Capitolo III
Traduzione della raccolta «Povest’ Peterburgskaja ili Svjatoj
kamen’ gorod»
«Racconto pietroburghese o Sacra Pietra Città»
San Pietro Burgo
Capitolo Primo
Cent’anni si stendono lentamente come mazzi di carte. I mazzi di secoli intarsiano gli anni, così da distribuire gli anni ai secoli tramite carte cinesi. «Nessun venditore di idoli si inchina agli dei, lui sa di cosa sono 1
fatti» . Come ci si può inchinare ai secoli, davanti altri secoli? Loro sanno 2
di cosa sono fatti: non a caso gli stili degli anni si formano a seconda del seme. «Il terzo imperatore della dinastia Ming , Yongle , è passato di qui, 3 4
partendo per la guerra contro i seguaci mongoli della dinastia Yuan, esiliati dalla Cina per volere di suo padre Hongwu ». Lei era scolpita su 5
blocchi di bianco marmo: «Yongle dimostra forse i propri anni tramite questa iscrizione o non è rimasto più niente di lui?». E lì, nel tredicesimo giorno della seconda luna, nell’anno 1696, secondo il calendario europeo, passò l’imperatore Kangxi , per far morire di fame a Šamo sia i cavalli che 6 7
i soldati. Šamo significa anche Gobi: Šamo è Gobi, il deserto. E dal momento che sul bianco blocco di marmo c’è un’iscrizione, si conserva
nella storia il nome di un villaggio: Sudetou . A Sudetou nacque sua 8
madre, a lei non rovinarono il piede da quando aveva otto anni come agli aristocratici, perché era plebea.9
Cent’anni si stendono lentamente come mazzi di carte: quale cartomante da Kolomna a San Pietro Burgo lancia le carte cosicché la storia si ripeta, cosicché gli anni ripetano i mazzi di secoli una o persino due volte?! Duemila anni fa, due secoli prima dell’era europea, l’imperatore Shi Huangdi , della dinastia Qin, isolò l’Impero di Mezzo dal resto del 10 11
mondo grazie alla Grande Muraglia Cinese. Per mille miglia Shi 12
Huangdi abbatté tutti i ranghi e i privilegi aristocratici, tutti i titoli nobliari, infliggendo questo «colpo mortale al feudalesimo» e diventando
bogdychan , come lo zar Pietro della dinastia Romanov «creò una finestra» 13
e diventò Imperatore, anche se non fece in tempo a invecchiare tanto da diventare bogdychan.
Pietro I della dinastia Romanov e primo imperatore della Pianura Russa, Pietro Alekseevič figlio dei Romanov, una volta, nel paradiso della sua San Pietro Burgo, affogando il giorno nell’alcol, dal senatore Šafyrov nel «castello» sull’isola Kajvusari-Fomin, si avviò con la barca sul fiume Neva in direzione dell’isola Admiraltejskij, verso la bettola Avsterija, per finire di ubriacarsi tutta la notte. I ghiacci del Ladoga a quel tempo si erano ritirati, la navigazione si era aperta e l’imperatore si accorse del disordine: nonostante la silenziosa distesa del fiume, nella biancastra notte e nelle biancastre stelle del cielo, i gavitelli sul fiume Neva non erano 14
accesi e sull’isola Vasil’evskij non brillava il faro. Pietro sedeva a poppa, ubriaco taceva e ubriaco lanciò un grido, riempiendosi di cattiveria e pazzia:
Sul fiume Neva tutto era alquanto silenzioso e deserto e il senatore Šafyrov prima di guardare negli occhi femminili dell’imperatore, gettò, di soppiatto, come un topo, uno sguardo ai dintorni. Ruttò con quel sacco ubriaco del suo corpo.
— Sua Maestà, pronto a servirla…
— Quali circostanze! Ancora e ancora l’essenza dei dati ukazi sul 15
meccanismo di comunicazione, ancora e ancora, sul faro e sui gavitelli non vedo i fuochi, malgrado il regolamento con cui è indicato che sul lato destro devono ardere rossi fuochi e su quello sinistro verdi per l’indicazione dei canali d’accesso!
Šafyrov disse:
— Vostra Maestà, dal momento che l’essenza della notte sono le chiare stelle del firmamento…
L’imperatore rispose:
— Vossignoria! Giacché gli astri del cielo sono accesi dal Signore Dio, servono Dio e pertanto l’uomo non può comandarli!… E sondern . Dato 16
che i fuochi sul faro sono accesi da mano umana, allora servono qualsiasi uomo! Quali circostanze?!…
Il primo imperatore Pietro Alekseevič con l’ubriaco Šafyrov, cadendo come un sacco nella barca, non raggiunse mai Avsterija quella notte, «benché», come dicono gli uomini di mare, sulla barca, di gavitello in gavitello, colpendo con la sua mazza da dietro le spalle degli addetti alle boe, voleva accendere i fuochi rossi e verdi, ma l’unica cosa che riuscì a fare fu riprendersi dalla sbronza. E aveva ragione, l’imperatore Pietro, giacché i fuochi accesi dalla mano dell’uomo possiedono un valore umano, come i condottieri. E all’alba di quella notte, su San Pietro Burgo serpeggiò una gelida nebbia che avvolse tutto, sia le stelle che i fuochi sui gavitelli,
ma sarebbero potute arrivare solo nuvole bianche, piovigginare, e allora sarebbero sparite le stelle e sarebbero rimasti solo i fuochi, accesi da mano umana.
Confucio disse ancora:
«Nessun venditore di idoli si inchina agli dei, lui sa di cosa sono fatti».
La muraglia in pietra attraversa le colline finendo per scomparire a destra e a sinistra a perdita d’occhio. Il tempo aveva già ridotto in macerie la muraglia. Qui passarono Shi Huangdi e Yongle e Tamerlano e molti 17
altri, e da sotto la muraglia, dove sempre luccicavano qua e là le lucertole, cresce la bianca ramia . Pietre, cielo, deserto: a ovest la Cina, a est la 18
Mongolia, paese di Timur . Chissà se lui sapeva allora che là fuori, oltre il 19
Gobi, oltre Alatau , oltre il Türkistan , c’era il secondo Impero di Mezzo. 20 21
Vicino il fiumiciattolo Huang He , nel Loess , in un luogo scavato dalle 22 23
persone, come fanno le rondini, che puzzava di sporco e sudore, lui nacque e visse. Sulla cima delle montagne del Loess i suoi antenati seminarono goakin e sargo , faticando come formiche nei campi, ognuno 24
dei quali si può coprire con una stuoia. E lui, ragazzo dall’andatura femminile, uscendo con difficoltà dal buio delle abitazioni del Loess, correva con la cesta di giunco verso la muraglia, verso i cancelli principali, da dove, attraverso Argali-Jiang, passavano le carovane per Urga , e là 25
raccoglieva escrementi di cammello, di cavallo e d’uomo, per portarli ai suoi padri nel campo e concimare la terra sotto il sorgo . Da là, dal 26
cancello, dalla muraglia, già ridotta in macerie, si vedeva in lontananza la città di Dušikou dalle torri in pietra, anch’essa già in rovina. E il ragazzo, 27
riposandosi di nascosto da tutti, bruciandosi con l’ortica, acchiappava le lucertole, animali sacri, e schiacciava le loro pance argentate per vedere
come le budella strisciavano via dalla loro bocca. I padri tornavano dai campi di notte, quando già era buio, così come lo era nel Loess. Il ragazzo a quel tempo aveva già imparato a mangiare con le bacchette e non con le mani, non camminava più completamente nudo, ma ancora aveva paura della grotta, quella «a ovest nel Loess» dove suo padre andava a meditare sui lavori realizzati nella comunità degli antenati, su una morte migliore e sul cereale sorgo, il luogo in cui la vecchia metteva in ordine e stavano gli idoli. Era notte e il ragazzo dormiva in un’angolo sulla stuoia, coperto da una coltre di cotone inacidita. Il ragazzo per tutta la sua infanzia non vide nemmeno un albero, poiché viveva dietro la muraglia, già in Mongolia, paese di Tamerlano. Il ragazzo non sapeva di cosa erano fatti gli idoli.
Dopo capì perché non si doveva schiacciare la pancia delle lucertole. Capì, cosa significava il duro lavoro degli antenati, cosa significava con le mani arare la terra, con le mani portare il concime da Argali-Jiang, con le mani curare ogni pianta di mais e di gaoljan , per non morire di fame e 28
vivere nel Loess. Imparò a faticare. Venne a conoscenza dello yang e dello yin, i due Poteri, e il mondo, come per i suoi antenati, si plasmò di fronte alla volontà di Laozi . Per lui un tempo fu costruita la Grande Muraglia, 29
giacché Laozi disse del Tao , il Grande Equilibratore . Al fanciullo rimase 30 31
per tutta la vita un’andatura femminile, ma i suoi occhi divennero vitrei e iniziarono ad assomigliare a un retino consumato, ad una moneta cinese. Il fanciullo, una volta capito che «il mondo non è una vera esistenza», nonostante sapesse come seminare il sargo e il suo corpo fosse sofferente, apprese «I quattro Libri e i cinque Classici », che pesavano sulla mente. 32
Studiò «La fontana della conoscenza e il fiume, derivante da essa». Interpretò otto gua , costituiti da quattro linee lunghe e otto brevi, dove si 33
della natura e pertanto non deve violare le sue leggi», e lui, come tutti, finì lo Shih-ching, il libro delle odi . E così, Dušikou guarda verso la 34
Mongolia, come la Mongolia scruta il Gobi da Dušikou, sogghignando. — Chi sa cosa sarebbe?
Cent’anni si stendono lentamente come mazzi di carte: gli anni ripetono i mazzi di secoli più volte, giacché la storia si ripete. La Grande Muraglia Cinese esiste da duemila anni, chi conosce tutti i percorsi di tutti e perché il destino ha dato in prestito la vita a quest’uomo proprio adesso? È là, in quel villaggio del Loess, è là che sono arrivati da Yongzhou , da 35
Zupun , persino da Pechino, ricchi mendicanti senza niente, per ottenere 36
tutto, per parlare della «Scuola di Pugilato della Giustizia e della Pace» , 37
della «Società della Lanterna Rossa» , della «Società dello sterminio dei 38
Diavoli» , del «Pugno della giustizia e della concordia», della «Lanterna 39
Rossa» , della distruzione dei diavoli, del fatto che bisogna ammirare che 40
il sargo già qualcosa valga, mentre il lavoro è a buon mercato, che a Pechino c’erano i diavoli d’oltremare, gli jagujczy , così come sono in casa, 41
del fatto che l’imperatrice (shh, shh, shh), l’imperatrice Cixi , è stata 42
venduta, povera moglie, l’imperatrice. Accendevano le lanterne rosse nelle grotte e il padre non andava dagli antenati. Sedevano vicino le lanterne e sembrava che i loro denti fossero più grandi del normale e sospesi. Se ne andarono cantando e il padre ogni volta lo prendeva per mano per dirgli come non dimenticare che «di questo nessuno sa»! Ma di notte risuonava il canto di guerra degli uomini in partenza:
Ten-da-tenmynʹkaj! Di-da-dimynʹkaj!
Chi conosceva là, nel villaggio del Loess, i nomi del dottor Sun Yat-sen e del capo Yuan Shikai? E venne il giorno in cui tutti seppero che 43 44
già non c’era più l’imperatrice Cixi nell’Impero di Mezzo e non ci 45
sarebbe stato Pu Yi: il bambino di tre anni Xuantong Pu Yi doveva 46
rinnegare il trono. Quel giorno nessuno andò al campo, quel giorno si fermarono le carovane per Argali-Jiang, quel giorno tutto era nuovo, come una festa, e solo la muraglia e le lucertole sotto di essa erano come prima, quel giorno. In seguito, tutte le notti e tutti giorni, passavano persone con lanterne rosse e con i visi come quelli dei manifesti, con fucili, sciabole, anche con archi, passavano folle e solitari e unità militari attraverso la muraglia di pietra per la porta a Šun-Tjan-Fu , cioè a Pechino. Con loro se 47
ne andò il padre, prendendo la spada con i draghi sull’impugnatura, la sciabola dell’antenato, che è sempre stata appesa sull’altarino. Allora, davvero, il sargo divenne prezioso e il tè non bastava, rinchiusi nel mobile a vetri , e qualcuno di notte calpestò tutto il campo. Poi il padre tornò dai 48
suoi antenati, portavano la sua testa su di un palo, mentre il corpo, dall’entrata posteriore e il punto dov’era la testa, era attraversato da una lancia; due persone lo portavano tenendo le estremità della lancia sulle spalle e sembrava che il padre strisciasse nell’aria, come strisciava quando tosava il sorgo. A lungo lo portarono per Argali-Jiang e per le strade acri di Dušikou. In quei giorni molti rispettavano quella morte e i parenti dovettero fuggire il più lontano possibile, nascosti da questi che ieri avevano aiutato a trascinare il padre. Le persone con visi come quelli dei manifesti, già con le trecce tagliate, camminavano e camminavano attraverso la porta. Qualcuno mise sopra la muraglia due cannoni e sparò tutto il giorno verso Dušikou e verso il Loess, la folle palla colpì la diga sul fiume Huang He e le fatiche di molti anni di lavoro furono annientate in
un’ora, poi gli uomini si dirigevano a morire verso quei cannoni, e i pali, con le teste dei morti dalle bocche aperte, stavano sospesi a lungo nella penombra umida della porta. E poi venne la grande notte di Sangue e di Morte, la diciannovesima notte della Sesta luna, e arrivò l’ultima notizia: il bambino di tre anni Xuantong, il signore dalla pelle gialla Pu Yi, rinnegò il trono. Allora la gente uscì fuori dalla porta.
Lui, il suo nome era Li-yang, lui stesso era stato a Dušikou e a Pechino e non riusciva a capire nulla, anche se uomo del posto. E poi fuggì cento miglia, attraverso la Mongolia di Timur, verso Urga, verso Kjachta , 49
per confondere nella memoria Vladivostok, Port Said e gli oceani. Passava accanto a massi di bianco marmo, dov’era scritto che «il terzo imperatore della dinastia Ming, Yongle, era passato di qui e si era incamminato in guerra contro i mongoli seguaci della dinastia Yuan» e che qui sono morti i soldati e i cavalli dell'imperatore Kangxi. Ma lui non ne sapeva niente, pensava solo che sua madre era di qui, del villaggio Sudetou: qui la madre da piccola acchiappava le lucertole, sua madre, quella che lui ha abbandonato, come fanno tutti, tutti abbandonavano le donne. E insieme andavano con lui decine di altri che avevano perso e avevano abbandonato sia i padri, che le madri, che i fratelli e la patria.
«Nessun venditore di idoli si inchina agli dei, lui sa di cosa sono fatti.»
Capitolo Secondo
«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» . Pietro è 50
la pietra e la città insignificante San Pietro Burgo è la Sacra-Pietra-Città. Ma la definizione deve essere solo di una parola: San-Pietro-Burgo implica tre parole, cioè Sacra-Pietra-Città, non c’è una definizione e San-Pietro-Burgo pertanto è un inganno. Ma sul fiume Neva, desolato come l’Irtyš , 51
ora era distesa la città, interamente di granito. La città era di pietra e insignificante, ed essendo «di pietra» e «insignificante» non è certamente russa, anche se tutte le insignificanti città russe, flaccide come le donne, erano sommerse dalla buccia di semi di girasole, puzzavano di code di aringhe, e sulle panchine c’erano le variopinte gonne delle donne, flaccide così come insignificanti, e tutti gli insignificanti morivano di una morte ripugnante come lo sterco. I prospetti delle prospettive di San Pietroburgo andavano verso le estremità, sfrecciavano dalle prospettive verso la metafisica. E in quel giorno, in quell’ordinaria giornata finlandese, sul fiume Neva, desolato come questa giornata finlandese e come l’Irtyš, a lungo fischiò un unico vaporetto, gettando l’eco dai palazzi, dal Palazzo della Borsa e dalla Fortezza di Pietro e Paolo, tanto eco, come sempre 52
nella regione dei laghi. E allora dal Ponte della Trinità verso i prospetti delle prospettive uscì un’automobile per tagliare le prospettive, per iniziare la giornata di lavoro di una persona e sfrecciare verso l’estremità, nelle estremità delle prospettive verso la metafisica. C’è la poesia della pietra e del silenzio. I giorni finlandesi vestono il granito di muschio, l’erba verde ha attraversato il granito: alle estremità della prospettiva Nevskij l’erba verde cresce. I palazzi sono diventati musei fantasma, così come il monumento di Pietro presso l’Ammiragliato, monumento di
persone insignificanti, è una casa, mezza crollata sulla Gončarna . In 53
verità c’è bellezza nella morte, e bella e granitica era la città nel desolato granito, nei ponti, nelle prospettive, nelle rovine, fra le erbacce delle città insignificanti, nell’assenza di persone, nel rimbombante eco sul desolato fiume della regione dei laghi, negli ordinari, non russi, ma finlandesi giorni. E lì, dove affluivano le strade dalle città della provincia moscovita, nella parte russa, moscovita, nei vicoli, nei piccoli crocevia, nella casa a due piani, tutte le finestre erano state frantumate. La casa era disabitata, abbandonata, il negozio era sotto e attraverso le finestre si poteva vedere una porta interiore aperta, che dava su un terreno abbandonato dietro la casa. Nel negozio pendeva una ragnatela, i mattoni erano sparsi e i vetri…
«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa.»
Per la Grande Europea e Russa Pianura è passata una bellissima rivoluzione, una burrascosa bufera con i venti ha spazzato via tutto ciò che era morto, sono morti i non viventi. Le leggende dei settari russi si sono avverate: il primo imperatore della pianura russa ha fondato da solo un paradiso sulle terribili paludi, San-Pietro-Burgo, l’ultimo imperatore ha consegnato l’imperiale San-Pietro-Burgo delle terribili paludi agli uomini d’affari di Mosca. La parola Mosca significa acque scure, acque scure sempre impetuose. A Pietroburgo rimane, sfreccia dalla prospettiva rettilinea verso la nebbia delle metafisiche, verso la palude di cenere. Quella stessa giornata finlandese prometteva una notte, una nebbiosa notte, con la linearità delle prospettive distrutta, con la nebbia offuscante e con un’automobile, in quel giorno, a fendere le strade, a terminare il giorno di una persona, del pietroburghese Ivan Ivanovič Ivanov, come molti in Russia. Ivan Ivanovič era il fratello. Ivan Ivanovič era un intellettuale: era un professore. L’automobile liberava i pensieri di Ivan
Ivanovič, a Smolny , sulla Nevskij, sulla Gorochovaja, l’autovettura 54
Brasier , dove Ivan Ivanovič sedeva all’angolo, tra gli specchi, sui cuscini, 55
con la valigetta. L’automobile di nuovo si lasciava dietro la desolata Neva, come l’Irtyš, verso il Ponte della Trinità, per svoltare sul ponte levatoio della Fortezza di Pietro e Paolo, entrare nella Fortezza di Pietro e Paolo e spegnersi là, vicino la cattedrale, presso il quartier generale. Sulla cattedrale un monaco nella torre era indaffarato. Allora sul baluardo fece fuoco il cannone, indicando l’ora, barattando il lancio della palla tra i palazzi con l’eco tra i bastioni. E Ivan Ivanovič a lungo sedette nello studio degli uffici in disparte. Così, nello studio, con il tavolo e le sedie in legno sotto una tela incerata, condussero persone provenienti dai bastioni e dai rivellini in nome della loro coscienza: due uomini dovevano stare in 56
piedi uno contro l’altro, avevano due verità e dovevano far sì che un solo uomo e una sola verità tornasse nel rivellino. Dal quartier generale arrivò un cinese dell’armata rossa, che accompagnò un altro cinese dell’armata rossa e a lungo aspettò il suo turno, perché non c’era un interprete e nei documenti figuravano quisquilie sul fatto che all’uomo dell’armata rossa del reggimento dei fucilieri furono ritrovate, durante la perquisizione, e confiscate delle monete inglesi d’oro. Accanto a lui avanzavano verso il tavolo e lui, al tavolo, non sapeva se parlare o stare in silenzio. A casa dell’ingegnere, nel suo studio, dietro il paravento, c’era un letto, lo stesso letto di quella volta dall’ingegnere a Londra. A quel tempo, a Londra, l’arrivo dei rivoluzionari fu clandestino. E come a quel tempo, a Londra, incontrandosi una volta all’anno qui a San-Pietro-Burgo, si salutarono, lui si avvicinò lentamente al letto di Ivan Ivanovič e si mise a tastare le lenzuola.
— Vedo che le lenzuola non sono asciutte bene. Non prendere freddo, mio caro.
Loro, l’ingegnere e Ivan Ivanovič, si conoscevano dall’infanzia, dai giochi a scommessa nell’insignificante cittadella.
Dall’ingegnere, nello studio, si contorcevano i musi, c’erano diavoli cinesi, statuette fatte di ossa, bronzo e porcellana, i cui musi si contorcevano in un forte brivido; e c’era nello studio una fredda finestra veneziana, da cui si vedevano le bianche notti che si confondevano in un brivido con le bianche pareti dell’ufficio. All’ingegnere era vietato chinarsi. In quella bianca notte dall’ingegnere c’era musica, c’erano musicisti e ospiti. Ivan Ivanovič non usciva, evitava la folla, non amava la gente, lui sedeva nell’ufficio, solo nell’oscurità. E l’ingegnere vide che Ivan Ivanovič era stupito dalla musica, stupito così come possono stupirsi, comprendendo, solo i prescelti: nel freddo studio, dove i diavoli contorcevano freddi i musi, un calore umano, vero, se ne stava su una poltrona all’angolo e da lì iniziava a languire. In quel momento l’ingegnere era rannicchiato vicino alla finestra, nella bianca notte, e Ivan Ivanovič si avvicinò e in piedi, da dietro, si appoggiò alla spalla dell’ingegnere.
— Mi sento padrone sulla terra — disse l'ingegnere. — E tu? Ti senti come al solito un ospite?
— Sì, un ospite!
— Pietroburgo è la nuova missione architettonica, una città senza tetto, con lastre di ghiaccio ai piani superiori... Il silenzio, tutto lentamente muore… — Ospite? Nella notte bianca l’ingegnere scrutava i viali. — Ieri ho mangiato del pane fatto con muschio di renna. — Ospite? La metafisica?
— Sì, ospite. Ricordi, a Brugge, camminavamo attraverso i villaggi. Allora parlammo del mondo. Io non andai a Mosca: il sangue, la fuliggine delle piante, le mani dei lavoratori, ho predetto un secolo! E sono ospite! Ivan Ivanovič con forza premette contro la spalla dell’ingegnere, e l’ingegnere attraverso la giacca sentì il calore del respiro.
— Quanto sei grande Andrej... A Brugge c’era lo stesso silenzio... Qual musica!
— Dove?
— Laggiù in salotto, un pianoforte! Non vedo la realtà.
Quella notte, là, nei nebbiosi confini delle prospettive, l’automobile sfrecciò dalle estremità, dalle prospettive reali, verso una nebulosa nebbia, perché San-Pietro-Burgo è definita misteriosamente, è cioè un’illusione, cioè la nebbia, e nient’altro che pietra. L’ingegnere andò dagli ospiti e disse:
— Sapete chi c’è ora nel mio studio, quale ospite? — e tacque.
— Ivanov Ivan. — e tacque, aspettando di vedere come il nome sferzasse il soggiorno. Ascoltava la musica, conosceva la musica, era ospite sulla terra. All’ingegnere si avvicinò una donna, entrambi si chinarono nella fessura della finestra, là sotto, dalle estremità era sfrecciata la vettura Brasier. La donna sfiorò delicatamente, con la spalla, la spalla dell’ingegnere, quel vecchio, quel buon vino è meglio che niente. Donna. I diavoli cinesi, l’osso, il bronzo e la porcellana contorcevano i musi.
Dentro la casa, a casa, Ivan Ivanovič Ivanov viveva come uno scarafaggio in una fessura. Aveva paura dello spazio. Amava i libri, leggeva sdraiato. Non amava una donna, non aveva tolto la ragnatela. Nella piccola stanza c’erano libri, i paraventi vicino il letto erano fatti di libri e le lenzuola sul letto erano asciutte. L’automobile si mischiò nella
nebbia. Le porte erano chiuse e gli scaffali pieni di libri. In un angolo, sul letto, Ivan Ivanovič, sdraiato, vedeva l’enorme scacchiera: questa era surreale. Il mondo, il fumo delle fabbriche, le mani dei lavoratori, il sangue, milioni di persone, la rossa fiamma Russia, l’Europa, diventata un banco di ghiaccio sulla costa dell’Atlantico, il Convitato di Pietra fece 57
irruzione con un cavallo sulla tavola, sulla scacchiera. Le lenzuola erano asciutte, nella stanza era buio totale, e qui sulle asciutte lenzuola, sui cuscini, ecco un pensiero: io!
— Ioooo!
Il Convitato di Pietra con la vodka:
— Vostra Eccellenza, ancora e ancora la Russia è trascinata sulla Gòlgota . Quali circostanze? 58
Il Convitato:
— Non c’è nessuna Russia, mio sovrano, nessuna San-Pietro-Burgo, il mondo.
Il Convitato di Pietra:
— Brindiamo, Vostra Eccellenza, all’arte. Non beve? — Non bevo.
— E neanche per il rivellino Alekseevskij della Fortezza di Pietro e Paolo bevi?
— Non bevo.
— Per quanto è così ubriaco, Vostra Eccellenza, vero? Si permette di scherzare, mio sovrano, sul rivellino Alekseevskij — dissi io, proprio io.
Nelle asciutte lenzuola, sui caldi cuscini, in un angolo ecco un pensiero: ioooo!.. Ioo, c’è il mondo!
Il cinese stava in disparte, aveva un viso cinese come quello dei diavoli nello studio dell’ingegnere. Nello studio degli uffici c’erano un tavolo e delle sedie in legno sotto una tela incerata. Il cinese andò verso un’estremità con un’andatura femminile, indossava una camicia russa da soldato senza cintura. Oltre la grata della finestra c’era un automobile. Dal viso del cinese si vedevano solo i denti, stranieri, e la mascella da cavallo, sogghignava verso di loro:
— Chi capisce?
Nell’ufficio sulle finestre c’era una ragnatela, di conseguenza anche delle mosche. Andarono a tavola. Si avvicinò l’ingegnere: l’ingegnere non si poteva chinare.
«Io sostengo che in Russia, dal più profondo, la salute nazionale, movimento necessario, non ha niente a che fare con il sindacalismo europeo. In Russia l’anarchica ribellione è in nome dell’assenza di Stato, è contro ogni Stato. Io sostengo che la Russia debba porre fine alla febbre petrina, pietroburghese, la febbre d’idee, di teoria, di matematica del cattolicesimo. Io sostengo il bolscevismo, la Rivoluzione di Razin e nego 59
il comunismo. Io sostengo che in Russia vinca il russo, liberatosi dalla febbre petrina.
Rivellino Alekseevskij.
L’ingegnere Andrej Ljudogovskij.»
Così era scritto nel verbale. Ivan Ivanovič disse in inglese:
— Ti ricordi, Andrej, giocavamo scommettendo soldi. Ma io sono suo fratello…
E allora sul viso del cinese c’era uno dei denti, dei denti molto sporgenti, e tutto il viso assunse un’espressione di domanda e gli occhi da sonnolenti si spalancarono come monete per chiedere: 60
— La subordinazione è stata confusa.
Il cinese barcollava da destra a sinistra vicino il tavolo e disse, in inglese, tutto d’un colpo, ciò che sapeva. Era molto:
— Voglio una patria. Yuan Shikai, presidente! Voglio una patria. A sud ho combattuto. Voglio una patria!
Senza subordinazione, nello studio dell’ufficio si lacerò un pezzo di carne, calda, umana.
Voglio il cinese sulla scacchiera!
Sul lungofiume, tra le pietre, cresceva l’erba, i giorni finlandesi rivestono il granito di muschio: i palazzi diventarono allora musei fantasma. Pietro I uscì dall’Ammiragliato sulla Gončarnaja, dov’è crollata una casa: la casa schiacciò delle persone. L’automobile andava per i ponti, per il lungofiume, il ponte della Fortezza di Pietro e Paolo si sollevò, andava l’auto vettura Brasier per l’immensità della Neva, come l’Irtyš, e per lo spazio del cielo nella regione dei laghi. Nella casa, alla finestra, attraverso la finestra, attraverso il tetto, attraverso il fiume Neva, nella stanza appena appena si vedeva la ferita rossa del tramonto. La ferita rossa del tramonto si ingialliva come una buccia d’arancia in un’itterica febbre. Di notte arriverà la nebbia. L'ittero?
— Il cinese sulla scacchiera! — Il tramonto è morto!
Da qualche parte, in lontananza, solitario fischiava il vaporetto. Libri, libri e libri erano nelle aranciate scorze del tramonto, sugli scaffali e i
cuscini la lavandaia non aveva ben strofinato. Di notte ci sarà la nebbia. Ivan Ivanovič non aveva una donna, ma di nuovo la febbre. «Chinina, sembra, la gialla corteccia della cinchona ?»61
Campanelli.
— Portate il caffè nero, forte — disse alla cameriera. E la cameriera, la donna:
— Bisogna aspettare che faccia notte…
«Ti ricordi, Andrej, abbiamo giocato scommettendo soldi. Ma io ho mandato mio fratello ad essere fucilato, caro Andrej!»
«La febbre petrina, pietroburghese? Il bolscevico dà un morso alla testa, la prenderà in bocca e così: come?!»
— Se non ci fossero i bolscevichi, non ci sarebbe la Russia — dicono i selvaggi — Ci sarebbe la pace!
E il Convitato di pietra:
— Brindiamo, Eccellenza, all’arte. Vuol bere un caffè? — Sì, il caffè.
— Pertanto è così ubriaco, Vostra Eccellenza?
— Sostengo che il comunismo in Russia non ci sia, in Russia ci sono i bolscevichi. Il rivellino Alekseevskij. L’ingegnere Andrej Ljudogovskij.
Il Convitato di pietra:
— Lasci perdere, Vostra Eccellenza. Brindiamo all'arte! Infiaschiamocene! Per quanto trascorriamo del tempo nella sua forza e volontà.
Il Convitato:
— Aspetti un attimo, Maestà! C’è tutto!. Dissi io:
— Rimanga, Lisa, per un minuto.
— Le lenzuola, barin , ho fatto asciugare.62
— Ho i brividi, Lisa. Sono solo, Lisa, si sieda. — Ah, ma che dice barin…
— Si sieda Lisa. Parleremo.
— Ah, che dice, barin!.. E meglio se vengo più tardi.
— Si sieda Lisa!— Ti ricordi, Andrej, abbiamo giocato scommettendo soldi... Ho due fratelli. Uno è stato fucilato, l’altro…
Il cinese si arrampicò sulla mappa d’Europa, a quattro zampe, la guardia rossa Lijanov. Perché il cinese non ha la treccia?
Le lenzuola sono asciutte, sulla scacchiera c’è il mondo, le mani dei lavoratori, il fumo delle fabbriche, l’Europa, come un banco di ghiaccio sulla costa dell’Atlantico, nessuna San-Pietro-Burgo. Il cinese a quattro zampe è su un lastrone di ghiaccio. E non c’è nessuna scacchiera. I capelli di Lisa nascondevano la scacchiera e le labbra di Lisa erano schizzinosamente serrate.
— Ancora e ancora la Russia è trascinata sulla Gòlgota!
«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» dicevo io. Io.
— Ah, barin, presto, per favore.
La bluastra e verde nebbia si sollevava dalla Neva e avvolgeva la fortezza. E sopra di loro, al di sopra della nebbia, c’erano i colori della scorza d’arancia, si affievoliva il tramonto e nella nebbia, nel giallo tramonto, navigava sulla torre sopra la fortezza un
diavolo-angelo-monaco, simile ad uno spaventoso uccello infernale. La fortezza volò via nella nebbia.
In una cella comune, alcuni sedevano con i giornali, altri giocavano a scacchi, fatti con la mollica di pane. Il cinese dall’andatura femminile, con le narici sopra la mascella da cavallo, come avevano le prostitute, con il viso dal sorriso spento, si avvicinava a tutti, fermandosi pietosamente da tutti, a lungo taceva, sorridendo, e diceva, né chiedendo, né affermando:
— Nooiso.
Tutti capirono che significava «noioso». Un altro cinese, una guardia, stava allo spioncino della cella e a volte sussurrava:
— Ni yu zi sui? Quanti anni pensi di avere?63
— Vo Èr shí wǔ . Venticinque — rispose il cinese dalla cella. 64
E allora il custode disse in russo:
— Vattene! Non si può dire! — per tornare a sussurrare dopo cinque minuti:
— Nǐ hǎo , stai bene?65
L’ingegnere Ljudogovskij, a cui era vietato chinarsi, per tutta la sera giocò a scacchi, vicino la tavola tra cianfrusaglie, teiere e tazze di ferro. Gli scacchi erano stati fatti con la mollica di pane. Il cinese si sedeva con indifferenza sempre su qualcosa, amava sedersi nell’angolo, sul pavimento e lì cantare qualcosa di molto inquietante, monotono, come l’ululato dei cani alla luna. Nell’ora dopo l’appello venivano sempre per richiamare. A quest’ora parlavano sempre, nessuno dormiva, tutti se ne stavano sulle brandine, nient’altro che brandine, e il sonno era la chance per non essere 66
chiamati di notte.
«Dopo la morte, la vita non si ferma subito nell’organismo. Tutti sanno che i capelli e le unghie crescono ai morti nel corso di qualche mese. Una delle ultime a fermarsi è l’attività cerebrale. Il morto quattro settimane dopo la morte vede e sente e potrebbe anche sentire in bocca il sapore di marciume... Non può muoversi, non può parlare. A poco a poco prendono vita i nervi delle mani e dei piedi e allora cadono fuori dalla coscienza, dalle sensazioni. L’ultimo che comincia a marcire è il cervello ed ecco che, per l'ultima volta, l’intelligente tamburello percepisce il suono, 67
l’ultima volta che la corteccia cerebrale associa un pensiero alla morte, all’amore, all’eternità, a Dio (allora non si poteva più pensare a niente di fronte all’eternità, allora non c’erano più relazioni umane) e svanisce il pensiero, come già da molto tempo erano svaniti e diventati vitrei gli occhi, come quelli di un pesce. Svanisce, si sgretola il pensiero, così come si sgretola e marcisce il cervello. Così nelle orbite striscia un verme e allora gli occhi scompaiono per sempre. Dopo la morte arriva una nuova, terribile vita. È un orrore, e mi... Curioso pensiero, Pietroburgo…»
Ma l’ingegnere non finì, si voltò verso la parete, alzò il bavero del cappotto, non rispose: all’ingegnere non era permesso contorcersi.
Nessuno parlava. Allora in un angolo iniziò a muovere i pezzi di vetro, ululò come un cane alla luna, e si mise a cantare un canto di battaglia cinese:
Ten-da-tenmynʹkaj! Di-da-dimynʹkaj!
Žosûétenšenʹkuj. Vocinši-fulaj!68
Dallo spioncino sussurrò la guardia cinese: — Nín de míngzì? Il tuo buon nome?69
Sul tavolo nella cella, di notte, rimasero gli scacchi fatti con la mollica di pane. Di notte il cinese si mangiò gli scacchi, fatti di mollica di pane. E presso i palazzi sul Canale d’Inverno, dalle verdi acque, in quella notte navigarono via, nella nebbia, che avvolgeva i prospetti delle prospettive, dodici floride sorelle febbricitanti: Caterina, Anna, Elizaveta, Aleksandra, Maria, imperatrici, affinché fluttuassero sul fiume Neva, come il fiume Irtyš, verso la Fortezza di Pietro e Paolo, strappassero l’erba lì sul confine, diffondessero lo scorbuto, ascoltassero la lunga disputa di Aleksej e Pietro, il lamento del poeta Ryleev , le marce di Nikolaj Palkin , facendosi 70 71
raccontare favole sulla regione dei laghi, per guardare come sul fiume Neva a destra ardessero i rossi fuochi di comunicazione e a sinistra i bianchi, per vedere là nella nebbia, attraverso la nebbia, dalla nebbia, la resurrezione della Grande Muraglia di pietra, voluta dall'imperatore Shi Huangdi due secoli prima dell’era europea.
— Nín de míngzì? Il tuo buon nome? — sussurrò dallo spioncino.72
— Wǒ de míngzì Li-yang.73
Era l’ora in cui vennero per fare l’appello. Il cinese si avvicinò a Ljudogovskij, si sedette accanto alle brandine sui talloni, nella penombra s’intravedeva la mascella da cavallo, sogghignò, si rannicchiò:
— Nooiso?
Dodici sorelle febbricitanti fluttuavano sulla Neva, la nebbia strisciò dalla finestrina. Allora il castello tuonò, per spingere ognuno ad andare in branda, schiacciarli nella malinconia:
— Ecco, io stesso sono sdraiato sul letto, dormo, perché? Io stesso dormo, iooo! Per che cosa?
— La guardia rossa Lijanov.
— Ecco, io stesso sdraiato sulle brande, dormo, non io, non ioooo, non sono io!
La guardia rossa uscì. Tuonò il castello, si abbassarono gli archi, si strinse la cella.
— Si può fumare per non soffocare.
— La china sarebbe, la chinina, la nebbia, la febbre.
Il fondale profondo della Neva dov’erano le dodici sorelle era invisibile. La guardia rossa Lijanov disse:
— Nooiso! Non c’è nient’altro!..
«Cent’anni si stendono lentamente come mazzi di carte. I mazzi di secoli si ripetono e una e due volte per mescolare gli anni ai secoli tramite carte cinesi. Nessun venditore di idoli s’inchina agli dei, lui sa di cosa sono fatti. Come ci si può inchinare ai secoli, davanti altri secoli? Loro sanno di cosa sono fatti: non a caso gli stili degli anni si formano a seconda del seme.»
«Pietro è la pietra e la città insignificante San-Pietro-Burgo è la Sacra-Pietra-Città. Ma San-Pietro-Burgo è composta da tre parole, pertanto è un’illusione: i prospetti delle prospettive di San Pietroburgo andavano verso le estremità, sfrecciavano dalle prospettive verso la metafisica.»
«(Né) (tu) (un) (venditore) (sei) (Pietro)…» «La china sarebbe, la china! Nooiso!»
Allora il castello tuonò, per spingere ognuno ad andare in branda, schiacciarli nella malinconia: «Ecco, io stesso sono sdraiato sul letto, dormo, perché? Io stesso dormo, iooo! Per che cosa?»
— Ingegnere Ljudogovskij, Smirnov, Petrov…
«Ecco, io stesso sdraiato sulle brande, dormo, non io, non ioooo, non sono io!»
Corridoi, gradini, scalini. L’oscurità. Una lampada elettrica. L’oscurità. Una lampada elettrica. Lo sciabordio dell’acqua, piccoli gradini, piccoli scalini. La luce, uno scantinato e due cinesi:
— Ah, che occhi strabici! — E chi andò per quel viso in modo da spingerlo verso l’interno, schiacciando il naso, il viso come un manifesto, con denti sporgenti? — E l’andatura femminile del cinese... L'ingegnere non poteva contorcersi…
— Sì!..
E fu tutto. L’ultimo pensiero, l’ultima funzione della corteccia cerebrale, dopo qualche settimana, era un pensiero non umano, poiché il fosforo bagnava la corteccia cerebrale, nella torbida acqua, nell’acqua verde, nell’acqua corrente. Le nebbie, la china sarebbe, la chinina!
Capitolo Terzo e Ultimo
giacché anche San-Pietro-Burgo è composta da tre parti
Il ragazzo per tutta la sua infanzia non vide neanche un albero, dato che visse oltre la Muraglia, già in Mongolia, paese di Tamerlano. A San-Pietro-Burgo, là, dove affluivano le strade dalle città della provincia moscovita, la Russa, la Moscovita, la Serpuchovskaja , nella parte russa e 74
in quella moscovita, nei vicoli, nei piccoli crocevia, nella casa a due piani, in quella disabitata, abbandonata, attraverso le finestre frantumate del negozio, in basso, si poteva vedere una porta interiore aperta che dava su un terreno abbandonato dietro la casa. Là erano stati abbattuti gli esili pioppi. Il cinese, con le sue mani, segò e sradicò gli esili pioppi. Il cinese, con le sue mani, scelse tutte le pietre e le pietrine. I russi hanno abbandonato la casa, lasciando tutto sporco come erano soliti: il cinese con le sue mani raccolse tutto lo sterco umano, dai pavimenti, dai davanzali, dalle stufe, dal lavandino, dai corridoi, per concimare la terra. Là, in cerchio nel terreno abbandonato, c’erano i muri taglia fuoco in mattoni, 75
su uno di quei muri crebbe il sambuco . Tutte le pietre, i pezzi di latta, gli 76
avanzi di ferro, il vetro, il cinese raccolse a quadrati sotto la barriera, il cinese scavò dei solchetti e nei solchetti piantò mais, miglio e patate. Era una giornata grigia, finlandese, tipica della regione dei laghi. Il cinese era in piedi dalla gialla alba e tutto il giorno, per tutto il giorno, ogni pezzettino, ogni filo d’erba smosse e curò con le sue mani. E tutto il giorno cantava una canzone cinese di guerra dei ribelli, che all’orecchio russo suonava di incredibile nostalgia:
Di-da-dimynʹkaj! Žosûétenšenʹkuj.
Vocinši-fulaj!
Una canzone in cui si parlava del fatto che «il cielo spalancava i cancelli celesti, la terra spalancava i cancelli terreni per accogliere una schiera di anime celesti, dato che Il Pugno della Giustizia e della Concordia e la Luce della Lanterna Rossa le spazzarono via in un colpo solo. E la stella Vega, promessa sposa della stella Altair , lo aiuteranno, 77
salveranno e sorveglieranno dai fuochi dei cannoni d’oltremare.»
Era un giorno grigio. I ragazzini delle case vicine, che il cinese teneva lontano dal suo terreno abbandonato, dove loro giocavano a fare la guerra e a carte cinesi , si arrampicavano per il muro, si appendevano su 78 79
di esso come rondini in fila e gridavano:
— Ehi, tu che cammini, diavolo strabico, chi ti ha tagliato la treccia?80
— Guarda, aspetta un po’, noi ti rubiamo le patate!
Ma il cinese non li sentiva e di solito i ragazzi continuavano a seguire l’uomo dall’andatura femminile, che faticava come una formica nel quadrato del suo angolino, da solo, straniero per tutti, strabico.
Era una giornata grigia, finlandese, tipica della regione dei laghi. Giallo, come la corteccia della cinchona, lui arrivò all’alba e puntuale, giallo come la chinina, se ne andò. Di sera il cinese stava disteso da solo nella stanzetta sopravvissuta, sulla stufa, coperto da una coltre inacidita. In quello sgabuzzino c’era puzzo, lo stesso del Loess. Il cinese era disteso con gli occhi aperti, con lo sguardo fisso, si contorceva nella masturbazione. «Chi poteva sapere a cosa pensasse il cinese?» E nella
silenziosa bianca notte, da qualche parte nel vicino vicolo Možaijsk , una 81
fisarmonica strimpellava e una voce femminile cantava:
Quando avrò montagne d’oro e fiumi colmi di vino
darei tutto per l’amore e gli sguardi
E se quella sera, con il compasso su un terzo del mappamondo, ha fatto un passo verso est sul terzo del mappamondo, attraverso il Türkistan, Alatau, il Gobi, allora lì, in Cina, a Pechino, (Ivan Ivanovič Ivanov era il fratello!), a Pechino, in Cina…
La guardia bianca, un nobile, un ufficiale dell’esercito imperiale, l’emigrante Pietro Ivanovič Ivanov passò per la porta Getemen , verso il 82
cancello sotterraneo, dove cammina la gente. Era buio e umido. Pietro Ivanovič girò a sinistra. Passò per ampie lastre quadrate di pietra, sotto le alte mura di antiche fortificazioni vicino al fossato pieno di acqua verde, e poi, per il ponte di pietra attraverso il canale, arrivò alla porta Occidentale Tangp’enmen , là, per il pendio fatto da un sentiero erboso si arrampicò 83
sulla muraglia, sui bastioni, nel silenzio e nella solitudine, sopra la città. «Che strano spettacolo per gli occhi di un europeo!». L’europeo è abituato alle masse quadrate dei grigi edifici collegati tra loro da quadrati viali. Il sole, con il buio cielo blu, dai raggi splendenti, gettava nitide ombre lilla dai fossati, dai bastioni, dalle banane, scintillava forte sulle tegole dei tetti laccati e abbagliava, quel giallo-dorato, brillante, blu, rosso ed esotico falò, le pagode, i templi, le bancarelle, le torri, le spirali di porticine, tagliate là in lontananza da una scura linea triste di mura e dalla sporca acqua verde
del canale. Là c’era una folla di persone d’affari, una città cinese, mercanti, venditori, plebei e poveri, il brusio della folla, le grida di muli e asini. Qui, sul muro, sopra la città, c’erano solitudine e silenzio. L’emigrante, ufficiale,
barin, nel soprabito da ufficiale con le spalline dorate (tutto ciò che aveva)
si sedette sui blocchi di granito. Il grigio cappotto da ufficiale con le spalline dorate era tutto ciò che aveva un ufficiale. Senza stivali. D’estate. Quante verste o miglia ha camminato. L’ufficiale si appoggiò a un blocco 84
di granito, si abbassò il cappello a visiera con il distintivo bianco di modo che non gli andasse il sole negli occhi. Qui, in solitudine, al sole e di giorno, dormiva l’ufficiale Pietro Ivanovič Ivanov.
Verso il tardo pomeriggio, dopo mezzogiorno, l’ufficiale camminava in mezzo alla folla tra la porta di Kuang-zu e Sha-Ku . I contadini con i 85 86
muli e gli asini si scambiavano carne, cacciagione, erba cipollina, sargo, e fumavano da fragili pipe il tabacco, uomini e donne, fino a quando non arrivava un compratore. Con una camminata scomposta e lenta camminavano con ventagli gli uomini-gentlemen. Il brusio e il fruscio della folla se andava nel cielo lilla. Al padiglione, dove c’era la guardia, erano stati interrati pilastri con barre trasversali e sui pali, in gabbie di bambù, in ognuna di quelle, c’era una testa. C’erano teste di morti dagli occhi spenti, dagli occhi spalancati. L’ufficiale si fermò per vedere cos’era rimasto delle persone: le bocche erano sfigurate in una divertente smorfia, tutte con la solita, e i denti stretti con forza; dalle gabbie gocciolava ancora sangue fresco e l’ufficiale si sentì nauseato dall’odore di carne fresca. Era un luogo di esecuzioni politiche. Là, alla fine, dov’era la porta, presso il muro sotto i castagni, sedevano, stavano in piedi o sdraiati i poveri, i lebbrosi, i maghi, gli ipnotizzatori, i vecchi. Accanto camminavano e
viaggiavano su esseri umani e cavalli, lord e lady. L’ufficiale si avvicinò ai poveri e porse loro la mano destra. Si mise a cantare in russo:
— Datemi l’elemosina per la gioia di Cristo!
La guardia bianca, un signore, un ufficiale dell’esercito russo, emigrante, fratello, Pietro Ivanovič Ivanov.
Russia, Kolomna.
Sua Maestà kneeb Piter Komondor
Non disprezzare, non avere per i cani tanto più amore che per i figli. Simeon Polockij87
O Russia, misera Russia per me le grigie tue isbe ,88
per me le tue canzoni al vento sono come le prime lacrime d’amore Che ti si adeschi e ti s’inganni non perirai, non puoi morire.
A. Blok89
Capitolo Primo
«Perciocché lo Stato, come ammaestrano i franciosi, l’harmonia di tutte le arti è, non solo corporali, ma anche spirituali. Penso io che Sua Maestà Pietro Alekseevič solo deleteri effetti arrecato abbia allo Stato Russo, perocché il Governo, cioè la politica, non è dissoluzione. Essendo io stato molte volte in Venezia, Parigi e nelle fiamminghe terre, non posso abbandonare con il pensiero la Patria. L’historia ne è obscura, perrocché i
cholopy e tutto il popolo minuto è abbandonato in primitive condizioni, 90
mentre lo Šljachetstvo quantunque studi nell’Accadémie des Sciences, ed 91
altresì abbia Regolamenti, e ricevuto abbia di ogni disciplina artistica la cognizione, nient’altro che un insieme di svenevoli e di galanti, di spavaldi e concussionari, di violenti e mariuoli è. E del pubblico tesoro sono i dilapidatori, perché la coscienza loro corrupta è, e gli aviti precetti furono obliati. In assai tenera età, staccato dal seno materno, ricevuta io
l’educazione di artigliere all’estero, sin dalla giovinezza adusato ad uno smodato bere, procacciaimi per l’età adulta solo tristizia e miscredenza e furfanteria. Lo Stato Nostro Russia perdura nella fame, nella pestilenza, nei conflitti e nei tumulti.»
Così scrisse nel suo diario l’ufficiale superiore Zotov , di guardia 92 93
nella fortezza Admiraltejskaja, nella cancelleria del Collegio degli Ammiragliati . La stanza in muratura, semibuia, dal soffitto a volta, era 94
ricoperta di sputi. Dietro le massicce e impolverate finestre, nel cortile quadrato, erano ammucchiate cortecce di tiglio, fibre di lino , cordami, 95
legname segato. A sinistra ardeva una fucina. Dal baluardo inferiore in 96
pietra, cominciava una cortina . Lungo i bastioni, ancora in costruzione, 97
camminavano le sentinelle. Presso la stessa Neva, sul dock , si ergeva lo 98
scheletro di una fregata , che ricordava quello di un mammut da poco 99
tempo allogato nel Museo di Storia Naturale . Attorno ai bastioni e alla 100
fregata si accalcava una folla di lavoratoruncoli cacciati lì da tutta la Russia, da Tver, da Vologda, da Astrachan, calmucchi, tartari, ucraini, vestiti di gabbani stracciati, con i lapty ai piedi e alcuni persino senza 101 102
lapty. La neve era fangosa e poco compatta. Il vento soffiava dal mare,
portava il disgelo, i ghiacci della Neva durante la notte si erano smossi, nuvole grigie scorrevano lentamente e il giorno di marzo sembrava quello d’ottobre. Al di là del fiume spuntavano solitari dei pini non ancora segati, esattamente dove la foresta era stata abbattuta. Sull’isola Vasil’evskij-Hirvisaari si affollavano qua e là, frastagliando il cielo grigio, slanciati 103
boschi di abeti. In alto, sulla guglia dell’Ammiragliato, batterono sette rintocchi dell’orologio e subito dopo cigolarono le catene del ponte levatoio. Entrò un soldato e posò sulla tavola una lampada a olio nerastra.
Dai rintocchi dell’orologio, dal cigolare del ponte, dall’andatura del soldato, dal modo con cui era stato innalzato lo stendardo, l’ufficiale della guardia Zotov aveva imparato a conoscere l’umore del sovrano: era per il
sovrano che prestava servizio. E ogni qual volta Zotov pensava a Pietro,
tutto il suo essere era percorso da angoscia e dolore: gli tornava alla memoria quel grigio giorno di gennaio, quando un pope novantenne 104
aveva celebrato, di seguito a un ukaz del sovrano, il matrimonio di suo padre principe Nikita Zotov, vecchio ottantaquattrenne, con la vecchia sessantenne Paškova. Il corteo, sanzionato per ukaz, si avviò dal Palazzo d’Inverno. Alla slitta dei «novelli sposi» erano stati attaccati quattro orsi e a cassetta fu legato un cervo. In testa alla processione c’erano il boia e il
kesar Romodanovskij, che era «quello sempre ubriaco». Tutti i ministri, 105
l’aristocrazia, il corpo diplomatico presenziavano a questa beffa voluta per legge. Gli orsi, frustati, bramivano ferocemente. Il principe-padre Nikita era stato vestito con un abito da prete, seminudo, tremava dal gelo, tremava, si contorceva e si ricontorceva, perché il sovrano si divertisse.
Pietro giunse di mattina nella cancelleria del Collegio degli Ammiragliati. Zotov stava ancora dormendo, sdraiato sulla tavola. Un sergente lo svegliò. Il sovrano entrò con il tricorno, un soprabito civile color verde, molto usato, dei calzoni neri aderenti, delle calze rosse, lavoro a maglia dell’imperatrice Caterina, e scarpine tedesche scalcagnate (le tasche del soprabito e dei calzoni erano gonfie, imbottite di compassi, bussole, livelli ad acqua e altri strumenti che Pietro portava sempre con sé). Camminava curvo e a passo svelto, agitando le mani, aprendo esageratamente le sue gambe esili, storcendole all’indietro, imitando, come d’abitudine, i marinai olandesi: dunque, Sua Maestà era di buon umore.
L’ufficiale superiore della guardia Zotov si mise sull’attenti. Il sovrano, all’europea, gli dette la mano. Rintoccarono le quattro e tre quarti dopo la mezzanotte. Nelle finestre entrava una nebbiosa caligine. Il sovrano fece una battuta oscena, scoppiò a ridere teatralmente, come sempre, poi si avvicinò al tavolo per controllare le carte. Quindi aprì con la sua chiave l’armadio contenente i documenti governativi segreti, riguardanti l’Ammiragliato, e con un gesto invitò l’ufficiale Zotov a entrarvi. Disse:
— Non avendo io la possibilità di presenziare oggi alla seduta del Collegio degli Ammiragliati, prego Vostra Nobiltà di esservi presente, segretamente, en silence . Abbiate la cortesia di farne il rapporto al capo 106
della cancelleria segreta, il conte Pietro Andreič.
In nessun epoca, in nessun luogo, c’è stato tanto spionaggio come sotto il regno di Pietro in Russia. L’ufficiale della guardia Zotov, facendo tintinnare gli speroni e la sciabola, entrò nell’armadio; il sovrano puzzava di sudore e vodka. Pietro chiuse la serratura e, mentre se ne andava, gridò vigorosamente:
— Ho l’onore di congratularmi con Vostra Signoria per l’apertura della navigazione. Vi preghiamo di favorire l’indomani a Palazzo per un
traitement !107
Nell’armadio era buio e mancava l’aria, da una fessura filtrò una luce grigia. Zotov fumò dalla sua pipa olandese, si costruì una seduta con la carta, si appoggiò sulla sciabola e si addormentò, abituato com’era a dormire in qualsiasi posizione. Verso le dieci i membri cominciarono a riunirsi. Apraksin mandò un sergente a prendere la vodka. Zotov origliò: parlavano di quello di cui parlava tutta la Russia, si esprimevano come si esprimeva tutta la Russia, del fatto che la Russia era rovinata, che
nell’Oltrevolga protestavano i calmucchi, che sul Don erano irrequieti i cosacchi, che per i villaggi c’era la fame e la morte, che per i villaggi pellegrinavano gli jurodivye108 invocando Cristo, che nelle campagne avevano trovato l’anticristo… Il capo della cancelleria segreta, il conte Pietro Tolstoj, giunse al Collegio verso le quattro del pomeriggio e liberò dall’armadio Zotov. Anche Tolstoj, uomo che aveva strangolato nell’Ammiragliato e nei sotterranei della Fortezza Pietro e Paolo non un solo centinaio di persone, sedendo al tavolo e guardando la Neva con i suoi occhi impassibili, parlava come tutti, vile e malvagio.
— Nell’isola Kajvusari-Fomin è stato scovato un nuovo innocente. È stato mandato all’Ammiragliato per la tortura, questo jurodivyj.
Tolstoj tacque. Poi, ironicamente, disse:
— Tutta la Russia se ne dispera. Vieni stanotte. Zotov chiese:
— Si deve credere, Vostra Eccellenza, agli jurodivye per amor di Cristo?
Tolstoj si guardò intorno, fissò intensamente Zotov con i suoi occhi impassibili, e disse a bassa voce:
— Ne ho piena fede.
Rintoccarono le sette e un quarto. Il crepuscolo era torbido come fango. La Neva si era ingrossata, dal mare tirava vento: ci si doveva aspettare l’inondazione per l’alba. Zotov attraversò la stanza, sgranchendosi le gambe coperte dagli stivali fino all’inguine. Si fermò 109
alla porta e lesse un ukaz imperiale, già ingiallito e imbrattato dalle mosche:
«Sua Maestà il sovrano ha disposto di comandare con il presente, come già in precedenza comandossi, che presso i vascelli e altre navi, come altresì presso le galere situantisi in porto, a San Pietroburgo, non sia tenuto acceso fuoco alcuno e oltracciò non si fumi tabacco; e se qualcuno scoperto fosse a ciò contravvenire, fustigato sarà: la prima volta riceverà dieci colpi di verga legato all’albero maestro, e se contravvenisse ancora una volta, immerso sarà sotto la chiglia della nave e legato all’albero maestro fustigato sarà con 150 colpi e mandato ai lavori forzati in eterno».
Una volta letto, l’ufficiale della guarda Zotov riempì la pipa e l’accese con la lampada a olio.
Dormì ancora, a mezzanotte fece l’ispezione ai posti di guardia; le sentinelle erano di vigilia ventiquattr’ore e non osavano dormire perché sarebbero state frustate senza pietà. Dati i cambi, designato l’ufficiale di picchetto e il turno, l’ufficiale superiore Zotov si diresse verso casa, laggiù, nella sezione Moskovskaja, al di là del fiume Mojka , nelle caserme della 110
guardia. Cigolarono i ponti levatoi, nel canale gorgogliava l’acqua che saliva. Lo avvolgevano le tenebre, l’umidità, il vento e gli stivali affondavano nell’argilla motosa. Nei tratti sgombri da case si davano il segnale convenuto le pattuglie. Nell’isola Kajvusari-Fomin suonava una campana. Nell’oscurità urtò contro una catasta di legname, contro dei pali che servivano per edifici nuovi, non ancora terminati. Dalla prigione la sentinella spaventata gridò il «chi va là». Il Palazzo Italiano 111
fiammeggiava di luci gialle. Nel sobborgo tedesco, dove abitavano ogni specie di disgraziati, scapestrati e pirati, accorsi da tutti i paesi con la speranza di facili guadagni, si udiva il battere del mazzuolo . Il vento 112
cancelleria, dopo il noioso ozio e l’incomodo sonno, le membra del corpo parevano sgualcite, gli occhi gonfi, la bocca gommosa. Cadeva una pioggia ghiacciata. Nel corpo degli ufficiali delle caserme della guardia c’era chiasso, canti, grida, e strideva un organo: gli ufficiali erano appena tornati dall’assemblea dove si erano scatenati in danze e si erano ubriacati smodatamente. I giovani si accalcavano intorno la camera di servizio, dove avevano trascinato una sgualdrina.
L’ufficiale della guardia Zotov riordinò i documenti e si accinse a scrivere nel suo diario riguardo la fondazione di San Pietroburgo, il «paradiso» di Pietro, questa città orribile piena di paludi mortali, nebbie insidiose e febbri malariche. In occasione della guerra iniziata per caso (come tutto quello che faceva Pietro) contro gli svedesi, ritiratosi per caso nelle vicinanze di Nienšanc , Pietro per caso gettò le fondamenta della 113
Fortezza di Pietro e Paolo sulla palude del delta della Neva, sull’isola delle Lepri , senza avere per niente in mente quel «paradiso». Questo avvenne 114
nel 1703, e soltanto dopo dieci anni cominciò a essere costruita San-Pietro-Burgo , costruita con la stessa ferocia, energia e crudeltà con cui Pietro 115
era solito fare tutto.
L’obiettivo più importante nella costruzione del «paradiso» era che non doveva somigliare a Mosca. San Pietroburgo doveva essere in pietra: per ukaz il sovrano vietava di erigere edifici in pietra ovunque, tranne che lì, dove, se pure una casa veniva costruita in legno, la si doveva rivestire con tavole e dipingere color mattone. «Dopo la guerra turca condotti furono a San Pietroburgo lavoratori pochissimi, per la quale cose curerete che per la prossima estate e il prossimo inverno siano qui inviati nel numero: dalle 35 città, dai villaggi, dalle volosty della corona, dai feudi, 116
dai fondi privati, da persone di qualsivoglia grado, dalle famiglia dei contadini e dei bobyli » dovunque si imponeva che si conducessero a San 117
Pietroburgo «un uomo per ogni 9 dvory ». Le persone venivano portate 118
via a colpi di bastone, incatenati, la mano d’opera doveva andare «con gli istrumenti di carpenteria, con le asce, ed ogni caposquadra di dieci deve avere uno scarpello, un trapano, e devono quei servi portar con sé pane e provvigioni quanto più possibile». Quella gentaglia a lavoro soffriva la fame, deperiva, moriva per le epidemie, pochi restavano più di un anno e ogni anno ne crepavano sui centomila: la città fu eretta su ossa umane. Gli strumenti non bastavano, trasportavano la terra nei lembi delle camicie; non bastavano i lapty e andavano scalzi. Lavoravano con l’acqua fino alla vita; vivevano in capanne puzzolenti, alcuni scappavano, si davano alla foresta, al brigantaggio; altri si ribellavano e perciò venivano impiccati a decine nel Kronverk della Fortezza di Pietro e Paolo, come esempio. Fu 119
promulgato l’ukaz di radere i lavoratori . Quelli del posto erano truffatori 120
(Pietro amava i bravi imbroglioni), corrompevano e compravano sottomano con mazzette, che Pietro chiamava «giochi d’astuzia». Scriveva: «Dal governatorato di Kazan’ non furono mandati qui, della somma di denaro imposta l’anno precedente, più di 20 mila rubli, e noi ci maravigliamo che siffatte cose cadano in dimenticanza» e minacciava con la frusta.
I cholopy erano sepolti là dove esalavano l’ultimo respiro. Quei lavoratoruncoli nudi, affamati, affetti dallo scorbuto, impazzivano per il terrore, per i tormenti e per l’incomprensione. Ai nobili fu vietato di allontanarsi dalla città senza un permesso. Per ukaz fu ordinato di mettere su tutti gli edifici imperiali degli orologi, perché gli uomini conoscessero il loro tempo al battere delle ore. Il capo della città era il principe Menšikov,
il generale governatore di Ingermanland, lieber Kinder Saša , come lo 121
chiamava Pietro.
All’alba suonarono l’allarme. Dall’Admiraltejskaja e dalla Fortezza di Pietro e Paolo spararono i cannoni. Gli ufficiali uscirono a corsa sulla spianata, dalle caserme si riversarono i soldati, che mentre correvano innestavano le baionette. Risuonò il segnale di cornetta. Si allinearono. La luce dell’alba era fangosa. Il vento divenne tempestoso, fischiava con impeto fra i tre pini dal nudo tronco, non ancora abbattuti. Si parlava dell’inondazione: sull’isola Vasil’evskij-Hirvisaari aveva portato via tutto il legname di riserva, era annegato nel canale l’ufficiale della guardia Derjabin. La Neva era in piena, si faceva sempre più blu, sommossa dalle verdi ondate. Qualcuno disse che avanzavano gli svedesi, si mormorò di insurrezioni. La pioggia cadeva obliqua, fredda. Dalle chiese rimbombava il suono delle campane. Ancora una volta furono sparati i cannoni. Dette l’ordine il generale di picchetto e ogni ufficiale ebbe il comando di una compagnia. Uscirono dalla spianata e si diressero verso il Palazzo Italiano. Il mattino era torbido, freddo, umido e fangoso.
In strada s’incontrò un ufficiale d’ordinanza a cavallo, si tolse il cappello (e il vento gli scompigliò la parrucca) e gridò:
— Sua Maestà imperiale ha ordinato di creare tale confusion122 in occasione di questo primo d’aprile e dell’apertura della Navigazione! Ordina similmente di favorire all’istante a Palazzo per un traitement!
Il reggimento rispose con un grido di saluto all’Imperatore e ritornò in caserma.
Capitolo Secondo
Dalla spiaggia, provenienti dalla Piccola Neva e dai boschi, spesso 123
invadevano San Pietroburgo dei branchi di lupi e sbranavano sia il bestiame che gli uomini. Lo straripamento ne aveva spinto un branco sull’isola Elagin . Il fatto venne riferito al sovrano e Pietro andò a caccia 124
di «queste rarità» per il Museo di Storia Naturale, portando con sé un centinaio di uomini. Era un giorno caliginoso e umido.
Nell’isola Kajvusari-Fomin, oltre il Kronverk, presso il sobborgo tartaro, dove sulla sabbia erano piantate le misere jurty dei kirghisi e dei 125
calmucchi, tribù selvagge spinte qui dall’Oltrevolga, fu scoperto un uomo vicino i vecchi salici bianchi. Era scalzo, con il capo nudo, la barba grigia che gli arrivava alla vita, il volto magro e severo, con addosso un saio da frate. Il vecchio parlava del sovrano, diceva che lo zar Pietro era l’anticristo, che avrebbe marchiato tutto il popolo «e a chi non sarà marchiato, non sarà dato il pane». Diceva che la Neva avrebbe invertito il suo corso, che si sarebbero aperte le cateratte del cielo126 e avrebbero inghiottito la città maledetta con il suo popolo. Mostrava ai calmucchi il contrassegno della tassa da pagare per avere il diritto di portare la barba: impresso sul bicipite aveva uno stemma russo, un naso con baffi e barba e la scritta «tributo pagato». Sul vecchio e sulla folla si erano riversati gli scagnozzi armati di bastoni, il vegliardo si nascose dietro le jurty, dove l’avevano arrestato. Pietro, di ritorno dalla caccia ai lupi, prese parte alla nuova battuta, impartiva ordini. Trovato il vecchio, dietro il bastione del Kronverk, poco dopo, verso sera, fu trascinato nella camera di tortura della fortezza Admiraltejskaja: nell’anno venti, dopo che fu strangolato lo zarevič Aleksej nel rivellino Alekseevskij della Fortezza di Pietro e Paolo,
fu promulgato un ukaz, secondo il quale «le torture nei processi di ogni genere si compiano nella fortezza Admiraltejskaja» . Nel sotterraneo del 127
bastione, nella cancelleria della sala di tortura, il conte Tolstoj incontrò il vegliardo. La lampada ad olio di canapa ardeva fioca, la stanza era bassa e piccola, senza finestre, con il soffitto ad arco in mattoni. Tolstoj sedeva, con le gambe divaricate, al tavolo su cui tamburellava le dita sottili, mentre continuava a guardare intensamente il vecchio con i suoi occhi impassibili, e taceva. Il vecchio gli stava davanti, dritto e immobile. Il conte puzzava di vodka, il vecchio di cipolla e rafano.
— Come ti chiami? Di dove sei? — domandò Tolstoj.
— Sono stato battezzato come Tichon. Sono della parrocchia di Bjelokolodezkij, nella volost’ Kolomenskaja.
— Stai per il triplice alleluia e per le due dita forse?128
Il vecchio tacque. — Anche per essi.
— Avvicinati, figlio di puttana.
Il vecchio si avvicinò, il conte lo colpì nel basso ventre con lo stivale. — Recita la preghiera. Di’, quando prevedi il diluvio? Quale forza hai trovato nella medaglia? Parole e azioni appartengono al Sovrano.
— Quando il diluvio arriverà, solo il Signore Dio dell’Universo sa. 129
Ancora non ho il potimento di predirlo. — Di’ la preghiera.
Entrambi tacquero a lungo. Prese parola il vecchio:
— Conte!… Datemi ascolto, di tutto ciò che è conforme alla ragione vi è il fondamento, ma non delle sciagure. Che cosa è diventata la terra nostra? Gemito, grido e pianto universale. Solo corruzione. Tutto il popolo è nudo, la coscienza si vende, la giustizia si rintana nei bordelli. O Russia!
Corruzione!… Il figlio mio s’è fatto vecchio, e sempre ci sono guerre, e i tedeschi han preso il sopravvento. Lo zar con la pipa in bocca, come un marinaio d’oltremare, veste alla tedesca, ubriaco come uno sgherro , è 130
sfrontato e bestemmia come un tartaro, lo zar!… Conte!… Pensi a questo: lo zar nostro è stato sostituito, un alemanno! Quand’egli se ne andò oltremare col il suo fidato seguito, arrivato nel regno di Stoccolma, da quella regina-prostituta andò, e quella prostituta Ulrica , facendolo 131
dormire nel suo letto, disonorava con insulti il sovrano nostro, mentre lo attirò al suo umbilico , che è come una padella ardente, e di risposta 132
stregò, l’alemanna sgualdrina di Stoccolma, Pietro Alekseevič, dato che egli rase le barbe, tagliò i caffettani , le odnorjadki , le ferjazki … Conte! 133 134 135
Presto metteranno il bollo anche al pane, perciocché sono stati portati gli stampi. Il calendario è stato ribaltato . Gli eretici papisti, i luterani 136
insozzano la nostra fede… E quando per l’onomastico di quella zarina, la prostituta di Stoccolma Ulrica, iniziarono a parlarle i suoi principi e boiari: — Vi prego, Sovrana, per il tuo giorno, lascialo libero, il nostro Sovrano! E quella svergognata sgualdrina disse: — Andate e guardate se ancora è vivo, che lo lascerò libero per voi. Quelli, guardando, dissero: — Non ha più forze, Regina! E se non ha più forze, allora voi gettatelo nello sterco. E allora Saša Menšikov, scudiere e venditore di Cristo, e Leforte l’alemanno, lo afferrano, lo rinchiusero in una botte impeciata e lo fecero rotolare in mare. Ma quando lo strelizzo comandante vide tutto ciò, quel nuovo 137
compare-attaccabrighe, scagnozzo del sovrano, si inferocì contro gli altri strelizzi. Relegò in un monastero Avdot’ja Fëdorovna, si prese la sgualdrina Monsova, o tenebre universali!… Conte! Ridendo tutto sembra perfetto! Le risate, la beffa… Corruzione!…Apri gli occhi tuoi!… Conte!…
La lampada ardeva fioca e fumosa. Le pareti e il soffitto grondavano di umidità penetrante e vi strisciavano i millepiedi. Tolstoj sedeva immobile, fissando senza muover un solo ciglio dei suoi occhi torbidi e strabici. Il vecchio aveva parlato senza fermarsi, senza pausa. Il suo viso era pallido, la lampada crepitava.
— Vieni qui, figlio di puttana. Il tuo cognome? Le sense è sufficiente .138
— Mi chiamo Starcev. Tre figli mi sono morti in guerra, e due nipoti…
— Per quando prevedi il diluvio?
— Quando Dio solo lo sa, ma esserci, ci sarà.
— Vieni qui, figlio di puttana!… Conosci la frusta?…
Si aprì una porticina di ferro ed entrò l’ufficiale superiore della guardia Zotov. Barcollando andò verso uno sgabello, ci cadde di peso, appoggiò il capo sulla tavola, scoppiò in singhiozzi, dallo stivale tirò fuori una boccetta di vodka, si mise a ridere.
— Che c’è? — chiese Tolstoj.
— Questo dì al Senato, riuniti in Konzil , hanno litigato Jagužinskij e 139
Skornjakov, a favore del quale si intromise l’eccellentissimo Saša Menšikov. Jagužinskij prese per i capelli il procuratore-capo Skornjakov e dette del ladro a Šafyrov, a Golovkin e all’eccellentissimo Saša Menšikov!… Un putiferio. Che scandalo!.. Menšikov corse dall’imperatrice a lamentarsi, come da antica tradizione. Dopo il traitement erano tutti come impazziti. Il fiscale-capo Mjakinin denunciò tutto al sovrano, che disse a Caterina Alekseevna: — Quel Menšikov lì è un figlio illegittimo, sua madre lo partorì nel peccato, conduce una vita da furfante, se non si correggerà, che gli venga tagliata la testa. — Il traitement si