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CAPITOLO TERZO

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CAPITOLO TERZO

IL DELITTO D’ONORE TRA CULTURA E

RELIGIONE

SOMMARIO: 3.1. L’evoluzione del concetto di

cultura. 3.1.2. L’antropologia culturale. 3.2.

Dalla cultura alla religione: la questione delle

identità. 3.3. L’onore tra religione e cultura

islamica. 3.3.2. Il Pakistan e il karo-kari.

3.1. L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI

CULTURA.

Come ripetutamente accennato, è difficile tracciare la storia completa del concetto di cultura in quanto, nel corso dei secoli, si sono succedute molte teorie filosofiche che hanno associato a tale termine caratteri e connotazioni diverse.

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Il termine cultura deriva dal latino colare, ovvero “conservare, attendere e prendersi cura di qualcosa”1.

Nel linguaggio corrente, però, tale termine è tuttora influenzato da due espressioni greche e latine: paidèia e humanitas, ovvero la concezione in base alla quale l’uomo può sentirsi pienamente realizzato attraverso una certa educazione e formazione. La cultura classica, infatti, cercava di mirare alla realizzazione dell’umanità di uomini liberi e di precluderla, al tempo stesso, agli schiavi.

La cultura sarà ben presto affiancata da un nuovo termine, la civiltà. Civiltà deriva dal latino civilitas che significa appartenere ad una certa struttura politica della città, condividere i modi e le usanze urbane in contrapposizione alla vita rurale. Cultura e civiltà caratterizzeranno, infatti, la storia e la filosofia delle scienze umane e si scontreranno in particolar modo nel pensiero francese e tedesco a partire dal XVIII secolo2.

Sembra opportuno affermare che il termine cultura abbia cominciato ad inserirsi nella vita sociale dell’individuo, a partire dal XVIII secolo. È emerso per la prima volta nel Dictionaire de l’Acadèmie Française, dizionario nel quale il concetto di cultura ha assunto vari significati: cultura delle arti, delle letteratura, della scienza.

1 Seyla Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale.

Eguaglianza e diversità nell’aerea globale, Il Mulino, p. 17.

2 Cfr. Gianluca Famiglietti, Diritti culturali e diritto della cultura. La

voce “cultura” dal campo delle tutele a quello della tutela,

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Con il passare del tempo, durante l’Illuminismo, l’idea di cultura venne associata al progresso, all’evoluzione e alla trasformazione: al centro del pensiero filosofico, infatti, vi era la Ragione dell’uomo come strumento dell’educazione e l’idea di progresso derivava dalla cultura che quest’ultimo possedeva e aveva acquisito negli anni; la ragione, identificata come strumento dell’educazione, non privilegiava più soltanto dotti e aristocratici bensì divenne patrimonio universale. Il progresso nasceva dall’istruzione dell’uomo, quindi dall’estensione della cultura stessa.

Successivamente, nella Francia del XVIII secolo, si sviluppò una specifica accezione di cultura: civiltà o civilisation. I due termini (cultura e civiltà) pur facendo riferimento a stessi concetti fondamentali, non sono coincidenti. Infatti, il termine civilisation che, nel secolo precedente esprimeva il “buon gusto” e le “buone maniere”, raffigurava la cultura secondo un significato puramente illuministico, ovvero come patrimonio dell’umanità. La civilizzazione si inseriva in un processo che permetteva all’uomo l’allontanamento dall’ignoranza e dall’irrazionalità; permetteva il diffondersi di un progresso più collettivo che individuale e dunque collegato a riforme sociali, legislative, educative. Gli elementi tipici della civilisation erano le istituzioni politiche, le opere dello spirito e dell’ingegno, le tecniche del diritto.

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Nella Francia del XIX secolo la cultura non è solo strumento individuale del singolo uomo ma è uno strumento collettivo, è l’insieme dei caratteri di una comunità e per questo motivo si avvicina sempre più al concetto di civilisation, pur continuando a distaccarsene3.

Parallelamente, in Germania, la situazione fu diversa. Il termine che venne utilizzato dai romantici tedeschi fu kultur: tale concetto venne adottato dalla borghesia intellettuale tedesca per distinguersi nettamente dall’aristocrazia. Di conseguenza, i valori che caratterizzavano la borghesia intellettuale, come ad esempio valori spirituali legati all’arte, alla scienza, alla filosofia e alla religione, vennero distinti e contrapposti ai valori tipici dell’aristocrazia. In questo modo, la cultura come accezione tipica affermata dalla borghesia, si scontrava con la civilizzazione (zivilisation) propria dell’aristocrazia. L’antitesi “cultura – civilizzazione” caratterizzerà tutto il XVIII secolo tedesco: se da una parte, la kultur venne associata ai valori tipici della borghesia, dall’altra, la zivilisation corrispondeva ad una superficialità, omogeneità e mancanza di originalità tipica dell’aristocrazia. La kultur esprimeva la “natura umana”; la zivilisation esprimeva un complesso di valori esteriori e convenzionali. La borghesia criticava il fatto che l’aristocrazia trascurasse arte e

3 Cfr.

http://www.coris.uniroma1.it/materiali/9.51.10_Cultura%20moderna_1 .pdf.

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letteratura per incentivare una civilizzazione superficiale. Questo portò ad affermare che l’aristocrazia, pur essendo civilizzata, risultava al tempo stesso priva di cultura.

Un romantico tedesco, Johann Gottfried Herder affermò che la kultur era l’insieme dei valori, dei significati, dei segni linguistici e dei simboli condivisi da un popolo. Attraverso l’espressione “spirito di un popolo”, il filosofo romantico cerca di criticare la nozione illuministica di progresso e di affermare, altresì, che il popolo è provvisto di una propria identità: ogni popolo segue un proprio itinerario caratterizzato dalla spiritualità di tutti gli individui piuttosto che dal progresso scientifico4.

L’individuo, infatti, con la propria anima e il proprio spirito, si inseriva in un sistema complesso di usi, tradizioni e costumi e condivideva la cultura del popolo e della comunità: il termine cultura, in questo caso, viene associato ad un processo di formazione sia intellettuale che spirituale5. Per Herder, ogni popolo ha un destino proprio da compiere attraverso la cultura. La civilizzazione è progresso materiale, superficiale; la cultura è spirituale.

L’opposizione tra kultur e zivilisation proseguirà nella storia del pensiero filosofico di Kant, Shiller, Fichte, Schopenhauer e Nietzsche.

4 Cfr. L.Tornatore, G.Polizzi, E.Ruffaldi, Filosofia. Testi e argomenti:

dall’Illuminismo all’Idealismo, Loescher Editore, Città di Castello,

2000, p. 433.

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3.1.2. L’ANTROPOLOGIA CULTURALE.

Lo scontro tra cultura e civiltà ha cominciato ad allentarsi nel momento in cui è nata una nuova disciplina specifica: l’antropologia.

Attraverso la nascita della sociologia e dell’antropologia, nella seconda metà dell’Ottocento, civiltà e cultura sono divenuti due sinonimi appartenenti ad uno stesso processo: le società, infatti, si sviluppano progressivamente attraverso stadi civili e culturali; non vi è più quella frattura netta realizzatasi nel Romanticismo e nell’Idealismo.

Secondo la concezione antropologica tipica del Positivismo, la cultura è l’insieme degli individui, membri di una società e partecipi di un patrimonio sociale caratterizzato dalla condivisione di credenze, ideologie, usi, tradizioni, simboli e valori. Tale condivisione è tipica in ciascun popolo: è la specie umana che “crea” la cultura e che cerca di tramandarla socialmente6.

Il primo studioso ad utilizzare il termine secondo un’accezione puramente antropologica è stato Edward

6 Cfr. Raffaella Faggella, Il termine di “cultura”, un’improbabile

definizione, in Rivista telematica Tracciati,

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Burnett Tylor 7 che qualificò la cultura come “quel complesso insieme, quella totalità che comprende la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine, acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”8. Infatti, nell’opera dell’antropologo, cultura e civiltà vengono usati come sinonimi rispetto alla nozione classica di cultura e alla nozione tedesca di kultur; l’intento di Edward Burnett Tylor è creare un processo di unificazione in riferimento a tutte le società, senza alcuna distinzione e che vi sia, al tempo stesso, l’inclusione di costumi, abitudini, tradizioni proprie di tali comunità9.

L’antropologia identifica una continuità tra culture e modi di pensare diversi. La cultura può essere definita come un complesso di idee, simboli, azioni e disposizioni storicamente tramandati, acquisiti e selezionati e largamente condivisi da un certo numero di individui mediante i quali, questi ultimi, si accostano al mondo in senso pratico e intellettuale. L’antropologia assume rilevanza in quanto definisce le caratteristiche di vari sistemi culturali, riconducendoli ad un sistema ristretto di principi.

7 E.B.Tylor è stato un antropologo britannico che ha realizzato e pubblicato il famoso saggio Primitive Culture nel quale ha definito in modo sistematico il concetto di cultura.

8Cfr. Denys Cuche, La nozione di cultura nelle scienze sociali, il

Mulino, Bologna, 2006, p. 20.

9 Cfr. Gianluca Famiglietti, Diritti culturali e diritto della cultura. La

voce “cultura” dal campo delle tutele a quello della tutela,

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Infatti, l’altro grande antropologo, Lèvi-Strauss immagina che la storia sociale dell’uomo possa fondare le sue radici nella storia delle variazioni culturali e degli stili tipici delle società: ogni cultura è caratterizzata da simboli e questi simboli ricorrono all’interno di ogni comunità. Questo permette di affermare che ogni comunità rappresenti il “mediatore e il negoziatore delle differenze”10.

L’antico contrasto tra civiltà e cultura sembra essere superato dal diffondersi di un altro concetto, quello di identità. L’antropologia sociale, infatti, analizza il concetto di cultura sottraendo l’accezione di civiltà: tuttavia, oggi, siamo ancora influenzati dal Romanticismo herderiano e dal binomio civiltà-cultura. Conservatori e progressisti hanno visioni diverse in merito a tale concetto: se da una parte, i conservatori preferiscono preservare le culture e mantenere i gruppi umani separati, in quanto l’insieme di culture non omogenee tra loro porterebbe ad uno “scontro di civiltà”, dall’altra parte i progressisti cercano di preservare la cultura come rimedio ad offese simboliche per impedire un disconoscimento di culture da parte di altre11.

10 Cfr. L.Tornatore, G.Polizzi, E.Ruffaldi, Filosofia. Testi e argomenti.

Dal Positivismo ai giorni nostri, Loescher Editore, 2000, p. 573.

11 Cfr. Seyla Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale.

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3.2. DALLA CULTURA ALLA RELIGIONE:

LA QUESTIONE DELLE IDENTITA’.

Nell’antica Grecia, il tragediografo Euripide, nel 431 a.C., mise in scena la tragedia di Medea. È la storia di una donna che, giunta a Corinto con Giasone e i loro due figli, si ritrova completamente sola. Medea, infatti, descrive la sua infelice sorte presentandosi come una donna abbandonata in una città che non è la sua; è “straniera” e sembra non avere avuto la comprensione dei cittadini e dei governanti di Corinto che l’hanno altresì condannata all’esilio pur non avendo colpe; la donna, infatti, ha cercato di adeguarsi ai costumi e alle tradizioni della città. Il drammaturgo austriaco di fine Ottocento, Franz Grillparzer12, scrive: “Poiché sono straniera, venuta da un paese sconosciuto e ignara degli usi e dei costumi di questa terra, eccomi disprezzata, umiliata, guardata come una barbara selvatica, l’ultima, infima tra tutti, io che nella mia patria ero la prima, la Regina”. In quanto “donna”, Medea rappresenta la razza più sventurata poiché non è padrona di sé e del proprio corpo e deve essere sempre sottomessa a qualcuno: le donne di Corinto cercano di mitigare il dolore e la sottomissione rifugiandosi nell’affetto

12 Franz Grillparzer è uno scrittore e drammaturgo austriaco dell’Ottocento. Nel 1821 completa la sua trilogia Il Vello d’oro, all’interno del quale troviamo L’ospite, Gli Argonauti e Medea. Quest’ultima contiene solo gli eventi principali della storia (realizzata da Euripide).

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dei familiari; Medea è sola in una città sconosciuta, senza patria e senza familiari. Medea, nella tragedia, viene identificata come una donna dalla forte personalità che, sebbene umiliata, cerca di non sottomettersi all’altrui autorità ma di reagire: ha cercato di farsi accettare in un mondo nuovo come straniera, come portatrice e testimone di una cultura nuova, diversa13.

Il dramma mette in risalto il tentativo di Medea di inserirsi nel mondo greco, che rappresenta un mondo nuovo e diverso, rispetto al mondo mitico cui apparteneva. In realtà, ciò che emerge è un vero e proprio fallimento della donna che cerca di assumere una nuova identità e conciliare la sua cultura con quella del paese ospitante14.

La tragedia scritta da Euripide appare attualissima. Ci chiediamo, infatti, quanto prevalga la cultura, l’identità religiosa di tutti quegli individui che decidono di partire e di inserirsi in un mondo completamente diverso, caratterizzato da usi e costumi nuovi.

13 Cfr. Roberto Mazzi, Medea, la straniera, in Società ricreativa

l’affratellamento di Ricorboli,

http://www.affratellamento.it/2009/11/08/medea-la-straniera/ , 7 Novembre 2007.

14 Cfr. Claudio Magris, Medea, tragedia dello straniero. Dal mondo

antico un monito quanto mai attuale sulla incapacità di comprendersi tra culture lontane e una metafora di quanto sia difficile, per chi viene da altre terre, essere veramente accettato da chi lo accoglie, in

Corriere della sera Archivio storico,

http://archiviostorico.corriere.it/1994/aprile/17/Medea_tragedia_dello_ straniero_co_0_940417176.shtml, 17 Aprile 1994.

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Nel diritto costituzionale attuale il concetto di “cultura” è spesso sostituito dai concetti di fede religiosa e culto, talvolta utilizzati come sinonimi.

La cultura, secondo un dizionario, è “il complesso di cognizioni, tradizioni, procedimenti tecnici, tipi di comportamento, trasmessi e usati sistematicamente, caratteristico di un dato gruppo sociale, di un popolo, di un gruppo di popoli o di un’intera umanità”15. Kymlicka, nella sua opera La cittadinanza, afferma che “la cultura è sinonimo di nazione o di popolo e designa una comunità intergenerazionale, più o meno compiuta da un punto di vista istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua e una storia distinte”16. Ogni nazione e ogni popolo condivide simboli, tradizioni, culti religiosi e lingua: per questo motivo, filosoficamente, sia la cultura che la religione sono stati elementi costitutivi di un unico insieme, l’identità.

La religione è da tempo riconosciuta come un bene costituzionale da proteggere. È una libertà negativa e viene genericamente definita come quel “complesso di narrazioni mitiche, di norme etiche e salvifiche e di comportamenti culturali che esprimono, nel corso della storia, la relazione

15 Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, dodicesima edizione, Zanichelli, 1999.

16 Cfr. Fabio Basile, Società multiculturali, immigrazione e reati

culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), in

Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale

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delle varie società umane con il mondo divino”17. La religione indica aspetti di una cultura che hanno rilevanza solo da un punto di vista spirituale.

Il culto è un complesso di usanze e di atti per mezzo dei quali si esprime il sentimento religioso, come ad esempio il culto cattolico, ortodosso, musulmano, protestante.

Il riconoscimento delle identità è stato uno dei problemi che molti ordinamenti hanno dovuto affrontare in questi ultimi decenni. Ci sono, da una parte, ordinamenti che hanno sostenuto una indifferenziazione delle politiche pubbliche rispetto alle appartenenze private: è il caso della Francia che vieta il velo e altri simboli religiosi nelle scuole. Dall’altra parte, invece, esistono ordinamenti che hanno valorizzato e accentuato il sistema del multiculturalismo: questi ordinamenti suppongono una definizione di identità culturale.

Secondo le teorie multiculturaliste, l’identità culturale è la componente essenziale per l’individuo e non può essere ignorata. Da tale affermazione derivano due conseguenze importanti: la prima, riguarda il singolo individuo e cioè il fatto che debba essere messo nella posizione di poter attingere alla risorsa culturale (quindi non deve esserne privato); la seconda riguarda l’ordinamento, ovvero la necessità di garantire norme che non impediscono il regolare

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svolgimento di comportamenti imposti dalla cultura18. Seyla Benhabib, parlando dell’identità culturale, afferma che quest’ultima è data dall’adesione ad una comunità unita intorno a valori, norme e tradizioni.

L’Italia, in riferimento a ciò, ha dovuto fare i conti con una componente piuttosto consistente dell’identità culturale: la religione. Infatti l’Italia, dopo il 2001, ha affrontato la multiculturalità attraverso l’appartenenza religiosa e, in particolar modo, attraverso l’appartenenza all’Islam.

Con il passare del tempo, le esigenze degli immigrati sono cambiate: gli immigrati hanno chiesto particolare tutela per l’identità culturale e, in particolar modo, per la rappresentanza religiosa (nonostante le identità religiose siano protette a prescindere dal fenomeno migratorio). Di fronte a tale richiesta, gli ordinamenti giuridici occidentali hanno dovuto realizzare particolari tutele per le minoranze e rappresentanze religiose.

Le identità religiose e culturali appartengono quindi ad uno stesso insieme: la necessità di tutelarne uno implica necessariamente la tutela dell’altro. Questo elemento fa pensare al fatto che spesso l’appartenenza religiosa viene riscoperta dall’immigrato proprio per affermare ancora di più la sua identità culturale19.

18Cfr. Nicola Fiorita, Alla ricerca di una nozione giuridica di “identità

culturale”: riflessioni di un ecclesiasticista, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale (www.statoechiese.it), Marzo 2009, p. 3.

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Con riferimento a ciò, nella nostra Costituzione, pur non trovando uno specifico riconoscimento del concetto di cultura o di diritto all’identità culturale, emerge in alcuni articoli la necessità di un riconoscimento, di una tutela e di una promozione all’identità.

Lo stesso articolo 2 della Costituzione “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, ad esempio, rappresenta una sorta di collegamento tra i diritti individuali del singolo cittadino e un’apertura ai diritti comunitari del mondo globalizzato.

Il tema dell’identità culturale e religiosa è complesso e al tempo stesso insidioso. Infatti, pensare che un ordinamento giuridico possa o debba riconoscere l’identità culturale o religiosa di un immigrato, fa sì che si introduca il concetto di uguaglianza, come presupposto, per il paese ospitante, di non discriminare e, al tempo stesso, tutelare l’identità del soggetto ospitato. La presenza di numerose identità all’interno di un unico territorio produce, talvolta, scontri tra usi, costumi e tradizioni diverse: da tale scontro, generalmente, è l’identità maggioritaria che ne esce vincitrice.

L’identità è un ambito che deve essere studiato e analizzato da due punti di vista: da una parte l’identità di chi

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arriva ed è quindi portatore di una tradizione propria; dall’altra l’identità del paese che ospita e accoglie immigrati.

L’identità è oggi l’elemento intorno al quale ruota il concetto di uguaglianza.

All’interno della Costituzione italiana, non troviamo uno specifica definizione del concetto di cultura o di un diritto all’identità culturale.

All’articolo 8 della Costituzione, si riconosce l’esistenza di identità religiose plurali: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.

La scelta del Costituente è di riconoscere e tutelare le identità religiose e uno strumento idoneo a salvaguardare il pluralismo religioso sembrano essere le intese20. Le intese hanno cercato di dare risposte e di identificare ancor meglio le identità: i costituenti si sono chiesti fino a che punto potesse essere accolta la tradizione e la cultura di un immigrato in un paese ospitante; hanno cercato di selezionare le identità da riconoscere; hanno affrontato il problema della rappresentanza.

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In merito al primo ambito, il riconoscimento dell’identità religiosa comporta necessariamente il rispetto di tradizioni, usi e costumi dell’immigrato. In realtà, tale riconoscimento, ha come conseguenza, nell’ordinamento giuridico ospitante, l’ingresso di istituti che possono andare contro norme, buon senso e cultura dell’ordinamento stesso, come ad esempio, mutilazioni genitali femminili, poligamia ecc. E’ interesse dell’ordinamento giuridico ospitante, quindi, realizzare intese e norme per tutelare tali identità e per non creare contrasti all’interno del territorio.

Il secondo ambito fondamentale è dato dalla selezione delle identità da riconoscere: a chi spetta? Si affida tale compito ai giudici in quanto hanno la capacità di tutelare in modo efficace le minoranze presenti sul territorio italiano e, dall’altra parte, di assecondare culture e tradizioni, tenendo conto di ogni singola sfaccettatura all’interno di ogni caso concreto. L’idea che si è, con il tempo, concretizzata sempre più riguarda il fatto che minoranze religiose conflittuali, presentandosi dinanzi al giudice ed effettuando richieste “collettive”, non riuscirebbero ad ottenere un riconoscimento per la propria identità; invece, tutte quelle minoranze che si presentano “singolarmente” dinanzi al giudice, hanno più possibilità di vedersi concretizzare tale riconoscimento.

L’ultimo elemento caratterizzante le identità è la rappresentanza, ovvero la possibilità da parte dello Stato di

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individuare norme che possano rappresentare quel dato gruppo: il rischio cui si incorre è il fatto che, rappresentando un intero gruppo, si va a garantire una particolare tutela per la cultura e tradizione maggioritaria (di quel dato gruppo) e si rischia di dimenticare soggetti più deboli come donne e bambini che risultano marginali21.

3.3. L’ONORE TRA RELIGIONE E CULTURA

ISLAMICA.

La Sura coranica 4:38 afferma: “Gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle; le donne buone sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità così come Dio è stato sollecito con loro; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiranno, allora non cercate pretesti per maltrattarle, che Iddio è grande e sublime”. Questa è la Sura coranica che generalmente viene presa in considerazione dagli assassini, i quali cercano di difendersi e di giustificare

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atti e comportamenti nei confronti delle donne (in particolar modo, della propria famiglia).

I diritti delle donne, nell’Islam, sono limitati dalla qawama, ossia dall’autorità tutoria degli uomini sulle donne prevista dalla sharia. La Sura coranica sopra citata, è stata oggetto di interpretazioni controverse nel corso dei secoli. Prima di tutto, questo versetto affronta la qawama come presupposto di due elementi: da una parte, viene interpretata come la superiorità fisica degli uomini sulle donne (nushuz); dall’altra parte, come il “dovere” che gli uomini hanno di sostenere le donne da un punto di vista economico22. Nel corso dei secoli questa sura risulta essere il ritratto vivente dei doveri del marito e degli obblighi della moglie.

Il marito ha l’obbligo di mantenere la moglie a meno che quest’ultima non sia inadempiente agli obblighi coniugali: in questo caso specifico, infatti, la donna perderebbe il diritto al mantenimento e di conseguenza potrebbe essere battuta dal marito per l’inadempienza. Tuttavia, a prescindere dalle varie interpretazioni rigide che nel corso dei secoli si sono succedute in relazione a tale Sura, sembra opportuno affermare che in nessun caso venga esplicitamente sollecitato l’uomo a picchiare la moglie o le figlie.

Ogni anno, in molti Paesi del mondo, moltissime donne sono vittime dei delitti d’onore in quanto risultano

22Cfr. Farian Sabahi, Donne e corano: storia di un rapporto ambiguo, Kos

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essere “portatrici di disonore” nelle proprie famiglie23. Vengono punite per comportamenti che hanno avuto nei confronti di altri uomini oppure, per essere state stuprate: lo stupro, infatti, reca per la famiglia della donna un grande disonore e l’unica soluzione risulta essere la morte.

Molte comunità del Medio Oriente sono caratterizzate da una forte componente tribale: l’unico grande obiettivo per queste tribù è difendere e mantenere l’onore che risiede in tre elementi fondamentali quali la donna (zan), l’oro (zar), la terra (zamin)24.

L’onore dell’uomo risiede nel corpo della donna: il corpo è il simbolo dell’onore non solo della sua famiglia ma dell’intero clan di riferimento; è merce di scambio in quanto un torto subìto può essere cancellato attraverso l’offerta di una donna da parte della famiglia del debitore alla famiglia dell’offeso. Le donne devono sottostare a tali “codici”; se violano le regole sociali, tribali o religiose, possono essere punite anche con la morte.

Il codice penale ottomano all’articolo 183 affermava: “Colui che vede sua moglie o qualsiasi dei suoi parenti con un’altra persona in una situazione di fornicazione e picchia, ferisce o uccide uno o entrambi sarà perdonato. Colui che vede la moglie o uno dei suoi parenti con un’altra persona in

23Anna Vanzan, (Dis)onore e migrazione. In margine ai “delitti d’onore”

nella comunità islamica italiana, in Genesis, IX, 2, 2010, p. 75.

24 Cfr. Anna Vanzan, (Dis)onore e migrazione. In margine ai “delitti

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un letto illegale e picchia, ferisce o uccide uno o entrambi, sarà scusato”25.

A causa di un’ignoranza collettiva, usanze e tradizioni hanno cominciato a intrecciarsi con la religione islamica. Studiosi dell’Islam hanno affermato che la religione islamica non legittima assolutamente questi omicidi: tali reati vengono realizzati in comunità prevalentemente di stampo patriarcale, dove l’autorità dell’uomo più anziano prevale all’interno del nucleo familiare. Gli assassini cercano di nascondersi dietro alle Sura coraniche e cercano di interpretare ogni singola parola in modo molto rigido, fiscale per cercare di prevalere sulla donna; d’altro canto possiamo affermare che soltanto codici e usanze tipiche di certe comunità portano l’uomo a violentare e, in alcuni casi, ad uccidere la donna.

Il Pakistan ne è un esempio calzante. Il delitto d’onore continua ad essere praticato ed alcune statistiche rivelano che centinaia di donne, ancora oggi, rimangono vittime dell’onore. Onore che si relaziona alla concezione patriarcale secondo la quale la donna è semplicemente una proprietà dell’uomo. Lo strumento che tipicamente viene usato per questo tipo di esecuzioni è l’ascia, un attrezzo che riesce a portar via una parte netta del corpo della vittima: il corpo, come accennato, è l’elemento caratteristico dell’onore; se la

25Cfr. Gerardo Milani, L’omicidio di Hina Saleem. Profili psicologici delle

aggravanti e dei motivi futili e abbietti e della premeditazione, 2007-2008, p. 24.

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donna commette atti impuri nei confronti dell’uomo, deve essere “battuta”, picchiata o violentata in quanto attraverso il suo corpo ha commesso peccato e il suo corpo ha bisogno di purificazione. Inoltre, se la donne viene identificata come proprietà dell’uomo così come la terra, la donna stessa può essere oggetto di vendita, scambio o morte26. Questa risulta essere ancora oggi una cruda realtà: le donne, in molti casi, sono semplicemente qualificate come “affari economici”. Una giornalista pakistana, Nafisa Shah, riporta un esempio significativo: una famiglia che contrae un debito con un’altra famiglia, può decidere di uccidere la propria donna accusandola di pratiche sessuali illecite con una membro della famiglia creditrice; la donna viene ammazzata e l’uomo che ne ha violato l’onore può far venir meno la sa colpa cancellando il debito alla famiglia della vittima.

26Cfr. Anna Vanzan, (Dis)onore e migrazione. In margine ai “delitti d’onore”nella comunità islamica italiana, in Genesis IX, 2, 2010, p.

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3.3.2. IL PAKISTAN E IL KARO-KARI.

L’espressione karo-kari è composta da due termini che vengono tradizionalmente tradotti con “uomo nero” e “donna nera”, uccisi con l’accusa di aver avuto una relazione illecita. Con tale termine possiamo semplicemente far riferimento ai delitti d’onore che risultano essere ancora oggi un’antica pratica svolta in Pakistan.

Alcune indagini pakistane svolte nel 1999 hanno mostrato che duemilatrecentotre donne sono state uccise a causa del delitto d’onore e, tra queste, quarantacinque erano minorenni e due su cinque nubili; dal gennaio 2001 al dicembre 2004 si sono registrati quattromilatrecentottantatre casi di omicidio nei quali è stata invocata l’attenuante per la difesa dell’onore27.

Purtroppo, ancora oggi, i diritti della donna in Pakistan, specialmente in comunità fortemente patriarcali, sono limitati. Le donne, in questi casi, non possono rivestire cariche pubbliche perché l’autorità della donna supererebbe quella dell’uomo; la donna può ereditare soltanto la metà rispetto ad un uomo; nei ceti medio bassi i matrimoni delle figlie ultrasedicenni sono combinati dai genitori: non è possibile, al momento della scelta del marito, la presenza

27Cfr. Gerardo Milani, L’omicidio di Hina Saleem. Profili psicologici delle aggravanti e dei motivi futili e abbietti e della premeditazione,

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della sposa. È ammesso il ripudio ma tale istituto sembra essere fonte di disapprovazione e condanna sociale per la donna e per la sua famiglia. Le donne non possono avere contatti con gli uomini: hanno contatti solo con la propria famiglia e con il vicinato28.

A causa degli ingenti flussi migratori la cultura patriarcale è tornata anche nelle zone occidentali dell’Europa, portando con sé tutta una serie di problemi, tra cui i delitti d’onore che, a caratteri esponenziali hanno cominciato a verificarsi anche in Italia, Regno Unito ed in altri paesi: il problema fondamentale riguarda la giovane donna pakistana o islamica che, abituata ad avere nel suo paese di origine tutta una serie di regole rigide e ferree e, ad essere relegata nel perimetro domestico, nel Paese ospitante trova quella libertà di cui non conosce neppure il significato.

In Pakistan e in Afghanistan è esistita, per molto tempo, una “giustizia parallela” rispetto a quella ufficiale: il jirga. È un’assemblea tribale di anziani e saggi che prende decisioni riguardanti la terra, l’onore e le donne. Il jirga cerca di risolvere problematiche inerenti questi e altri ambiti e di ristabilire la giustizia punendo i colpevoli. Gli stessi anziani prendono il nome di jirga ed emettono sentenze riguardanti i “Delitti d’onore”; consentono la vendita o la cessione di una donna da una famiglia ad un’altra e in tali assemblee è severamente vietato la partecipazione delle

28Cfr. Farian Sabahi, Donne e corano: storia di un rapporto ambiguo,

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donne. Nel 2004 i jirga vennero aboliti; tuttavia molti di essi continuano a praticare giustizia e ad amministrare le comunità tribali29.

Da un punto di vista legislativo, in Pakistan, nel 1947, fu introdotto un sistema legale di stampo britannico. Nel 1961 entrò in vigore lo Statuto del diritto personale ispirato al diritto islamico che stabilisce una serie di norme che applicano il diritto islamico ma sotto una sfera più “moderna”. Ad esempio, l’uomo che volesse ripudiare la propria moglie era costretto a darne comunicazione per iscritto alle autorità competenti; solo trascorsi 90 giorni dalla comunicazione, il talaq30 diventa valido e può avere inizio il ritiro. Inoltre, la legge prevedeva che le donne minori di sedici anni non potessero sposarsi e potessero godere di diritti successori alla morte dei membri della famiglia di origine.

A partire dagli anni ’70 è cominciato un vero e proprio processo di islamizzazione che ha riguardato in particolar modo l’ambito familiare e che ha portato a conseguenze piuttosto penalizzanti per la donna. In particolar modo, sono state introdotte nuove leggi riguardanti forme di punizioni severe per relazioni sessuali illegali e norme che non ammettevano la testimonianza della donna. Dal 1978 al 1988, ci fu la dittatura di Zia al-Haqq. Il motto di Zia fu “chador i chard divari”, ovvero “chador e le quattro pareti

29Cfr. Anna Vanzan, op. cit.

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domestiche”: ciò testimoniava il grande influsso religioso islamico sul dittatore e il fatto di poter educare i giovani uomini a controllare, da una parte, i comportamenti delle donne e, dall’altra, obbligarle ad usare il velo.

Nel 1979 fu emanata un’ordinanza che prevedeva una serie di pene legate ai reati di carattere sessuale: le cosiddette hudud. Le hudud furono realizzate per punire le donne dall’adulterio e dallo stupro; colpiva il furto, la falsa testimonianza, l’uso di alcolici, la prostituzione, la fornicazione. Le punizioni più gravi erano la lapidazione per la donna sposata oppure la sottomissione a cento colpi di frusta per la donna non sposata. In particolar modo, se prima le leggi inglesi definivano l’adulterio come in “reato contro il marito”, durante quest’epoca il crimine è “contro lo Stato”: questo permette alle figure maschili della famiglia, come padre, fratelli e zii di pagare la cauzione e decidere sul destino della donna.

Durante tale dittatura, emerse con forza, infatti, il fatto che la violenza contro le donne e, in particolar modo il delitto d’onore, fossero pratiche consentite dalla legge e santificate dalla religione; sussisteva questa connessione tra religione e tradizione, legge e cultura. Le conseguenze furono gravissime: un ingente numero di donne uccise in nome dell’onore, oltre un centinaio ogni anno.

A partire dagli anni ’80, la situazione cambia. I tribunali cominciarono a disapplicare tutte le norme che

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risultavano contrastanti con il diritto islamico e, in particolar modo, disapplicarono quelle contenute nello Statuto del diritto personale del 1961.

Nel 1980 venne istituita la Shari’a Court, un organo di tipo giurisdizionale che aveva il compito di eliminare e invalidare qualsiasi norma che fosse in contrasto con il Corano e la Sunna. Il problema che ancora oggi non è stato risolto, riguarda l’interpretazione della Sharia, o meglio, occorre domandarsi chi ha il potere e l’autorità di interpretare la Sharia. Non essendoci stata una vera soluzione, dagli anni ’80 a oggi, i giudici hanno applicato il diritto islamico in maniera diversa e con effetti diversi e talvolta contrastanti. In alcuni casi, ad esempio, il matrimonio diveniva legittimo per la donna che non avesse compiuto ancora sedici anni purché avesse superato lo stato di pubertà; in altri casi, invece, si riteneva che la donna, una volta raggiunta la pubertà, potesse decidere liberamente il proprio partner: questa situazione portò ad invalidare numerose denuncie riguardanti relazioni illegali, che erano state effettuate contro giovani donne le quali avevano scelto in modo autonomo e indipendente il loro marito31.

Da questa situazione emergono una serie di osservazioni: da una parte è venuta meno la certezza del diritto in quanto vi è stata la mancanza di un’autorità

31Cfr. Elisa Giunchi, Approfondimento sul Pakistan ed il Bangladesh,

https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=4 &ved=0CEIQFjAD&url=http%3A%2F%2Fginger.women.it%2Findex .php%3Foption%3Dcom_phocadownload , Milano.

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legittimata a decidere; non è stata data un’interpretazione corretta alla sharia e i giudici hanno applicato il diritto secondo una propria discrezionalità; dall’altra parte molti riti (come il delitto d’onore), praticati da secoli, sono sopravvissuti nel territorio pakistano.

Infatti, nella società pakistana, il codice tribale prevede la morte della donna come punizione per l’adulterio: le vittime creano disonore alla famiglia e questo porta l’uomo (capo famiglia) a recuperare l’onore perduto.

Soltanto nel 2004 c’è stata la promulgazione di un importante disegno di legge riguardante i delitti d’onore e, di conseguenza l’abrogazione delle leggi hudud. Nonostante ciò, in questi anni, la situazione non sembra cambiata32.

32 Cfr. Anna Vanzan, op. cit., p. 82.

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