata e integrità fisica, Milano, 1999, p. 270, che da rilievo agli accordi contrattuali in materia di integrità fisica poiché, in caso contrario, ne uscirebbe ridimensionato lo stesso "giudizio di meritevolezza previsto per le dichiarazioni dispositive della sfera vitale, relegandolo ad operare solamente per il consenso ex art. 50 c.p."

16 Si veda, da ultimo, Cass., 13 gennaio 1997, n. 364, in Giur. it., 1998, c. 586, dove i giudici, ribadiscono che

"Dall'autolegittimazione dell'attività medica, anche al di là dei limiti di cui all'art. 5 cod. civ., non può trarsi la convinzione che il medico possa, di norma ed al di fuori di casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni di cui all'art. 54 c.p.) intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente". La giurisprudenza sul punto, è univoca e va da ipotesi di sterilizzazione volontaria, ora considerata lecita: Trib., Lucca, 7 maggio 1982, in Riv. it. med.

leg., 1983, p. 233, ora no: App. Firenze, 6 marzo 1985, in Foro it., 1985, II, c. 383; a casi di interventi chirurgici in cui il chirurgo aveva, senza il preventivo consenso reale o presunto del paziente, ampliato il campo operatorio: Ass.

Firenze, 18 ottobre 1990, in Giur. mer., 1991, p. 1119. Dal canto suo la Corte cost., 24 maggio 1985 n. 161, in Giur.

it., 1987 I, 1, c. 236 investita della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, l. 164/1982, (sul mutamento di sesso), aveva superato l'eccezione di incostituzionalità, legando tutela della salute psichica e attività dispositiva.

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della sua liceità17, ricevendo dal collegamento fra libertà personale (art. 13 Cost.) e tutela della salute (art. 32 Cost.) – cui sembra preordinata l'attività medica – una più solida base argomentativa.

Tuttavia, misurare la distanza fra le diverse posizioni assunte dalla dottrina risulta abbastanza difficile: tanto nel caso in cui i limiti alla liceità del trattamento medico siano rinvenuti nei principi costituzionali, quanto nell’ipotesi in cui si ritenga che il limite alla disponibilità riposi su un controllo di meritevolezza del singolo atto dispositivo, il risultato non cambia poiché, in entrambi i casi, si intende garantire la più ampia tutela alla persona, emendando il principio dell'autodeterminazione dal capriccio o dall’arbitrio.

In pratica, liberato il terreno da impostazioni dogmatiche, quello del consenso all'atto medico sembra piuttosto presentarsi come un falso problema.

Il consenso è in fondo l'atto conclusivo di un rapporto di contrapposizione/fiducia fra medico e paziente, in cui il potere ultimo di direttiva rimane pur sempre affidato al medico. Nonostante le aporie cui può dar luogo una sovrapposizione fra analisi giuridica e socio-antropologica, bisogna riconoscere che il consenso o il rifiuto del trattamento dipendono, più di quanto si sia disposti a riconoscere, dall'uso che il medico fa di tecniche di comunicazione, dal modo in cui imposta la risposta o trasferisce l'informazione18.

La possibilità di autodeterminarsi finisce cioè con il dipendere proprio dall'atteggiamento assunto dal medico. Ne sono dimostrazione le tecniche di counselling sperimentate con successo in Canada, e in Inghilterra, che si fondano su un intervento volontario e consapevole del medico nei processi decisionali del suo paziente, in applicazione dei principi su cui si fonda la teoria sistemica, in base alla quale è possibile dar vita a comunicazioni che consentono di ottenere risposte positive e desiderabili, risposte cui un paziente razionale non potrà sottrarsi19.

4. Il tema del consenso al trattamento medico-chirurgico si presenta connesso alla definizione del contenuto del contratto di prestazione d'opera professionale; e tuttavia l'ambito di riferimento normativo si allontana dallo schema predisposto dagli artt.

1325 ss. cod. civ.

17 G. CATTANEO, Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, p.

950; F. MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, p. 201. Il rifiuto della logica di cui all'art. 5 cod. civ. si fonda sul fatto che "il consenso dell'avente diritto non è di per sè sufficiente a fondare la legittimità e neppure la mera liceità dell'atto né a scriminare l'agente, essendo invece necessario che le finalità perseguite tendano alla realizzazione di valori costituzionalmente tutelati". Si tratta quindi di circoscrivere gli atti di cui all'art. 5 cod. civ. a quelli compiuti a favore di altri, così R. ROMBOLI, Atti di disposizione del proprio corpo, in Commentario del codice civile, art. 5, a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 254; D.

VINCENZI AMATO, Rapporti etico-sociali, in Commentario Scialoja-Branca, sub art. 32 Cost., Bologna-Roma, 1976, pp. 34-35. Altri preferisce discorrere di "riscoperta" dell'art. 32 Cost., per mettere in evidenza come il consenso sia, al tempo stesso, strumento di esercizio di un diritto di libertà e di attuazione del diritto alla salute, G. ALPA, La responsabilità medica, in Riv. med. leg., 1999, p. 28.

18 In questo senso si è osservato che il riconoscimento dell'obbligo di informare il paziente conduce "a ritenere che il medico più bravo sia proprio quello che riesce a far sopportare l'operazione più difficile, inducendolo a credere che si tratti di una malattia di poco conto", C. VACCA', La formazione del consenso al trattamento medico, in I Contratti, 1997, p. 346.

19 G. BERT - S. QUADRINO, Il medico e il counselling, Milano, 1989, p. 32.

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Le prime difficoltà si avvertono allorché si tenti di individuare l'oggetto su cui dovrebbe formarsi l'accordo delle parti, oggetto che soffre di una sostanziale indeterminatezza, per l'impossibilità di precisarne i contenuti e l'estensione.

Se si prescinde dal considerare la complessità della prestazione medica, ed il suo astratto articolarsi in una serie di fasi (diagnostica, di prognosi, di scelta ed esecuzione della terapia), per ciascuna delle quali è possibile condurre un'analisi differenziata in ordine all'oggetto della prestazione, bisogna riconoscere che si è in presenza di un'attività che, complessivamente considerata, consiste nella «cura», ossia nel ripristino dell'equilibrio psico-fisico, caratterizzato dall'assenza di condizioni patologiche, in cui è fatta consistere la salute.

Ma anche così definito, il problema dell'oggetto del contratto non esce dal vago e dall'indeterminato.

In questo senso, il problema delle condizioni di validità del consenso e della sua natura giuridica (se atto o negozio), l'interrogativo di chi sia il soggetto legittimato a prestarlo e la capacità richiesta per esprimerlo, l'eventuale forma che esso debba rivestire, la sua revocabilità e, più in generale, i limiti di efficacia stabiliti dall'ordinamento, trovano, nella disciplina del contratto, una risposta inadeguata.

In particolare, sul tema della capacità a consentire sembra riflettersi l'ombra del consenso al contratto di cura, per la cui esistenza è indispensabile richiamarsi alla capacità d'agire, poiché solo in questa fase trovano spazio gli accordi relativi all'onorario, o alle modalità di tempo e luogo richieste per l'adempimento.

Ma è evidente che chi consente al contratto di cura non consente ancora al trattamento e, come è stato da tempo evidenziato, nessuno si sognerebbe di guardare alla fase costitutiva del rapporto di cura per ricondurvi quell'autorizzazione ad intervenire, in cui si sostanzia il consenso al trattamento20.

Si è osservato, in merito alla natura giuridica del consenso, che il suo carattere negoziale andrebbe riconosciuto di pari passo alla sua qualificazione come

"coelemento di efficacia degli accordi contrattuali" destinato come è ad incidere sul preventivo assetto di interessi definito dal contratto21.

In questo modo si è costretti a ridurre il consenso al trattamento ad elemento accessorio rispetto all'atto di autonomia privata, e soprattutto ad attribuirvi un rilievo esterno che contrasta con la sua intima natura22. Inoltre, delle due l'una: o si

20 L'intima correlazione che esiste fra l'atteggiamento del medico e il grado di cultura o le condizioni psichiche del paziente vale a rendere conto della necessità di evitare fraintendimenti o confusioni fra il consenso espresso dal malato ed il consenso prestato per lo svolgimento di una qualsiasi altra attività negoziale, V. ZAMBRANO, Interesse del paziente e responsabilità medica nel diritto civile italiano e comparato, Camerino-Napoli, 1993, p. 31; C.

CATTANEO, Il consenso del paziente, cit., p. 953; L. BRUSCUGLIA, Commento alla l. 13 maggio 1978, n. 180, cit., p. 182; A. M. PRINCIGALLI, La responsabilità del medico, Milano, 1983, p. 188; G. FERRANDO, Consenso informato, cit., p. 57.

21 Cfr., C. M. D'ARRIGO, Autonomia privata, cit., p. 300

22 Se è vero che la circostanza esterna, cui è subordinata la produzione degli effetti, è destinata ad incidere sull'originario assetto di interessi, modificandolo, è anche vero che essa non può che essere, per l'appunto, espressione di una realtà estranea alle parti (si pensi, ad es., alla specificazione o alla venuta ad esistenza di beni futuri), cfr., R.

SACCO, Il contratto, vol.2, Torino, 1993, p. 482; C. M. BIANCA, Il contratto, 3, Milano 1984, p. 495 ss. S'intende allora come, per essere rimossa, l'inefficacia presupponga un atto di autonomia, (V. SCALISI, Inefficacia (diritto privato), in Enc. dir., vol. XXI, Milano 1971, p. 330), ma le conclusioni che si vorrebbero trarre da queste considerazioni non sembrano pertinenti. L'inadeguatezza della conclusione trova conferma nel fatto che, al consenso al trattamento medico-chirugico, si cerca di applicare categorie quali quelle dell'inefficacia o dell'invalidità, pensate per fattispecie dispositive di carattere patrimoniale.

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riconosce che il consenso è espressione del principio di autodeterminazione, e allora il giudizio di meritevolezza trova fonte esclusiva nei principi costituzionali più volte richiamati (artt. 2; 13; 32 Cost.); o, per ritenere possibile un giudizio in termini di validità, si è costretti a negare spazio all'autonomia.

Né la diversa configurazione del rapporto di cura, quale "rapporto di collaborazione all'impresa curativa" fornisce idonea giustificazione alla qualificazione, in chiave negoziale del consenso, perché a ragionare in questi termini si dovrebbe riconoscere al medico la possibilità di agire ex art. 1227 cod. civ. per far valere l'inadempimento, da parte del paziente, dell'obbligo di cooperazione23.

La natura personale del consenso dovrebbe quindi impedire una ricostruzione dello stesso in chiave negoziale e, tuttavia, anche quando sposa la teoria della personalità e non delegabilità del consenso, la dottrina finisce con l'assumere posizioni contrastanti, recuperando la visione negoziale sia pure sub specie di negozio sui generis, nel tentativo di spiegare il potere dei genitori di accettare o rifiutare l'intervento in luogo del figlio24. In concreto, l'opzione fra atto e negozio non è irrilevante, perché consente di chiarire se possa, o meno, esservi spazio per un fenomeno di rappresentanza25.

La giurisprudenza italiana, a differenza di quanto accade in Germania, non si lascia travolgere dal dibattito sulla natura giuridica del consenso. Il problema è, invero, avvertito dai nostri giudici, ma costoro preferiscono effettuare un salto logico e – ritenuta necessaria la capacità di agire per concludere un contratto di cure – immaginare che anche il consenso al trattamento debba subire la medesima sorte.

Il riferimento alla capacità d'agire è però compiuto obiter, e si incontra in quelle sentenze in cui, vista l'incapacità del malato, il consenso è prestato dai congiunti o dal genitore, ovvero per avvalorare l'ipotesi che anche un comportamento concludente, purché posto in essere da un soggetto capace, tiene luogo di un consenso espressamente manifestato26.

Non è ben chiaro il ragionamento seguito dalle Corti, nel momento in cui legano l'effettività del consenso all'acquisto della capacità d'agire. Con ogni probabilità la ratio di tale richiamo, che contrasta con gli stessi principi costituzionali – artt. 2, 3 e 32 Cost. –, si spiega in ragione del fatto che il tutore o il genitore svolgono, istituzionalmente, funzioni di rappresentanza della persona incapace, ma non considera che la rappresentanza è strumento forte di tutela dell'incapace, perché

23 G. FERRANDO, o. u. c., p. 59. Sull'inadeguatezza dello schema contrattualistico, G. CALABRESI, Funzione e struttura dei sistemi di responsabilità medica, in AA.VV. La responsabilità medica, cit., p. 53; C. VACCA', La formazione del consenso al trattamento medico, cit., p. 342;

24 Si veda la posizione assunta, fra gli altri, da U. NANNINI, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1989, p. 166, che, in relazione alla singolarità del consenso all'atto medico e per non rinunciare a meccanismi uniformi di tutela dal punto di vista della capacità, della libertà o del corretto formarsi del volere, discorre di negozio giuridico sui generis;

G. CATTANEO, Il consenso del paziente, cit., p. 955; A. CRESPI, La responsabilità penale nel trattamento medico- chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955, p. 61; F. P. GRISPIGNI, La volontà del paziente nel trattamento medico chirurgico, in La scuola positiva, 1921, p. 423; F. MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana, cit., p. 228.

25 Ma già A. DE CUPIS, I diritti della personalità, cit., p. 128, che pur si muove nell'ottica dell'art. 5 cod. civ. osserva esistere «una tendenza generale ad anticipare la capacità d'agire per quanto attiene alla disponibilità del proprio corpo».

26 Cass. 26 marzo 1981, n. 1773, cit.; Cass. 9 marzo 1965, n. 375, in Foro it., I, 1965, c. 1046. La fatica con cui i giudici procedono su questo terreno si avverte in Cass. 6 dicembre 1968, n. 3906, in Mon. trib., 1969, p. 230, ove non solo si lega la tutela della personalità all'art. 5 cod. civ. ma, addirittura, si chiama in causa la «capacità giuridica» del malato a consentire.

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vuole evitare il compimento di atti dispositivi non vantaggiosi, a contenuto patrimoniale.

L'ordinamento, quindi, non sembra prescindere da un'alternativa piuttosto rigida fra capacità-incapacità legale, lasciando spazi del tutto marginali a situazioni di capacità naturale. Tuttavia, la necessità di riconoscere al minore, che abbia raggiunto una certa maturità di giudizio, piena libertà di scelta in tema di diritto alla salute e, più in generale, di scelte esistenziali mette in crisi lo schema rigido della sostituzione negoziale27.

Ne esce così precisata la stessa potestà dei genitori che, sul problema delle scelte terapeutiche, viene in considerazione «come esercizio di un diritto-dovere di cura della persona del minore, e quindi come consenso e controllo del terzo all'attività del medico, qualificato dalla particolare posizione che l'ordinamento riconosce ai genitori»28. Messe però da parte le ipotesi di incapacità ad esprimere un consenso in ragione dell'età o di particolari infermità, il carattere personale del consenso fa assumere un ruolo del tutto marginale a eventuali forme di coinvolgimento dei familiari.

D'altra parte, un ulteriore ostacolo a dare veste giuridica al coinvolgimento dei familiari è dato dalla mancanza di criteri per individuare chi siano le persone a cui il medico può rivolgersi, sicché nulla in teoria potrebbe escludere che egli faccia riferimento a colui che mostri maggiore accondiscendenza verso le sue decisioni, a meno di non ritenere, come pure taluno suggerisce, che qui debba soccorrere l'art.

307, ult. co., cod. pen29. Le stesse circostanze in cui può considerarsi legittima la pratica di rivolgersi ai congiunti, per ottenere il consenso, sono estremamente vaghe e per lo più circoscritte a quei casi in cui la componente psicologica, a causa dell'età, della malattia o di fattori culturali, sembrerebbe a tal punto prevalere da influenzare negativamente le scelte del malato. E poi, come risolvere eventuali situazioni di conflitto fra congiunti, qualora esprimano pareri contrastanti?

La rigorosa opzione verso il principio della personalità del consenso è, d'altro canto, effettuata con chiarezza dal nuovo Codice deontologico30, là dove si precisa

27 Mentre entra in crisi la stessa ricostruzione in chiave negoziale del consenso al trattamento, P. PERLINGIERI, La personalità umana, cit., p. 137; P. STANZIONE, Capacità e minore età nella problematica della persona umana, Camerino-Napoli, 1975, p. 370; P. D'ADDINO SERRAVALLE, Atti di disposizione del corpo, cit., 1983, p. 173; G.

AUTORINO STANZIONE, Infermità mentale e tutela del disabile negli ordinamenti francese e spagnolo, Camerino- Napoli, 1990, p. 23; precisa come il modello negoziale sia ispirato allo standard formalistico capacità-incapacità legale, S. SICA, Sperimentazione umana. Disciplina francese e esperienza italiana, in Quad. Rass. dir. civ., diretti da Perlingieri, Napoli, 1990, p. 58.

28 P. D'ADDINO SERRAVALLE, op. cit., p. 180; L. BRUSCUGLIA, op. cit., p. 185. Punto di riferimento oggettivo rimane comunque l'interesse del minore, tant'è che nei casi in cui il rifiuto di cure, in ottemperanza a principi religiosi, possa seriamente compromettere la vita del minore, i giudici non esitano a far leva sullo strumento offerto dall'art. 333 cod. civ., così, Pret. Catanzaro 13 gennaio 1981, in Giust. civ., 1981, I, p. 3098. In Corte cost. 16-27 marzo 1992, n.

132, in Giur. cost., 1992, I, p. 1670, si ravvisa una condotta pregiudizievole al figlio, nel rifiuto del genitore di sottoporlo a vaccinazione obbligatoria, affermando la legittimità di intervento del giudice minorile. In altra ipotesi i giudici non hanno esitato a configurare addirittura la fattispecie dell'omicidio doloso per i genitori che, in ottemperanza al loro credo religioso, non avevano sottoposto la loro figlia a trasfusione, cfr., Ass. Cagliari 10 marzo 1982, in Foro it., 1983, II, c. 27. La Cassazione, annullando questa sentenza, ha rinviato ai giudici di Ass. Roma 30 luglio 1986, in Dir. fam. pers., 1986, p. 1048, che hanno invece individuato nella condotta omissiva dei genitori gli estremi dell'omicidio colposo.

29 Così, M. BILANCETTI, La responsabilità civile e penale del medico, Padova, 1995, p. 125.

30 Il vecchio Codice deontologico attribuiva al medico la facoltà «di non rivelare al malato, o di attenuare, una prognosi grave o infausta, nel qual caso questa dovrà essere comunicata ai congiunti» (art. 39). Il limite della necessaria

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che l'intervento dei congiunti è possibile soltanto se il paziente l'abbia espressamente consentito ovvero qualora vi sia pericolo per la vita o la salute di terzi (art. 31), e si fonda sulla considerazione che l'informazione indiretta, o per interposta persona, incide negativamente su quei meccanismi di interazione che dovrebbero, invece, connotare il rapporto medico-paziente.

Che nella pratica le cose vadano diversamente è reso evidente dal fatto che il medico, investito del potere di valutare la situazione e sia pur con l'obiettivo di rendersi conto dell'atteggiamento psicologico del malato, non prescinde quasi mai dal disporre l'audizione dei familiari, cui continua ad essere riconosciuto, sebbene implicitamente, un notevole potere decisionale31. Per quanto riguarda il consenso è dato, così, rilevare uno iato fra l'appesantimento formalistico che caratterizza il dibattito sulla sua realità, personalità, specificità e consapevolezza e il modo in cui esso è destinato ad operare nella prassi.32

5.1. La possibilità di valutare la sufficienza dei dati comunicati al paziente, e idonei a fondare il suo consapevole convincimento, non è assolta dalla verbalizzazione del consenso. Se così fosse, si dovrebbe concludere che l'uso di una determinata forma, per manifestare la volontà, si pone come suo requisito di validità, laddove è preferibile pensare che la forma abbia esclusivamente valenza sul piano probatorio, unico elemento di valutazione essendo l'informazione.

La giurisprudenza esprime molto bene questa funzione quando osserva che il

"modo" di manifestazione del consenso (per iscritto), consente al medico di evitare spiacevoli conseguenze penali33. Tranne alcune ipotesi tassativamente previste, si deve perciò ritenere che una volontà, in qualunque modo espressa, ma da cui risulti l'intenzione di sottoporsi al trattamento medico, sia sufficiente e valga inoltre ad

comparazione degli interessi in gioco che ispirava tale disposizione, limite che pure si trova riaffermato nell'art. 29, 4°

co., del nuovo Codice deontologico, esprime, alla luce dei principi costituzionali (artt. 2; 13; 32 Cost.), un diverso modo di intendere i doveri del medico. Ne consegue che, quando il paziente è capace, la sua volontà non può essere surrogata da opzioni diagnostiche compiute in precedenti atti dispositivi, e soltanto allorché egli versi in situazioni di incapacità l'informativa può essere diretta ad un suo rappresentate: S. SICA, Sperimentazione umana, cit., p. 53.

31 Si osserva, peraltro, F. RUGGIERO, Il consenso dell'avente diritto nel trattamento medico-chirurgico: prospettive di riforma, in Riv. med. leg., 1993, pp. 193-194 che, "pur risultando arduo stabilire la linea di condotta adottabile dal sanitario nel caso in cui i familiari lo sconsiglino di fornire indicazioni, è opinione pressoché unanime che, dopo aver spiegato ai congiunti la doverosa necessità di dare spiegazioni per acquisire un consenso giuridicamente valido, debba, alla luce delle regole generali, attenersi alla reale situazione patologica, senza eccedere in espressioni drammatiche".

32 Per l'irrilevanza, dal punto di vista giuridico, del consenso prestato dal padre di un minorenne non interdetto, cfr., Trib. Milano 17 aprile 1961, in Rep. Foro it., 1961, Professioni intellettuali, n. 58-62. In appello i giudici partiranno dal presupposto che il consenso manifestato all'atto del ricovero debba ritenersi sufficiente a giustificare tutti i successivi interventi, senza che sia necessario rivolgersi di volta in volta al paziente, App. Milano 16 ottobre 1964, in Foro it., 1965, I, c. 1083. La complessa vicenda riguardava un caso di ablazione di emorroidi, operazione ritenuta di bassa chirurgia, cui era seguita una seconda, ad opera di altro chirurgo. Da questi interventi chirurgici, compiuti su una paziente probabilmente affetta anche da altra patologia (proctite, successivamente scoperta dai medici e quindi non diagnosticata in tempo), erano derivate notevoli sofferenze e gravi esiti invalidanti. I giudici si ispirano al principio in base al quale il medico interviene per tutelare la salute del paziente, e non se ne può assumere l'illiceità della condotta.

Un'analisi non dissimile è quella che può essere compiuta per Cass. 9 marzo 1965, n. 375, cit., in cui un paziente era stato sottoposto a terapia di elettrourto, senza che né a lui né ai suoi congiunti fosse chiesto alcun consenso.

33 Così, in Trib. Genova 20 luglio 1988, in Foro pad., I, 1989, c. 81, dove dal ragionamento dei giudici, chiamati ad affermare la responsabilità del medico per un decesso seguito ad un esame angiografico, si perviene alla conclusione che la validità del consenso dipende, più che dalla completezza ed esaustività delle notizie fornite, dalla sua scrittura.

Ma si deve ritenere che solo in taluni casi la forma assurga a requisito di validità dell'atto; negli altri è piuttosto preferibile discorrere di forma assunta dalla prova: R. SACCO, Il contratto, cit., p. 576. In materia di consenso all'atto medico la forma non può essere requisito di validità dell'atto D. VINCENZI AMATO, op. cit., p. 2476.

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evitare che il medico si trasformi in una sorta di notaio34.

D'altra parte, tanto per le trasfusioni di sangue che per la donazione del rene o, ancora, per l'attività di sperimentazione, il rigore formale rinviene la sua giustificazione nello scopo che l'atto dispositivo si propone, ed è, in un certo senso, la doverosa conclusione cui approda l'ordinamento dopo aver considerato gli interessi coinvolti 35.

Nelle ipotesi di trattamento medico, però, questo tipo di riflessione non può essere compiuta, e la forma non assurge mai a requisito di validità del consenso. La giurisprudenza, nei casi, invero non frequenti, in cui ragiona in termini di formalizzazione del consenso, accentua l'aspetto relativo alla sua tangibilità, perché la forma garantisce, al livello più alto, l'esplicitazione del consenso ed è quindi utile sotto il profilo probatorio, anche se essa prova che un consenso c'è stato e non anche che la persona abbia avuto consapevolezza del trattamento. Significativamente, il nuovo codice deontologico precisa che la forma scritta può integrare (art. 31 cod.

deont.), ma non sostituire, il consenso informato, per il quale si pone esclusivamente un problema di documentazione, che riguarda il tipo di informazioni trasmesse e le modalità di svolgimento della terapia.

La tendenza a valutare l'adeguatezza delle informazioni alla luce dell'intervento da effettuare e l'indifferenza della forma per la manifestazione di volontà – essendo sufficiente un comportamento da cui risulti inequivocabilmente che il paziente abbia coscienza del trattamento – apre però al dibattito sulla rilevanza e sul diverso significato da attribuire alla condotta.

Si è assistito così – e ne è rimasta coinvolta la stessa giurisprudenza – ad una scomposizione delle modalità di manifestazione del consenso che, sebbene abbia avuto scarso rilievo pratico nell'accertamento della responsabilità, ha evidenziato, se non altro, la diversità di situazioni che possono coinvolgere il medico. Si è discorso allora di consenso (1) tacito o implicito, nel caso di chi non volendo sapere del suo male si affida al medico ovvero, conoscendo le sue condizioni di salute, si presenta in

34 Cfr., L. BRUSCUGLIA, Commento alla l. 13 maggio 1978, n. 180, cit., p. 182; F. MANTOVANI, La responsabilità del medico, in Riv. med. leg., 1980, p. 27; G. IADECOLA, La rilevanza del consenso del paziente nel trattamento medico-chirurgico, ivi, 1986, p. 46; M. BARNI, Diritti-doveri, responsabilità del medico, Milano, 1999, p. 122; e in giurisprudenza, Cass. 6 dicembre 1968, n. 3906, cit.; Cass. 26 marzo 1981, n. 1773, cit.; Cass., 15 gennaio 1997, n.

364, cit.; Trib. Venezia, 4 febbraio 1998, in Riv. med. leg., 1998, p. 965. Le uniche disposizioni normative che riflettono l'esigenza di una manifestazione scritta sono contenute nel d. m. 15 gennaio 1991, contenente i protocolli per l'accertamento dell'idoneità del donatore di sangue che, all'art. 26 prevede: «il consenso del candidato donatore deve essere dato per iscritto, dopo che la procedura è stata spiegata in modo comprensibile per il donatore, ponendolo in condizioni di fare domande ed eventualmente rifiutare il consenso» e nella l. 26 giugno 1967, n. 458 per i trapianti di rene, il cui art. 2 addirittura stabilisce che sia il Pretore, accertata la presenza di determinate condizioni, a curare la redazione per iscritto della decisione del donatore.

35 Emblematicamente, la necessità della forma scritta è prevista anche da quei provvedimenti che disciplinano l'attività di sperimentazione, cfr., all. 1, par. 1. 28 e 4.8.8 del d. m. 15 luglio 1997; all. 1, artt. 3;6 e ss., d.m. 18 marzo 1998 n.

650600. In Francia l'esigenza di un consenso da esprimere per iscritto riguarda la loi 17 janvier 1975 sull'interruzione della gravidanza; la loi Huriet del 20 décembre 1988 – e le leggi in materia di bioetica del 29 juillet 1994, relative all'utilizzazione di prodotti del corpo umano, ed infine la legge sul trattamento dei dati personali. Il dibattito sul principio della libertà della forma si sviluppa, alla luce dell'art. 1350 cod. civ., lungo i binari del rapporto regola- eccezione, e quindi derogabilità-inderogabilità della norma che stabilisce forme legali. Rapporto che è stato da ultimo rivisitato, in quanto il rigore formale più che un prius è il risultato dell'interpretazione dell'interesse protetto dalla norma: così P. PERLINGIERI, Forma degli atti e formalismo degli interpreti, Napoli, 1987, p. 61, in polemica con N.

IRTI, Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997, passim, che invece discorre di una tendenziale autoreferenzialità della forma.

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ospedale per farsi curare; (2) presunto, dove non soltanto manca un qualsiasi comportamento ma neppure la volontà esiste; (3) presunto e tacito, come accade allorché nel corso di un intervento chirurgico si profili la necessità di porre rimedio ad una patologia associata; (4) putativo, qualora il medico creda erroneamente che il consenso sia intervenuto.

Questa articolazione può essere intesa come il tentativo di instaurare una relazione fra consenso e gravità dell'intervento, secondo una tipologia che tiene conto dell'intervento routinario, di quello strumentale ad un trattamento più grave, o di quello relativo ad una più complessa tecnica di intervento36.

In realtà, nelle ipotesi di consenso tacito, non si prescinde dal ritenere esistente una manifestazione di volontà, ma si preferisce immaginare che quest'ultima sia implicitamente contenuta nel comportamento concludente del malato. Il fatto dunque che la manifestazione di volontà non sia esposta a particolari requisiti di forma non esclude che, in teoria, essa possa anche essere tacita. E, in effetti, non esiste forse miglior prova dell’esistenza del consenso del fatto che un paziente, ricoveratosi volontariamente in ospedale, non si opponga alle attività preparatorie dell’intervento chirurgico.

Un'ipotesi di questo tipo fa, tuttavia, sorgere il problema di come valutare la quantità di informazioni fornite al paziente, e ciò a meno di non ritenere che la concludenza del comportamento sia tale da generare nel medico la convinzione che il paziente è perfettamente a conoscenza delle terapie che gli saranno praticate. Infatti, l'informazione non rileva in sé e per sé, ma in quanto il paziente abbia consapevolezza del tipo di patologia o di intervento da praticare 37.

5.2. Il discorso si fa più complesso, anche da un punto di vista teorico, nei casi di consenso presunto, perché manca qui una qualsiasi condotta, cui ricondurre un'ipotetica manifestazione di volontà.

D'altro canto, se la consapevolezza del trattamento medico è requisito di validità del consenso, lo spazio che residua ad eventuali presunzioni di volontà è marginale: a ritenere il contrario, si finirebbe con il togliere da un lato ciò che al consenso si attribuisce dall'altro, con il risultato, assai poco soddisfacente, di privarlo di quella realità, che si considera attributo essenziale dello stesso. In pratica, le perplessità si presentano ogni qual volta il medico si trovi nell'effettiva impossibilità di ottenere il consenso.

I casi più ricorrenti sono quelli che si prospettano nei reparti di chirurgia d'urgenza o in pronto soccorso dove il medico opera in presenza di situazioni cliniche di origine cerebrale, vascolare e così via, che privano il paziente della coscienza o della capacità

36 Così, in Cass. 18 aprile 1966, n. 972, in Temi, 1967, p. 302, i giudici - in un caso di infezione da tetano conseguente ad una sutura a seguito di appedicectomia - occupandosi del consenso, escluderanno che "per interventi chirurgici implicanti l'impiego di normali mezzi di sutura debba richiedersi dal paziente uno specifico assenso, oltre quello implicito nel fatto stesso di sottoporsi all'operazione"; App. Milano 16 ottobre 1964, cit.; Cass. 6 dicembre 1968, n.

3906, cit.

37 In Cass. 26 marzo 1981, n. 1773, in Arch. civ., 1981, p. 544, i giudici - in un caso in cui un'operaia aveva riportato lo schiacciamento del polpastrello - non senza aver ribadito l'importanza dell'informazione ai fini di un consenso valido, rifiutano di collocarsi nella prospettiva del consenso tacito, poiché priva il paziente della possibilità di effettuare una scelta fra eventuali alternative praticabili.

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a consentire, situazioni nelle quali la regola del consenso subisce, di fatto, una sostanziale attenuazione.

Dinanzi a questi casi, la dottrina penalistica tenta di risalire alle ragioni che giustifichino l'intervento medico e, sia pur con diverse sfumature, si divide fra coloro i quali accettano la tesi del consenso presunto38 e coloro che invece la negano, appellandosi allo stato di necessità39, sia pur nella variante della «necessità medica»40. I sostenitori della teoria del consenso presunto sembrano individuare nel medico una sorta di gestore degli interessi del paziente, legittimato ad assumere decisioni sulla base di un non meglio identificato processo di interpretazione della sua volontà41.

D'altra parte, il richiamo all'id quod plerumque accidit, che è sotteso alla teoria del consenso presunto rinvia ad un reasonable patient. Sulla scia dell'esperienza americana, parte della dottrina discorre di criterio soggettivo ponderato che assume, quale parametro di riferimento, quello dell'uomo ragionevole calato in quella particolare condizione di malato, facendo riferimento ad un soggetto da cui è lecito attendersi scelte assolutamente razionali; un soggetto che, quindi, non avrebbe motivo di rifiutare un trattamento vantaggioso per la sua salute42. Lo spazio di operatività del consenso, poggiando su una valutazione di tipo probabilistico, andrebbe individuato in un'ipotetica utilità del comportamento tenuto al momento del fatto.

Ma, così facendo, la dottrina procede per finzioni: quelle del consenso presunto sono, infatti, ipotesi in cui si è nell'impossibilità completa di acquisire un qualsiasi consenso. In questi casi, il richiamo che fa la giurisprudenza all'art. 54 c.p. è significativo, perché ha la funzione di sottolineare una sorta di “affidamento”

completo del paziente al medico, cui rimane pur sempre il compito di valutare fra rischi e benefici conseguibili43. Non sempre, quindi, il consenso può essere utilizzato per spiegare i rapporti fra le parti. La corrente consensualistica, per non liberarsi del

38 F. MANTOVANI, La responsabilità del medico, cit., p. 23; A. CRESPI, La responsabilità penale cit., p. 58; F. P.

GRISPIGNI, La volontà del paziente, cit., p. 391; C. LEGA, Il dovere del medico di informare il paziente, in Riv. dir.

lav., 1960, p. 223; D. VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, in Giur. cost., 1982, p. 2476.

39 G. CATTANEO, Il consenso del paziente, cit., p. 967; R. RIZ, Il consenso dell'avente diritto, Padova, 1979, p. 344;

F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Padova, 1982, p. 266; G. IADECOLA, op. cit., p. 49; V. FRESIA, Luci ed ombre del consenso informato, in Riv. med. leg., 1994, p. 904.

40 In particolare, questi ultimi si chiedono che rilievo possa attribuirsi ad un consenso destinato a risolvere soltanto in minima parte le controversie in tema di responsabilità penale. E così, esclusa, in questa materia, l'applicazione della scriminante dello stato di necessità ex art. 54 c.p., si osserva che "l'attività medico-chirurgica esercitata secondo le regole dell'arte, rifulge come interesse sociale degno di per sé di tutela e di difesa e va considerata come un'autentica causa di esclusione dal reato": G. VASSALLI, Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento medico-chirurgico, in Arch. pen., 1973, p. 90.

41 Ma il richiamo a forme di negotiorum gestio non è soddisfacente, e la dottrina più accorta non manca di rilevarlo, precisando come essa si applichi a rapporti di carattere patrimoniale, cfr., R. RIZ, op. cit., p. 356; D. VINCENZI AMATO, op. cit., p. 2477: per l'A., solo lo stato di necessità consentirebbe di ritenere lecito l'intervento.

42 Cfr., G. CRISCUOLI, Ragionevolezza e consenso informato del paziente, in Rass. dir. civ., 1985, p. 490; così anche A.M. PRINCIGALLI, La responsabilità del medico, cit., p. 209, che ritiene non sia necessario informare il paziente di quei rischi rari che una qualsiasi persona ragionevole non considererebbe importanti per la sua salute.

43 G. CATTANEO, Il consenso del paziente, cit., p. 967. In Ass. Firenze 18 ottobre 1990, cit., i giudici hanno escluso la possibilità di individuare nel consenso presunto una possibile causa di legittimità dell’intervento medico. Negli stessi termini, attribuendo però rilievo all'art. 54 c.p., da ultimo, Cass. 15 gennaio 1997, in Foro it., 1997, I, c. 771. Di stato di necessità quale causa di esclusione del reato discorre altresì, F. RUGGIERO, Il consenso dell'avente diritto, cit., p.

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consenso e nel tentativo di far salva un'apparente libertà decisionale del paziente, è costretta a ricorrere ad artifici e ad immaginare, invece, che possa esistere un consenso presunto.

Peraltro, la necessità che scrimina è soltanto quella che impone al medico di intervenire per salvare il paziente da una forte ed immediata probabilità di danno. La mera valutazione circa l'opportunità di procedere alla cura, non presupponendo una condizione di urgenza, si colloca, quindi, in una dimensione diversa.

Questo spiega perché la sterilizzazione compiuta ad iniziativa del medico, in assenza di situazioni di necessità ed urgenza terapeutiche, è valutata negativamente, anche quando il medico sia intervenuto per scongiurare situazioni di pericolo, in caso di future gravidanze. La lesione che si produce nei casi in cui il medico estende il campo operatorio senza apparente necessità è, infatti, illecita, perché investe conseguenze non preventivamente determinabili e rispetto alle quali non può operare il consenso44. Il vero punto controverso, nelle azioni di responsabilità, è rappresentato dalla verifica dello spazio che occorre riconoscere alle circostanze oggettive della fattispecie, e cioè ai limiti cui soggiace l'intervento medico; limiti non facilmente determinabili a priori, frutto di una valutazione di estrema delicatezza che può soltanto essere compiuta caso per caso, poiché è rimesso al prudente apprezzamento del medico la verifica delle circostanze, in presenza delle quali intervenire, anche a prescindere dal consenso.

La risposta che l'ordinamento fornisce, quando imposta il discorso in termini di consenso, è allora inadeguata, perché se è vero che la logica del consenso nasconde la necessità di individuare un idoneo strumento di tutela del paziente, è anche vero che fallisce i suoi obiettivi in quanto non considera che, nel rapporto con il medico, il paziente è interessato al recupero dell'equilibrio fisio-psichico alterato dalla malattia.

Il consenso soddisfa, quindi, in maniera piuttosto debole e incompleta le esigenze di un paziente che vive una situazione di aspettativa dai contorni estremamente delicati, situazione che – ammesso esistano le condizioni – lascia spazi decisamente marginali ad eventuali scelte.

6. Le riflessioni sulla natura giuridica del consenso, sul suo fondamento o sulla sua personalità, a garanzia del principio di autodeterminazione, non fanno giustizia del fatto che il consenso si presenta come uno strumento imperfetto di controllo dell'attività medica.

Lo stesso discorso sull'effettività del consenso, che coinvolge a monte i profili qualitativi e quantitativi di un'informazione resa in un contesto relazionale che ha subito un profondo mutamento, non soltanto culturale ma anche sociale e giuridico, deve tener conto di una serie di variabili che dipendono dal ruolo svolto dall'informazione45. Nel processo di crescente soggettivizzazione del paziente,

44 App. Firenze 27 ottobre 1970, in Giur. merito, 1972, II, p. 292; Cass. pen. 6 novembre 1980, in Cass. pen., 1983, p.

52; Ass. Firenze 18 ottobre 1990, cit.

45 L'esigenza di conoscenza che si è accompagnata all'aumento del sapere scientifico e il dovere del medico di rivelare ogni cosa al paziente sembrerebbe incidere sulla natura fiduciaria del rapporto medico-paziente, al punto da ridurre quella del medico ad una vera e propria funzione di consulenza, cfr., G. ALPA, La responsabilità medica, cit., p. 27;

G. FERRANDO, Consenso informato, cit., p. 38 ss.; S. RODOTA', Tecnologie e diritto, Bologna, 1995, p. 126 ss.

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l'informazione rappresenta, infatti, il vero punto di confluenza fra rilievo da attribuire al consenso e responsabilità medica.

L'informazione diventa, così, oggetto di riflessioni non soltanto di natura medica e deontologica, ma che coinvolgono profili psicologici, culturali, giuridici e, non ultimo, sociali (si pensi al modo di percepire la relazione medico-paziente).

L'approccio interdisciplinare fa sì che discussa ne rimanga la natura giuridica, la verifica dei limiti e dello scopo in concreto perseguito.

Sebbene la dottrina che si è occupata di dare una sistemazione agli obblighi di informazione, nel contesto della relazione medico-paziente, abbia sottolineato come l'effettività del consenso ne condizioni la validità, riflettendosi sulla stessa liceità dell'intervento terapeutico, è toccato alla giurisprudenza delineare le caratteristiche dell'informazione.

Il fatto che essa abbia operato in maniera piuttosto disordinata spiega, oltre al ritardo con cui si è giunti a talune precisazioni, la disomogeneità dei risultati, ma soprattutto evidenzia come quelli individuati dalla giurisprudenza siano limiti strutturali e non funzionali. Così, quando si precisa, come fanno i giudici in Cass. 15 gennaio 1997, n. 364 che l'informazione deve avere ad oggetto 1) portata dell'intervento; 2) inevitabili difficoltà; 3) effetti conseguibili e rischi – valutati, questi ultimi, secondo l'id quod plerumque accidit; ed, infine, 4) soluzioni alternative, si cercano criteri generali in grado di soddisfare regole di responsabilità, ma non si dice in cosa l'informazione consista.

Peraltro se è vero che sull'informazione incidono sia limiti legali che culturali e/o sociali, è anche vero che fra i due, sono i secondi, e cioè i limiti culturali a mostrare una capacità di "modellamento" dell'informazione tale da non rendere proficui i tentativi della giurisprudenza di definirne i caratteri; tentativi che, in definitiva, accrescono il pericolo che, sul versante dell'obbligo di informare, si utilizzino formule prive di un reale significato.

Dal punto di vista normativo, poi, le uniche volte in cui il legislatore è intervenuto in maniera piuttosto dettagliata sui profili dell'informazione, preoccupandosi di stabilire fattori di controllo della stessa, è stato in punto di definizione dell'attività e dei compiti dei comitati etici46.

Nella prospettiva di una maggiore tutela del paziente si assiste ad un aumento delle regole sull'informazione che arricchiscono il contenuto del rapporto obbligatorio e, tuttavia, a tali criteri non può attribuirsi alcun valore "formativo-informativo": il

L'idea che informa questi autori è che la persona sia realmente protagonista delle scelte che riguardano la salute, laddove il consenso non crea che apparenti condizioni di partecipazione.

46 Così si stabiliscono, ex art. 3.7, dell'all. 1, d. m. 18 marzo 1998, n. 650600 le condizioni fondamentali che qualificano il consenso informato, condizioni che sono individuate a) nella qualità della comunicazione e dell'informazione; b) nella comprensione dell'informazione; c) nella libertà decisionale del paziente; d) nella capacità decisionale del paziente. Si prevede, ex art. 3.7.2 che, affinché il consenso possa considerarsi "validamente prestato, deve essere esplicitato in appositi moduli predisposti a cura della struttura presso la quale viene effettuata la ricerca".

Ed ancora, art. 3.7.6 si sottolinea che poiché "il consenso informato rappresenta una forma imperfetta di tutela del soggetto, l'ottenimento del consenso informato non è una garanzia sufficiente di eticità e non esime il Comitato dalla necessità di una valutazione globale della sperimentazione". In proposito cfr., altresì, l'art. 1 d. m. 6 novembre 1998.

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