LA STORIA DI ARTURO di Paola Stella
Categories : Spettacoli Date : 26 novembre 2019
Arturo era un bravissimo pittore, autodidatta, ma con un vero talento innato. Per i suoi genitori era stata una pena tirarlo su, troppo ribelle e irrequieto. Era stato una vera disperazione anche per i suoi insegnanti, che non
riuscivano a metterlo in riga. Lui faceva solo ciò che gli piaceva: disegnare. Sì, disegnava tutto il giorno, ora i professori, ora i compagni di classe, oppure i vicini di casa e così via. Nessuno capiva la sua arte, nessuno lo gratificava. Abbandonò presto la scuola. Suo padre lo considerava un perditempo, e ad un tratto gli disse che se non voleva proseguire gli studi doveva darsi da fare a cercare un lavoro per mantenersi. Si mise a fare
l’imbianchino, e imparò molte cose sui colori. Il suo capo era stimato e ben voluto da tutti e gli affidavano lavori delicati, anche in palazzi signorili, persino dei restauri.
Arturo ebbe modo così di vedere da vicino
opere d’arte importanti e la sua passione si rafforzò ulteriormente. Davanti ad alcuni
quadri s’incantava, rimaneva estasiato. Il suo capo lo richiamava al lavoro, ma lui rimaneva lì a osservare i giochi di luce nei volti dei protagonisti dei dipinti, l’espressività data da una ruga o da un’ombra. Una volta capitò in una grande biblioteca di un
aristocratico. Trovò dei libri su Leonardo da Vinci, su Michelangelo, su Caravaggio, che gli fecero perdere la testa. In quei giorni si ubriacò di bellezza e si dimenticò del suo lavoro. Sfogliava quei libri in modo febbrile, ritornava indietro, si fermava, poi andava avanti. Studiava in particolar modo i visi, di fronte, di profilo, statici o in movimento e provava a riprodurli. Perdeva la cognizione del tempo. Il suo capo, rendendosi conto che
Arturo non era affidabile come lavorante, lo licenziò. Con i soldi guadagnati comprò una valigetta, un cavalletto, dei colori, dei
carboncini e delle tele arrotolate. E partì alla volta di Venezia, dove si guadagnò da vivere disegnando ritratti per i turisti o dipingendo scorci suggestivi della città. Nel frattempo conobbe altri artisti di strada e imparò molto anche da loro. Quando poteva, adorava
visitare i musei d’arte.
La sua irrequietezza, la sua curiosità, la
voglia di esplorare e di sperimentare non gli consentivano di rimanere a lungo in uno
stesso luogo. Ripartiva, dunque, per altre
destinazioni: Parigi, Madrid, Londra, Vienna, Amsterdam, San Pietroburgo. Poi l’India,
l’Africa, l’America.
sempre con la barba incolta, non particolarmente bello, anche trasandato, ma con quella luce negli occhi, e quel modo di guardare ammaliante, per cui ogni donna che posava per lui rimaneva sopraffatta dal suo fascino. Ciò che colpiva di lui era l’idea che fosse un uomo libero, vero e padrone della sua vita.
Diventò bravissimo, soprattutto nei ritratti. Coglieva immediatamente i tratti distintivi di un volto.
Fu anche famoso.
Ogni tanto qualcuno gli organizzava una mostra in una qualche città del mondo. I
denari però li sperperava subito in altri viaggi.
A lui piaceva vivere nella precarietà, dormiva in alloggi di fortuna e si nutriva di bellezza, bellezza di luoghi, bellezza di volti. Si
rifiutava di pensare al futuro. Era un uomo senza radici, senza patria, un giramondo.
Gli anni passarono, si ammalò e non poté più viaggiare. Fu costretto a rifugiarsi in un
villaggio del Brasile. Passò gli ultimi giorni a viaggiare con la mente attraverso i suoi
disegni, che componeva in maniera delirante e che si animavano sotto le sue dita. Ecco,
ora dal foglio prendeva vita Vivienne, con le sue labbra carnose e il naso minuto.
Cancellava alcuni segni dagli occhi, oppure li allungava ed ecco il volto di Irina o
Alexandra. Assottigliava le labbra e le gote e si materializzava Louise, o Joanne. Ogni
donna era una città in cui era vissuto, un frammento della sua vita. Aveva con i suoi disegni, con quegli occhi, quelle labbra, quei capelli… che tracciava sul foglio, un rapporto profondo e intimo, tanto che quei volti di
donne diventavano veri, reali.
In quegli ultimi giorni, il pavimento si riempì di fogli disegnati, corretti fino a sembrare
scarabocchi, e la stanza di fantasmi di donne che inveivano contro di lui perché erano state abbandonate.
Arturo gridava – Non potevo fermarmi, sarei morto! Vi amavo, ma non riuscivo a rimanere in una città. Mi sentivo soffocare. Dovevo
ripartire presto. Dovevo seguire il mio istinto!
–
Dopo tanti disegni fatti, cancellati, rifatti, si rese conto che veniva fuori sempre lo stesso viso, quello di Jessica. L’aveva conosciuta poco tempo prima, casualmente a New York in metropolitana. Era bellissima, dolce e
gentile, con gli occhi da cerbiatto. Appena la individuò nella folla fu preso dalla smania di farle un ritratto. Glielo chiese e lei
acconsentì. Si innamorarono. Erano felici.
Era uno di quegli amori che non necessitano di tante parole, di tanta conoscenza.
Immediato e forte. Lei lo capiva subito.
Arturo, proprio questa volta, si sarebbe convinto a rimanere, ma ultimamente non stava troppo bene, le mani avevano
cominciato a tremare, e di tanto in tanto era tormentato da certi dolori fortissimi. Si
trascurava, preso dalla sua disperata ricerca del bello. Jessica era molto più giovane di lui, così, preoccupato per lei dall’idea di non
poterle offrire nessuna sicurezza, decise di fuggire ancora. Per salvarla. Arturo, appunto, andò in Brasile da alcuni amici. Lì peggiorò, gli vennero quelle visioni di tutte le donne che aveva amato, e che quasi si
materializzavano sotto le sue dita. Per la prima volta in vita sua avvertì un senso di solitudine assoluta, e capì che la sua
frenesia era una ricerca disperata di amore e di riconoscimento. Capì che si era rifugiato
nell’arte perché era diverso dagli altri ed era dovuto fuggire dalla mancanza di affetto e di comprensione da parte dei suoi, e dal
disprezzo o dalla indifferenza di tutti gli altri.
Mentre parlava con il ritratto di Jessica e
accarezzava quel disegno come fosse il suo vero viso, entrò lei, proprio Jessica, che lo aveva cercato tanto in quei giorni, e che finalmente era riuscita a trovarlo.
Lei si commosse vedendolo con il suo ritratto e rinunciò a dirgli tutte le cattiverie che aveva in serbo. Lo trovò smagrito, sporco, con lo
sguardo perduto.
Jessica era figlia di un chirurgo, e fece di tutto per convincere Arturo ad andare in
ospedale da suo padre. Ma non ci fu nulla da fare. Volle un ultimo foglio e una penna, lì, in
un letto d’ospedale. Con le mani tremanti
fece un autoritratto. Disegnò un volto provato dal dolore, scavato da profondi solchi, pieno di ombre, ma con una bocca sorridente.
Disegnò per ultimo gli occhi. Li fece chiusi, ma espressivi. Non appena li ebbe
completati si spense, con un sorriso, felice.
Aveva rincorso l’arte per tutta la sua vita,
scappando dall’amore, che considerava una prigione e una fonte di delusione. Ora, che aveva raggiunto la perfezione nel volto di
Jessica, che lasciò intatto nell’ultimo ritratto, senza modificarlo togliendo tratti di matita o aggiungendone altri, come aveva fatto con tutti gli altri, e soprattutto ora, che aveva
trovato un rifugio sicuro dell’anima in quella donna, poteva arrestare la sua corsa. Aveva
dato senso alla sua vita. Nessuna mai
l’aveva amato come lei. Jessica lo faceva sentire a casa. Una casa ideale, piena di dolcezza e di affetto, dove non veniva
giudicato, ma apprezzato per intero. In
definitiva si era esaurita in Arturo la tensione vitale che lo conduceva ad una ricerca
continua. Aveva trovato ciò che cercava.
Cedette senza più forze.
Era arrivato il tempo di fermarsi.
Paola Stella