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LA LUISS CHE (SI) RACCONTA

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Academic year: 2022

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LA LUISS CHE (SI) RACCONTA

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APRILE 2021

«Cercano di resettarci perchè hanno paura

della memoria.

L’antidoto è la conoscenza collettiva,

è la cultura, è l’informazione. »

Naomi Klein Vuoi scrivere con noi?

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Cari lettori,

dove eravamo rimasti?

Noi di Madama Louise ci siamo lasciati qualche mese fa, in un locale pieno di giornali rossi, tante copertine con una scritta impressa sopra, una scritta di speranza, una proposta di rinascita:

“Post fata resurgo”.

Siamo davvero risorti per un po’, durante quel limbo dorato tra l’epoca della quarantena e l’epoca del coprifuoco, tra l’epoca dei balconi e l’epoca delle zone a colori. Siamo risorti in quella striscia di tempo in cui esisteva ancora il mondo dopo le 22 e in cui la vita aveva ripreso una parvenza di normalità.

Gli alti e subito dopo i bassi. Le salite seguite dalle discese.

Perdere il fiato per poi riprendere a respirare.

In che fase siamo ora? Dipende dai punti di vista, è tutta una questione di prospettiva.

E se ancora i bar restano chiusi, se l’unico svago è ancora una

“gita” al supermercato o un appuntamento nella pizzeria sotto casa per poi cenare ognuno nel proprio salotto, almeno il freddo è finito, e l’estate è alle porte. Ogni fase discendente ne precede una ascendente, non conosceremmo il bello se non esistesse il brutto e non apprezzeremmo la libertà se non esistesse la prigionia. Ma questa fase qui possiamo davvero chiamarla prigionia? Questa fase di treni che fanno avanti e indietro tra residenza e domicilio, questo periodo di vaccini in ritardo e di pullman semivuoti. Forse non è prigionia, ma è solo l’accettazione del fatto che in certe situazioni bisogna saper sacrificare qualcosa. Non bisognerebbe mai dimenticare che la vita è così da sempre, anche da prima della pandemia, ed è fatta di piccoli sacrifici, di una quantità enorme di piccoli sacrifici, che ci porteranno poi a grandi soddisfazioni.

La fatica che c’è dietro ad ogni successo non va sottovalutata e anche se a volte non si vede, va sempre tenuta ben presente. E se prima ognuno correva la sua corsa, ora si corre insieme, se prima le soddisfazioni ed i traguardi erano individuali, ora sono

ALTI E BASSI: IN CHE FASE SIAMO?

fare la sua parte ogni giorno, nelle piccole e nelle grandi cose ed è importante che nessuno si arrenda ora, che nessuno abbassi la guardia proprio adesso, adesso che siamo nella fase dei bassi, ma che gli alti non sono poi così lontani.

Dov’eravamo un anno fa? Come siamo arrivati fino a qui? Cosa c’è stato nel mezzo, da marzo 2020 ad oggi? Dopo le vicissitudini degli ultimi mesi, la zona rossa sembra quasi una conquista, la zona arancione una vittoria. Ci tengo a ribadirlo, quando si parla di alti e bassi è tutta una questione di prospettiva e forse siamo già nella fase degli alti, forse siamo già a buon punto, forse dovremmo imparare a prendere la vita così come viene, senza troppe domande, perché le riposte potrebbero non piacerci e perché la negatività ora non ce la possiamo proprio permettere, la negatività ora come ora potrebbe essere una nemica ancora più subdola della pandemia.

Come tema di questa nuova edizione del nostro giornale abbiamo scelto la sinusoide per infondere un po’ di speranza, abbiamo scelto la ciclicità per ricordarvi che, in qualunque fase della vostra vita vi troviate ora, è solo un’onda, un’onda delle tante che comporranno la vostra sinusoide. E se siete in una fase positiva godetevela a pieno, se siete in una fase negativa non buttatevi giù, perché non potrà di certo durare in eterno.

Noi, nel nostro piccolo, cercheremo di accompagnarvi in questi ultimi mesi prima del meritato riposo estivo. Prima di luglio e del nostro ultimo appuntamento su queste pagine, non mancheranno sorprese e novità su Instagram e sul nostro Sito Web, non mancheranno nuovi articoli, nuove rubriche, nuove interviste e tanti progetti, seppur online.

In che fase siamo noi? Viviamo di alti già da un po’, ed è solo grazie a voi!

Un bacio a tutti, A cura di

SILVIA CARLUCCIO

EDITORIALE

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È il 2021 e le macchine non volano come avevano immaginato sarebbe stato i nostri antenati. Tante cose, però, sono cambiate e probabilmente in un lasso di tempo troppo limitato per poterle accettare fino in fondo. Dobbiamo capirle, imparare a maneggiarle, ci stiamo ancora facendo amicizia.

Non è facile neppure per noi della generazione zeta, la generazione dei nati con gli smartphone in mano, ritagliarci il nostro posto in una società che muta con la rapidità di un touch, che corre più veloce di noi, giocando a lasciarci indietro.

E lo ancora meno se, tutto ad un tratto, una causa di forza maggiore come quella odierna ci costringe a fermarci, o meglio ancora, a continuare ad occuparci di tutto ciò che facevamo prima, ma da statici. Il sistema di produzione capitalistico su cui è incardinata interamente la nostra società, e che pone l’utile al centro come fosse un divo narcisista attorno al quale noi facciamo la ola e accresciamo il suo ego, si sta scontrando con l’impossibilità attuale di essere invece produttivi su tutti i fronti. Quale paradosso! Ma non starò qui a ragionare sui grandi sistemi, su cui si spendono piuttosto i più celebri economisti e pensatori. Quanto mi interessa analizzare è ciò che tale conflitto di interesse e situazione sta generando da un punto di vista sociale. Barricati in casa in seguito all’ennesimo lockdown, ci ritroviamo ancora una volta a mettere in discussione le nostre priorità di essere umano.

“Che uso sto facendo del mio tempo?”

L’Istat ogni 5 anni attua un’indagine per conoscere l’organizzazione dei tempi di vita della popolazione, che nell’arco delle 24 ore può dispiegarsi tra molteplici attività. I dati oggi ci

A cura di

CARLOTTA GISONNI

ATTUALITÀ

SEI IL PASSEGGERO DI UNA GIOSTRA CHE RUOTA RAPIDISSIMA.

GETTONE DOPO GETTONE CONTRIBUISCI ALL’IRREFRENABILE GIOCO.

QUAL È IL TEMPO DI FERMARSI, SENZA ESSERE SPAZZATI VIA?

dicono che il nostro tempo libero è sempre meno.

In questa folle rincorsa alla monetizzazione del tempo, tra le cui finalità vi è anche quella di raggiungere condizioni di vita tanto agiate da potersi permettere degli intervalli in cui restare inoperanti, ne perdiamo di vista il valore.

La complessità del concetto è da sempre stata oggetto di riflessioni filosofiche e scientifiche a partire dai presocratici, che concepivano una ciclicità del divenire, in cui dalla natura tutto ha origine e si dissolve e dunque nulla persegue un fine ultimo, in un ritmo sinusoidale che deresponsabilizza la scelta umana.

Questa stessa concezione è poi stata ripresa poi da disparati autori come Leopardi, (vedi “Il dialogo della natura e di un islandese”) o Nietzsche (nella teoria dell’eterno ritorno), per poi arrivare ad una concezione lineare del tempo, che implica che lo svolgimento storico dell’umanità è irreversibile e le scelte di ognuno impattano sulla realtà.

Oggi si dice che “il tempo è denaro”. Viviamo l’urgenza delle scadenze con la pretesa di controllare in maniera maniacale ogni momento della nostra giornata, scandita sempre meno dall’imprevedibilità di un’esperienza o un’emozione.

Sperimentiamo un tempo che ci scivola tra le mani e che stentiamo a trattenere, e allora è sempre più difficoltoso riuscire ad essere presenti a se stessi, consci dell’essere.

Mi piace pensare, però, che tutto questo ci serva solo come scusa:

ci intratteniamo con questioni di vario tipo al fine di sfuggire -o forse in attesa di carpire- il mistero esistenziale.

IL TEMPO DI ESSER(CI)

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Che giornate, queste!

Sembra che il tempo, da un anno a questa parte, si sia fermato.

Molti si chiedono se effettivamente la situazione sia cambiata, se questi alti e bassi non ci hanno in realtà fatto tornare al punto di partenza.

È una sorta di oltraggio col contagocce che non risparmia né i professori più esperti né i più semplici cittadini che abitano le nostre città. Qualcosa però è cambiato sia ed è lampante: la ricerca ha fatto grandi progressi e siamo giunti finalmente allo sviluppo e diffusione di numerosi vaccini.

Siamo bombardati di notizie sull’argomento e su quale sia la strategia migliore per l’attuazione del piano vaccinale nazionale in ogni singola regione: interviste, articoli, discorsi infiniti.

Penso che, a tal proposito, possano venirci in aiuto gli antichi greci, perché è solo una questione di visione. Quando si parlava di tempo i greci erano soliti fare una distinzione tra Chronos e Kairòs.

Chronos è quel tempo misurabile che a lungo andare distrugge l’uomo. Nella mitologia greca vi era un personaggio che rappresentava questa visione del tempo come un gigante che mangia i propri figli. Questo è l’atteggiamento di coloro che sono calcolatori seriali, ma che si trovano sopraffatti dalla realtà che va oltre i modelli matematici e le previsioni statistiche.

Molte sono le amministrazioni che assumono questo atteggiamento e i cui risultati vengono spesso raccontati in apertura al tg e sulle prime pagine dei giornali.

Abbiamo poi il Kairòs, ossia il tempo propizio. Questo tempo è caratterizzato da due atteggiamenti opposti rispetto a quelli del Chronos, infatti sono fondamentali la responsabilità e la responsività che possiamo declinare in vari modi.

Nella mitologia questo tempo è rappresentato da un giovane alato che regge una bilancia che egli stesso non riesce a tenere in

A cura di

ELIO SIMONE LA GIOIA

ATTUALITÀ

È SOLO UNA QUESTIONE DI SEQUENZIALITÀ O DI OPPORTUNITÀ?

NON POSSIAMO RIDURRE IL TUTTO AD UNA SEMPLICE SEQUENZA.

LE CONSIDERAZIONI PRIMARIE SONO QUELLE DEL TERRITORIO.

anche il piano vaccini più disordinato però paradossalmente è un atteggiamento che implica una maggiore concretezza.

Quale delle due visioni scegliere? Quale strada seguire? Difficile dare delle risposte univoche. Come abbiamo visto, il piano vaccini è nazionale ma è poi anche “declinato” e previsto autonomamente in ogni regione, provincia, comune del Paese.

Penso che più che scegliere uno di questi due modi di agire sia più efficace trovare una correlazione tra Chronos e Kairòs.

Nella mia visione, il Kairòs giustifica il Chronos.

Certamente non possiamo non procedere senza analisi accurate e previsioni statiche, ma non possiamo neanche non considerare gli squilibri presenti in ogni territorio: vi sono, infatti, delle differenze abissali tra contesti sociali, economici e culturali.

Questo stretto rapporto tra questi due mondi contrapposti ci indica chiara la necessità di una riflessione territoriale che va oltre i meri dati anagrafici presenti nei database delle aziende sanitarie locali: una riflessione che guarda l’uomo nel suo senso più profondo.

E quindi, a parte tutte queste belle parole, tu cosa faresti? È la domanda che sicuramente chi ha avuto il coraggio di arrivare fin qui si sarà posto. Umilmente io rispondo che “so di non sapere”, come diceva il filosofo Socrate.

Come cittadino penso che, se da un lato il periodo del lockdown è stato quello della pazienza, questo è invece il periodo di un ritrovato entusiasmo.

Sicuramente c’è ancora tanta strada da fare, le dosi somministrate sono ancora poche, quelle consegnate persino meno. Dobbiamo, però, continuare a rendere fruttuoso questo tempo nonostante le notizie di “furbetti del vaccino”, liste su carta e inefficienze.

Tempo fruttuoso non è sempre tempo sereno.

Cerchiamo noi in primis di rendere questo un Kairòs!

PIANO VACCINI:

QUESTIONE DI CHRONOS O KAIRÒS?

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Interpretare la Storia secondo l’approccio vichiano “corsi e ricorsi storici” rappresenta più una presa di coscienza che un atto di conoscenza. E come la Storia, secondo quanto afferma lo stesso Vico, si presenta come Nuova Scienza senza la presunzione di una conoscibilità irraggiungibile, noi stessi, da esseri molto più fallibili di quanto potremmo non esserlo, semplifichiamo il mondo, secondo logica binaria, tra chi ne rifiuta la ripetibilità e chi, molto più romanticamente, ne sostiene la ciclicità. Noi apparteniamo a questo secondo gruppo.

Comprendere il ruolo dell’Iran nel XXI Secolo è sicuramente una delle sfide più importanti della nostra contemporaneità, in particolare a seguito del programma di arricchimento dell’uranio intrapreso da Teheran e delle recenti degenerazioni dei rapporti con gli Stati Uniti. Inoltre, l’inasprirsi delle relazioni Cina-US e il sempre più influente ruolo sinico all’interno dell’Antica Persia ci obbligano a porre la nostra attenzione sullo stato mediorientale, i cui destini sono di forte interesse ben oltre i confini regionali.

Studiare l’Iran attraverso schemi generalizzanti potrebbe

INSTABILITÀ CRONICA E MANCANZA DI SVILUPPO A LUNGO TERMINE.

IRAN, PETROLIO E LA SUA NATURA DI SHORT-TERM SOCIETY.

ELEZIONI 2021 COME PUNTO DI SVOLTA NELLE DINAMICHE INTERNE.

tuttavia essere fuorviante, e dobbiamo fare molta attenzione a non dimenticare le caratteristiche sui generis che esso presenta.

Anche conosciuto come Persia fino a metà del XX Secolo, rappresenta uno degli enti statuali più longevi al mondo, la cui affascinante storia può aiutarci ad attenuare la complessità odierna.

“Iran was a short-term society in contrast to Europe’s long-term society. It was a society in which change - even important and fundamental change - tended to be a short-term phenomenon”.

Con queste parole, Homa Katouzian, celebre politologo ed economista persiano, individua una caratteristica fondamentale della società iraniana, legata all’assenza di un framework legale affermato in grado di garantire uno sviluppo a lungo termine.

Si può così ben capire come la storia di questo paese sia da interpretare attraverso piccoli eventi, talvolta apparentemente insignificanti, ma capaci di invertire tendenze storiche e decidere le sorti di uno Stato. Un ulteriore elemento di instabilità all’interno della società iraniana è poi rappresentato dal forte legame tra l’economia del paese e il petrolio, il quale rappresenta

REPUBBLICA ISLAMICA D’IRAN: ELEZIONI, SVILUPPI E INSTABILITÀ

A cura di GIORGIA CITO

e LUCA SAVIOLO

POLITICA ESTERA

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l’elemento di maggiore sussistenza statale. In questo modo, è facilmente intuibile il ruolo di decisore ultimo assunto “dall’oro nero”, che influenza profondamente l’efficacia e il successo, o l’insuccesso, di una determinata politica. La crescita economica registrata alla fine della guerra con l’Iraq è testimone di questo link, così come la stagnazione seguente legata principalmente al declino delle rendite petrolifere. Questo processo, verificatosi anche durante la Presidenza Khatami, mostra l’impossibilità del petrolio di sostenere una crescita economica di lungo termine, in quanto a periodi positivi, si alternano periodi negativi, senza una sua stabilizzazione duratura in grado di permettere riforme di ampio respiro.

Questa profonda instabilità sociale ed economica, si riflette inevitabilmente sulla sfera della politica, la quale rappresenta espressione emblematica di un’assenza perpetua di continuità all’interno della Repubblica Islamica d’Iran.

La Rivoluzione del 1979 e la successiva attuazione dell’ideologia Khomeinista delinearono un primo netto distacco dall’epoca dello Shah. Sotto la guida dell’ayatollah, l’Iran visse, forse, il suo periodo più rivoluzionario, con la ricerca di un governo di carattere marcatamente duale, composto da elementi islamici e repubblicani. Tuttavia, prima della sua morte, Khomeini iniziò a tracciare un percorso che avrebbe portato a un cambiamento radicale dei futuri equilibri del sistema politico iraniano, affermando la superiorità della politica sugli ordinamenti religiosi.

Questo nuovo trend segnò la fine del periodo di radicalismo della politica iraniana e l’inizio della seconda repubblica, di stampo conservatore pragmatico, con la presidenza di Hashemi Rafsanjani nel 1989, a cui seguì un nuovo capitolo riformista con Mohammad Khatami. Caratterizzato da tentativi di riforme nella società civile e di approfondimento del dialogo

con l’Occidente, l’esperienza riformista fallì, portando all’ascesa del governo populista e radicale di Mahmoud Ahmadinejad nel 2005.

Un tentativo di riconciliazione con il pragmatismo conservatore fu, nel 2013, l’elezione di Hassan Rouhani, con l’obiettivo di porre fine all’isolamento diplomatico ed economico dell’Iran e ricongiungimento dei rapporti con l’Occidente. Un primo successo della politica di Rouhani fu siglato con la firma dell’accordo sul nucleare (JCPOA), che lo portò alla rielezione nel 2017.

Tuttavia, la crisi Iran-US, causata dal ritiro dell’amministrazione USA di Donald Trump dall’accordo stesso e la reintroduzione di pesanti sanzioni, portarono ad una crescita del ruolo dei militari all’interno della sfera politica, monopolizzandola e limitando così i margini d’azione dell’esecutivo.

Ad oggi, uno dei fattori chiave per comprendere in quale direzione tenderà l’evoluzione dell’Iran saranno i risultati delle elezioni presidenziali, che potrebbero determinare la fine dell’esperienza moderata e un ritorno delle ali più radicali e militariste della Repubblica Islamica, dimostrando il recente mutamento degli equilibri politici a favore di quest’ultimi.

Allo stato attuale, quest’ultimo risulterebbe lo scenario più probabile, viste le accuse nei confronti dei moderati di aver ceduto al compromesso dell’Occidente. Questo risultato, che molti danno già per scontato anche se molto spesso in passato i sondaggi si sono rivelati fuorvianti, si inserirebbe coerentemente nell’assenza di continuità che caratterizza la società iraniana, privando così ancora una volta il paese di una direzione precisa da intraprendere con l’obbiettivo di gettare le basi per uno sviluppo stabile a lungo termine.

Ali Khamenei, guida suprema dell’Iran.

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Un giardiniere ed un dentista si trovano a discutere di economia:

uno incolpa l’inadeguatezza dei tassi d’interesse, l’altro dei famigerati <<spiriti animali>>. No, non è il principio di una barzelletta, ma solo parte di una lunga serie di metafore ed interpretazioni che da sempre monopolizzano il dibattito sulle fluttuazioni dell’economia globale.

Se la sinusoide è forse la funzione ciclica per antonomasia, l’idea non può che rimandarci all’eterna alternanza di espansioni e contrazioni in economia, caratterizzate da cambiamenti più o meno rilevanti nei tassi di interesse, nei livelli di occupazione o nella produttività.

Alla grande ipotesi neoclassica, cioè l’infallibilità del mercato perfettamente concorrenziale nel regolarsi da sé, viene sempre posta una domanda esistenziale: cosa fare se le cose si mettono male?

La teoria di John Maynard Keynes (sia in principio che nei suoi infiniti revival) parla da sempre chiaro: se la domanda aggregata non può garantire la piena occupazione, è la Mano Pubblica a dover intervenire per garantire un rapido incremento di investimenti, consumi e lavoro anche a costo di un cospicuo incremento del deficit statale.

La cura keynesiana non è mai stata condivisa dall’austriaco Friedrich Hayek, forse il maggior esponente della scuola austriaca, preoccupato per gli effetti futuri delle politiche espansive del suo più grande e storico avversario. Se infatti dalle parti di Cambridge era comune pensare: “Nel lungo periodo, siamo tutti morti”, per Hayek accettare di ridurre la disoccupazione oggi - a costo di aumentare il livello d’inflazione - comporta solo il rinvio di una crisi analoga ancor più grave.

Il motivo? Un intervento invasivo dei governi nel libero mercato A cura di

FRANCESCO MILIANI

ECONOMIA

IL PIÙ ACCESO DIBATTITO ECONOMICO DEL SECOLO SCORSO TORNA A GRAN VOCE NEL PIENO DELLA CRISI DA COVID-19. PREPARARSI A RISPONDERE AD ESPANSIONI E RECESSIONI È REALMENTE POSSIBILE?

porterebbe più persone a produrre beni capitali, rispetto al livello di pieno impiego sostenibile in modo permanente.

La <<pillola austriaca>> in tempo di crisi sembra ben più amara da ingoiare rispetto a quella inglese; e a noi europei suona quasi familiare: pagare gli errori passati e favorire il raggiungimento di un nuovo equilibrio, prevedendo un sussidio “minimo e piatto”, per coloro che non riescano efficacemente a riposizionarsi durante il processo.

L’espressione “We’re all Keynesians now!”, in fin dei conti, non dovrebbe sorprendere nessuno: con un po’ di licenza poetica, quando sentiamo i dolori lancinanti di una carie tutti noi cerchiamo in fretta un bravo dentista, senza curarci troppo di cosa abbiamo fatto per finire sotto i ferri!

Fra queste due visioni del mondo, tuttavia, pare difficile trovare la quadra. A venirci in soccorso fu Franco Modigliani, che quasi quarant’anni fa riportò come per i Keynesiani sia doveroso accettare che l’economia di mercato abbia bisogno di politiche di stabilizzazione, mentre i monetaristi (austriaci o americani che siano) non ritengono necessaria la stabilizzazione, incompatibile con un intervento statale fonte di ulteriori squilibri.

Due visioni agli antipodi che riflettono l’ambigua professione degli economisti: se Keynes da una parte parlò della sua categoria come quella di professionisti d’intervento, come il dentista di sopra, dall’altra Hayek preferiva attendere e favorire la crescita agendo come un calmo giardiniere.

È proprio nelle parole dell’accademico austriaco che possiamo trovare uno spunto di riflessione: “Il curioso compito dell’economia è di rivelare all’uomo quanto poco in realtà conosca di ciò che immagina di poter realizzare”.

TRA UN BOOM E UN BUST: CAMBIARE IL

SISTEMA O FAVORIRE LA STABILIZZAZIONE?

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La redazione di Madama Louise ha scelto la sinusoide quale tema per il nuovo numero del periodico. Disegnando sul piano cartesiano la funzione sinusoidale per eccellenza, quella del seno, non possiamo non notare un dettaglio fondamentale: la curva ha un bilanciato andamento ciclico. La perfetta alternanza di fasi di crescita e di fasi di decrescita fornisce una limpida immagine dell’equilibrio con cui il mondo della natura è stato creato. Un mondo in cui ogni tassello è fondamentale per il proprio corretto funzionamento. Ma tutto ciò come si lega al tema economico e alla nostra discussione?

Riflettendo sugli avvenimenti che, negli ultimi due secoli, hanno causato uno shock per i sistemi economici del mondo occidentale, riecheggiano le teorie di economisti e filosofi che hanno avuto la pretesa di traslare il principio di equilibrio che regola il mondo naturale all’economia. Nella storia del pensiero economico troviamo chi ha cercato di dimostrare la presenza di un meccanismo occulto che riportasse ogni sistema economico verso l’equilibrio, chi ha voluto teorizzare andamenti macroeconomici ciclici, chi ha affermato che il mondo avesse raggiunto una sostanziale e statica stabilità che ci avrebbe permesso di vivere negli anni a seguire senza alcuna crisi. Salvo poi doversi scontrare con la dirompente forza della realtà.

Basti pensare alla Grande depressione, la crisi economico- finanziaria del 2008 e, in tempi ancora più recenti, la rottura provocata dal Covid19.

Nonostante questo, nulla è cambiato e si continuano a commettere gli stessi errori, metodologici e contenutistici, i

A cura di

FRANCESCO PRINCIPESSA

ECONOMIA

NON SONO BASTATE LA CRISI DEL ’29, QUELLA DEL 2008 E L’ULTIMA ROTTURA PROVOCATA DAL COVID19. ECONOMISTI E STUDIOSI

CONTINUANO A FARE GLI STESSI IDENTICI ERRORI.

quali, in realtà, sono gli uni conseguenza degli altri. Metodologici perché molti studiosi dell’economia continuano a confondere l’approccio e il linguaggio propri delle scienze esatte, i quali non sono sinonimi del rigore con cui ci si dovrebbe dedicare ad ogni disciplina, con quelli propri dell’economia; contenutistici perché, in questo modo, abbiamo svuotato di significato la spinta rivoluzionaria dell’economia e stravolto le domande fondamentali del problema economico, nonché le risposte a cui giungere. Così, oggi, ci chiediamo 1) quali beni e servizi dovrebbero essere prodotti, 2) come dovrebbero essere prodotti tali beni e servizi e 3) chi dovrebbe ricevere i beni e i servizi prodotti; mentre cerchiamo di rispondere con le scarse risorse messe a disposizione (terra, lavoro e capitale). Ma se rovesciassimo di nuovo la prospettiva e ci chiedessimo, ad esempio, 1) quali sono le esigenze a cui l’economia potrebbe dare risposta, 2) quale strada potremmo seguire per soddisfarle e tutelarle e 3) come potremmo pianificare le risposte alle esigenze del nostro futuro, a quale risultato potremmo arrivare?

Sicuramente smetteremmo di trattare l’economia come un qualcosa di dato, un sistema imposto, e cominceremmo a sfruttare la sua natura di disciplina incerta per cogliere ogni opportunità. Nella mutevolezza - e questa è la spinta più rivoluzionaria dell’economia – del mondo potremmo cogliere il dinamismo e il pluralismo di idee e di visioni propri di una scienza non esatta come ogni scienza sociale. Potremmo tornare a mettere al centro l’uomo e disegnare un mondo migliore. Un mondo che non seguirà l’equilibrio ciclico di una sinusoide, ma che cercherà l’armonia nel caos.

LA PRETESA DI TRATTARE L’ECONOMIA

COME UNA SINUSOIDE

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La servitù prediale è un istituto antichissimo consistente nel «peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro appartenente a un diverso proprietario» ― art. 1027 codice civile.

Se le servitù volontarie s’instaurano a beneficio del titolare del fondo dominante ― il passaggio, il parcheggio, il panorama, etc. ― contro un vantaggio del titolare del fondo servente, più dubbia rimane l’opinione della Cassazione sulla ratio delle servitù coattive.

Nelle servitù coattive è il legislatore a valutare necessaria l’imposizione del peso sul fondo a favore d’un altro per consentirne una proficua utilizzazione ― si pensi al fondo intercluso: come può il proprietario goderne se non vi ha accesso?

La più diffusa è quella di passaggio, ma ve ne sono altre:

somministrazione d’acqua, acquedotto, scarico, e così via.

Servitù coattiva oggetto di recente pronuncia è quella prevista A cura di

FILIPPO BLASI

GIURISPRUDENZA

“LA SERVITÙ DI ELETTRODOTTO È SPECIALE SOLO SE COATTIVA”

IL PARADOSSO: NECESSARIO RESISTERE INFONDATAMENTE ALLA IMPOSIZIONE PER BENEFICIARE DEL REGIME PIÙ FAVOREVOLE.

dal testo unico su acque e impianti elettrici, regio decreto 1775/33: la servitù d’elettrodotto.

«Coattiva» è la servitù «imposta» da sentenza o atto della p.a., qual era un tempo l’Enel, distributore dell’energia elettrica nonché proprietario dell’infrastruttura: l’elettrodotto. Invisibile in città, piuttosto invasivo nelle campagne, sovente attraversate da filari di pali in legno o cemento che un’aratura troppo profonda fa talvolta piegare verso terra. Proprio qui si consuma la nostra vicenda, che vede la Cassazione (sent. 28271/19) negare a un privato, sul cui predio insisteva un traliccio ma senza traccia d’un provvedimento impositivo, un’innovazione del fondo stesso ― che sarebbe stata possibile solo a seguito dello spostamento di detto pilone ― perché «il possesso non può esplicarsi nell’esercizio di un’attività di fatto corrispondente a quella di una servitù coattiva», essendosi la servitù costituita per usucapione. Per questo solo, i giudici della S.C. hanno ritenuto operante non già la legge speciale ― il t.u., per il quale «il proprietario ha facoltà di eseguire qualunque innovazione,

RATIO DELLA SERVITÙ COATTIVA

LA SUPREMA CORTE È CONFUSA

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ancorché obblighi l’esercente a rimuovere o collocare diversamente le condutture, senza che sia tenuto a indennizzo o rimborso» ― bensì l’art. 1068 c.c. che consente lo spostamento del palo solo a certe condizioni e comunque a proprie spese.

Le servitù coattive rispondono all’esigenza fondiaria: sono pensate per tutelare il fondo dominante ― nel caso in esame per non vedersi il gestore negata l’installazione del palo ― mentre qui appare necessaria una tutela del servente: se «il diritto è acquistato per usucapione nei casi in cui si sarebbe potuta imporre coattivamente la servitù ― sostiene Cass. ― questa non è coattiva». Pertanto, per beneficiare degli effetti del t.u., più favorevoli rispetto al generico disposto dell’art. 1068, occorre opporsi infondatamente! ― soccombendo ― così da poter affermare che la servitù si sia stabilita coattivamente.

Ciò va contro la predetta ratio: è penalizzante per chi aderisca alla servitù spontaneamente o comunque non ne ostacoli la costituzione rispetto a chi invece la contesti.

Il Procuratore si era infatti richiamato a sentenze della stessa Cass. (2306/81 e 3148/84) per le quali non era configurabile un diritto di servitù d’elettrodotto al di fuori di quello tipico e speciale regolato dal citato t.u. («la situazione di possesso di elettrodotto è identica qualunque ne sia il titolo: né i segni esteriori né l’animus mutano in ragione della diversità del titolo»).

Alle richiamate sentenze, però, i giudici hanno deciso di non dare continuità, mutando orientamento e sostenendo che queste, riferendosi alle sole servitù di passaggio, non siano pertinenti.

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In Turchia il 38% delle donne è vittima di violenza domestica, ma il Paese ha recentemente deciso di uscire dalla Convenzione di Istanbul. Si tratta del primo strumento giuridicamente vincolante in grado di stabilire una serie di norme per combattere la violenza contro le donne. Viene chiamata Convenzione di Istanbul perché fu proprio in questa città che l’11 maggio 2011 vennero raccolte le firme dei Paesi aderenti. L’obiettivo, che si impegnavano a perseguire i 45 Stati firmatari, era quello di promuovere l’uguaglianza di genere e prevenire la violenza sulle donne. In realtà, sin dagli anni 90 l’UE aveva già avviato diverse iniziative per intensificare la protezione del genere femminile, ma ben presto i dati allarmanti resero chiaro e cristallino il bisogno di qualcosa di più di una campagna di sensibilizzazione.

Era necessario intervenire legalmente, soprattutto se si pensa che tra i principi fondanti dell’UE, in prima linea, v’è l’inviolabilità dei diritti umani.

Il trattato, infatti, specifica che la violenza di genere è un atto discriminatorio e, soprattutto, una violazione dei diritti umani, caratterizzata da atti e minacce il cui scopo è quello di causare sofferenza d’ogni tipo: fisica, sessuale, psicologica. Inoltre, la violenza domestica è stata definita come qualunque pratica di violenza all’interno del nucleo familiare o tra coniugi o partner.

Gli articoli 5 e 6 sanciscono il dovere degli Stati di adottare misure per prevenire il verificarsi delle violenze e per contrastare

A cura di

AURORA LEOCI

GIURISPRUDENZA

LA TURCHIA HA ABBANDONATO LA CONVENZIONE DI ISTANBUL.

NEL PAESE LE VIOLENZE CONTRO LE DONNE AUMENTANO A DISMISURA.

UN ALTRO PASSO INDIETRO.

gli stereotipi, ancora inculcati in troppe menti, che legittimano o accettano la violenza di genere.

La convenzione ha anche posto l’obbligo per tutti gli Stati di proteggere le donne che si trovano in condizioni di rischio per la propria incolumità e di creare dei centri di assistenza e linee telefoniche per tutte le vittime. Sono stati regolati anche quei numerosi casi di ritiro della denuncia da parte della vittima a causa di paura, minacce o costrizione, imponendo di perseguire i criminali che hanno compiuto atti violenti.

Dall’agosto 2020, numerosi gruppi conservatori e religiosi turchi iniziarono ad accusare la Turchia di aver degradato i valori della famiglia e sostenuto anche la comunità LGBTQ. Dunque, il 20 marzo di quest’anno un decreto presidenziale ha deciso l’uscita del Paese dalla Convenzione.

Una scelta avventata e pericolosa, considerando i dati allarmanti che riguardano violenze e femminicidi in Turchia. Questi ultimi, in particolare, sono stati ben 300 nel 2020 e 78 dall’inizio del 2021, secondo quanto emerge dalla piattaforma We Will Stop Feminicide. In più, nel solo mese di febbraio 2021, il programma di monitoraggio Bianet ha segnalato 57 donne vittime di violenza, 12 di stupro e 33 di uccisione. L’OMS ritiene che la situazione sia più che grave, poiché i dati da considerare non sono solo quelli registrati ma anche e soprattutto gli innumerevoli

LA TURCHIA ESCE DALLA CONVENZIONE EUROPEA SULLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE: ALTI E BASSI DEGLI STATI E DELLA

GIURISPRUDENZA

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casi rimasti taciuti.

Erdogan, il presidente, ha assicurato che tale decisione non sta a simboleggiare un passo indietro relativamente ai diritti delle donne, né per quanto riguarda la lotta alla violenza domestica.

Ciononostante, l’opposizione e i movimenti di protesta ritengono che sia stata solo una scusante per relegare le donne “a cittadini di seconda classe”.

Difatti, la mossa del governo turco sembra lanciare un messaggio forte e chiaro: le donne non sono più protette dalla violenza.

L’UE e il presidente statunitense Biden hanno esortato la Turchia a ritornare sui propri passi, senza però riscontrare il successo sperato. La Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha dichiarato su Twitter: “la violenza contro le donne non è tollerabile. Le donne hanno bisogno di un quadro giuridico forte per essere supportate. Io supporto la Convenzione di Istanbul e invito tutti i firmatari a ratificarla”. In effetti, non tutti gli Stati che hanno firmato il trattato l’hanno anche ratificato, vincolandosi ad esso in tutti i suoi effetti. Questo significa che Paesi come, ad esempio, Repubblica Ceca e Regno Unito di fatto non hanno mai applicato quanto firmato.

La Turchia non è l’unico luogo in cui le violenze, i femminicidi e i soprusi sono ancora all’ordine del giorno.

In Italia aumentano sempre più, in particolare, i femminicidi. Il termine era stato coniato nel ’92 dalla criminologa Diana Russell

per distinguere quei casi differenti dagli omicidi, seppur aventi lo stesso fine, perché viene uccisa una donna in quanto tale.

In occasione dell’8 marzo, migliaia di donne hanno protestato in tutto il mondo, stanche di una situazione insostenibile. Stanche di raggiungere grandi traguardi con grandi, seppur lenti, passi, per poi ciclicamente vedere gruppi, governi, nazioni ripercorrerli in retromarcia.

Le ragioni che spingono alla protesta sono per certi versi comuni a tutto il genere femminile del globo, per altri, invece, molto diversi a seconda del luogo di provenienza. C’è chi lotta per non dover correre il rischio di essere violentata, chi per poter accedere all’aborto, chi per l’imposta sugli assorbenti considerati beni di lusso, quando di lusso non hanno proprio nulla. Tutto questo (e ancora di più) fa parte dei motivi per i quali ogni giorno delle donne si ribellano. E lo scopo unico è quello di essere considerate alla pari di un qualsiasi uomo.

Testarde, determinate, invincibili. Continueremo a combattere con la sola cosa della quale nessuno può più privarci: la parola.

Forse è questo ciò che più unisce le donne del mondo, l’intensità della forza con la quale difendiamo ciò che avrebbe dovuto essere nostro da sempre, a prescindere dall’origine, dall’aspetto, dal credo, dalla cultura, dalle convinzioni. Di fronte ad una violenza, non c’è solidarietà che possa essere più vigorosa.

Insieme all’aiuto della legge e della giustizia, la guerra infinita può essere vinta e gli orrori diventare un ricordo.

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<<L’epidemia non è democratica, questa fa emergere le vulnerabilità e le situazioni di disagio delle persone perché non tutti possono vivere una condizione di tranquillità nelle mura domestiche e, soprattutto, non tutti hanno la possibilità di essere ascoltati e di poter esprimere apertamente e adeguatamente i propri stati d’animo.>>

Ad affermarlo è la dottoressa D’Aniello, psicologa clinica e psicoterapeuta specializzata nell’età evolutiva, in un’intervista volta ad analizzare ed esplicitare meglio le problematiche relative ai giovani che ormai da un anno si vedono confinati a una vita artificiale per via della pandemia.

Iniziando a trattare l’argomento da un punto di vista più numerico, le richieste di sostegno psicologico sono aumentate durante l’ultimo anno?

Dall’inizio della pandemia si è riscontrato a livello nazionale un aumento dei pazienti appartenenti alla fascia d’età compresa tra i 16 e i 25 anni, quindi una porzione di popolazione a cui appartengono adolescenti e giovani adulti che spesso si trovano in contesti liceali o universitari.

Quali sono i disturbi che si manifestano maggiormente come conseguenza degli avvenimenti dell’ultimo periodo?

I sintomi dei pazienti giovani spesso sono riconducibili a un quadro depressivo, oltre chiaramente alla paura e all’angoscia causati dall’idea del virus e della malattia, emergono i disturbi

A cura di

SILVIA FAMILIARI

LE INTERVISTE

LA PANDEMIA E I GIOVANI: I PERCHÉ DEL DISAGIO OSCURO, UN PERCORSO CHE PARTE DA UN QUADRO DEI PIÙ FREQUENTI DISTURBI PSICOLOGICI,

PASSANDO PER LA DISPERSIONE SCOLASTICA, LE DIPENDENZE E I DCA.

legati al sonno, all’alimentazione, alla concentrazione e chiaramente a ciò si aggiunge anche un senso di solitudine e emarginazione. Inoltre, soventemente le persone con un disturbo depressivo hanno la presenza di una sintomatologia ansiosa, in alcuni casi si può quindi arrivare a parlare di attacchi di panico e ansia generalizzata.

Guardando i livelli di abbandono e dispersione scolastica degli anni passati emerge che l’Italia aveva già dei valori purtroppo più alti rispetto alla media europea, questi nell’ultimo anno tendono ad aumentare notevolmente. C’è una correlazione? Come possiamo interpretare questo spiacevole fenomeno?

Con l’arrivo del Covid e la successiva conseguente chiusura delle scuole, molti ragazzi hanno perso la motivazione, infatti, quel luogo prima inteso sia per la formazione che per l’incontro, dove si coltivavano le relazioni interpersonali, si è trasformato poi in un freddo spazio dedito all’apprendimento nozionistico.

Anche quello che era il rapporto coi docenti che, di persona, erano spesso tendenti a motivare gli alunni, viene stravolto dalla didattica a distanza che rende ogni interazione più macchinosa e meno autentica. L’assenza di un luogo fisico dove seguire le lezioni intacca dunque il bisogno innato di relazionarsi, rendendo ancora più ostica la situazione già delicata. Inoltre, il danno della didattica a distanza non è solo riconducibile all’aspetto sociale dei ragazzi, anche l’apprendimento più contenutistico ne risente.

Ad esempio, un ruolo importante è quello dei neuroni a specchio che si attivano quando vediamo l’altro compiere delle azioni, dunque in assenza di lezioni frontali, dovendosi accontentare di

L’EPIDEMIA ANTAGONISTA DEI GIOVANI

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quelle online, viene a mancare tutta la componente non verbale della conversazione, che crea delle lacune.

Restando sul versante della comunicazione, l’obbligo della mascherina, che rimane indubbiamente un dispositivo igienico-sanitario da usare in questo periodo, quanto sta complicando le interazioni sociali e la comunicazione? Insomma, questa pare quasi essere un filtro che toglie la nostra autenticità nelle espressioni.

Mancando per l’appunto tutta la parte della mimica facciale, viene a meno la corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che il corpo esprime. Essendo quindi inconsciamente assente la parte della rielaborazione, tendiamo a non riconoscere come autentiche le emozioni dei nostri interlocutori poiché nascoste dalle mascherine. Inoltre, con questi dispositivi non facciamo altro che alimentare un sentimento di angoscia e paranoia nei confronti dell’altro, che se fino al giorno prima era semplicemente una persona ora potrebbe essere diventato uno dei portatori del virus.

Collegandoci alla tematica della paranoia, quanto sarà difficile per la nostra generazione, che ormai ha abbandonato la normalità da un anno, tornare a una vita come quella di prima, senza avere ripercussioni psicologiche a lungo termine?

Successivamente a questo periodo si tornerà a una normalità che sarà comunque diversa da quella antecedente, ovvero, sarà impossibile fare tabula rasa a meno che non si neghi tutto ciò che si è vissuto. Questa potrebbe essere una strategia difensiva, spiegandolo in parole semplici, gli esseri umani tendono a negare e allontanare ciò che li fa stare male e che ha scalfito ferite nei loro animi, tuttavia ciò non è una reale soluzione poiché non sarebbe possibile cancellare completamente un anno di vita a tutta la popolazione mondiale. Dunque, il ritorno alla normalità, alla luce di ciò che abbiamo collettivamente vissuto, sarà un percorso graduale, innegabilmente difficile, che ovviamente porterà a dei mutamenti nelle relazioni sociali. Infatti, anche a pandemia finita ci vorrà del tempo per tornare a vivere i rapporti con gli altri in maniera consona, sana e costruttiva. Ci dovremo quindi aspettare un incremento di fobie sociali e di disturbi paranoici, oltre al già presente incremento della depressione a livelli esponenziali. Si assisterà anche a un aumento delle diagnosi di disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione dovuti allo stare così tanto tempo davanti a uno schermo.

Tutto ciò potrebbe avere una correlazione con l’aumento delle dipendenze?

Assolutamente sì, sia durante un disagio momentaneo, sia durante degli episodi di depressione più strutturati, uno dei sintomi è l’aumento di una o più dipendenze; tra queste troviamo il fumo, l’alcol, le sostanze stupefacenti, i dispositivi elettronici e i disturbi alimentari. Tutto ciò crea assuefazione perché distoglie i giovani dalle preoccupazioni che stanno vivendo e dalla privazione della loro condizione innata, cioè quella di relazionarsi con gli altri. Approfondendo il discorso sui disturbi alimentari, aumenteranno le percentuali di persone affette da obesità, binge eating, bulimia, anoressia e ortoressia perché la mancanza di controllo sulla propria vita e libertà personale porterà queste persone a ricercarla rifugiandosi in abitudini alimentari scorrette.

È dunque sperabile che, alla fine di questo lungo tunnel che ha rappresentato la più grave crisi socio-sanitaria di natura non bellica da molti anni, gli effetti negativi siano da monito per tutti e servano ad abbattere definitivamente gli stereotipi correlati ai disturbi psicologici, al fine di creare più consapevolezza riguardante la salute fisica e mentale per la nostra generazione.

Gaia D’Aniello, psicologa psicoterapeuta.

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Lo sport è una lunga trama, i cui tessuti, cuciti dall’uomo, si legano grazie alle esperienze. Proprio per questo, lo sport, fatto di gioco, di passione, ha gli stessi tratti della vita.

Esiste una carriera costruita unicamente sui successi?

Considerando una realtà pragmatica come quella dello sport, nella quale giudizi, podi e classifiche sono imprescindibili, essere sempre al vertice è così complesso… tanto che c’è chi trascorre una vita intera solo per avvicinarvisi.

Alti e bassi. Un andamento sinusoidale che si compone di vittorie e sconfitte, anche di pareggi, i quali, spesso, possono sapere più di perdita rispetto alle perdite stesse. In sport come il tennis, individuali, dove l’“apparente” unico avversario ti guarda sempre dritto negli occhi, i pareggi non sono concessi:

o vinci, o perdi. Sei da solo in uno spazio circoscritto che può essere immenso, o, tutt’un tratto, divenire stretto, compresso.

La storia professionale di un tennista non alterna i suoi “su e giù” unicamente guardando agli esiti delle partite: puoi cadere e trionfare mille volte anche nello stesso singolo match.

Lampante è ciò che è accaduto durante le ATP Finals del 2019, il torneo che chiude l’anno, al quale partecipano i 10 migliori

A cura di

MARIA CLARA ALTOBELLI

SPORT

PARTITE DECISIVE CHE SEMBRANO AVERE UN VERSO IMMUTABILE MA IL PUNTO È CHIUSO SOLO QUANDO LA PALLINA VA FUORI, RIMBALZA PER LA SECONDA VOLTA O SI INFRANGE NELLA RETE.

professionisti del circuito; Rafael Nadal vs Daniil Medvedev, un’istituzione affermata che si scontra con una stella emergente.

Conclusi i primi due parziali con un tie-break a favore di Medvedev, e un 6-3 conquistato da Nadal, giunge il momento del set decisivo, perché, come sappiamo, il pareggio non esiste.

Il tennista russo di appena 23 anni è letteralmente ad un passo dalla vittoria: conduce il punteggio con un netto 5-1, e ha a disposizione una palla per il match, ma la partita non è ancora chiusa. Nadal, lasciando di stucco tutti tra spettatori, giudici arbitri e commentatori, si rialza d’improvviso e, come fosse appena sceso in campo, salva la sua partita con un secondo, e davvero risolutivo, tie break.

Medvedev incassa uno di quei recuperi che spingono nel profondo, non tanto per la natura del gesto in sé (stai pur sempre lottando con uno dei mostri sacri del tennis), ma, più banalmente, perché una rimonta, arrivati a quel punto della partita, proprio non se la sarebbe mai aspettata. In contesti come questo niente è mai prevedibile con una percentuale sicura del 100%, puoi trovarti in alto e continuare rimanere lì su quel culmine che oscilla con frenesia, come puoi perdere l’equilibrio e scivolare di poco più giù, o anche toccare il punto

IN EQUILIBRIO SUL NET

TENNIS: UNA SINUSOIDE ATIPICA

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più basso. Questo è, purtroppo o per fortuna, un processo sistematico.

Tornando all’iniziale discorso delle carriere… un addio può non essere per sempre.

Kim Clijsters ne è la prova provata: vincitrice di 41 titoli, di cui 4 Major (un Australian Open e 3 US Open), due anni dopo essersi aggiudicata la Fed Cup con il Belgio, è divenuta numero uno al mondo sia in singolare che in doppio. Una luminosissima carriera resa terribile dai molteplici infortuni subiti: nel maggio 2007 annuncia il suo primo ritiro dal tennis. Due anni dopo

Kim ritorna con un’incontenibile grinta sui campi, vince gli US Open 2009 e 2010 e gli Australian del 2011.

Ha passione, forza, ma d’un tratto il lume si spegne ed annuncia il ritiro “definitivo”. Definitivo fino al 2019, quando riprende la sua racchetta affermando: << Questa per me è una sfida, amo ancora giocare a tennis >>. Del resto lo sport è proprio questo:

brama irrefrenabile di raggiungere il meglio di sé.

Come se, per tutta la vita, tutti fossimo dei funamboli, chi più esperto e chi più vacillante; con quale obiettivo? Sbilanciarci il meno possibile.

Kim Clijsters, tennista.

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Lo sport consente all’atleta di vivere l’esperienza della ciclicità della vita, fatta di inizi, di fini, di partenze e arrivi che permettono allo sportivo di raggiungere un elevato grado di maturità. Importante è sempre essere pronti e accrescere la propria consapevolezza, ma soprattutto fidarsi di se stessi, di tutti e di nessuno.

A mio avviso lo sport è una metafora della vita: una vita piena di momenti felici e tristi dove l’atleta riesce sempre a trovare la soluzione, anche cambiando il corso degli eventi che lo faranno uscire sempre più rafforzato da ogni tipo di situazione. Lo sport rende felici nonostante la fatica, ma soprattutto permette di approfondire la conoscenza di se stessi.

Nella vita prima o poi si trova uno sport che fa appassionare, fa mettere in gioco, fa sperimentare benessere e performance. Lo sport permette di far parte di una squadra che segue obiettivi condivisi, fa condividere allenamenti e gare, trasferte e viaggi, ma è anche una palestra di vita, una modalità per sperimentarsi e mettersi alla prova, un’opportunità per apprendere dall’esperienza.

Lo sport davvero avvicina persone, mondi e culture diverse che vengono tutte unite per perseguire un obiettivo: questo diventa allenamento alla vita e alle intemperie interiori e, grazie a questa passione, la fatica diventa amica; e più grande è la fatica e più si apprezza quando è finita, un po’ come quando noi

A cura di

MATTEO LOMBARDI

SPORT

COSA C’È DIETRO LO SPORT? TANTA PASSIONE, INCONTRI, PRESENZA, AGONISMO, DECISIONI, ATTENZIONI E MOLTE ALTRE EMOZIONI

IMPOSSIBILI DA ELENCARE.

studenti universitari, dopo mesi passati sul libro, riusciamo a passare gli esami con ottimi voti.

Questa passione permette di incrementare consapevolezza e sviluppare autoefficacia consolidando la fiducia in se stessi di riuscire in qualcosa. È importante valutare momento per momento se quello che si sta facendo è in linea con il proprio desiderio e il proprio bisogno. Bisogna essere resilienti e pronti al cambiamento in ogni occasione. Si può fare tutto gradualmente con molta cautela e attenzione, senza esagerare e cercando di prendere sempre esempio dai più esperti, iniziando a piccoli passi dai minimi obiettivi che poi con il tempo cresceranno sempre di più.

La fatica e le crisi diventano amici dell’atleta; più è grande la crisi e più si è riconoscenti quando tutto è finito, proprio perché tutto ciò si è riuscito a superare. Tutto cambia: passa la fatica, passa la crisi; rimane la consapevolezza che anche questa volta si è riusciti incrementando la forza interiore che aiuta non solo nello sport, ma anche nella vita quotidiana: lavorativa, familiare e relazionale.

Dedico questo articolo al mio ex allenatore Helmi Loussaief e ai dirigenti Aziz e Fathi Toumi che per anni mi hanno fatto sentire in una grande famiglia in cui tutti eravamo al centro del progetto e nessuno sarebbe mai rimasto solo.

LA CICLICITÀ

NELL’ESPERIENZA SPORTIVA

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“L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”

Ecco come Nietzsche descrive la ciclicità della vita. Per il filosofo l’attimo è il punto dirimente del tempo, è il luogo in cui passato e presente si separano partendo insieme. Ma se entrambe tendono all’infinito allora anch’esse si rincontreranno per compiere il circolo. E qual è l’unico escamotage che l’uomo è riuscito a creare per sfuggire a questo meccanismo? È proprio l’arte, che non subisce il tempo, ma lo scandisce.

L’arte nasce da sé stessa e origina sé stessa, è al contempo madre e figlia della stessa creatura. Eterna istanti destinati ad essere costantemente reinterpretati, è come un viaggio il cui inizio è noto, la meta solo immaginabile. Charles Baudelaire diceva che i quadri sono come fari, punti fermi in un’esistenza vacillante di certezza. “Questo singulto che si propaga da un secolo all’altro” si ferma alle rive dell’eternità ed è proprio lì che si compie. Anche il mare con le sue onde, alte e basse maree è sempre uguale a sé stesso, ma inquietamente imprevedibile.

Anche Dalì dilata il tempo, immagine mobile dell’eternità (come lo definisce Platone), nel mare di sfondo del quadro

“Persistenza della memoria”, mentre Louise Bourgeois cerca di esprimere la ciclicità della vita nella scultura dal titolo “Arch of Hysteria”, in cui un nuotatore - serpente si bacia la coda, nell’atto del tuffo per significare che tutto torna sempre da dove era partito.

Il quadro “Morte e Vita” di Klimt tenta proprio di ritrarre la vita ed il suo contrario. Riproduce corpi femminili, maschili e infantili che si abbracciano, sostenendosi vicendevolmente, consapevoli del futuro. L’artista tendenzialmente ama ritrarre le figure di donne come ampolle arboree caratterizzate da

della vita e quindi di quel fenomeno che racconta come fosse una “ring composition”.

Anche la pellicola cinematografica è di per sé ciclica, ma trasmette scene sempre nuove.

L’arte racconta la vita ed in essa noi cerchiamo risposte, perché immortala il tempo, una peritura emozione e la sua eterna essenza, per la sua ciclica immortalità dell’essere novità nella sua intrinseca prevedibilità.

Perché in fondo noi umani siamo quel che eravamo e saremo quel che siamo. Un cerchio che si richiude. Un ciclo che si conclude. Il compimento di un’esistenza.

L’arte ci ricorda proprio questo: potremo andare ovunque, ma essa incontrerà sempre sé stessa, si guarderà negli occhi attraverso un battito di ciglia, un’emozione che fa rivivere ogni pennellata, ogni lettera, ogni frase che l’artista dona all’umanità.

Inquadra un attimo e di per sé lo rende terno, ma rivivibile all’infinito attraverso gli occhi di chi la ammira.

La vita di ognuno di noi si basa sulla ripetizione di gesti, avvenimenti, consuetudini che danno un ritmo facilmente leggibile alla nostra esistenza.

Ma l’arte è come una giostra di cui non si vede la fine, un orologio che al posto delle lancette indossa petali, che volano apparentemente senza meta, ma tornano sempre al punto di partenza.

E l’arte fa questo. Stupisce, spiazza, rende increduli per poi far trovare le risposte dentro di noi, per farci tornare a casa, l’unica che avremo sempre: noi stessi.

E se la vita altro non è che un conto alla rovescia dal compimento ignoto, l’arte invece si specchia nel suo opposto e guardando A cura di

GRETA DI CICCO

ARTE E CULTURA

COME L’ARTE È IN GRADO DI CATTURARE MAGICAMENTE IL PRESENTE, RENDENDOLO MEMORIA DEL PASSATO E ATTESA DEL FUTURO IN UN

CICLO SENZA FINE.

L’ETERNO RITORNO DELL’ARTE

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<<E il giorno in cui decisi di dipingere orologi, li dipinsi molli.

Accadde una sera che mi sentivo stanco e avevo un leggero mal di testa; avevamo mangiato un camembert… io rimasi a lungo seduto a tavola, a meditare sul problema filosofico dell’ipermollezza posto da quel formaggio…

Gli scogli giacevano in una luce trasparente, malinconica e, in primo piano, si vedeva un ulivo dai rami tagliati e privi di foglie. Sapevo che l’atmosfera che mi era riuscito di creare in quel dipinto doveva servire come sfondo a un’idea, ma non sapevo ancora minimamente quale sarebbe stata… d’un tratto, vidi la soluzione. Vidi due orologi molli uno dei quali pendeva miserevolmente dal ramo dell’ulivo. Fu così che “il quadro, che sarebbe diventato uno dei più famosi, era terminato”>>. Il surrealista spagnolo Salvador Dalì descrisse in questo modo nel 1931 la creazione del suo dipinto “La persistenza della memoria”, meglio conosciuto come “orologi molli”. Esso raffigura un paesaggio costiero della costa Brava, dominato da un cielo caratterizzato da sfumature gialle e celesti. La scena, disabitata e scevra di ogni vegetazione, diviene completa con la presenza di diversi oggetti: un parallelepipedo color terra, un ulivo senza foglie (forse senza vita) che nasce da quest’ultimo, un occhio dalle lunghe ciglia addormentato e un plinto blu sullo sfondo, che fa pendant con il mare retrostante. Ciò che però davvero rende ambiguo tutto il contesto, al punto da farlo sembrare “surreale”

è la raffigurazione di quattro orologi, di cui tre “molli”, sciolti, A cura di

GINEVRA SABIA

ARTE E CULTURA

LA RELATIVITÀ DEL TEMPO CHE SCORRE E L’ENIGMA DELLE EMOZIONI CHE LO ACCOMPAGNANO.

disseminati in tre zone del dipinto, e un unico orologio, posto davanti a tutti gli altri, allo stato solido di colore rosso.

Quest’ultimo appare ricoperto da formiche, insetti dei quali l’artista catalano ha sempre avuto paura, sin da quando era bambino.

Certo risulta stravagante che proprio il solo orologio che viene mostrato come normale, che sembra rappresentare l’ordinario scorrere del tempo, sia raffigurato con il più grande simbolo di paura per Dalì; forse lo scorrere inesorabile del tempo risulta così preoccupante al punto da diventare una fobia?

Una fobia forte, atavica, antica ma soprattutto molto umana, quella preoccupazione di non aver vissuto completamente, di non aver assaporato ogni momento, di aver visto scivolare i minuti senza aver compreso del tutto l’importanza di solo un attimo.

Ecco che quindi si rivela l’ossessione del tempo che scivola via, gli anni che si “sbriciolano” dietro il presente e con il passato, la paura degli esseri umani di vivere continuamente in fuga, alla ricerca di una via di fuga.

Il tempo che scorre implacabile ma è la nostra percezione a gestire il flusso con cui esso si muove. Così si contrappongono due forze, quella del tempo che oggettivamente passa per tutti e l’altra la soggettività delle sensazioni che sembrano dilatarlo o restringerlo, rivelando un grande segreto: la relatività del tempo finalmente si scopre essere una variabile dipendente dalle nostre emozioni, in altre parole, ciò che sentiamo definisce

LA PERSISTENZA DELLA MEMORIA

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il nostro tempo.

Albert Einstein aveva già trattato di questo tema in ambito della fisica relativistica appena due anni prima e per spiegare questo concetto aveva detto: «Sedete per due ore in compagnia di una bella ragazza e vi sembrerà sia passato un minuto. Ma sedetevi su una stufa rovente per un minuto e vi sembrerà che siano passate due ore. Questa è la relatività».

Significativo è inoltre che i tre orologi appaiono “appoggiati”

casualmente in diverse aree del dipinto, ma sarà così casuale? Il primo sembra squagliarsi su una superficie solida, il secondo è sospeso sull’unico ramo di un albero secco presente sullo sfondo e il terzo è avvolto a spirale su una timida figura embrionale colante sul suolo.

Tutto sta a significare che il tempo non scorre allo stesso modo per tutti: uomini, animali e piante, la relatività del tempo si protrae quindi anche nello spazio, il tempo diventa frutto della percezione.

Cos’è un giorno per una pianta? O per una farfalla? O per un uomo? Ogni cosa cambia rispetto a chi la vive e al come la vive, un attimo può rappresentare l’infinità grazie ad uno sguardo, una carezza, un abbraccio, un successo, e invece anni, in altre circostanze, possono sembrare volati via, scivolati tra le dita, davanti ai nostri occhi che forse in quel momento non erano pronti a guardare quanto oggettivamente il tempo stesse

passando, menti troppo prese dai pensieri per poter vedere la realtà che svaniva per poi accorgersi che proprio quel momento, trascurato qualche istante prima, era diventato un ricordo sbiadito.

Così l’irrazionale paura del tempo che va via, che corre più veloce del pensiero, diventa un inno alla vita. Gli orologi sciolti tacciono dinanzi all’orologio della vita, quello, o meglio l’unico, che oggettivamente tutti possediamo. Ci viene dato del tempo, tempo che non ci appartiene mai del tutto, ma ogni istante è una occasione per essere felici, un momento bello da ricordare o uno brutto, una sfida, da cui trarre insegnamento nel futuro, poi divenuto il nostro presente. Siamo sempre così preoccupati di ciò che non è più e ciò che sarà, ma ci sfugge ciò che abbiamo proprio adesso, ossia il nostro presente, il dono che ci viene concesso proprio ora in questo istante e di cui ci rendiamo conto tardi. Seneca diceva “tempus fluit et precipitatur”, il tempo scorre e precipita, sottolineando il carattere inarrestabile del momento vissuto, delle occasioni che si susseguono perdendosi e rinnovandosi di volta in volta, e “ tutte le cose cadono nel medesimo abisso” ossia nel passato, ma egli ribadiva anche il concetto del “punto” ossia del bisogno di valutare il presente per qualità, quindi per il modo in cui si vive. Il messaggio di fondo è che dal timore di ciò che va via deve trarsi la forza di ricordare ciò che c’è. “Protinus vive”, “vivi adesso”.

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È, questo, un mondo in continuo divenire. Non c’è linearità nella storia. Tutto è destinato a ripetersi. “Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; per la velocità del movimento, tutto si disperde e si ricompone di nuovo, tutto viene e va”. (Frammento 91 – Eraclito).

Questo era per i greci il tempo e, per un attimo, immergiamoci in questa visione delle cose. Non c’è ora una linea del tempo:

il tempo è un cerchio e tutto è destinato a tornare. Tuttavia, il ciclo del tempo non è ripetizione medesima degli stessi avvenimenti, bensì distruzione e rinascita. Eraclito, nella sua

“filosofia del divenire”, parlava del fuoco come principio di tutte le cose: tutto ciò che esiste deriva dal fuoco e ad esso è destinato a tornare. L’Essere ha quindi nel “divenire”, nel

“tutto scorre” la sua forma, che materialmente si realizza nel fuoco. In questa visione, la nostra condizione odierna è unica, singolare, del tutto sconosciuta; eppure è anche già stata vissuta e sperimentata da altri. La Peste del 1300, il tifo nel 1489, il colera, a cavallo tra il 1800 e il 1900, la Spagnola nel 1918 si sono fatte largo tra le persone, invisibili, si sono prese il corpo e l’anima di tanti, hanno avvelenato Paesi interi e quando sono poi andate via, hanno lasciato dietro di sé tante macerie. Come uno spirito che lascia un corpo, così hanno lasciato esangui tanti; ma questi corpi sono poi tornati a nuova vita e hanno ripreso vigore. E questo ciclo si è reiterato fino ad oggi, fino a coinvolgere anche noi. È questa la “metempsicosi” di cui parla Platone: in tutto questo distruggersi e rinascere, c’è qualcosa che ciclicamente torna, assumendo ogni volta una forma

diversa. L’anima, nei cicli del tempo, sa infatti trasmigrare di volta in volta in un corpo diverso. E questo suo continuo fondersi e tirarsi fuori dalla carne umana, la porta, alla fine del suo processo, ad affrancarsi, a trionfare sulla materia. E poi per Platone c’è il tempo, definito come “immagine mobile dell’eternità”: il suo movimento, che è identificato nel ciclo costante delle stagioni, riproduce l’immutabilità dell’essere eterno. La storia umana è quindi un serpente che morde la propria coda: immobile ma in realtà in eterno movimento; un inizio che contiene in sé la propria distruzione; una fine che porta la promessa di un nuovo principio. C’è infatti promessa e minaccia nel tempo ciclico: ci libereremo da una malattia che, strisciante, di soppiatto, è entrata nelle nostre case e si è presa la nostra quotidianità; ma, così come una profezia infausta, tornerà, subdola, in abiti diversi.

“Omnia mutantur, nihil interit” (tutto muta, nulla muore).

Così Ovidio fa parlare Pitagora, nelle sue “Metamorfosi”:

tutto è in continua evoluzione, ma niente si distruggerà mai del tutto. Non è così che, in fondo, sta avvenendo? La nostra situazione è la stessa da tempo ormai, eppure è mutata, si è trasformata ed è destinata a capovolgersi. Tuttavia, se è stata affrontata ripetute volte prima di noi, ripetute volte, in futuro, dovrà essere nuovamente affrontata. È solo la ciclicità, l’eterno ritorno, il costante ripetersi degli eventi che sa darci speranza di un futuro libero da una malattia che ha contagiato anche le anime, ad immagine di un passato che sappiamo ancora ricordare e, come monito, per un futuro in cui l’umanità sarà destinata a rivivere tutto ciò.

A cura di

ARIANNA VENDITTI

ARTE E CULTURA

LA CONCEZIONE GRECA DEL TEMPO E IL RITORNO DELLE PANDEMIE NELLA STORIA: L’INESORABILE DISTRUZIONE E RINASCITA DI UN MONDO

IN CONTINUO DIVENIRE.

LA PROMESSA E LA MINACCIA NEL

CICLICO RIPETERSI DELLA STORIA

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Notoriamente ci sono capi che non passano mai di moda; ci sono poi capi che non si vedono più per qualche tempo per poi tornare.

Vorrei però dimostrarvi come molti capi di abbigliamento che crediamo attuali e assolutamente moderni, la moda dell’ultimo momento, siano in realtà il ritorno di vecchie mode passate.

Iniziamo con i pantaloni a zampa di elefante. Questo capo ha origini incerte. Si dice che siano nati intorno al 1800 quando furono utilizzati dalla Marina Militare degli USA;

la testimonianza risale esattamente al 1813 . IL trend vero e proprio scoppia tuttavia nel 1970, in particolare diventa parte del dress code dei “figli dei fiori”.

Il giubbino di pelle viene ideato per gli aviatori e successivamente per i motociclisti nei primi anni del 1900.

E’ solamente negli anni Cinquanta che diventa di tendenza e questa prende piede quando il chiodo di pelle, chiamato

‘Perfecto’, viene indossato da Marlon Brando nel 1953 nel film

‘’Il selvaggio’’ ; indossato poi da James Dean, diventerà il capo simbolo della ribellione. Indossata in seguito da Elvis Presley e dai greasers, acquista un nuovo fascino. Successivamente, si impone nel mondo delle novità della moda l’iconica giacca di pelle di Jimi Hendrix, ma questa volta bianca e con le frange.

Negli anni ‘70 la giacca di pelle nera viene indossata da punk, ribelli, Sex Pistols e Ramones, e sarà grazie a Vivienne Westwood, stilista inglese, che il giubbino di pelle diventerà tendenza.

Le Adidas Superstar nascono nel 1969, indossate dal famoso giocatore dei Lakers, Kareem Abdul-Jabbar, quindi nascono come scarpe da basket. Nel 1984 le Superstar vengono

indossate dal gruppo musicale hip hop statunitense Run DMC, il quale gli dedica perfino una canzone: “My Adidas”. Da questo momento le indosseranno musicisti, designer, sportivi, artisti diventando così le scarpe icone dello streetstyle negli anni dell’ hip hop revolution.

Negli anni 90’ verranno indossate anche dagli skaters.

Gli anfibi nascono nel 1945 grazie al dottor Klaus Martens, in seguito ad uno stato di necessità determinato da una caduta sulla neve. Prima indossati da postini e operai, entrano nella scena londinese degli anni 60, simbolo degli “skinhead” e dei punk, poi indossati dal chitarrista dei The Who tra gli anni ’60 e ‘70, dalla band The Clash in un video musicale tra gli anni

’70 e ’80.

Quest’anno, 2021, vediamo come stiano tornando di moda jeans a vita bassa, colori sgargianti, top corti, occhiali rettangolari con lenti colorate, cappelli da pescatore, blazer di pelle, marsupi e completi di tuta, tutti capi che erano di tendenza tra gli anni ‘90 e i primi anni 2000, elementi di quello stile un po’ street, un po’ pop che era rappresentato alla perfezione da celebrità come Britney Spears, Lindsay Lohan, Christina Aguilera e Paris Hilton.

E potremmo continuare…

Questi erano infatti solamente alcuni dei capi che negli ultimi anni abbiamo visto di grande tendenza; capi che ogni tot di tempo tornano di moda o ogni tot di tempo scompaiono dalla scena delle tendenze modaiole del momento. Parliamo di un fenomeno quindi che si verifica molto spesso; potremmo dunque vedere le tendenze della moda come un onda sinusoidale, che va e che torna.

A cura di

CARLOTTA PANCINO

MODA

PEZZI CHE HANNO SEGNATO LA STORIA DELLA MODA CHE PER BREVE TEMPO ABBANDONANO LE VETRINE FACENDO

SUCCESSIVO RITORNO.

LA MODA COME ONDA CHE VA E TORNA

(24)

Attenzione, vi sono spoilers.

Il capolavoro che ha lanciato la carriera dell’autore-regista Noah Baumbach è disponibile da molto tempo sulla piattaforma streaming di Netflix, sulla quale troppo spesso non sappiamo cosa guardare, ma che con questo film ha sicuramente alzato la ricercatezza dei prodotti offerti.

“Storia di un matrimonio” è il racconto di una crisi matrimoniale, ma non solo. È l’incontro di due attori fenomenali: Adam Driver e Scarlett Johansson. I due nomi ci sono sicuramente noti, avendo già recitato in film con molta più visibilità di quello diretto da Naoh Baumbach: Adam è presente nelle ultime pellicole di “Star Wars”, mentre Scarlett presta il suo volto in diversi film della Marvel come la pluripremiata saga degli “Avengers”. Conosciamo bene i due attori e anche la loro bravura nei film d’azione che, dopo il 2019 con “Storia di un matrimonio”, non sembrerebbe limitarsi a questo genere.

Nel film Adam Driver interpreta Charlie, acclamato regista off- A cura di

ANNA MARIA DE GREGORIS

CINEMA

L’ANALISI DI UNO DEI FILM PIÙ CONTROVERSI DEL 2019,

“STORIA DI UN MATRIMONIO”, I MOTIVI PER CUI GUARDARLO E COME PUÒ TOCCARE LE CORDE PIÙ PROFONDE DELL’ANIMA.

Broadway che non riesce a venire fuori da una crisi creativa.

Scarlett Johansson è Nicole, sua moglie da 10 anni e madre del figlio di Charlie, Henry, 8 anni. Nicole non vuole più recitare negli spettacoli di Charlie, ma vuole trasferirsi a Los Angeles per girare il pilot di una nuova serie tv. Charlie disprezza il mondo della televisione e soprattutto disprezza L.A. Questo crea una profonda spaccatura tra i due, che porterà Nicole a chiedere il divorzio: stanca dei continui alti e bassi della coppia, decide di cedere a quella che inizialmente sembrerebbe per lei la scelta migliore.

L’inizio del film è un inganno. Possiamo sentire gli sposi leggere delle liste dei pregi di entrambi, che poco dopo scopriremo essere un esercizio della terapia coniugale. Charlie scrive di Nicole come “Contagiosa, competitiva, una grande ballerina, una madre che ama giocare”; una descrizione molto positiva della donna che ha al suo fianco. Anche Nicole spende delle belle parole per lui: “Si veste bene, piange facilmente al cinema e ama fare il padre. È quasi fastidioso quanto gli piace…

affronta tutti i miei sbalzi d’umore e non mi fa mai sentire in

“STORIA DI UN MATRIMONIO”:

NON IL SOLITO FILM D’AMORE

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