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2. LA FORMA LITURGICO-MUSICALE DELLA MESSA (I) A)

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2. LA FORMA LITURGICO-MUSICALE DELLA MESSA (I)

A)LA MESSA VOCALE SINO ALLA FINE DELL'OTTOCENTO

Missa, missio, dimissio: dal primitivo significato di «congedo», il termine «messa», già in uso nel IV secolo, s’identificò a poco a poco con l’apparato liturgico che concorre a far sostanzialmente rivivere, nella comunità dei credenti, per mezzo del sacerdote, l’estremo sacrificio del Cristo. L’Ordo Romanus Primus, non anteriore al pontificato di Sergio I (687-701), (1) contiene la più antica descrizione completa della Messa pontificia con citazioni esemplificative di canto liturgico. (2)

Le parti della messa e, di conseguenza, le musiche che vi corrispondono, sono scindibili in due grandi gruppi: quello del Proprium e quello dell’Ordinarium. Il primo comprende l’introito, il graduale, l’alleluia, il tratto, (3) l’offertorio e il communio. Nella pratica musicale gregoriana, introito, offertorio e communio, raccolti nel libro liturgico detto Graduale, sono affidati alla schola; gli altri, invece, raggruppati nel Cantatorium, sono di pertinenza solistica. Il termine «Proprio», per l’appunto, indica queste parti dette «mobili», che caratterizzano, con testi e musiche appropriate, ciascuna memoria, festa o solennità che si celebra in un dato giorno, «conferendo ad esse [messe] e ai tempi liturgici dei quali esse fanno parte una qualità particolare». (4)

L’altro gruppo è quello dell’Ordinarium: qui, i testi, dal carattere ‘neutro’ e universale, si adattano bene a qualsiasi ricorrenza liturgica. L’Ordinario, perciò, raccoglie le cosiddette parti «fisse» della messa, il cui testo rimane sempre immutato: Kyrie, Gloria, Credo, (5) Sanctus e Agnus Dei, ai quali andrebbe aggiunto anche l’Ite, missa est o il Benedicamus. (6) Il primo canto impone il nome al libro che li raccoglie: il Kyriale.

Il Proprium rappresenta la parte della messa più antica e originale; l’Ordinarium, però, da un punto di vista musicale, avrebbe preso a poco a

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poco il sopravvento, destabilizzando il primitivo equilibrio tra parti fisse e mobili a favore delle prime. Non si conoscono con precisione le cause: la possibilità di utilizzare l’Ordinario in tutte le circostanze (Kyrie, salvo casi particolari, Sanctus e Agnus sono presenti ogni giorno in ogni messa), di sicuro, permetteva ai compositori di confrontarsi con consuetudini già ampiamente sperimentate e accettate; ai cantori, poi, una più facile memorizzazione; ai fedeli, infine, di apprezzare la maggior ricorrenza di queste parti testuali e musicali (7). Fatto sta che l’Ordinarium missae divenne così importante da far ricadere su di sé, musicalmente parlando, il significato esclusivo della parola «messa». Dal XIV secolo, infatti, la celebre forma unitaria dell’Ordinario sarebbe divenuta la «messa musicale» per antonomasia, uno dei maggiori campi di battaglia e d’impegno compositivo da parte d’intere generazioni di musicisti.

Le moderne edizioni di canto gregoriano (8) presentano le messe riunite in cicli comprendenti Kyrie, Gloria, Sanctus, Agnus Dei e Ite, missa est. Il Credo occupa un insieme per conto proprio, più per tradizione e destinazione liturgica che per distinzione musicale: da un lato, pur presente negli antichi riti, il Symbolum Nicaenum sarebbe entrato nel ciclo della messa ben dopo le altre parti; (9) dall’altro, però, l’odierno repertorio gregoriano, risalendo al IX-XI secolo, parallelamente alla nascita e all’affermazione della notazione musicale, è però contemporaneo o di non molto anteriore al più antico Simbolo conservato: il Credo I (XI secolo).

I primi ordinari compaiono nel X secolo, nei cosiddetti tropari. Il nome del libro deriva dal «tropare», cioè dalla pratica di inserire nuovi testi (tropi) su vocalizzi o melismi di brani preesistenti; attività che influenzò pesantemente la maggior parte dei pezzi dell’Ordinario. Questi tropari, però, non presentano gli ordinari in cicli come noi, oggi, li conosciamo, ma raggruppano brano per brano in categorie chiuse: i Kyrie con i Kyrie, i Gloria con i Gloria e così via. (10) Ciò significa che gli anonimi compilatori non davano nessuna importanza alla ciclicità, all’omogeneità dei pezzi da eseguirsi nell’Ordinarium di una messa: gli accostamenti potevano essere

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fatti scegliendo e giustapponendo anche brani affatto diversi, per notazione, provenienza e carattere musicale.

Nelle odierne raccolte gregoriane, i tropi non sono più presenti. È rimasta la consuetudine, tuttavia, di designare ogni ciclo con lo incipit dell’antica inserzione testuale del Kyrie, senza considerare gli eventuali tropi delle altre parti dell’Ordinarium. (11)

Solo con l’elaborazione polivocale dell’Ordinarium missae, la cosiddetta «messa polifonica», l’assetto ciclico dei canti che lo compongono raggiunge una completa cognizione. Nella storia della polifonia sacra, però, Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus e Ite saranno considerati i brani di riferimento solo in un secondo momento: nelle prime, arcaiche stesure a due voci le preferenze, in assoluta maggioranza, sono indirizzate verso l’elaborazione dei canti del Proprium. (12)

Dal punto di vista della raccolta e classificazione, le elaborazioni polifoniche su cantus firmus seguono una procedura analoga al repertorio gregoriano: all'inizio canto per canto, in seguito ciclo per ciclo. Base di ogni elaborazione è il corrispettivo brano del repertorio gregoriano, trasformato in canto fermo. Dal Trecento, poi, le sezioni dell’Ordinarium saranno trattate dalla pratica polivocale in modo esteso e sistematico: la nuova creatività, che caratterizza il periodo dell’Ars Nova, riprende e presenta sotto una luce del tutta nuova i brani della «messa polifonica».

Tra queste, la Messa di Tournai (13) è considerata la più antica. Dal punto di vista della notazione, però, le parti sono eterogenee: con molta probabilità, non è stata composta o concepita come un insieme musicale unitario. Resta almeno il fatto che sia stata assemblata, obbedendo a sempre più impellenti esigenze, in una medesima celebrazione eucaristica, di esibire l’Ordinario sotto una logica veste unitaria: non a caso, tutti i brani presentano lo stesso numero di voci - tre - e una latente omogeneità stilistica.

La Messe de Nostre Dame di Guillaume de Machaut (ca. 1302-1377) (14) è il primo Ordinario composto da un’unica mano e anche il primo interamente concepito a 4 voci. Fu scritto, forse dopo il 1360, per la commemorazione mariana domenicale, da celebrarsi su «un altare laterale

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della Cattedrale di Reims per lascito istituito da Machaut e da suo fratello». (15) I brani, per affinità stilistica, possono essere collocati in due gruppi. Kyrie, Sanctus, Agnus e Ite si basano su cantus firmi già presenti nella tradizione musicale liturgica. La peculiare tecnica compositiva impiegata, tipica dell’epoca, è quella del «mottetto isoritmico», dove ritmo e melodia sono determinati dalla simultanea ripetizione d’indipendenti moduli ritmici (talea) e melodici (color); fra le voci, poi, non manca l’impiego delle imitazioni. Gloria e Credo, invece, utilizzano canti fermi di libera invenzione, rifacendosi alla scrittura più arcaizzante del conductus o «stile simultaneo», con brevi sezioni in contrappunto nota contro nota e in rigorosa omoritmia. La presenza di brevi ‘ritornelli’ con funzione di raccordo, di valori lunghi e di clausulae, cioè punti di articolazione cadenzale ritmo-melodica, determina il testo e, di conseguenza, la musica da un punto di vista strutturale. Gli Amen, però, contrastano con questa scrittura così severa, sviluppando un unico, ampio ‘arco’ melismatico, che vede applicata la tecnica dell’hoquetus, «singhiozzo», caratterizzato dall’uso del controtempo.

Dal punto di vista modale, i brani che fanno parte dell’odierna «Liturgia della Parola» (Kyrie, Gloria, Credo) sono distinti da quelli della «Liturgia Eucaristica» (Sanctus, Agnus, Ite): i primi adottano il modo protus (re), i secondi il tritus (fa). L'impianto modale, perciò, asseconda e sottolinea la grande bipartizione del rito: la cosiddetta «Messa dei Catecumeni», di coloro, cioè, che sono in attesa di ricevere il battesimo, e quella «dei Fedeli», già 'iniziati', invece, al mistero della consacrazione eucaristica. Capolavoro nel suo genere, «la Messa di Machaut manifesta [...] una notevole coerenza nel vocabolario e nella sintassi dell'armonia, nell'andamento ritmico e nella costruzione melodica, facendo prova nel complesso di un'unitarietà e omogeneità senza uguali fra le Messe del Trecento». (16) Per ampiezza e profondità, la Nostre Dame rappresenta la sintesi musicale del XIV secolo: solo nel successivo, infatti, avrebbe trovato un degno seguito.

Il Trecento è il secolo dell'Ars nova, caratterizzato da un tratto spiccatamente profano. La mondanità s’insinua anche nella liturgia, comportando una serie d’importanti conseguenze: celebranti e cantori sono

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sempre meno 'coordinati', la celebrazione è supportata quasi esclusivamente dal sacerdote, la messa musicale diviene l'«unico veicolo sonoro dell'azione liturgica, […] il peso dell'azione si sposta essenzialmente sull'aspetto musicale». (17) Non è errato affermare, perciò, che «la nuova fase della composizione musicale della Messa comincia con una vittoria dell'autonomia della musica a più voci». (18)

Contro gli 'eccessi' dell'Ars Antiqua e, soprattutto, della Nova, risalendo all'inizio del secolo, incontriamo la celebre costituzione Docta Sanctorum Patrum (1324-1325), di Giovanni XXII. (19) Il pontefice, da Avignone, si scaglia contro tutto ciò «che trascura quella devozione che si dovrebbe ricercare»: la complessa mensurazione, l'abbandono delle antiche melodie, l'esecuzione misurata del gregoriano «con semibrevi e minime» e con note ribattute, la tecnica degli hoquetis, l'accavallarsi caotico delle voci, l'utilizzo di più testi, anche profani, e l'anarchia modale. (20)

Da allora, la querelle non si è ancora sopita, perché riguarda, in generale, per ogni periodo storico, il rapporto fra Chiesa e Arte: alcuni, dal versante 'artistico', attestano una vera e propria arretratezza culturale della Chiesa, volta ad ostacolare il cammino e il progresso del talento; altri, invece, dal versante 'liturgico', ribadiscono che «la chiesa non è luogo di sperimentazioni», che «la preghiera liturgica reclama espressioni mature» e che «il mezzo sonoro è volto all’edificazione dei fedeli, non alla loro confusione». (21) Un profilo prudente, per un organismo come la Chiesa, è forse da preferire, tenendo conto che, purtroppo, «c'è sempre e per tutti i documenti ecclesiastici […] chi obbedisce e chi no, chi si adegua e chi li ignora». (22) D'altra parte, una qualsiasi carta, per autorevole che sia, non è in grado di bloccare l'evoluzione di una prassi; semmai, la può arginare e indirizzare convenientemente.

Tra la seconda metà del Quattrocento e la fine del Cinquecento, la messa polifonica, in assoluto, diviene il genere più rappresentativo. Non esisteva compositore che, volendosi ritenere tale, non ne componesse uno svariato numero, tutte di un certo peso e importanza: gli ultimi cinquant’anni, infatti, espressero la massima fioritura di questo genere. L’organico, di

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preferenza, si porta da 4 a 5 o 6 voci. Per quanto riguarda il trattamento dei brani, si vengono anche a delineare, con sempre maggior forza, alcune consuetudini: Kyrie e Sanctus per lo più in contrappunto florido; maggior attenzione alla comprensione testuale, invece, per il Gloria e, in particolar modo, per il Credo, «Simbolo» della fede cattolica. Questa differenziazione è determinata anche da ragioni pratiche: un testo breve, di cui tutti conoscono il significato, può essere fiorito con facilità; uno lungo, invece, no. In più, all’interno di ogni parte, si conferisce con sempre maggiore frequenza un particolare risalto (ad es. riduzione del numero delle voci), dovuto a motivi di ordine testuale o di collocazione rituale, a determinate sezioni, come all'«Incarnatus» e al «Crucifixus» del Credo o al «Benedictus» del Sanctus.

Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525/26-1594) è uno dei maggiori esponenti del periodo. La sua grandiosa produzione, tra cui spiccano un centinaio di messe, è un indiscusso punto di riferimento nell'ambito musicale liturgico, sia per la «musica di eccelsa bellezza» sia per lo «stile di singolare perfezione. […] L'interesse […] risiede non soltanto nel fatto che esso [stile] costituisce il sostegno di un'opera di alto valore artistico, bensì e soprattutto, dato il suo carattere sintetico, nella possibilità che offre di decifrare l'intero pensiero musicale del Rinascimento, nel contesto della musica di allora e dei secoli successivi». (23) Il musicista prenestino, infatti, «porta a compimento quel che finora era ancora un'esigenza aperta e istrada quindi su nuovi binari il divenire storico della musica […]: Palestrina come conclusione e […] come principio». (24)

Non ci dilunghiamo sull'arcinota questione della Missa Papae Marcelli, (25) ritenuta per tradizione la salvatrice della musica polifonica post-tridentina, in pericolo di essere vietata dalle autorità ecclesiastiche per la non perfetta intelligibilità testuale. Alla luce dei più recenti studi, infatti, più di un dubbio è lecito porsi sul ruolo effettivamente svolto, non solo dalla Marcelli, ma anche dallo stesso Palestrina, in un contesto liturgico caricato, sì, da ansie di rinnovamento, ma non certo così sprovveduto da cancellare, in un sol colpo, l'irripetibile equilibrio allora raggiunto fra testo, melodia e contrappunto. (26) Ad ogni modo, non è da credere che la 'leggenda' palestriniana sia solo il

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frutto di «astratte categorie normative», che si rifanno a «modelli metastorici». (27) Palestrina, infatti, è oggi considerato, per antonomasia, ‘il’ compositore di musica liturgica polifonica: ciò si deve, principalmente, alla salvaguardia dell'‘oggettività’ del testo sacro, tanto che, nel rapporto con la parola, «la musica di Palestrina può cogliere solo l'elemento obiettivo della rappresentazione della lingua». (28) In più, in lui, l'universalità o, meglio, la cattolicità della Chiesa, è rappresentata musicalmente dal coro polifonico e contrappuntistico, nel quale ogni voce mantiene la propria indipendenza e personalità e, nello stesso tempo, concorre, senza prevaricare sulle altre, alla perfetta omogeneità del risultato complessivo. Non è certamente un caso se Palestrina, in assoluto, è l'unico musicista esplicitamente citato in un documento normativo della Santa Sede. (29)

Durante il passaggio fra Cinque e Seicento, si assiste alla nascita di un nuovo genere, che avrebbe rivoluzionato il modo di comporre, eseguire, rappresentare e fruire la musica: l'opera. Fino ad ora, la chiesa era il luogo nel quale tutto il popolo aveva la possibilità di ascoltare musica di un certo livello; adesso, la sede deputata all'esecuzione musicale si sposta dal tempio al teatro, amplificando, nella rappresentazione operistica, la componente 'scenografica' e rappresentativa. Il fasto e il 'meraviglioso', tipici dell'età barocca, incrementano sempre più le aspettative di un pubblico pagante, perciò esigente e desideroso di sempre nuove proposte: va da sé, perciò, che il teatro operi un’inevitabile selezione di pubblico, rivolgendosi solo alle classi sociali più abbienti.

Da un punto di vista strettamente musicale, l'esecuzione 'collettiva', tipica dell'epoca precedente, lascia il posto a quella solistica. La perfetta pariteticità delle voci in una composizione contrappuntistica cede il passo allo 'sbilanciamento', in favore di un solo interprete o di un gruppo ristretto di esecutori. L'attenzione si sposta sul solista, che assume un ruolo preponderante, 'accompagnato' dagli altri strumentisti, la cui funzione, invece, è 'subalterna'. Questo divario, all'inizio poco marcato, col tempo si sarebbe accentuato sempre più, incrementando di molto la ricerca di uno

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sviluppo tecnico esecutivo, per il conseguimento di un virtuosismo solistico sempre più impressionante.

Le conseguenze, in poco tempo, non tardarono a farsi sentire anche in ambiente ecclesiastico. Non che fossero mancate, in precedenza, cerimonie solenni e sfarzose: ora, però, la magniloquenza e la pomposità prendono nettamente il sopravvento sull'aspetto propriamente rituale. La componente monumentale e solistico-virtuosistica, dal lato musicale, attecchisce proprio alla parte che si era venuta determinando come la più rappresentativa della messa: l'Ordinario. Un esempio clamoroso, rappresentativo del cosiddetto «barocco colossale», è dato dalla Missa Salisburgensis (1682), (30) un tempo attribuita a Orazio Benevoli (1605-1672), ora, seppur con molte riserve, all'austro-boemo Heinrich Ignaz Franz Biber (1644-1704): ben 54 voci, divise in 8 cori, 3 organi e timpani.

Il predominio del teatro, intanto, si allargava a macchia d'olio: la sua influenza non si sarebbe fermata solo agli organici e allo stile, ma avrebbe abbracciato anche la forma compositiva. Fino ad ora, infatti, la struttura del testo sacro determinava quella della musica che lo rivestiva; pur in una certa, inevitabile dilatazione, il brano riusciva a conservare sempre una certa unitarietà. Adesso, invece, ogni pezzo dell'Ordinario è 'distribuito' in diverse sezioni: singoli numeri chiusi che sembrerebbero far perdere di vista l'unità organica del testo, ricordando, invece, la successione dei brani in un lavoro destinato al teatro, come pezzi orchestrali e vocali, corali e solistici, dal solo al quartetto, con l'eventuale impiego di uno o più strumenti concertanti. È la cosiddetta «messa concertata» su basso continuo.

D’altra parte, l’influenza formale della musica teatrale nei confronti di quella ecclesiastica, pur forte che sia, non può certo screditare tre secoli di storia della musica liturgica, magari con l’accusa di aver frantumato l’unitarietà del testo sacro. Un conto sono gli eccessi, un altro gli immancabili scambi ‘osmotici’ tra un ambito e un altro.

Dal Seicento, però, l’interesse dei compositori, in generale, è calamitato sempre più dalle forme e dai generi teatrali. Basti pensare che di Claudio Monteverdi (1567-1643), una delle più fulgide figure del tempo, siano rimaste

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solo tre messe. (31) Fra queste, la Messa In illo tempore (32) è «l'unica grande […] che sia stata scritta in Italia dopo Palestrina, […] che si riconnetta strettamente a un determinato atteggiamento ecclesiastico-liturgico: una Messa della Controriforma, anzi, forse ‘la’ Messa della Controriforma». (33) In lui, però, per la prima volta nella messa, «si tende maggiormente all'attuazione del significato [della parola], ma con ciò anche all'attuazione dell'espressione soggettiva». (34)

Un'ancora più profonda influenza dello stile teatrale nella liturgia, però, prese forma quando la struttura più libera del testo sacro si ritrovò 'imbrigliata' in forme musicali tipicamente operistiche: ciò avvenne con l'introduzione e il pieno utilizzo della struttura d'aria d'opera, la celebre «aria col da capo», con periodo centrale contrastante e ripresa variata (ABA'). Non solo, quindi, il testo dell'Ordinario, nella messa, sovrasta musicalmente le parti del Proprio; in più, al suo interno, è la stessa musica che prende il sopravvento sull'elemento al quale spetterebbe, invece, il massimo onore: il testo sacro. Ora, perciò, la celebrazione eucaristica, agli occhi dei fedeli, consiste principalmente nell'ascolto della messa musicale, che, di fatto, nello svolgimento rituale, attira su di sé la maggiore attenzione.

Già all'inizio dell'età barocca, però, il Caerimoniale episcoporum di Clemente VIII, (35) la nota raccolta di rubriche per la celebrazione della messa e dell'ufficio, secondo le direttive del Concilio di Trento (1545-1563), si era espresso più che chiaramente contro il suono «lascivo o impuro», contro le «parole che non abbiano attinenza con l'Ufficio che si celebra, o che siano profane o scherzose» e contro «altri strumenti musicali all'infuori dell'organo». (36)

La musica di chiesa, lo abbiamo visto, non solo non si conformò alle norme, ma spesso seguì orientamenti contrastanti con i documenti ufficiali. Per Benedetto XIV, perciò, l'Anno Santo del 1750 rappresentò un'ottima occasione per cercare di moderare e disciplinare gli eccessi dello stile operistico nella musica rituale. È suo, infatti, il documento magistrale più importante, dopo il Cerimoniale, che tratti il rapporto fra liturgia e musica: l'enciclica Annus qui (1749), praticamente rivolta solo ai vescovi dello Stato

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pontificio; (37) idealmente, però, a tutto il mondo cattolico. Nella lettera, il pontefice ritorna su importanti argomenti, già battuti dai suoi predecessori; in più, per la prima volta, si tenta di operare, dall'alto della Sede apostolica, una netta distinzione fra stile «ecclesiastico» e «teatrale». Questi sono i passi più significativi: supremazia della voce sugli strumenti e preferenza per il canto gregoriano, (38) allontanamento dal tempio di tutto ciò che è profano, mondano e teatrale, (39) perfetta comprensione del testo, (40) scelta degli strumenti idonei per l'accompagnamento. (41) Fatto rimarchevole è che l'organo non sia più considerato il solo protagonista strumentale dei sacri riti. Giungendo ad una vera e propria bipartizione, di seguito, schematicamente, sono sintetizzati, riportati e distinti i concetti principali dell'Enciclica.

Chiesa Teatro

voci strumenti

stile a cappella stile accompagnato canto gregoriano canto figurato

testo più intelligibile testo meno intelligibile

(organo, archi, fagotto) percussioni, ottoni, flauto, oboe, corde pizzicate

La maggioranza dei musicisti interpellati dal papa era favorevole al canto figurato e all'uso degli strumenti. Su una cosa, però, erano tutti concordi: «non v'è veruno, che non condanni il canto teatrale nelle chiese, e non richieda una gran differenza fra il canto ecclesiastico, e quello delle scene». (42) Il vero problema, però, era un altro: non erano state date indicazioni, anche generali, sulle caratteristiche che avrebbe dovuto possedere la nuova musica per la liturgica. Le restrizioni, sulla carta, erano forse troppo severe: non si poteva certo pretendere che tutto si fermasse al modello, pur inappuntabile, del canto gregoriano!

La realtà, perciò, rimase immutata, tanto che «il documento pontificio non ebbe eco [e] le sue prescrizioni furono disattese». (43) Nel secolo successivo, in più, gli eccessi raggiunsero punti al momento impensabili: «Il muro da abbattere era indubbiamente troppo solido ed una enciclica da sola, senza una cultura intorno, non era in grado di farlo». (44)

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Analogamente alla forma ‘teatrale’, la monumentalità non è certo sinonimo di a-liturgicità, tanto che un certo stile grandioso continuò ad evolversi, non solo in ambito cattolico romano, ma anche presso la Chiesa riformata. Lo stesso Johann Sebastian Bach (1685-1750), compositore di musica sacra per antonomasia, sembra ugualmente non distaccarsi da questo modus operandi. Esemplificativa è la celebre Grande Messa in si minore BWV 232 (il titolo non è originale), (45) che, fra l'altro, rappresenta anche uno dei casi più 'contorti' nella storia della musica.

Va prima di tutto specificato che la messa musicale luterana, detta «breve», comprende solo il Kyrie e il Gloria. Bach, protestante, fa pervenire la Messa (luterana) ad Augusto II, principe elettore di Sassonia, eletto re di Polonia col nome di Augusto III nel 1734. Augusto, però, è cattolico, mentre nel ducato la maggior parte dei sudditi è protestante. A Dresda, la capitale, coesistono perciò due cappelle di corte: quella cattolica, la più importante, e quella luterana.

L'offerta, con supplica, è del 1733, (46) ma la Messa inviata, come già accennato, non corrisponde alla versione Grande. È quasi certo, infatti, che la Hohe Messe non sia la realizzazione di un complessivo progetto iniziale: il Sanctus, ad esempio, fu composto per primo, come pezzo autonomo (1724), seguito dalla Messa e, ancora dopo, dalle altre parti (1747-1749). Il tutto sarebbe stato perciò riunito, dallo stesso Bach, negli ultimi anni di vita: «L'opera raccoglie in sé gli elementi sparsi di un discorso che venne affrontato non unitariamente, ma a sezioni ed in tempi diversi, attraversando la vita di Bach non come una meteora, ma come un corpo celeste […], restio ad abbandonare la zona gravitazionale di un pianeta» (47).

Il Sanctus fu certamente eseguito alcune volte, durante il rito protestante; di una possibile, anche se probabile, esecuzione dell'intera Grande Messa, però, non ci sono prove certe. (48)

Nel 1570, Pio V, con il celebre «Messale tridentino», (49) aveva ‘cristallizzato’ la liturgia cattolica romana, ma non la musica liturgica: la prima giunse ad una forma rituale compiuta e sostanzialmente ‘immutabile’, (50) mentre la seconda continuò ad andare avanti, influenzata dai tempi.

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Thrasybulos Georgiades, acutamente, fa notare che «mentre questa [musica] [...] aveva finora formato una componente della storia della liturgia stessa […], la composizione della Messa dal XVII secolo […] appartiene […] alla storia della musica soltanto». (51) La questione è complessa. La Grande, da un punto di vista liturgico, ha il solo 'difetto' di apparire eccessivamente lunga: noi, però, non possiamo giudicare, oggi, la liturgicità di un'opera del passato solo in base alla durata, fra l'altro 'misurata' con parametri del nostro tempo. (52) Forzando il ragionamento, quindi, si potrebbe affermare anche che i riti cattolici «tridentini» non fossero e non siano 'liturgici', perché limitavano e limitano la «partecipazione attiva» (53) del popolo, come invece è richiesto dalla messa di Paolo VI. Occorre sempre contestualizzare: a Lipsia, per esempio, al tempo di Bach, «l'ufficio liturgico principale si svolgeva secondo ritmi esecutivi oggi impensabili e palesemente assurdi; ma, al tempo stesso, non possiamo trascurare il fatto che il dies dominicalis era santificato nel vero senso della parola con una quasi ininterrotta presenza del fedele in chiesa». (54)

Dato per acquisito che la Grande Messa sia da includere nelle opere un tempo liturgiche, quindi, oggi, 'solo' sacre, sorge subito il controverso problema della sua confessionalità. Qui, però, risolve salomonicamente bene la questione Alberto Basso:

[Della Grande Messa] la sua natura cattolica emergerà quando si vorrà considerarla nei termini di un corpo unitario, elaborato lungo un ampio intervallo di tempo, svincolato dalla realtà storica e quasi isolato in un mondo astratto e ideale anche se agganciato alla tradizione della Missa concertata. Al contrario essa apparirà come una manifestazione del pensiero musicale luterano quando la si interpreterà a segmenti separati, ciascuno dei quali destinato non a coprire un unico servizio liturgico, bensì a soddisfare esigenze specifiche delle grandi festività in cui era consentito praticare la polifonia applicata ai testi latini dell'Ordinarium. (55)

Stilisticamente, nella Grande Messa si fondono armoniosamente passato e presente, adattamenti e «parodie»: (56) è un «documento e monumento quasi sconcertante di una prassi che sposa con radicale severità l'arcaismo e la modernità». (57) Dal punto di vista esegetico, si fa portavoce di un'universalità che sovrasta le divisioni e i settarismi, proponendo una sorta

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di 'ecumenismo' ante-litteram. La Hohe, infatti, «fonde in un unico corpo le due grandi espressioni del pensiero cristiano, la teologia della gloria di ascendenza cattolica e la teologia della croce di ascendenza luterana». (58)

Qualche dubbio sulla liturgicità, se forse è permesso avanzarlo nei confronti della Grande Messa, ancor di più sembrerebbe lecito per la Missa Solemnis in re maggiore op. 123 di Ludwig van Beethoven (1770-1827). (59) La monumentalità e grandiosità sono riprese da Bach: il Kantor, però, si fa portavoce oggettivo della collettività dei fedeli; il Titano, invece, interpreta in prima persona e rende 'espressivo' un testo di per sé immutabile e oggettivo. Anche qui, il confine tra l’intervento personale del compositore e la ieraticità testuale non è facilmente definibile. La Hohe, influenzata dalla «cantata», raggiunge un felice equilibrio fra armonia e contrappunto, parti vocali e strumentali; la Solemnis, invece, risente della «sinfonia» e fa prevalere l'aspetto strumentale su quello vocale. Oltre alla durata, smisurata per la nostra percezione del tempo, è lecito ‘bollare’ il monumento beethoveniano come «non liturgico», solo perché è stato interpretato soggettivamente?

Per Beethoven, l'occasione di comporre una messa era veramente speciale: la celebrazione per l'investitura dell'arciduca Rodolfo, suo amico e allievo, figlio del granduca di Toscana Pietro Leopoldo (nel 1790 sarà Leopoldo II, imperatore d'Austria), al seggio vescovile di Olomouc (1819). Beethoven, perciò, concepì la Missa proprio per la liturgia. Vi lavorò dal 1818 al 1823, quindi non riuscì a terminarla per la data prefissata: la Solemnis, perciò, fu eseguita solo in veste concertistica. Per questo motivo, principalmente, dai più non è considerata liturgica; ma un lavoro potenzialmente liturgico, opportunamente contestualizzato, può essere considerato tale a tutti gli effetti, anche se non è mai stato eseguito durante i sacri riti? Pensiamo proprio di sì.

In effetti, i riferimenti specifici al melodramma, come avviene in certa musica coeva, nella Missa sono allontanati. Nell'organico, prima di tutto, è utilizzato un quartetto vocale, che si contrappone alla massa del coro, e non singole voci solistiche; in più, è richiesto uno strumento come l'organo, per eccellenza liturgico. La forma, poi, non prevede numeri chiusi, all'interno di

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ogni brano: il testo sacro, perciò, è ‘salvaguardato’ nella sua interezza. Nella scrittura, infine, «non soltanto vi è il rifiuto di una vocalità profana, ma è evidente il ritorno ad un clima di austerità palestriniana e addirittura gregoriana. […] Nello stesso spirito di osservanza formale, il ricorso al contrappunto fugato è attuato in maniera sistematica». (60) La Solemnis, perciò, rappresenta un'«equilibrata unione tra arte e sacralità, umanità e trascendenza, dogma e slancio spirituale». (61)

Oltre a Beethoven, il genere della sinfonia non avrebbe potuto non influenzare anche gli altri due giganti del Classicismo viennese: Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) e Franz Joseph Haydn (1732-1809). In Mozart - si sottolinea la Grande Messa in do minore K 427, (62) rimasta incompiuta - l'influsso operistico, sempre controllato, è evidente, specialmente nei soli virtuosistici. In Haydn, invece, il coro, quindi il testo, riceve nuovamente una certa attenzione.

«Arte - impegno sociale - religione»: (63) questi sono gli ideali perseguiti da Franz Liszt (1811-1886). La ricerca di un perfetto equilibrio, mai risolto, fra queste entità, occupa in pratica tutto il corso della sua vita: di volta in volta, infatti, si troverà a privilegiarne uno, a scapito degli altri; tanto che «in qualsiasi momento e spesso nell'ambito di una stessa opera, si avvertono inversioni di tendenza e spostamenti di accento». (64) Già nel 1834 scrisse Sulla musica sacra del futuro, (65) dove tentò di mediare il mondo del teatro e della chiesa, attraverso un grandioso ma visionario progetto di educazione musicale di tutte le classi sociali, per mezzo di un repertorio creato ad hoc da grandi artisti: musica non per il pubblico, ma per il «Popolo e Dio». (66) In seguito, avvicinandosi al Movimento ceciliano, i modelli assoluti saranno da lui considerati Palestrina e Lasso. Basti pensare, infatti, che accanto ad un’opera di grande impegno come la Missa solemnis zur Einweihung der Basilika in Gran (1855), per soli, coro e orchestra, (67) si pone anche la più 'umile' e cecilianamente liturgica Missa choralis organo concinente (1865), per coro a 4 voci e organo, (68) dove sono fra l'altro utilizzate melodie e armonie dal sapore modale e gregorianeggiante. Fatto sta che i rapporti fra l'abate Liszt, i ceciliani e la Curia non furono sempre idilliaci, probabilmente

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anche per le vicissitudini legate a certe scelte di vita e correnti di pensiero abbracciate in passato: di certo, «la Chiesa […] non voleva un'arte che fosse espressione della vita e di tutte le sue contraddizioni». (69)

I tempi stavano maturando, in fatto di stile musicale liturgico, per un avvicendamento. Non a caso, in Germania, Francia e Italia, una schiera sempre più fitta di musicisti provava a scardinare il sistema 'operistico-cultuale', in favore di una maggiore 'liturgicità' della musica sacra: adeguata rivalutazione del canto gregoriano, del contrappunto palestriniano e dell'organo. I nuovi lavori, quindi, sarebbero stati caratterizzati, soprattutto, da una maggiore sobrietà, tanto nella scrittura quanto nelle dimensioni. Pochissimo tempo dopo la Choralis, nel 1868, in Germania, a Ratisbona, fu fondata l'«Associazione Santa Cecilia» (Allgemeiner Cäcilienverein), (70) dal nome della santa che, fin da Medioevo, era ed è tutt’oggi ritenuta la patrona della musica.

B)LA MESSA ORGANISTICA SINO ALLA FINE DELL'OTTOCENTO

Io mi rivolsi attento al primo tuono, e «Te Deum laudamus» mi parea udire in voce mista al dolce suono. Tale imagine a punto mi rendea

ciò ch’io udiva, qual prender si sòle quando a cantar con organi si stea; ch’or sí, or non s’intendon le parole. (71)

La Commedia dantesca è il primo documento scritto che sembrerebbe testimoniare, seppure indirettamente, la prassi organistica, in campo liturgico, della cosiddetta «alternanza». Specifica del genere sacro, questa pratica, fra gli strumenti diversi dalla voce, è peculiare dell’organo: consiste nella sostituzione di versetti o sezioni di testo in canto con la sola musica organistica. Sempre in ambito liturgico, in rapporto alla schola, oltre alla possibilità di alternare, l’organo poteva anche «intavolare» le parti vocali per «raddoppiare» il coro, «realizzare» il basso continuo e «accompagnare» con una certa indipendenza. Da solo, invece, poteva sempre «intavolare», questa

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volta per «diminuire», e suonare pezzi originali o improvvisati in determinati momenti. «È risaputo che l'organo non accompagnava il canto fermo liturgico», limitandosi ad avvicendarsi con esso. (72)

Fin dai primordi della liturgia cristiana, la cantillazione dei Salmi, oltre che in modo «diretto», quello più semplice e antico, cioè affidato di seguito ad un unico coro o solista, poteva essere ‘orchestrata’ fra due gruppi contrapposti. Proprio da questa modalità esecutiva, detta «antifonale», potremmo far derivare la prassi dell’alternanza: con il tempo, infatti, uno dei due cori avrebbe continuato a proporre il canto piano, cioè il gregoriano, mentre all'altro, invece, sarebbe stata affidata un'elaborazione in canto fratto, cioè misurato, più complessa, quindi di più difficile esecuzione. (73) Questa tecnica fu utilizzata ininterrottamente per diversi secoli, dal Medioevo all’inizio del Novecento, con un lento ma inesorabile sviluppo. Già dall’Ars antiqua, perciò, la contrapposizione fra i due cori, schola da una parte, monaci e chierici dall’altra, era del tutto ‘sbilanciata’ a favore dei primi, sia per l’apparato polifonico-contrappuntistico sia per la tecnica esecutiva sia per la durata degli interventi.

«Dalla supplenza occasionale all'impiego costante dell'organo alternante, il passo deve essere stato breve, almeno nelle celebrazioni meno importanti»; (74) così come poteva apparire abbastanza scontato «intabulare», cioè 'trasporre' sulla tastiera, le quattro parti vocali che lo strumento andava a sostituire. In effetti, le prime messe per organo si basano su un canto fermo e utilizzano da 2 a 4 parti, proponendo il 'classico' modello corale composto di soprano, contralto, tenore e basso.

Nelle messe, gli autori hanno fin da subito preferito affidare all'organo, in alternanza al gregoriano, le parti dell'Ordinarium piuttosto che quelle del Proprium. L'organo, naturalmente, aveva altre occasioni per suonare da solo: in alcuni momenti di propria competenza; in altri, supplendo alla mancanza della schola; nei casi, infine, in cui un particolare rito si fosse protratto più a lungo, inserendo, con l'improvvisazione, un elemento musicale di completamento, aderente alla liturgia.

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Alternandosi alle voci, in pratica, l’organista suonava determinate sezioni del Kyrie, del Sanctus e dell'Agnus Dei e determinati versetti del Gloria e del Credo. Gli altri versi o sezioni erano cantati dal coro all’unisono. Fino a tutto il Cinquecento, le parti riservate all'organo si basavano comunemente sulla melodia gregoriana che andava a sostituire, 'cristallizzata' in cantus firmus.

Nel 1570 - è già stato accennato - nasce il primo messale che uniforma la liturgia della celebrazione eucaristica in ambito cattolico romano. L'intento era di dare coesione ai riti e di eliminare ogni possibile divergenza, in ambito teologico e cultuale, per affrontare con la maggiore forza possibile lo 'strappo' della Riforma protestante. Al Missale Romanum, promulgato da Pio V, avrebbero dovuto piegarsi tutti quei riti che, al momento, non potevano vantare una solida e duratura tradizione.

Corollario del messale sono i cosiddetti «cerimoniali», cioè raccolte di norme, avvertenze e suggerimenti, in forma di rubrica, per il corretto svolgimento tanto delle varie celebrazioni liturgiche quanto dell'ufficio divino nelle ore canoniche: «Le norme rubricali […] aiutano a capire quanto fossero complesse e articolate le prescrizioni da seguire durante le festività». (75) Cerimoniali sono quello «del papa», quello «dei vescovi» e quelli particolari di una data diocesi o un certo ordine monastico. Il primo non contiene alcun riferimento alla musica e agli esecutori. Gli altri due, invece, descrivono i compiti del coro e dell'organista, presentando anche semplici riferimenti melodici, per le orazioni del celebrante e per il Confiteor. Scartando il terzo, perché troppo circoscritto, soffermiamo la nostra attenzione sul secondo.

Il primo Caeremoniale episcoporum ‘ufficiale’, già citato, vide la luce sotto Clemente VIII, nel 1600: è anche il più antico, fondamentale documento che detta regole universali per l'utilizzo dell'organo nella messa e nell'ufficio. (76) In pratica, a parte qualche ritocco non sostanziale, mantenne il proprio valore fino al XX secolo.

Le rubriche riguardanti il coro e l'organo si trovano concentrate nel cap. XXVIII: «L'organo, l'organista, i musici e i cantori e le norme che devono osservare nelle funzioni sacre». (77) Per quanto riguarda l'uso dello

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strumento durante la celebrazione eucaristica, si precisa che «in tutte le domeniche e nelle feste che ricorrono durante l'anno, nelle quali la gente usa astenersi dalle opere servili, è conveniente servirsi in chiesa dell'organo e dei cantori», ma non durante l'Avvento e la Quaresima. All'interno di questi due tempi, però, fanno eccezione la terza domenica di Avvento, detta Gaudete, la quarta di Quaresima, detta Laetare, e le feste e ferie «che sono celebrate solennemente dalla Chiesa», come l'Annunciazione, il Giovedì e Sabato Santo «e ogni volta che occorre una celebrazione solenne e lieta per qualche importante motivo».

Vescovi, arcivescovi, cardinali e legati apostolici devono essere sempre accompagnati dal suono dell'organo, sia quando entrano in chiesa, «fino a quando i suddetti abbiano pregato e si debba dare inizio alla sacra celebrazione», sia quando hanno terminato ed escono. Ciò testimonia l'uso dello strumento anche al di fuori della liturgia, per grandi 'preludi' e 'postludi' alla messa, riservati a particolari occasioni. Il suono dell'organo, inoltre, s’identifica con le più alte cariche della dignità ecclesiastica e le 'riveste' di un'aura mistica.

Nella pratica dell'alternanza, l'organo non deve suonare nel primo versetto dei cantici e nel primo e nell'ultimo degli inni; compresi quelli «nei quali ci si deve inginocchiare» e il Gloria Patri. Ciò anche se nel versetto precedente l'organo abbia già taciuto per effetto della medesima alternanza. Queste parti, naturalmente, necessitano di essere cantate «in modo intelligibile dal coro». Tutte le volte che risuona un versetto organistico, di contro, «qualcuno del coro deve pronunciare in modo intelligibile ciò a cui l'organo deve rispondere». Si vedrebbe realizzata la più alta aspettativa se «un cantore cantasse la stessa cosa assieme all'organo, con voce chiara». In pratica, quando lo strumento suona, il testo corrispondente al versetto supplito deve essere chiaramente proclamato. Il seguito è semplicemente sconvolgente: se si auspica che un cantore canti assieme all'organo, infatti, significa che una delle sue funzioni, in antico, era anche quella di sostenere la voce nel canto piano. È pur vero che il Caeremoniale si riferisce ai versetti degli inni e dei cantici, quindi all'ufficio divino, ma il problema, nella sostanza,

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rimane. La verità è che poca luce è stata fatta su questo punto, dando per assodato, dai più, che l'organo, fin dal Medioevo, non si unisse mai alla schola per accompagnarne l'esecuzione in gregoriano. Un altro problema riguarderebbe la registrazione organistica: come sarebbe possibile, ad esempio, utilizzare il «Ripieno», (78) quando le parole devono essere ben intese? Dato che fra teoria e prassi c’è sempre una certa divergenza, la soluzione potrebbe essere il risultato di una pratica mediazione: «Il significato del testo, nonostante le raccomandazioni, forse non giungeva sempre ai fedeli, ma l'espediente della recitazione manteneva l'integrità formale del rito». (79)

Il Caeremoniale non rivoluziona la liturgia da un punto di vista musicale; semmai, riapprova formalmente una disciplina, quella dell'alternanza, già praticata e unanimemente apprezzata nella pratica cultuale. L'unica, significativa differenza, rispetto al passato, riguarda la proibizione dell'intervento organistico nel Credo, perché le parole del Simbolo della fede cattolica risuonassero chiaramente, come risposta alle dottrine protestanti. In effetti, sino alla promulgazione dei documenti ufficiali tridentini, il Credo alternatim era praticato fino a tutto il Cinquecento. (80)

La prima testimonianza della pratica dell'alternanza organistica, in notazione musicale, si ha nel celebre Codice 117 Bonadies, meglio conosciuto come Codex Faenza, (81) conservato nella Biblioteca Comunale dell'omonima città, databile non prima degli inizi del Quattrocento. Il redattore è sconosciuto (sono stati proposti, senza prove assolute, alcuni nomi), ma le trascrizioni e i modelli - brani liturgici su cantus firmus gregoriano e intavolature da originali francesi e italiani - sono eterogenei per datazione, provenienza, genere e notazione. Per la messa, sono presenti versetti, a due voci, da alternare con il canto piano, non espressamente destinati all'organo, ma a lui quasi certamente riconducibili. (82) Per la celebrazione eucaristica, l'alternanza si limita all'Ordinarium della Messa IV «Cunctipotens Genitor Deus», alle sole parti del Kyrie e del Gloria, presenti in diverse versioni. Il canto fermo gregoriano è dato alla mano sinistra, mentre alla destra sono affidati raffinati disegni ornamentali. «La maturità che si riscontra in questi

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versetti faentini fa pensare ad una tradizione, di cui ignoriamo tutto dei termini pregressi» (83)

Analogamente a Machaut per la messa vocale, il primo Ordinario completo, per l'alternanza organistica, fu composto verso il 1520 dal tedesco Hans Buchner (1483-1538), all'interno del suo Fundamentum. (84) La Messa, da eseguirsi «ad penthecosten», si compone di sei versetti per il Kyrie (uno aliud), sei per il Gloria, quattro per il Sanctus e due per l'Agnus. La tecnica del pedale è abbastanza sviluppata e l’andamento del basso partecipa della generale scrittura contrappuntistica. Per ogni brano, il «cantus choralis» è posto o solo nel tenore o basso o discanto; oppure in alcune o tutte le parti, «permutato», cioè frase per frase, o «fugato», cioè inciso per inciso, in imitazione (canonica). L'uso di due o tre voci, invece di quattro, e la versione manualiter, invece che pedaliter, sono associati a particolari versetti, che richiedono una partecipazione musicale più 'intima', in sintonia col testo: il Christe, il Qui sedes del Gloria, l'Osanna secundum del Sanctus e l'Agnus Dei ultimum. Si noti l'analogia con la coeva pratica vocale liturgica.

Nell'alternanza, una diversa assegnazione dei versetti, al coro o all'organo, è determinata da situazioni storiche, geografiche e culturali: il Gloria si presenta con il maggior numero di varianti; al contrario, il Kyrie tende a mantenere lo stesso schema. Questo si compone, in tutto, di nove versetti: tre «Kyrie», tre «Christe» e di nuovo tre «Kyrie». Nelle messe per organo, di regola, troviamo perciò cinque versetti, da alternarsi con la schola nel modo seguente:

Testo Schola (gregoriano) Organo (elaborazione)

Kyrie, eleison X Kyrie, eleison X Kyrie, eleison X Christe, eleison X Christe, eleison X Christe, eleison X Kyrie, eleison X Kyrie, eleison X Kyrie, eleison X

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Il Concilio tridentino, il Messale di Pio V e il Cerimoniale dettero un nuovo impulso all'assetto della liturgia cattolica: la musica, di riflesso, non ne rimase certo immune. Proprio dai primi anni del Seicento, infatti, specialmente in Italia, fiorì una rigogliosa trattatistica, per quanto possibile in linea con i dettami della Chiesa, mirata alla formazione dei 'nuovi' organisti.

Sintesi fra praticità e intento didattico è L'organo suonarino (1605) di Adriano Banchieri (1568-1634). (85) L'originalità dell'opera consiste nello strutturare i versetti con un solo pentagramma e una sola voce: «Un basso in canto figurato suonabile e cantabile, […] trasportato e tradotto dal canto fermo fidelissimamente». (86) La preoccupazione maggiore è quella di evitare gli «scandoli», causati da organisti inesperti, che non rispondono adeguatamente, cioè con lo stesso modo o tono, al coro. Per la sicurezza della risposta «in tono», perciò, il basso è tratto dalla sezione in gregoriano che va a sostituire e trasformato in canto fratto. Le poche alterazioni sono utilizzate in maniera analoga agli odierni bassi d'armonia. Per rendere l'esecuzione fruibile dal maggior numero possibile di organisti, il Banchieri prospetta due tipologie di realizzazione: la prima prevede la semplice 'armonizzazione' dei bassi; la seconda, invece, la realizzazione contrappuntistica di «fughe, che fanno imitazione al canto fermo». (87) Quest'ultima, naturalmente, è da preferirsi. Tra l'altro, il tipo di «basso in canto figurato» o «corale» è «singolare, ricorrente solo in Banchieri e sinora sfuggito all'attenzione degli studiosi». (88)

Per la parte dedicata alla messa, L'organo suonarino contiene tutti i versetti dell'Ordinario, compresi quelli del Credo (89), però «avertendo che non sempre si canta, né tampoco in molte chiese usasi suonare». (90) Sono presenti le «tre variazioni di messe cantate [che] ritrovansi aprobate entro il Messale romano»: la Messa della Madonna, la [Missa] Apostolorum e la [Missa] In dominicis diebus, (91) cicli di messe, cioè, che la consuetudine e la norma hanno decretato come le più 'popolari'. In più, ne aggiunge una dell'«Advento». Nelle edizioni del 1611 e del 1622 sono proposte ancora altre messe, per diverse circostanze.

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Quando l'Ordinario è affidato alla schola, si ribadisce, l'insieme dei brani è denominato «messa vocale». La «messa organistica», invece, comprende sempre le parti dell'Ordinario, sì, ma anche quelle del Proprio, sia quando l'organo, come già accennato, intavola brani vocali sia quando gli sono affidati pezzi originali. Per lo strumento, la differenza sostanziale è questa: l'organo esegue sempre le parti dell'Ordinarium in alternanza; quelle del Proprium, invece, in alternanza o, perlopiù, da solo, eventualmente supplendo o integrando l'intervento vocale.

Nella celebrazione eucaristica, da un punto di vista musicale, il sopravvento era stato preso dall'Ordinario. Ne L'organo suonarino, invece, si assiste ad un'inversione di tendenza, poiché anche tutte le parti del Proprium sono degnamente rappresentate. Fra l'altro troviamo le tre principali sequenze, caso non certamente frequente, sotto forma di versetti da alternare. (92) Sempre nel Proprio, ma per l'esecuzione senza alternanza, cioè affidata in toto all'organo, il Banchieri presenta ben otto sonate ‘a quattro’, già 'realizzate', «comode per sonare così in partitura, e ancora facili alle mani per intavolarli»: (93) i brani sono opportunamente concepiti per il Graduale, l'Offertorio, l'Elevazione e il Postcommunio.

Questo equilibrio finalmente raggiunto, fra Ordinarium e Proprium, non si mantenne, però, per molto tempo: sarebbe stato destabilizzato, infatti, da una maggiore importanza musicale attribuita al secondo. Questo capovolgimento di fronte è già ravvisabile solo tre decenni dopo L'organo di Banchieri, nell'opera che è considerata il capolavoro assoluto della letteratura organistica liturgica: i Fiori Musicali (1635) di Girolamo Frescobaldi (1583-1643). (94) Sono qui trattate, com’è oramai consuetudine, le tre messe «della Domenica», «delli (sic) Apostoli» e «della Madonna». L'Ordinario, però, è rappresentato solo dal Kyrie: qui, in pratica, sono destinati gli unici versetti per l'alternanza della raccolta. È pur vero che il numero dei versetti 'ordinari' è pressoché equivalente a quelli in alio modo - l'esecutore, quindi, ha una possibilità di scelta abbastanza variegata -, ma questi, in totale, sono 'solo' 26, su 96 brani complessivi dell'opera. Nei Fiori, in pratica, l'Ordinarium occupa il 27% del totale e rappresenta, perciò, poco meno di un terzo del

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Proprium. Non è stata ancora indagata a fondo questa inversione di tendenza, controcorrente rispetto all'andamento della messa vocale. Probabilmente, il generale utilizzo di tre sole messe aveva 'saturato' la circolazione di nuove versioni scritte, essendo la maggior parte degli organisti oramai in grado di improvvisare, in modo perlomeno accettabile, i 'soliti' versetti.

Il Proprio, quindi, diventa il terreno di sperimentazione di nuove soluzioni compositive in ambito strumentale-liturgico, che nei «Fiori musicali costituiscono una delle prime e certo la più autorevole codificazione scritta». (95) Una di queste riguarda la sostituzione degli introiti vocali con le Toccate avanti la messa: «Conformemente alla loro designazione, spetta loro il compito di annunciare e aprire il servizio divino e, al tempo stesso, di preparare il Kyrie, cui esse sono strettamente legate per la scelta del modo e, in un caso (quello della Messa della Domenica), anche tematicamente». (96)

La connessione Toccata-Kyrie, contrasto tra 'libertà' e 'rigore', potrebbe rappresentare, in nuce, quello che anacronisticamente corrisponde al tipo 'Preludio-Fuga'. Tre casi sono ancora più convincenti: il primo riguarda la Canzon dopo l'Epistola dalla Messa degli Apostoli, dove il 'Preludio' («Adasio»), contrappuntistico, è però poco evidenziato rispetto alla 'Fuga' («Alegro»). Gli altri due, invece, sono esemplari: due binomi Toccata e Recercar, dalla Messa degli Apostoli e dalla Messa della Madonna (alio modo), da eseguirsi «post il Credo», cioè all'Offertorio. La Toccata, qui, introduce la liturgia «dei fedeli», parallelamente a quella «avanti la messa», che prepara, invece, i riti «dei catecumeni».

«È però nei brani destinati a commentare il momento culminante del mistero eucaristico, le Toccate per l'Elevazione, che l'esegesi musicale frescobaldiana raggiunge il massimo approfondimento: […] una vera e propria summa di affetti e simboli al servizio della liturgia», (97) che si attua pienamente traducendo in musica gli avvertimenti contenuti nel Transilvano (1609) di Girolamo Diruta (ca. 1550 - post 1612), cioè «imitando con il sonare li duri & aspri tormenti della Passione». (98)

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Alla fine del secolo, Oltralpe, un altro capolavoro è senz'altro rappresentato dalla prima e unica opera, dedicata all'organo, di François Couperin «le Grand» (1668-1733): Pieces d'orgue, consistantes en deux Messes, l'Une à l'usage ordinaire des Paroisses, […] l'Autre propre pour les Convents (sic) [...]. (99) In queste due messe, per la «distribuzione degli interventi organistici Couperin rispettò i dettami del Caeremoniale Parisiense (1662), (100) cui si erano attenuti quasi rigorosamente i musicisti che nelle loro raccolte avevano fissato i caratteri della messa per organo francese, strutturandola come una suite contaminata da elementi della musica vocale e strumentale profana». (101)

Le messes presentano la stessa quantità di pezzi, 20 per l'Ordinario, corrispondenti ai medesimi versetti (102), e solo uno per il Proprio, cioè l'Offertoire. Comparando gli stessi 'numeri' (primo Kyrie con primo Kyrie ecc.), però, si evidenzia subito una certa diversità di scrittura: la prima Messa è di più ampie dimensioni, più elaborata e di più difficile esecuzione. La diversa destinazione ha forse suggerito a Couperin due approcci di tipo funzionale-liturgico: la Messe destinata alle parrocchie presuppone un grandioso apparato monumentale, che rispecchia, in ambito cultuale, lo sfarzo della corte del Re Sole; quella destinata ai conventi, invece, si adegua ad un clima più 'interiorizzato', restio ad interferenze di natura mondana.

Non è un caso, infatti, che la Messe des Paroisses utilizzi vari centri tonali (103), mentre quella pour les Convents si avvalga di un'unica polarizzazione. Probabilmente, non è neppure casuale che solo i versetti della prima, anche se non tutti, si basino effettivamente sulle rispettive melodie gregoriane, quelle della Messa «Cunctipotens Genitor Deus», già utilizzata nel Codice di Faenza; mentre la seconda appaia come svincolata dall'utilizzo del cantus firmus 'secolare', forse perché gli ordini monastici si servono spesso di riti particolari, peculiari della loro regola. Ad ogni modo, i versi della Messa delle Parrocchie, pur utilizzando con una certa regolarità il canto fermo, per la durata e l'elaborazione sono in realtà dei veri e propri pezzi, ben più ampi di quelli apparsi fino allora: come se il versetto, nella sua

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sinteticità, fosse stato invaso dallo spirito di ricerca ed elaborazione del Proprium organistico.

La Messe des Paroisses è stata senz'altro pensata per il grandioso organo parigino dell'Église Saint-Gervais, dove Couperin era organista dal 1685: un Matthieu Langhedul del 1601, ampliato a più riprese da altri organari, con quattro manuali e 38 registri. (104) La registrazione, in Francia, come del resto nelle altre scuole nazionali, è della massima importanza, perché, fra l'altro, permette di esaltare quei momenti in cui la scrittura musicale si fa particolarmente espressiva: «Couperin enfatizzò questi e altri punti attraverso l'uso esperto dei registri, seguendo la propria sensibilità e le convenzioni della scuola organistica francese, nella quale essi erano tanto importanti da venire utilizzati come titoli dei pezzi» (105).

In effetti, ci sono sì nelle Messes doppi titoli, associati al testo del corrispettivo versetto e alla registrazione utilizzata, ma è anche presente - è il caso più frequente - la sola indicazione dei registri. Nella Messa delle Parrocchie, ad esempio, troviamo il Benedictus, Chromhorne en Taille, ma anche il solo Dialogue sur les Trompettes, Clairon et Tierces du G[rand] C[lavier] et le Bourdon avec le Larigot du Positif, corrispondente al quarto versetto del Gloria; in quella dei Conventi, analogamente, la Fugue sur la Trompette, 2e Couplet du Kyrie, ma anche il solo Recit de Cornet, corrispondente, invece, al secondo versetto del Sanctus.

Il timbro, ancor più che in passato, diviene tratto caratteristico associato alla maggior parte dei versetti, in modo inequivocabile o con varianti non sostanziali: il primo di ogni parte (Kyrie, Gloria, Sanctus, Agnus), ad esempio, è sempre un Plein jeu; nel Kyrie, il secondo versetto è una Fugue sur les jeux d'anches o sur la Trompette, il terzo («Christe») un Recit de Chromhorne e così via.

Il Grand jeu (Grands jeux) è la registrazione caratteristica dell’Offertorio: densa, brillante e 'graffiante' allo stesso tempo. Si compone di una poderosa combinazione di fondi, ance e mutazioni, con esclusione assoluta della Fourniture (è il corrispettivo francese delle file superiori del Ripieno italiano). Escludere la Fourniture significa accantonare quella sonorità associata, per

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antonomasia, al sacro e alla liturgia. In effetti, il Grand jeu è 'antitetico' al Plein jeu (Ripieno completo): nell'Offertoire, il primo rappresenta forse l'orchestra che irrompe nel Tempio, non direttamente, ma proprio attraverso quel «Re degl'istrumenti ragionevolmente tenuto nelle Chiese sacre di Dio, per rendere lode et honore a Sua Maestà». (106) Nell'Offertorio, che è il brano di maggiore durata e importanza, centro 'cronologico' e musicale della messa organistica francese, l'organo imita l'orchestra. Il Plein jeu accompagna i vescovi e i dignitari ecclesiastici, rappresentanti di Dio sulla Terra: il Ripieno, quindi, è la sonorità più vicina al Divino. Il Grand jeu, invece, associato al «ritmo francese» (lunga-breve), potrebbe rappresentare il sovrano 'terrestre' per eccellenza, quel Luigi XIV che, nella messa, per lo spazio di pochi minuti, occupa il posto del Sovrano Celeste.

Dal Seicento, quindi, prevale a poco a poco una sempre maggiore libertà, sia nei versetti sia nei pezzi a solo: all'inizio fu abbandonato il canto fermo, poi furono conservati solo brevi incisi della melodia gregoriana, infine si mantenne solamente l'impianto modale. Lo stile compositivo, da contrappuntistico passò all'armonico e al genere della melodia accompagnata; dall'incerta direzione modale ci si orientò verso i più decisi collegamenti della neonata tonalità.

Dal Settecento, poi, la scrittura teatrale, com’era accaduto per il coro, influenzò anche la musica organistica: si cercò di 'imitare' l'orchestra e lo stile melodrammatico; si utilizzarono figurazioni riprese dal 'profano' clavicembalo e dal nuovo fortepiano, quali l'arpeggio, il basso albertino «ed altre gallanterie, le quali oltre che non sono adattate alla qualità, ed al carattere dell'istromento sono indecenti al luogo ed al tempo». (107)

Nell'Ottocento, infine, in particolare nella nostra Penisola, l'evidente contrasto fra il versetto di tipo operistico-teatrale, affidato all'organo, e le risonanze modali del canto gregoriano, riservate, invece, alla schola, strideva in modo insanabile. Non pochi autori, naturalmente, riuscirono a mantenere per lo strumento una certa scrittura imitativo-contrappuntistica, ritenuta più 'ecclesiastica'; la maggior parte dei compositori, però, aderì in pieno al gusto imperante dello stile melodrammatico, tanto che si fecero sempre più

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frequenti riduzioni e adattamenti organistici di celebri preludi e arie d'opera: di ciò «ne erano soddisfatti i parroci, nulla avevano da obiettare la maggior parte dei vescovi, ne era esilarato il popolo». (108) Sostituendo allo stile teatrale quello odierno 'di consumo', l'analogia tra il XIX secolo e i nostri tempi, da un punto di vista liturgico-musicale, è semplicemente sbalorditiva.

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