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CAPITOLO IV EUTANASIA TRA ETICA E REGOLAMENTAZIONE

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CAPITOLO IV

EUTANASIA TRA ETICA E REGOLAMENTAZIONE

SOMMARIO: 1. Eutanasia ed etica. – 2. Bioetica cattolica e sacralità della vita. – 3. Argomenti contro

l’eutanasia. – 4. Bioetica laica e qualità della vita. – 4.1. Etica della sacralità della vita biografica. – 4.2. Etica della qualità della vita. – 5. Argomenti a favore dell’eutanasia. – 6. Eutanasia e regolamentazione.

1. Eutanasia ed etica

Le diverse interpretazioni di cui sono suscettibili i principi costituzionali e la normativa vigente, e dunque le diverse ed antitetiche considerazioni in tema di eutanasia, danno ragione a chi, parlando di “paradosso giuridico della morte dignitosa”, ha evidenziato come la discussione tra i giuristi non sia estranea dall’influenza esercitata dai presupposti etici cui ciascuno propende1.

Nel dibattito italiano si assiste, infatti, al confronto fra vari paradigmi etici, con ciò intendendosi non solo diversi modi di rapportarsi con la realtà, ma anche distinte costellazioni di idee che ruotano attorno a diversi principi di fondo. Principi, questi ultimi, da cui scaturiscono opposte conseguenze nell’ambito della bioetica2. In

1 A. D’ALOIA, “Diritto” e “diritti” di fronte alla morte. Ipotesi ed interrogativi intorno alla regolazione normativa dei comportamenti eutanasici, in L. Chieffi (a cura di), Bioetica e diritti dell’uomo, Paravia

Scriptorium, Torino 2000, 185, <<Discutere se il diritto alla vita comprenda anche il diritto sulla vita, e quindi la possibile pretesa a rinunciare alla stessa, o al contrario, se la protezione incondizionata della vita manifesti una scelta di configurarla “secondo l’angolazione della doverosità nel mantenerla”, rischia di esprimere tesi pre-costituite, fondate cioè su presupposti valutativi non giuridici, piuttosto che ipotesi descrittive (e non ricostruttive) del materiale normativo e delle indicazioni da esso ricavabili>>.

2 La bioetica, infatti, <<pur facendo riferimento a ragioni personali e pubblicamente accessibili, non viene

elaborata in uno spazio concettuale neutro, ma a partire da determinate comprensioni e visioni del mondo, ovvero nell’ambito di determinati orizzonti di senso>>, G. FORNERO, Bioetica cattolica e bioetica

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particolare, a contendersi la scena pubblica sono le due maggiori correnti della “bioetica cattolica” e della “bioetica laica”.

Nella Bibbia e nella tradizione della Chiesa non si trovano esplicite indicazioni sul tema dell’eutanasia, tuttavia, la Chiesa ha sempre manifestato una forte sollecitudine nei confronti dei malati, interessandosi altresì ai problemi morali sollevati dai progressi medico-scientifici, specie con riguardo alle questioni di inizio e fine vita. A tal proposito, come dimostra il contenuto di vari documenti ufficiali, è spesso intervenuta aggiornando la propria dottrina per offrire ai fedeli una serie di indicazioni necessarie a far fronte alle crescenti complessità riscontrabili nella cura dei malati. Il discorso del magistero della Chiesa cattolica, tra l’altro, non ha mera rilevanza fideistica o pastorale, in quanto è esplicito nell’assumere un valore dottrinale. Infatti, si basa su una serie di principi-base che presenta come fondanti e costituenti il patrimonio perenne ed universale della ragione umana. Tali premesse non stanno ad indicare che questa sia l’unica forma di bioetica esistente in ambito cattolico, in quanto all’interno di essa si collocano poi i punti di vista dei singoli, che danno vita ad altrettante posizioni “intra-paradigmatiche” di matrice cattolica.

Esiste inoltre una bioetica laica, ovvero un certo modo di intendere le tematiche di bioetica in base ad una serie di principi secolari di matrice liberale, per molti aspetti antitetica rispetto a quella cattolica. Il fatto che non vi sia un “magistero laico”, non significa sia impossibile rintracciare anche in tale corrente dei principi-base condivisi. Tra questi, ad esempio, il fatto che in bioetica si debba ragionare a prescindere dall’esistenza di un divino, di una legge morale naturale, e che vi sia un certo margine di disponibilità della vita. Si tratta di idee che, come evidente, preludono ad un’apertura alle pratiche eutanasiche.

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A ragion del vero, però, la dicotomia delineata non è poi così netta. Infatti, vi sono alcuni credenti che mostrano di accogliere taluni principi laici e, viceversa, alcuni laici che rivelano una maggior vicinanza alla posizione cattolica. In concreto, dunque, sembra ardua una reductio ad unum delle due posizioni. Tuttavia la distinzione ha un’utilità scientifica nella misura in cui consente una più agile descrizione e classificazione delle diverse istanze sollevate nell’ambito della discussione sull’eutanasia.

2. Bioetica cattolica e sacralità della vita.

La bioetica cattolica muove dal principio cardine della sacralità della vita, intesa come realtà ontologico-assiologica meritevole di assoluto rispetto.

La vita è dono divino e, in quanto tale, sacra in sé, ed appartenente al Creatore; per cui l’uomo non ne è padrone, ma solo l’amministratore, con il compito di custodirla con cura dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento.

Quanto alla dignità, essa non è un diritto del singolo, ma un valore indipendente dalla volontà degli individui, che costituisce il fondamento stesso della sacralità della vita: la vita è sempre degna di essere vissuta per il fatto naturale di esistere.

In breve, ogni atto di interruzione volontaria della propria come dell’altrui vita è interpretato come gesto di rifiuto della sovranità di Dio, nonché come inaccettabile violazione del precetto divino “non uccidere”.

Se queste sono le premesse, non è difficile intuire quale sia la posizione del magistero della Chiesa riguardo all’eutanasia.

Un primo importante intervento in materia è da ricondurre alla figura di Pio XII, quando, nel 1957, si rivolse ad un Simposio Internazionale di anestesisti, per rispondere

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a precisi quesiti morali che l’anno precedente gli erano stati rivolti durante il Congresso Nazionale della Società Italiana di Anestiosologia. In tale occasione, il pontefice sottolinea come, nella morale cristiana, non esista alcun obbligo ad accettare il dolore per spirito di fede. Nonostante il dolore e la sofferenza non siano mai inutili, in quanto assolvono un importante valore salvifico, rendendo l’uomo partecipe della passione di Cristo, non si pretende un atteggiamento eroico da parte del malato. Tant’è che il pontefice afferma la liceità dell’uso di antalgici, ancorché abbiano l’effetto di abbreviare la vita, purché non sia quest’ultima l’intenzione che anima l’agente, quanto piuttosto quella di alleviare i dolori insopportabili del paziente (teoria del “doppio effetto”)3. In

ogni altro caso, stante la sacralità della vita, la dignità della persona non può essere violata, anche laddove l’interessato presti il proprio consenso.

Di poco posteriore è la Costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, dove con forza si esprime la denuncia a varie pratiche disumane tra cui <<ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario>>4.

Il documento che interviene con maggior ampiezza sul tema dell’eutanasia è però la Dichiarazione Iure ed bona, approvata dalla Sacra Congregazione della Dottrina per la Fede il 5 maggio 1980. Nella prima parte vengono esposti alcuni principi generali, tra cui non manca quello dell’inviolabilità della vita umana; nel secondo capitolo prende invece espressa posizione sull’eutanasia, ribadendo, con tutta fermezza, che <<Niente e

3 <<Se l’azione stessa del narcotico abbreviasse la durata della vita sarebbe necessario rinunciarvi? […]

Nell’ipotesi che voi ponete, si tratta unicamente di evitare al paziente dolori insopportabili, per esempio nel caso di cancri inoperabili o di malattie inguaribili. Se tra narcosi e l’abbreviamento della vita non esiste alcun nesso causale diretto, […] e se invece la somministrazione di narcotici provoca per se stessa due effetti distinti, da una parte il sollievo dei dolori e dall’altra parte l’abbreviamento della vita, essa è lecita; è necessario però che vi sia tra questi due effetti una proporzione ragionevole,e che i vantaggi dell’uno compensino gli svantaggi dell’altro>>, PIO XII, Risposte a tre quesiti religiosi e morali

concernenti l'analgesia, in Discorsi e radiomessaggi di Sua santità Pio XII, 24 febbraio 1957,

www.vatican.va

4 Costituzione pastorale Gaudium et spes, CONCILIO VATICANO II, promulgata da Papa Paolo VI, 8

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nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile e agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta infatti di una violazione della legge divina, di un’offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità>>5. Dalla definizione data dell’eutanasia6, si comprende

come simile condanna sia rivolta ad ogni forma eutanasica, a prescindere dalla modalità di esecuzione, giacché: o si tratta di atti leciti, e allora il termine è improprio; oppure si tratta di atti illeciti, e allora si deve adoperare il termine eutanasia senza ulteriori specificazioni. Peraltro, neppure le particolari condizioni del malato, né le motivazioni che hanno spinto l’agente sono in grado di attenuare simile giudizio morale; esse, al più, rileveranno al fine della graduazione della responsabilità, senza in ogni caso far venire meno la natura omicida del gesto.

Tuttavia l’insegnamento cattolico non si traduce in uno sfrenato vitalismo, ovvero non obbliga a conservare la vita ad ogni costo e con qualunque mezzo: la dignità della morte, infatti, si manifesta nella sua accettazione come fatto naturale7.

Non stupisce, dunque, che la Dichiarazione sull’eutanasia, trattando dei limiti legittimi nelle terapie, esprima un netto rifiuto ad ogni forma di accanimento terapeutico. Già Pio XII aveva distinto tra mezzi ordinari (obbligatori) e mezzi straordinari (non obbligatori), tuttavia nella Dichiarazione, fermo tale criterio discretivo,

5 Dichiarazione Iure et bona, cit., capitolo II.

6 <<Per eutanasia si intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la

morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati>>.

7 <<Se da una parte la vita è un dono di Dio, dall’altra la morte è inevitabile; è necessario, quindi, che noi

sappiamo accettarla con piena coscienza della nostra responsabilità e con tutta dignità>>, Dichiarazione

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si contrappongono le cure “proporzionate” alle cure “sproporzionate”. Da qui, l’affermazione in base alla quale rifiutare o sospendere cure sproporzionate, ovvero non utili ad arrestare la malattia e, anzi, particolarmente dolorose per il paziente, si configura quale comportamento lecito, estraneo all’ambito delle pratiche eutanasiche.

Ancora, l’enciclica Evangelium vitae8 riporta con vigore l’attenzione dei fedeli

all’assolutezza del valore della vita e alla necessità di difenderla dalla minaccia della <<cultura morte>>. Tale autorevole intervento in tema di aborto e di eutanasia, come la stessa enciclica rivela, era stato sollecitato dalla constatazione che la vita si trova ad essere sempre più spesso oggetto di violazione, soprattutto in situazioni in cui è maggiormente indifesa; nonché dall’evolvere della morale sociale, che avanza pretese di riconoscimento di simili pratiche, invocandole come veri e propri diritti civili; e dal mutamento del ruolo della medicina, che da strumento di tutela della vita stà diventando piuttosto arma di decisioni omicide. Il pontefice, in particolare, afferma che: <<Condividere l’intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto “suicidio assistito” significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un’ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta>>. Infatti, l’eutanasia è un falso modo di risolvere il problema della sofferenza, contraddice la dignità dell’uomo dietro la maschera di un’inesistente compassione, perché la pietà non induce ad uccidere bensì ad essere solidali con il sofferente, fornendogli l’assistenza di cui necessita.

Non solo, ma in risposta ai crescenti movimenti pro-eutanasia, il magistero della Chiesa interviene nel rapporto fra legge civile e legge morale, e condanna a priori ogni legge che autorizzi tale pratica, mettendo in rilievo le conseguenze di una sua eventuale

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legalizzazione o depenalizzazione. Conclude infine, con una formula particolarmente solenne: << In conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana>>.

3. Argomenti contro l’eutanasia

Chi si oppone alla legalizzazione dell’eutanasia avanza una serie di obiezioni volte a dimostrarne l’impossibilità giuridica e morale.

La “china scivolosa” è sicuramente uno dei più ricorrenti argomenti sollevati da quanti non solo si oppongono alle pratiche eutanasiche, ma in linea di principio a tutte quelle innovazioni nell’ambito della bioetica che hanno un qualche impatto nella vita sociale9.

Chi utilizza tale argomento parte da una semplice constatazione, ovvero che dalle nostre scelte possono derivare non solo effetti desiderati, ma anche conseguenze impreviste e non volute. Un’incertezza, questa, che si trasforma in piena prevedibilità, peraltro solo in senso negativo, nel caso in cui si tratti di eutanasia. Di tale argomento ne esistono due versioni, una logica, ed un’altra empirica.

La versione logica può essere descritta in questi termini: una volta ammessa per taluni casi l’eutanasia attiva, si sarebbe logicamente costretti ad estendere tale riconoscimento anche ad altre forme, moralmente inaccettabili, di anticipazione della morte; per evitare simile rischio non deve essere consentita nemmeno l’eutanasia su richiesta.

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Secondo i sostenitori dell’argomento, lo scivolo logico è ineluttabilmente destinato a verificarsi per due ordini di motivi. In primo luogo, per il fatto che l’eutanasia su richiesta non si differenzia molto dalle altre forme di anticipazione della morte; di conseguenza, le ragioni sollevate a sostegno della prima potrebbero essere avanzate anche per legittimare le seconde. In secondo luogo, pur volendo ammettere che delle differenze vi siano, risulta difficile mantenere la linea originaria, in quanto le due situazioni si collocano su una linea progressiva dove i confini tendono a sfumare fino a rendere impossibile un loro discernimento.

Al contrario, chi è a favore dell’eutanasia, nonostante affermi la necessità di delineare in modo più chiaro possibile i confini della pratica, predisponendo un forte nucleo di tutele a salvaguardia, ritengono che ciò sia pienamente fattibile, e non ritengono ragionevole paventare il rischio dei “passi successivi”10, dal momento che

nell’eutanasia attiva su richiesta è rinvenibile un elemento distintivo determinante, ovvero la volontà dell’interessato11.

La versione empirica di tale argomento, pur ammettendo in astratto la possibilità di legalizzare l’eutanasia, di delineare specifiche garanzie, nonché una sua corretta

10 P. VERONESI, op. cit., 283, <<A parte le smentite che una simile teoria ha conosciuto nella pratica

(erano stati previsti sfaceli anche dopo l’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, senza che questi abbiano ancora avuto modo di manifestarsi), resta il fatto che una tale versione deterministica del futuro e della storia mal si concilia con le prerogative regolatrici del diritto. Ove entri in gioco l’azione coordinata e adeguatamente controllata di più persone – come nella circostanza – è infatti pressoché inevitabile che i comportamenti futuri seguano lo schema sul quale già si è realizzata una convergenza, senza pericolosi sbandamenti. Del resto, lo prova l’esperienza dei Paesi che hanno una legislazione in materia, nei quali non si è riscontrato alcuno dei paventati “scivolamenti”>>.

11 D. NERI, op. cit., 162. L’autore ritiene necessario riflettere sulla reale consistenza delle differenze tra

le due situazioni prospettate: solo se il confine è ben demarcato non si configura il rischio dello scivolo logico; se invece tali differenze non esistono, nuovamente non è dato alcuno scivolo logico, perché non vi sono ragioni per legalizzare l’una e per non ammettere l’altra. In particolare: <<Ora, la consistenza delle differenze dipende dall’elemento che viene posto al centro dell’argomento morale a favore dell’eutanasia: la mia idea è che quando questo elemento è individuato nella consapevole e razionale richiesta del paziente non c’èmotivo di temere nessuno scivolo. La differenza tra l’eutanasia su richiesta e quella senza richiesta è razionalmente difendibile ed è estremamente rilevante sul piano morale. Segna una cesura netta nella linea delle forme di anticipazione della morte, una cesura non valicabile se non ricorrendo ad altre ragioni e ad altre argomentazioni. E in questo caso l’argomento del pendio non c’entra più, perché esso richiede che le ragioni siano le stesse>>.

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applicazione, evidenzia però le conseguenze psico-sociali che di fatto si accompagnerebbero alla nuova legge12.

Il pericolo maggiore connesso alla diffusione e alla legalizzazione dell’eutanasia sarebbe quello di aprire una breccia nel divieto di non uccidere, da cui si scivolerebbe, indipendentemente dal fatto che ci si impegni nel compito di chiarificare i concetti e tracciare linee distintive, all’ammissione di pratiche aberranti13.

Ulteriore argomento avanzato contro la legalizzazione dell’eutanasia fa leva sul profondo vulnus che la stessa comporterebbe alla missione del medico, configurando a capo del sanitario un vero e proprio dovere di uccidere cui egli non potrebbe sottrarsi e che, in concreto non sembra ammissibile alla luce dell’etica professionale. Infatti, già il giuramento di Ippocrate recita: <<Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò tale consiglio>>.

Si è però obiettato che, a ben vedere, il giuramento di Ippocrate vieta anche l’aborto, atto che invece è oggi riconosciuto quale pratica medica, senza che ciò abbia comportato una diversa concezione della professione sanitaria. Inoltre, per rispondere al primo punto, si fa notare come i medici che non hanno inteso praticarlo si sono potuti avvalere dell’obiezione di coscienza14. Quest’ultimo, tra l’altro, non trae origine da

12 D. NERI, op. cit., 168, critica così l’argomento del pendio scivoloso: << In sostanza, chi si appella

all’argomento del pendio scivoloso sembra volersi limitare a indicare vagamente e senza scendere nei dettagli quali potrebbero essere le possibili conseguenze, addossando agli altri l’onere di provare che queste conseguenze sono improbabili. E mentre risparmia a sé l’onere di offrire dettagli, chiede agli altri di lanciarsi in altrettanto implausibili dettagliate descrizioni di scenari futuri>>.

13 F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 72, <<aperta la breccia

nell’intangibilità della vita umana, sul presupposto del “motivo pietoso” e della “vita non degna”, si apre la scivolosa china dei “passi successivi”: dall’eutanasia passiva all’eutanasia attiva, anche non consensuale, del malato terminale, del malato incurabile ma non terminale: e perché non anche del vecchio, del portatore di handicap, del demente, del malato di mente? Col rischio di trasformare l’eutanasia individuale pietosa in eutanasia collettiva, di massa, e la difficoltà di distinguere l’eutanasia dal comune omicidio>>.

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motivazioni personali, bensì etiche e religiose, motivo per cui è lecito dedurre che la coscienza etica del medico non è circoscritta al codice di deontologia professionale. Inoltre, l’etica medica non è data una volta per tutte ma, come dimostrano le varie versioni dei codici deontologici succedutisi nel tempo, si modifica e si incrementa con l’evolversi della società.

Diffuso è anche l’argomento che evidenzia il rischio di errori ed abusi, con riguardo alla diagnosi dell’incurabilità e alla prognosi dell’imminenza della morte, nonché alla possibilità di sopravvenienza di nuovi trattamenti medico-chirurgici15.

Quanto agli errori ed abusi, sarebbe ipocrita sostenere la possibilità di annientarli del tutto. D’altra parte, però, errare è umano e tale rischio non si presenta solo nella materia de qua. Probabilmente, in relazione all’eutanasia il pericolo è avvertito con maggior intensità e preoccupazione per il fatto che la conseguenza sarebbe irreversibile e in alcun modo risarcibile. Tuttavia, la stessa cosa potrebbe dirsi anche per l’accanimento terapeutico e il rifiuto ai trattamenti salva vita; senonché, rispetto a tali situazioni, l’argomento non viene sollevato da alcuno16.

E neppure pare ragionevole opporre la possibilità che possano intervenire nuove cure, in quanto <<E’ assai poco credibile che, nella parabola temporale di una vera agonia, intervengano simili rivolgimenti della scienza medica>>17.

15 F. MANTOVANI, Biodiritto e problematiche di fine della vita, cit., 72-73.

16 Critica l’argomento degli errori o abusi D. NERI, op. cit., 155 ss., <<se lo scopo di chi avanza questo

timore è quello di attirare l’attenzione sulla inderogabile necessità di dotare la nuova normativa di precise salvaguardie che la rendano per quanto umanamente possibile esente dalla possibilità di errori o abusi, questa è una preoccupazione condivisibile e condivisa. Se invece il timore di errori o abusi viene presentato come impedimento alla legalizzazione dell’eutanasia, allora si deve dire che tale obiezione non regge, neppure quando a sostegno di essa viene invocato il carattere irreversibile della morte>>.

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Ultimo dei vari argomenti opposti all’eutanasia sul quale mi soffermo, dato il numero degli autori che lo sostengono, fa leva sull’impatto psicologico e sociale che la legislazione dell’eutanasia avrebbe sui diretti interessati.

In primo luogo, i malati sarebbero psicologicamente condizionati nella scelta, finendo per chiedere l’eutanasia per motivazioni estranee alle condizioni di particolare sofferenza, ad esempio, per non gravare economicamente sui familiari, o perché indotti da quest’ultimi18.

In secondo luogo, la configurata opzione comporterebbe una minor cura nell’assistenza ai malati e ai disabili, nonché una riduzione degli investimenti nelle cure palliative19, al fine si risparmiare sui crescenti costi della sanità20.

Si tratta, evidentemente, di preoccupazioni condivisibili, ma d’altra parte connaturate ad ogni ordinamento giuridico21, anche se ciò non sembra aver ostacolato un’apertura legislativa all’eutanasia indiretta o alle ipotesi di rifiuto ai trattamenti di fine vita, pratiche non meno pericolose dell’altra.

18 S. CANESTRARI, op. cit., 234.

19 S. CANESTRARI, op. cit., 234. In realtà sono proprio le cure palliative a configurarsi quale

condizione-base dell’eutanasia. Infatti, la maggior parte degli autori che sostengono la legalizzazione della pratica ritengono che essa possa essere ammessa a fronte di casi per cui le terapie del dolore risultino inidonee a lenire le sofferenze. Così P. CENDON, op. cit., 254; D. NERI, op. cit., 170, <<Deve comunque essere punto fermo che l’eutanasia dovrebbe essere riconosciuta solo all’interno di un consolidato ed efficiente sistema di eguale accesso alle cure mediche, che preveda anche lo sviluppo di alternative quali gli hospices e le cure palliative>>.

20 Sulla base di alcuni dati olandesi sull’eutanasia e statunitensi sulle spese sanitarie di fine vita, alcuni

ricercatori hanno mostrato che la legalizzazione della pratica non inciderebbe in modo esclusivo sul bilancio sanitario: il risparmio ammonterebbe solo allo 0,07%. Così riportata P. CENDON, op. cit., 242.

21 Secondo l’opinione di F. GIUNTA, op. cit., 125, per evitare che l’eutanasia si trasformi, parafrasando

A. Eser, in un “alibi per incurie sociali”, è necessaria una buona politica sociale, dalla quale dipende l’effettività del valore della vita.

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4. Bioetica laica e qualità della vita

La bioetica laica, diversamente dalla cattolica, si basa su un’etica razionale che non solo ragiona a prescindere dall’esistenza o meno di Dio, ma rifiuta anche la concezione di un diritto naturale ispirato da una morale universale, dal momento che non ritiene possano essere delineati valori il cui contenuto sia unanimemente condiviso. In quest’ottica, la morale è considerata un fatto privato, che rileva in ambito bioetico nella misura in cui garantisce a ciascuno libertà di autodeterminazione, ancorché agli occhi di altri le singole scelte risultino immorali, ma nei limiti della necessità di non arrecare danno a terzi.

Il principio-base è dunque l’autodeterminazione del singolo che, in tema di eutanasia, si riflette nella considerazione della vita come bene disponibile da parte del suo titolare, il quale ha diritto di scegliere il come e il quando della propria morte laddove ritenga di non attribuire più alcun valore alla sua vita. Infatti, si chiede <<che ognuno abbia la possibilità di assumere un proprio personale atteggiamento di fronte alla morte, in base ai valori coi quali ha dato significato alla sua vita o in base a valori che magari scopre o riscopre nella fase finale>>22.

La dignità, in questa prospettiva, non è un diritto dal contenuto predeterminato, ma ha una coloritura tutta personale: è il singolo a valutare quali siano i margini dignitosi della propria esistenza. Tale valutazione, tra l’altro, esige rispetto, un rispetto che deve essere garantito affidando ad ognuno la libertà e la responsabilità dell’ultima scelta; la dignità della morte si manifesta quando l’individuo la decide per sé, in piena autonomia. In breve, è un diritto del malato terminale che lo richieda ottenere di morire nel modo

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che egli ritiene per lui più dignitoso, con l’aiuto, se necessario, di chi sia disposo ad accordarglielo.

Da simili comuni premesse, vengono però tratte conseguenze parzialmente diverse. Infatti, si distinguono due filoni della bioetica laica: mentre un primo, nonostante i suddetti principi di fondo, non rinnega in toto il valore sacro della vita; invece un secondo, afferma la piena secolarizzazione di ogni valore un tempo sacro, ivi compresa la vita. Da una parte, dunque, fermo l’imprescindibile principio di autonomia del singolo, si cerca un “terreno comune di intesa” (etica della sacralità della vita biografica); dall’altra parte, invece, è data esclusiva preminenza al principio di autonomia (etica della qualità della vita)23.

4.1. Etica della sacralità della vita biografica

Alcuni esponenti della bioetica laica si oppongono all’interpretazione assolutista che l’area cattolica dà data alla sacralità della vita, proponendone una più equilibrata. Infatti, ritengono che il valore della vita e della sua sacralità si presti a duplice lettura.

La “vita” assume connotazione diversa, a seconda che venga associata alla biologia o alla biografia. Nel primo caso, vita come “essere vivi”, significa <<essere un organismo biograficamente funzionante>>; nel secondo caso, vita come “avere una vita”, significa <<narrazione della sua storia e del suo carattere, delle sue aspirazioni e delle sue delusioni, delle sue attività, dei suoi progetti e delle sue relazioni personali>>24. In altri termini, ogni essere umano non è solo un animale vivente ma anche una persona, con una sua storia peculiare, tanto esistenziale quanto morale.

23 C. TRIPODINA, op. cit., 203-204.

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La dottrina cattolica cade in errore laddove mostra di interessarsi unicamente all’aspetto biologico della vita. Invece, stante l’ambivalenza del termine, anche il principio della sacralità è suscettibile di duplice declinazione, in quanto <<la si può intendere come una dottrina morale che attribuisce valore al semplice fatto di essere vivi>> oppure <<come dottrina morale che attribuisce valore alla vita (in senso biografico) e agli interessi che alcune creature, tra cui noi stessi, hanno in virtù del fatto che sono i soggetti delle proprie vite>>25. Proprio alla luce di tale ultima interpretazione, la sacralità della vita diviene argomento a sostegno della legittimazione dell’eutanasia.

Si è però obiettato che, nella realtà dei fatti, è un’unanime la percezione della vita quale valore intrinseco, infatti, ogni sua violazione è considerata diffusamente inaccettabile. Ma se così stanno le cose, come spiegare allora la forza del dibattito in corso in tema di eutanasia? Nonostante sia pacifica la valenza intrinseca della vita, si risponde che, in concreto, essa viene poi riempita di significati diversi a seconda delle proprie personali concezioni. In particolare, la vita umana può essere concepita come frutto dell’intreccio di una dimensione naturale/divina e di una dimensione umana. A seconda dell’aspetto cui si dà prevalenza, verrà esaltato ora più il piano biologico, ora più il piano biografico della vita. Conseguentemente, quanti si pongono nella prima direzione, rifiuteranno ogni interruzione anticipata della vita, mentre, al contrario, <<considereremo più ragionevole decidere che la vita debba terminare prima che ulteriori investimenti umani siano destinati alla frustrazione>>26.

25 J. RACHELS, op. cit., 276 ss.

26 R. DWORKIN, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, trad. it. Edizioni di

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Ebbene, nessuna delle due concezioni della sacralità della vita può dirsi assolutamente vera27 ed entrambe sono parimenti degne di rispetto; sicché, anche lo Stato, se laico e pluralista, non può imporre alcuna data interpretazione, pena l’assunzione di un atteggiamento etico e totalitario, contrario ai centrali principi personalista e pluralista.

4.2. Etica della qualità della vita

Quanti si inseriscono nel filone laico dell’etica della qualità della vita, sostengono che non esiste alcun dovere morale assoluto, in quanto ciascuno di essi, pur rilevando di per sé, non è tuttavia esente da eccezioni in caso di conflitto con altri doveri28.

L’etica della qualità della vita, lungi dal rappresentare una novità, è piuttosto una recente manifestazione di una tradizione iniziata nella Grecia classica, quando il suicidio era considerato moralmente apprezzabile e si sosteneva la disponibilità della vita. Nonostante non sia stata condivisa dalla maggioranza, tale tradizione morale si è mantenuta per tutto il corso della storia occidentale e, dopo aver incrementato i consensi a partire dal XVIII secolo, ha finito col costituire la base teorica di un nuovo modo di intendere la bioetica29.

In particolare, soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, si registra un progressivo abbandono del principio assoluto di sacralità della vita, ciò in concomitanza con un profondo cambiamento culturale che ha condotto all’affermazione di un’etica

27 R. DWORKIN, op. cit., 213. Secondo J. RACHELS, op. cit., 277, invece, la concezione migliore è

quella della sacralità della vita biografica, in quanto essa è <<oggetto del nostro interesse e delle nostre preoccupazioni>>. Infatti, afferma l’autore, se ci fosse dato scegliere, ad esempio, se morire ora oppure cadere in un coma irreversibile per morire dopo dieci anni, la maggior parte di noi preferirebbe la prima alternativa.

28 M. MORI, La “novità” della bioetica, in Questioni di bioetica, S. Rodotà (a cura di), Laterza,

Roma-Bari, 1993, 413.

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fondata non più su doveri assoluti, ma sul perseguimento del massimo benessere e del rispetto delle scelte individuali30.

Grazie al processo di secolarizzazione socio-culturale tipico del pensiero moderno, può trovare ingresso una concezione della vita quale bene disponibile e la relatività del principio “non uccidere”. Nella misura in cui la vita è disponibile, diventa moralmente lecita la scelta di ciascuno circa il quando della propria morte. Quanto al principio di non uccidere, pur essendo di per sé un valore fondamentale, esso è tuttavia suscettibile di retrocedere nel caso in cui l’interessato rinunci al diritto a non essere ucciso. Non si tratta di un’affermazione rivoluzionaria, in quanto anche l’etica della sacralità della vita ammette l’esistenza di situazioni suscettibili di derogare a tale divieto (si pensi all’uccisione per legittima difesa, alla guerra, alla pena di morte)31; a maggior ragione,

dunque, ciò è possibile in un’etica come quella della qualità della vita, che non fissa rigide gerarchie di doveri.

In quest’ottica, al diritto si chiede di adottare un atteggiamento laico e neutrale, cessando ogni criminalizzazione nei confronti di quanti decidano liberamente quale sia per loro la morte migliore. L’appello allo Stato non è solo di tollerare l’eutanasia come manifestazione della libertà di coscienza religiosa, ma anche di intervenire <<per rimuovere le condizioni che quell’esercizio potrebbero ostacolare, in particolare mettendo a disposizione del cittadino i mezzi indispensabili a tal fine e dei quali fosse sprovvisto in conseguenza di specifici deficit connessi alle condizioni della sua esistenza>>32. In altri termini, eutanasia sia come libertà negativa sia come diritto

positivo soggettivo.

30 M. MORI, op. cit., 413-414. 31 D. NERI, op. cit., 146.

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5. Argomenti a favore dell’eutanasia

Al centro degli argomenti a favore dell’eutanasia troviamo il principio di beneficenza e il principio di autonomia.

Il principio di beneficenza richiama il comune sentimento di compassione nei confronti di chi soffre e, applicato alle richieste eutanasiche, comporta non solo un atteggiamento di benevolenza, ma anche un vero e proprio dovere del medico nell’aiutare il malato terminale a conseguire ciò che è utile nel suo interesse.

Infatti, nella misura in cui un’azione persegue gli interessi di tutti coloro che vi sono coinvolti, esso è moralmente accettabile. In alcuni casi ciò si verifica anche con riguardo all’eutanasia, dunque si prospettano situazioni in cui è ammissibile33.

Tuttavia, da più parti si è obiettato come i motivi di pietà non siano elementi facilmente accertabili, ciò anche a fronte di obiettive condizioni di dolore e sofferenza, laddove anche quest’ultime sono suscettibile di essere percepite con maggiore o minore intensità da soggetto a soggetto34.

Inoltre, formulato in questi termini, il principio di beneficenza è di per sé idoneo non solo a giustificare l’eutanasia attiva volontaria, ma anche forme eutanasiche non volontarie.

Per queste ragioni il principio di beneficenza, piuttosto che argomento autonomo a favore dell’eutanasia, lo si trova più spesso accompagnare l’ulteriore argomento del principio di autonomia. Alla luce di quest’ultimo, che fa appello alla libertà di ciascuno di giudicare quale sia il valore della propria vita, l’eutanasia viene concepita come

33 J. RACHELS, La fine della vita, Sonda, Torino 1989, 165. L’autore introduce una forma di utilitarismo

incentrata sul perseguimento del massimo interesse delle persone. In particolare, l’autore propone il seguente sillogismo: <<1. Se un’azione promuove gli interessi di tutti quelli che vi sono coinvolti, allora quell’azione è moralmente accettabile. 2. Almeno in alcuni casi, l’eutanasia promuove gli interessi di tutti quelli che vi sono coinvolti. 3. Pertanto, almeno in alcuni casi, l’eutanasia è moralmente accettabile>>.

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strumento a difesa della dignità, ed ultima espressione dell’autonomia morale del malato terminale.

In quest’ottica, ed evidenziando come il rispetto delle scelte dei pazienti sia diventato caposaldo dell’odierna etica medica, alcuni ritengono che proprio l’autonomia sia l’elemento necessario e sufficiente a sostenere l’ingresso dell’eutanasia, in quanto l’atto del medico si configurerebbe come gesto di rispetto della dignità e, appunto, dell’autodeterminazione del paziente35.

Si è però obiettata l’effettiva possibilità di considerare il desiderio di morire del malato terminale quale ultima espressione della sua autodeterminazione morale. Infatti, se è vero che in ogni situazione del reale è difficile addivenire a scelte ponderate e razionali circa la propria vita, a maggior ragione ciò si verifica nella scelta di darsi alla morte con l’eutanasia. Inoltre, non pare neppure concretamente possibile assumere decisioni senza subire l’influenza delle persone con cui si vive e di quelle provenienti dall’ambiente che ci circonda, perché <<gli uomini non sono atomi, ma dipendono in modo reale gli uni dagli altri>>36. Dunque, è inevitabile che sulle decisioni personali vengano ad influire considerazioni utilitaristiche ed ulteriori interessi.

Quanto alla critica al principio di beneficenza, si evidenzia come esso rischi, così inteso, di trasformarsi nell’accettazione di un concetto di uomo isolato e privo di legami, riducendosi a sinonimo di “indifferenza” tra uomini37. Invece, e al contrario, il

35 D. NERI, op. cit., 120.

36 M. ARAMINI, Eutanasia. Spunti per un dibattito, Ancora, Milano 2006, 116. L’autore prosegue la sua

osservazione affermando che <<E’ certamente possibile stabilire dei criteri filosofici per tentare una valutazione della propria vita, ma si tratta di un procedimento astratto che non ha vero riscontro nella realtà, soprattutto quando si tratta della fase conclusiva dell’esistenza, dove si può ancora trovare un senso solo se siamo inseriti in una trama di relazioni significative e si vive un profondo senso di prossimità>>.

37 F. D’AGOSTINO, Il diritto più prezioso, 22 febbraio 2011, in www.loccidentale.it, sottolinea come sia

reale il rischio dell’indifferenza e dell’abbandono terapeutico: <<I morenti, gli anziani, gli abbandonati non sono illuministi; quello che davvero vogliono non è che si renda ossequio alla loro volontà, il più delle volte incerta, mutevole, dubbiosa; semplicemente non vogliono essere lasciati solo, vogliono essere “curati”, cioè che ci si prenda cura di loro>>.

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sentimento di empatia per le sofferenze altrui non significa altro che ascoltare i bisogni del malato, offrendogli assistenza, conforto e sostegno negli ultimi momenti della sua vita. Sono queste, infatti, le reali istanze dei malati terminali celate dietro la richiesta della morte eutanasica.

6. Eutanasia e regolamentazione

Dalla disamina dei principi che caratterizzano i due paradigmi della bioetica laica e della bioetica cattolica, il disaccordo sull'eutanasia attiva appare assoluto ed insanabile, sia a livello teorico che pratico.

Se comune è l'appello ai principi costituzionalmente garantiti, quali il diritto alla vita e il rispetto della dignità umana, l'autonomia e la solidarietà38, quando si scende al livello dei contenuti il divario è netto, e altrettanto sono le conclusioni che ne vengono dedotte.

Dinanzi a simile frattura sociale, il problema più difficile che pone la regolamentazione dell'eutanasia consiste dunque nel trovare un modello di disciplina che non assuma una particolare etica di base, ma che rifletta e salvaguardi contemporaneamente i contrapposti valori, componendoli attraverso un ragionevole bilanciamento.

38 <<L’angelo della morte che aiuta a morire i malati terminali può apparire come un benefattore o come

uno spietato criminale. Il diritto a morire naturalmente o alla morte liberatrice quando le cure si rivelano inidonee si contrappone al diritto alla vita e ad ogni istante di essa. Il senso di umanità e solidarietà può condurre sia a favore delle richieste di morte, verso una giustificazione oltre che morale, anche giuridica della pratiche eutanasiche, che contro di esse, configurando un dovere di intervento ad oltranza in ragione della tutela della vita umana, volto ad impedire ad ogni costo la realizzazione di un fatto non corrispondente ai veri e oggettivi interessi dello stesso individuo. La morte è altrettanto dignitosa sia quando l’individuo la decide da sé e in piena autonomia, sia nella situazione opposta, in cui non viene in nessun modo facilitata o anticipata intenzionalmente, e la dignità si manifesta nella sua accettazione come fatto naturale>>, M.B. MAGRO, op. cit., 18-19.

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I due paradigmi di regolamentazione in astratto idonei a realizzare l'obiettivo del rispetto della diversità e della pluralità sono il modello giudiziale39 e il modello legislativo40. Non mancano esperienze concrete di Paesi che, coniugando i vantaggi

offerti dai due modelli, hanno dato vita a sistemi misti, c.d. della giustificazione procedimentale41.

39 Un esempio concreto di modello di regolamentazione giudiziaria è offerto dai Paesi anglosassoni, dove

la magistratura appare prima portavoce di quei movimenti di opinione pubblica che, tradotti in questioni giudiziarie, diventano poi oggetto di iniziative legislative e, talvolta, di vere e proprie leggi. Ciò è quanto si è verificato in tema di eutanasia passiva (rifiuto dei trattamenti salvavita), progressivamente depenalizzata di fatto dalla magistratura, senza alcuna ripercussione sull'assetto della normativa a tutela della vita, rimasta immutata. Punto di partenza è stato il diffuso riconoscimento della centralità dei diritti individuali, in specie della libertà di autodeterminazione, anche in caso di incapacità, che ha condotto alla delegittimazione, in virtù del principio di uguaglianza, delle norme che privavano la partecipazione del medico e la possibilità del paziente stesso di darsi alla morte.

Diverso è il caso dell'eutanasia attiva, in relazione alla quale è ancora molto accesa la conflittualità fra i movimenti di opinione. Nel Regno Unito, l'ultima proposta giunta alla Camera dei Lord per una sua legalizzazione, risale al 1990: fu respinta con uno scarto di voti nettissimo (101 voti contro 35). Quanto all'esperienza americana, sul tema ha avuto modo di pronunciarsi la Corte Suprema degli Stati Uniti con due sentenze del 1997. In tale occasione, ferma la negazione dell'eutanasia attiva quale diritto costituzionalmente garantito, la Corte ha tuttavia ammesso la possibilità che i vari Stati legiferino in materia; in tale ottica, non è dunque costituzionalmente illegittima il Death with Dignity Act dello Stato dell'Oregon, una legge risalente al 1994 con cui si è stabilita la non punibilità del medico che presti assistenza al suicidio, laddove la sua condotta sia stata posta in essere in presenza di una serie di condizioni minuziosamente descritte.

40 Un esempio di modello legislativo è fornito dal nuovo codice penale spagnolo del 1995. In particolare,

fermo il reato di partecipazione al suicidio e dell'omicidio del consenziente, è stata prevista quale circostanza attenuante il fatto che il soggetto passivo del reato soffra di gravi ed insopportabili sofferenze, tali da condurlo inevitabilmente alla morte. Dunque, alla stregua di quanto proponeva, nel nostro Paese, il Progetto Pagliaro del 1992, il legislatore iberico non ha optato né per la liceità né per la non punibilità delle pratiche eutanasiche, ritenendo piuttosto opportuno configurare semplicemente un trattamento sanzionatorio più mite.

Anche in Belgio è stato adottato il modello di regolamentazione legislativo, ma in tutt'altra direzione. Infatti, la scelta della legge del 2002 è stata di legalizzare l'eutanasia su richiesta, purché in presenza di determinate condizioni e nel rispetto di specifiche procedure.

41 Il riferimento è all'esperienza olandese, dove prima ancora dell'intervento legislativo in materia, si

registra una consolidata prassi di applicare la scriminante della forza maggiore, delineata dal codice penale, al medico che si fosse trovato nel conflitto di decidere tra il dovere di lenire le sofferenze del paziente e il dovere di salvargli la vita.

Nel 1994 il legislatore ha regolato per la prima volta la materia, facendo propri i principi elaborati dalle Corti. Come dimostra il fatto di aver lasciato immutata la disciplina del codice penale, che continuava a punire la partecipazione al suicidio e l'omicidio del consenziente, la scelta non è stata né di depenalizzare né di legalizzare l'eutanasia attiva. Piuttosto, grazie ad un emendamento alla legge sulle sepolture, si sono poste le basi per una procedura amministrativa di autodenuncia a capo del medico che, in presenza dei requisiti delineati dall'associazione medica (poi trasfusi in un regolamento ministeriale), avesse concretizzato il proposito suicida del malato terminale. In particolare, veniva posto a capo del medico l'obbligo di redigere un certificato di morte "non naturale" accompagnato da un rapporto sulle circostanze della stessa. Il fatto che il medico si fosse attenuto alle condizioni delineate, non comportava di per ciò solo la sua impunibilità; infatti era il magistrato, sulla base del rapporto ricevuto, a decidere se fosse o meno applicabile la scriminante della forza maggiore.

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Per le sue caratteristiche, il modello giudiziale appare ad alcuni più idoneo a risolvere il problema della regolamentazione dell'eutanasia. In questa prospettiva si collocano tutti quegli autori restii ad un intervento legislativo in materia, che preferiscono piuttosto avallare le soluzioni de iure condito adottate dalla magistratura nei casi concreti.

In particolare, alcuni ritengono accettabile la soluzione giurisprudenziale fintantoché il legislatore intervenga in materia42; altri, invece, sostengono che solo il modello

giudiziale sia in grado di dare risposte all'eccezionalità del fenomeno eutanasico43. Il vantaggio del modello giudiziale, a differenza del legislativo, consiste nel fatto che esso non cristallizza una determinata opzione, imponendo alcuni valori e delegittimando gli altri. Nella misura in cui non fornisce una soluzione generale ed astratta, ma una risposta specifica ed aderente alla situazione concreta, rivela una maggiore duttilità a tener dietro alla realtà in continua trasformazione44; senza contare come rappresenti una strada obbligata nei contesti politici dove sembra impossibile raggiungere posizioni condivise che possano tradursi in legge. Ciò, tuttavia, al prezzo di una minor certezza e

La nuova legge del 2001, invece, fermi i presupposti legittimanti la richiesta eutanasica, ha inciso direttamente sul codice penale, prevedendo espressamente la non punibilità del medico. Alla luce della nuova disciplina, il referto del medico è passato al vaglio di un'apposita commissione regionale, la quale, se ritiene che il medico abbia ottemperato conformemente ai requisiti chiesti dalla legge, dispone l'immediata archiviazione del caso; al contrario, fa rapporto al pubblico ministero, il quale esercita l'azione penale per permettere al giudice di decidere se ricorra o meno la forza maggiore.

In sostanza, l'ordinamento olandese ha mantenuto le norme penali a tutela della vita umana, introducendo però, con una novella, una causa di non punibilità che esenta il solo medico che abbia rispettato le procedure dalle pene previste per l'omicidio del consenziente e la partecipazione al suicidio. Dunque, la legge non cristallizza definitivamente una determinata soluzione in caso di conflitto tra i valori in discussione, in quanto tale compito è affidato alla pratica medica, comunque monitorata per garantire il rispetto delle procedure legali, delineate precipuamente al fine di salvaguardare la libera autodeterminazione del paziente.

42 C.F. GROSSO, op. cit., 31 ss

43 D'AGOSTINO, Non è di una legge che abbiamo bisogno, cit., 27 ss.

44 Espone questi argomenti, nonostante non condivida, S. RODOTA', Modelli culturali e orizzonti della bioetica, in Questioni di bioetica, S. Rodotà (a cura di), Laterza, Roma-Bari, 1993, 422, <<Nella

decisione giudiziaria, invece, la scelta non si presenta mai come definitiva: perché si riferisce ad un caso specifico, e non alla generalità dei casi; e perché la parte (il valore, l'interesse) soccombente può ritenere che, in un caso futuro, saranno le sue ragioni ad avere la preminenza>>.

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prevedibilità delle scelte punitive, nonché di un'implicita adesione al principio della sacralità della vita. Infatti, non si tratterebbe di una soluzione del tutto neutrale in quanto rimarrebbe ferma l'intangibilità della vita e la configurazione dell'eutanasia entro la fattispecie dell’omicidio comune, seppur suscettibile di essere contemperata da quei giudici che, in relazione al caso concreto, operino un diverso bilanciamento dei valori in gioco45.

Altra parte della dottrina ritiene invece necessario un intervento legislativo a dettare regole giuridiche scritte per disciplinare il fenomeno. Si reclama il modello di un diritto in cui sono le leggi, generali ed astratte, prodotte attraverso il processo democratico, a costituire lo strumento imprescindibile attraverso cui dare certezze agli interpreti e garanzie ai destinatari, a presidio di ogni forma di trattamento arbitrario.

Al legislatore spetta l'ostico compito di dettare delle regole che certamente non possono più essere quelle che <<hanno lungamente caratterizzato sistemi organizzati intorno a valori condivisi, dei quali il diritto esprimeva e sanzionava il nucleo essenziale, non a caso parlandosi del diritto come 'minimo etico' accettato all'interno di una società>>46.

Nel pluralismo dell'odierna età della tecnica, sarebbe necessaria una legge <<aperta, elastica e leggera>>47, una normativa tollerante, tale da mediare le opinioni difformi, stabilendo al contempo dei limiti, purché, nel farlo, si ispiri al principio in base al quale solo la necessità di evitare danni ad altri costituisce una valida ragione per restringere l'autonomia e il diritto di ogni individuo adulto e consapevole di vivere secondo le proprie convinzioni etiche, religiose, morali.

45 C. TRIPODINA, op. cit., 242.

46 S. RODOTA’, Introduzione, in Questioni di bioetica, cit., VIII. 47 S. RODOTA’, Modelli culturali e orizzonti della bioetica, cit., 421 ss.

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In ogni caso, non si nasconde che anche il modello di regolamentazione legislativa si rivelerebbe una “soluzione partigiana”, nella misura in cui <<tollerare l’esistenza di altri valori a fianco di quello della sacralità della vita significa, in ultima analisi, scegliere quelli piuttosto che questo, poiché relativizzare un valore assoluto significa negarlo>>48.

Rimanendo sul piano del principi, a ragione del vero, il diritto non potrà mai ergersi ad arbitro imparziale, in quanto <<esistono due possibili universi etico-giuridici che occupano integralmente lo spazio delle possibili risposte all'eutanasia, e tertium non datur>>49.

Secondo alcuni, tuttavia, una soluzione alternativa esiste, laddove ritengono opportuno qualificare l'eutanasia come materia rientrante nello "spazio libero dal diritto", ovvero un territorio che il legislatore dovrebbe lasciare alla coscienza individuale, sottraendola dalla dimensione dell'etica pubblica per assegnarla all'etica privata50. Simile atteggiamento astensionista, però, pare fondato su un uso distorto del principio di laicità51, il quale, come più volte precisato dalla Corte Costituzionale,

48 C. TRIPODINA, op. cit., 242-243. 49 C. TRIPODINA, op. cit., 243.

50 Riporta questo argomento M.B. MAGRO, op. cit., 254.

51 Il principio di laicità, non espressamente menzionato nella nostra Costituzione, è frutto dell’opera di

elaborazione ed interpretazione della Corte Costituzionale, in primis. Con la sentenza n. 203/1989, in www.giurcost.org, infatti, la Corte è stata chiamata a decidere circa la legittimità costituzionale della normativa di derivazione pattizia che prevedeva il mantenimento dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, ritenuta in contrasto con gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione italiana. La Corte, con una pronuncia interpretativa di rigetto, ne ha dichiarato la conformità alla Carta costituzionale, purchè tali disposizioni vengano interpretate nel senso di configurare un obbligo scolastico di frequenza e di permanenza negli edifici scolastici solo per gli studenti che decidano di avvalersi del suddetto insegnamento.

In tale occasione, la Consulta ha riconosciuto la laicità quale <<principio costituzionale supremo>>, desumibile implicitamente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost., il quale <<implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale>>.

Successivamente, in occasione della sent. 334/1996, reperibile in www.giurcost.org, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità dell'art. 238 c.p.c., regolante la formulazione del giuramento decisorio, limitatamente alle parole “davanti a Dio e agli uomini” e “religiosa e”, la Corte Costituzionale ha avuto modo di precisare che <<Gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione garantiscono come diritto la libertà di coscienza in relazione all'esperienza religiosa. Tale diritto, sotto il profilo giuridico-costituzionale,

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significa sì neutralità delle istituzioni pubbliche, ma non già indifferenza, in quanto postula pur sempre un intervento positivo del legislatore a rendere effettiva l'estrinsecazione e il rispetto del pluralismo dei valori.

Se, ragionando sul piano dei principi, appare impossibile per il diritto assumere una posizione del tutto neutrale, diversa conclusione può trarsi muovendo su quello empirico dei malati terminali, per i quali le due etiche in conflitto non si pongono in termini equivalenti, dato che solo l'etica della qualità della vita garantisce loro la libertà di scegliere di che morte morire. Infatti, mentre la sacralità della vita rinnega la convivenza con etiche alternative; al contrario l'etica della qualità della vita non impone a quanti abbraccino la visione antagonista, di rinunciare alla tutela della propria vita.

Se dunque il diritto non può esimersi dall'effettuare una scelta morale, pare preferibile l'orientamento offerto dall'etica della qualità della vita, senza con ciò rinnegare la centrale preminenza della tutela del bene vita, essendo in ogni caso pacifico come l'eutanasia attiva si configuri pur sempre come ipotesi derogatoria eccezionale.

È dunque da auspicarsi un intervento del legislatore che, con metodo laico ed un approccio concreto, dia adeguato risalto ai momenti del dolore, garantendo ai malati terminali la possibilità di decidere di andarsene nel modo per loro più dignitoso, approntando al contempo un apparato di norme volte, da un lato, a distinguere le varie fattispecie di richiesta anticipata di morte configurabili e, dall’altro, a garantire la genuinità della volontà del paziente, evitando con ciò proliferazioni indebite della pratica.

rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall'art. 2. Esso spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici e comporta la conseguenza, valida nei confronti degli uni e degli altri, che in nessun caso il compimento di atti appartenenti, nella loro essenza, alla sfera della religione possa essere l'oggetto di prescrizioni obbligatorie derivanti dall'ordinamento giuridico dello Stato>>.

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Una simile scelta, tra l’altro, troverebbe sostegno e conferma nel principio personalista e pluralista, nonché nella libertà di coscienza, tutelata dagli articoli 2, 19 e 21 Cost52.

Riferimenti

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