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PASSIONI TRISTI, DECISIONI MORALI E SPERANZA EDUCATIVA

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PASSIONI TRISTI, DECISIONI MORALI E SPERANZA EDUCATIVA

a cura di

FRANCESCO RUSSO

ANDREA LAVAZZA « GIUSEPPE CURCIO « G I U L I A D ’A U R I Z I O « P A O L A R I C C I S I N D O N I « F R A N C E S C O R U S S O « M ARIA TERESA RUSSO « PAOLO TERENZI

F orum on

A nthropology ESSA YS 2

(2)

F

rancesco

r

usso

(a cura di)

PASSIONI TRISTI, DECISIONI MORALI E SPERANZA EDUCATIVA

Presentazione di:

Andrea Lavazza

Scritti di:

Giuseppe Curcio Giulia D’Aurizio Paola Ricci Sindoni

Francesco Russo Maria Teresa Russo

Paolo Terenzi

EDUSC 2020

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Secondo volume della Collana Essays

Prima edizione 2020

© 2020 – Edizioni Santa Croce s.r.l.

Via Sabotino, 2/A – 00195 Roma Tel. (39) 06 45493637

[email protected] www.edizionisantacroce.it

ISBN 978-88-8333-914-1

A

nthropology

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Andrea Lavazza

PrEsEntazionE. UnfilonElvorticEcontEmPoranEo 5

1. Cattive lezioni e lezioni cattive 5

2. L’attuale paradigma educativo 7

3. Formazione accademica e dilemmi morali 9

Giuseppe Curcio, Giulia D’Aurizio

DEcisionimoraliEformazionEaccaDEmica. UnPrimostUDioEmPiricosUUnaPoPolazionE

DistUDEntiUnivErsitariitaliani 13

1. Premessa 13

2. Introduzione 14

3. Metodo 21

3.1. Partecipanti 21

3.2. Procedura 22

3.3. Analisi statistiche 24

4. Risultati 24

4.1. Tempo di lettura 24

4.2. Tempo di risposta 25

4.3. Tipo di risposta 26

5. Discussione 26

Paola Ricci Sindoni

DElUsionEEabbanDono. notEantroPologichEEDEtichE 35 1. Uno sguardo dal presente al futuro 35

2. Il senso del tempo 38

3. La strada verso Emmaus 39

4. Un’attesa profonda 43

5. Trascendenza e speranza 47

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PErUnantroPologiaDEllaUtotrascEnDEnza 53 1. Il perdurare della questione antropologica 53

2. Speranza e autotrascendenza 55

3. Alla ricerca della felicità 58

4. Quale autotrascendenza? 62

5. Desiderio, felicità e verità 65

Maria Teresa Russo

ilrUoloDEllEsEmPlaritànEllEDUcazionEmoralE:

PratichEgioiosEcontrolEPassionitristi 69 1. L’educatore di fronte alle nuove sfide culturali 69 2. Oltre le “passioni tristi” degli educatori 72 3. Coltivare l’eroismo: l’educazione

attraverso i modelli 78

4. Modelli ed esempi. Ammirazione,

emulazione, imitazione 86

5. Conclusioni 94

Paolo Terenzi

bEnasayagElacriticaalmoDEllofUnzionalista

DiEDUcazionE 99

1. Introduzione: funzionare o esistere? 99

2. La crisi del progetto moderno 102

3. Le conseguenze sull’educazione 104

4. Un’ipotesi alternativa 112

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UN FILO NEL VORTICE CONTEMPORANEO

Andrea Lavazza

Centro Universitario Internazionale, Università di Pavia

1. cattivElEzioniElEzionicattivE

C’erano una volta i “cattivi maestri”. Era un’e- poca in cui la preoccupazione consisteva nel fatto che i discenti imparassero lezioni cattive, non che assistes- sero a cattive lezioni. Il presupposto stava nell’effica- cia di alcuni messaggi perniciosi e nell’assorbimento che i giovani manifestavano verso di essi. Era un’e- poca di rottura, per alcuni aspetti tragicamente imbe- vuta di violenza, non necessariamente fisica. Eppure, oggi, quella stagione, neppure troppo lontana, sembra quasi un’età dell’oro per la trasmissione intergenera- zionale, capace di spargere semi d’odio ma anche di far crescere fiori preziosi che sono sbocciati in cento colori e sfumature.

Nel leggere i contributi di questo attualissimo volume dedicato a “Passioni tristi, decisioni morali e speranza educativa” veniamo confermati nell’idea che nelle nostre scuole ora prevalgano le cattive lezio- ni, che non scalfiscono gli sfuggenti e spesso rassegna- ti ascoltatori. Non c’è più una rivoluzione in vista, il futuro spaventa e manca un progetto per trasformar- lo. È persino assente la volontà di mobilitarsi e di agi- re per cambiare la situazione. Nessuna lezione cattiva, nessun “cattivo maestro” che si segnali esplicitamente

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come tale. A comandare sono paura e rassegnazione.

Un quadro eccessivamente fosco? Dipende dal filtro interpretativo che si vuole adottare. I sei autori qui chiamati a convegno non sono per nulla inclini a un facile nichilismo e, come vedremo, cercano di deli- neare percorsi per uscire dalla palude dello sconforto.

La domanda da porsi è come si è passati repentina- mente da un contesto in cui alcuni messaggi potevano infiammare, suscitando nuovi paradigmi teoretici ed entusiasmi pratici, a un contesto in cui, come scrive Maria Teresa Russo nel suo contributo, sono emersi

«il declino del riferimento alla trascendenza deivalo- ri di fronte alla loro privatizzazione; l’attenuarsi della distinzione fra giovani e adulti; la perdita di presti- gio dell’istruzione come trasmissione di conoscenze oggettive di fronte al sapere tecnocratico e agli scopi pragmatici; la crisi della struttura gerarchica delle isti- tuzioni educative; la funzione sempre meno impor- tante del libro e della lezione, di fronte alla multifun- zionalità della comunicazione e del sapere digitale».

Non sarebbe azzardato affermare che si tratta dei frutti avvelenati di un “rompete le righe” che ha caratterizzato il nostro sistema d’istruzione dall’inizio degli anni Settanta. Ma dovremmo aggiungere però una nota di cautela, per non avere una visione miope di quello che il Sessantotto è stato per la società intera, Chiesa compresa. Dovremmo forse rimpiangere au- toritarismi e rigidità istituzionalizzate che mettevano ai margini le donne, i gruppi meno avvantaggiati, le fasce più deboli o meno integrate economicamente e culturalmente?

Dobbiamo piuttosto fare i conti con un effetto indesiderato e probabilmente imprevisto di un pro- gresso che ha avuto aspetti luminosi. Si tratta dell’af- fermarsi di un “mito dell’autenticità”, l’idea che cia-

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scuno sia portatore di un’originalità che va espressa e assecondata liberamente, senza piegarsi a imposi- zioni esterne e a regole eteronome. Di qui, ignari dei condizionamenti sempre all’opera, come bene coglie Francesco Russo nel suo capitolo, nasce la pretesa «di giustificare l’eterogeneità e la superficialità delle espe- rienze, il passare da una “storia” all’altra, il rifiuto dei classici, l’estemporaneità dei programmi di studio, il predominio delle opinioni e dell’effimero. Il tutto fondato su una visione individualistica del conoscere, come se ognuno bastasse a se stesso e fosse l’arbitro indiscusso di ciò che è corretto o sbagliato».

2. l’attUalEParaDigmaEDUcativo

Non c’è spazio qui per richiamare come all’ori- gine di questa prospettiva vi sia un filone della psi- cologia accademica anglosassone, che l’autoindul- genza liberatoria ha teorizzato esplicitamente, senza considerare come ciò fosse funzionale a un pensiero acritico che indebolisce il carattere di fronte ai tanti manipolatori piuttosto che aprire la strada a una nuo- va esistenza di soddisfazione. Ma che non vi sia una un’inarrestabile discesa lungo una china negativa è mostrato dagli anticorpi che un altro psicologo, assai citato nei saggi del volume, è riuscito a inoculare nel- la cultura contemporanea. Stiamo parlando di Miguel Benasayag, il cui pensiero è al centro della riflessione di Paolo Terenzi.

Il pensatore di origine argentina ha, tra gli altri, saputo cogliere come «la proposta della società ai gio- vani è di funzionare. Non di esistere, ma di funzionare, cioè di essere performanti. Performanti per che cosa?

Per la performatività in sé. Non c’è un orizzonte più ampio, non c’è un senso, una struttura. Il nostro è il

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mondo della follia quantitativa: si tratta di fare una quantità maggiore di cose, anziché imparare ci si in- forma, sempre di più. E gli educatori lasciano il posto al coach, ossia a qualcuno che pretende di ‘allenare’

alla vita».

Siamo di fronte a un paradigma dell’accelera- zione, come delineato dal sociologo tedesco Hartmut Rosa nel suo celebrato Accelerazione e alienazione1, che potrebbe ben compendiare numerose delle critiche e dei timori rispetto alla società contemporanea che soggiacciono all’intero concerto che i sei esecutori re- alizzano in quest’agile strumento di analisi e di pro- posta sull’educazione. Rosa, infatti, individua come chiave di lettura della tarda modernità un aumento della velocità di tre ambiti chiave: la tecnologia, i mu- tamenti sociali e il ritmo di vita.

Non è un’inebriante cavalcata quella che trasci- na le nostre esistenze, bensì un continuo inseguimen- to dentro meccanismi sistemici di cui non abbiamo controllo, ma neppure piena comprensione. Ed è inte- ressante soffermarsi sul motore culturale che, secondo Rosa, alimenta l’accelerazione, ovvero la “promessa di eternità”. In una società secolarizzata, l’enfasi mag- giore è posta sulla vita prima della morte. Aspirazioni e desideri sono indirizzati verso il mondo e la pienez- za di vita risulta dalla somma e profondità delle espe- rienze fatte nel corso dell’esistenza. Gustare la vita in tutte le sue altezze e i suoi abissi è diventata l’aspira- zione principale dell’uomo moderno.

Ben presto, però, scopriamo che le opzioni sul mercato (è il caso di dirlo) sono molto più numerose delle possibilità che materialmente abbiamo di speri- mentarle. C’è una divergenza crescente tra il tempo

1 Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica della tarda moder- nità, Einaudi, Torino 2015.

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percepito del mondo e il tempo della vita del singo- lo, secondo la terminologia di Hans Blumenberg. Di conseguenza, l’accelerazione del ritmo di vita diventa la soluzione più funzionale. Se viviamo due volte più veloce, possiamo dimezzare il tempo per raggiungere un obiettivo e possiamo raddoppiare la somma delle esperienze. Raddoppia così la nostra efficacia, cioè la proporzione tra le possibilità realizzate e quelle realiz- zabili, nota il sociologo tedesco. «La promessa eudai- monistica dell’accelerazione moderna si fonda quindi sull’idea (inespressa) che l’accelerazione del ritmo di vita sia la nostra risposta (ossia la risposta della mo- dernità) al problema della finitezza e della morte». Ma – argomenta Rosa – è superfluo dire che la promessa non viene mantenuta.

Le stesse tecniche ci hanno portato a guadagna- re tempo (pensiamo al viaggiare, sempre più rapido, in cui un ritardo di pochi minuti ci indispettisce per il tempo apparentemente sprecato) hanno portato an- che a un’esplosione delle opzioni del mondo. Possia- mo essere i più veloci eppure, inesorabilmente, la pro- porzione tra esperienze vissute e quelle mancate non diminuisce, bensì aumenta incessantemente. «Questa è, oserei dire, una delle tragedie dell’individuo mo- derno: sentirsi imprigionato in una ruota da criceto, mentre la sua fame di vita e di mondo non è mai sod- disfatta, ma anzi gradatamente sempre più frustrata».

3. formazionEaccaDEmicaEDilEmmimorali

Ecco allora la necessità di uscire da questa gab- bia di finto vitalismo, in realtà destinata soltanto ad accendere passioni tristi. È un punto di osservazione ristretto quello che adottano Giuseppe Curcio e Giulia D’Aurizio, e non potrebbe che essere così per realiz-

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zare un esperimento scientifico, tuttavia esso risulta assai significativo. Nel loro resoconto delle decisioni morali adottate da un campione di studenti univer- sitari, allo scopo di verificare l’influenza della forma- zione accademica, emerge infatti che il progredire nel corso di studi ha un’incidenza ridotta se non negativa nell’approccio etico ai dilemmi cui si è esposti. Come se, ma è un’ipotesi da verificare, l’approfondimento disciplinare e il contatto con i docenti non sortisse quell’auspicato effetto di maturazione e di accresciuta sensibilità umana, professionale e civile che ci si atten- de da una istruzione superiore.

Ancora una volta, non si tratta di cedere al pessi- mismo, piuttosto di rialzare lo sguardo a un orizzonte più lontano e promettente, come invita a fare Paola Ricci Sindoni la quale, affrontando i temi della delu- sione e dell’abbandono, approda a una speranza cri- stiana che si alimenta di quell’ansia di trascendenza che ogni essere umano ha in sé e che «è purafidatezza nella capacità rivelativa dell’incontro, nella possibilità estrema di intercettare l’alterità da questo tesoro di fi- ducia congenita, da questa fonte originaria, con cui ci si apre con slancio alla compiutezza di ciò che l’uomo vuole essere».

Tutto ciò è possibile in un’esperienza educativa che sappia provare a sciogliere i nodi di una genera- zione che è in ricerca come le precedenti e come quel- la che la seguirà (sebbene qui si affacci il problema grande e grave della denatalità, figlio proprio di una chiusura al futuro mentre ciascuno si affanna, piccolo criceto, a fare girare la propria ruota nel vano tentati- vo di andare più lontano degli altri).

Trovare ogni volta la giusta via al cuore e alle menti dei giovani resta un’impresa ardua e merite- vole del diuturno impegno di tutti gli adulti. Questo

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libro getta semi fecondi di riflessione e stimola a un impegno educativo che deve essere generoso ma an- che rigoroso, ispirato da valori universali e nello stes- so tempo guidato da un’analisi scientifica. Non pos- siamo permetterci il pessimismo di un oggi che può risultare spesso difficile e faticoso. Verità e felicità ri- mangono fari all’orizzonte, nella consapevolezza che tanta strada si è fatta finora e il cammino percorso fin qui può essere di conforto nei momenti di scoramen- to. Perché l’auspicio corale degli autori è che rinnova- te “pratiche gioiose” ci immunizzino dalle “passioni tristi” che consumano i nostri tesori come la tarma e la ruggine evangeliche.

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NOTE ANTROPOLOGICHE ED ETICHE

Paola Ricci Sindoni

Università degli Studi di Messina Dipartimento Scienze cognitive, psicologiche,

pedagogiche e degli studi culturali

1. UnosgUarDoDalPrEsEntEalfUtUro

Sono del 6 dicembre 2019 i dati del 53° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese dove, in aumento del 26% dall’anno precedente gli italiani sono

“stressati, diffidenti, delusi, ansiosi”; il 69% esprimo- no pessimismo sul futuro e per il 75% è venuta meno la fiducia negli altri. Sono soprattutto i giovani sotto i 30 anni a sentirsi abbandonati dalle istituzioni e quasi 5 milioni di italiani di tutte le classi ed età fanno uso sistematicamente degli psicofarmaci. Un quadro im- pietoso e allarmante in una società che mitizza l’au- todeterminazione, la libertà fuori ogni norma e che ci dipinge come fragilmente onnipotenti, eternamente fluidi, stancamente rassegnati.

Chiusi ciascuno dentro il proprio spazio privato, rappresentato dalla sindrome dei social o, quando va meglio dallo sport, dai viaggi, e, quando va meglio ancora, dalla cultura o dal volontariato, i giovani ma- nifestano un senso di frustrazione, di sconforto, che sono parole altre per dire il sentimento dell’abbando- no e della delusione. Di fronte a questo scenario può dirsi come la filosofia, originata secondo la tradizio- ne greca da un’esperienza di meraviglia, sia costretta oggi a fare i conti oggi con la delusione, con un senti- re profondo indeterminato ma tangibile, secondo cui

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qualcosa di desiderato non è stato raggiunto, dal mo- mento che ogni sforzo di immaginazione – nel senso kantiano del termine21 – è andato a scontrarsi contro il muro solido e oscuro della realtà.

La formula abusata di “crisi dei valori”, come quella di “cecità morale” nei confronti delle relazioni umane segnate dalla violenza o dall’indifferenza, in- terpella la coscienza filosofica, chiamata anche a dar conto del deficit e della fragilità delle istituzioni so- ciali e persino del senso della democrazia, che pure ci appartiene convintamente. La politica tradizionale, basata sulla rappresentanza elettorale, viene percepita per lo più come estranea dalla vita dei cittadini, con la conseguenza che la società civile si allontana progres- sivamente dallo Stato, proprio nel momento in cui gli apparati statali tentano di estendere i crescenti poteri tecnologici di sorveglianza e di controllo su tutte le sfere private e pubbliche dei cittadini. Al cuore della vita democratica sembra dunque profilarsi un deficit di motivazione: la base della società civile percepisce con disagio come le norme che regolano la vita pub- blica non arrivino a toccarla nel profondo22.

Al di là e oltre le numerose analisi fenomenologi- co-descrittive fornite dagli storici delle idee culturali e politiche, come dai sociologi23, è importante annotare come questo deficit sia anche e soprattutto di tipo mo- rale, poiché indica una mancanza di senso al centro della vita personale, intimamente connessa alla perce- pita inadeguatezza dei punti di riferimento etici, non più colti come universalmente condivisi, tali da forni-

21 i. Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004.

22 Cfr al riguardo s. critchlEy, Responsabilità illimitata. Etica dell’impegno, politica della resistenza, Meltemi, Roma 2008, pp.

105-153.

23 Cfr. a. baDioU, Metapolitica, Cronopio, Napoli 2002.

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re motivazione e forza sufficiente per neutralizzare le derive qualunquistiche e le tentazioni totalitarie.

Si tratta dunque di pensare e di rispondere in pri- mo luogo alla domanda: come fa un soggetto a vinco- larsi a una cosa che ritiene buona in sé? E ancora: che tipo di impegno soggettivo deve sottendere all’agire sociale e politico, quale esperienza etica può sostenere tutte le questioni di giustificazione normativa, rispet- to alle teorie della giustizia, dei doveri, della respon- sabilità e altro? Siamo in tal senso rimandati al cuore della coscienza personale, là dove la delusione, quale perdita del futuro, sembra ingabbiarci e paralizzarci.

A ben pensare, infatti, anche noi viviamo così: l’uomo si perde volentieri nell’ambiente che lo circonda, sta di fronte al mondo come a un oggetto producibile, ma smarrisce il senso della continuità del tempo, accele- rando forzatamente le ore e perdendone la durata, dal momento che per lui il futuro non è che il vuoto pro- lungamento del presente ed è solo quest’ ultimo che ci è dato da vivere.

Mi si dirà che altri e più concreti sono i motivi della perdita del futuro: l’incertezza del domani, la mancanza di sicurezza del lavoro, la fluidità delle re- lazioni intersoggettive e altro ancora. Tempi difficili, si dirà, che poco o nulla possono presagire sul bene del futuro. C’è da domandarsi però come vivevano il domani i nostri progenitori, usciti dall’immane di- sastro della guerra, con le città in rovina, con i beni dissolti, con i dolori accumulati. Eppure… Per loro il futuro era là, non certo a portata di mano, ma bastava attrezzarsi con fiducia e ricominciare… Ecco appunto:

non mancavano di futuro perché vivevano agganciati al passato e carichi di tensione verso il nuovo che era tutto nelle loro mani…

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2. ilsEnsoDEltEmPo

E oggi quale sarà l’andamento del futuro, se de- lusi e scoraggiati guardiamo altrove con gli occhi del qui? Occorre perciò riprendersi il senso del tempo, l’esperienza cioè della sua durata, della sua comple- tezza, misurata dal senso delle cose, dal valore delle relazioni, dal rispetto degli eventi che ci accadono e ai quali bisogna garantire un significato.

A pensarci bene, non è Dio, ma l’uomo libero che è signore del tempo. A noi non appartiene il presente assoluto, quello che conferisce il carattere definitivo agli eventi e alle cose, che è – in fondo – il marchio della verità eterna. A noi tocca il tempo, che mai pos- sediamo, ma che abitiamo e siamo indotti a viverlo nella durevolezza del suo darsi, accettando la fatica della memoria, concentrandoci nella responsabilità del presente e guardando a quell’altrove che ci viene incontro e che talvolta non assomiglia all’oggi. Il futu- ro ci manca perché ci manca il coraggio di attendere l’avvenire, l’av-venire, appunto, che non significa ras- segnazione passiva a ciò che sarà il domani, ma desi- derio di andare incontro ad un nuovo inizio.

Si ha paura del futuro anche perché non riuscia- mo a fermare la corsa infinita dei ritmi del tempo, dandogli un fermo – un halt – uno stop nel duplice senso di fermata, ma anche di appoggio e di aggancio a ciò che vale di giusto e di buono. Ciò non significa certamente che l’accelerazione dei processi produttivi e vitali, che trasformano la nostra vita in un agitarsi senza direzione, possano essere cambiati con gesti di buona volontà, né è possibile scaricare queste patolo- gie leggendole come costrutti sociali che determinano i nostri stati mentali. Certo, sullo sfondo premono i grandi scenari epocali, che hanno condotto a differen-

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ti mutamenti di paradigma, come ci avvertono i so- ciologi, gli psicologi e gli storici, ma ciò non dovrebbe significare perdersi nella stanchezza e nella delusione di fronte alla durezza dell’esistente.

Oltre la scomparsa delle grandi narrazioni, al di là della crisi delle metafisiche fondative, rimane per la filosofia che vuole andare in profondità dei problemi, il ricco deposito di senso racchiuso nella Sacra Scrittu- ra, là dove oltre i metodi dell’esegesi, della teologia, dell’ermeneutica, sta la possibilità di leggere le pagine bibliche come orizzonte di comprensione fenomeno- logica degli eventi umani, ossia come spazio simbo- lico ricco di implicazioni ermeneutiche di spessore antropologico e di orientamenti normativi in grado di illuminare anche oggi alcune scene drammatiche della condizione umana.

3. lastraDavErso EmmaUs

Non c’è, forse, narrazione più limpida e capace di affrescare il peso della delusione e dell’abbandono, come quella dei discepoli di Emmaus, raccontata nell’ultimo ca- pitolo del vangelo di Luca. Non sorprenda la comparsa di un dettaglio, apparentemente inessenziale all’intenziona- lità del racconto, e relativo all’identificazione del villag- gio verso cui erano diretti i due amici: Emmaus, o meglio, El–Kubebe, distante circa sessantaquattro stadi (dodici chilometri) a nord est di Gerusalemme. Tanto è lunga la delusione: passo dopo passo, è come se il cammino si fa- cesse più tirato e stanco, e il dolore, misto allo sconforto e al disagio interiore, riempisse di vuoto i loro discorsi.

La strada di Emmaus è davvero tortuosa. Ha meandri, improvvise curve, è angusta e polverosa. La strada di Emmaus si comincia con i piedi stanchi, si in- traprende con fatica, a passo di sconfitta. «Quando i so-

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gni muoiono, quando le pene pesano sulle spalle come piombo, quando il futuro simula un inutile miraggio, partiamo per Emmaus»24. La certezza della presenza rassicurante del Maestro era infatti svanita per i due amici, lasciando sgomento e delusione per una perdita irrimediabile. Erano «tutti tristi» (Lc 24,17), nota l’evan- gelista continuando il racconto; nessuno spiraglio po- teva aprirsi di fronte all’ineluttabilità della morte, che con il suo carico di fatale necessità non lasciava spa- zio ad alcuna aspettativa. Un profondo senso di vuoto invade le loro parole e, mano a mano che il cammino procede, cresce il senso di smarrimento per l’incapacità di dar conto dello squilibrio tra la loro fede («era un profeta, potente in opere e in parole» [Lc 24,19]) e la violenza delle autorità religiose e civili che l’avevano condannato.

La delusione spezza così ogni speranza: «Noi speravamo che egli sarebbe stato quello che avrebbe liberato Israele» (Lc 24,21): non si rimpiange solo la perdita di un rabbi molto amato e poco compreso, ma con lui sembra spegnersi la Speranza, madre di tutte le speranze, la fiducia cioè che l’attesa messianica si fosse con lui definitivamente compiuta. Come scuotersi di dosso dall’anima tanta illusione morta? Come soppor- tare il peso di questa doppia angoscia, che da un lato ha lacerato per sempre il legame affettivo e spirituale con il Maestro, e dall’altro ha strappato via dal cuore la fiducia che il sogno di questo Messia aveva alimentato?

Perdere il senso dell’attesa è come non trovare più l’anima, come smarrire il cuore della vita, veden- do impietosamente sfumare quelle possibilità di rea- lizzazione personale e sociale che riempiono l’esisten- za. Passo dopo passo – quanto è lunga la strada della

24 m. DEl carmEn PérEz, La via di Emmaus, «Concilium», 5/1990, p. 108.

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delusione! – i due discepoli si allontanano da Geru- salemme, la città tumultuosa che è il centro del loro mondo, per spostarsi più in là, dove forse la distanza offre l’illusione di uno stacco meno doloroso.

Basta, per ora, fermarsi a questa prima scena, per scorgervi il suo potere di verità antropologica ed etica: anche il credente di ogni tempo appare esposto al peso del fallimento, al pari dello scettico e dell’in- differente. Con una fatica in più: colui che si è affidato al Signore della vita, si scopre solo e deluso; ha perso non solo il senso della vita, ma anche il forte ancorag- gio che questa stessa vita conteneva in sé. Ha smarrito se stesso e ha perduto il suo Dio. Immerso nella ba- nalità dell’esistere, afflitto da troppe stanchezze, l’uo- mo contemporaneo – al pari dei due amici diretti ad Emmaus – continua a scivolare sulla vita, lasciandosi portare da ciò che casualmente accade.

Non basta essere due, come i discepoli di Em- maus, per allontanare il carico della solitudine; il do- lore – si sa – rende soli perché il trauma sembra da un lato restringere l’orizzonte del vivere, dall’altro pare allontanare coloro che soltanto osservano e do- mandano. «Che discorsi sono questi che vi scambiate cammin facendo?» (Lc 24,17), chiese l’incauto Scono- sciuto. Da qui la risposta delusa e un poco scostante di Cleofa, uno dei due: «Tu solo sei forestiero in Gerusa- lemme da ignorare le cose avvenute in questi giorni?»

(Lc 24,18)

Chi è colpito dal dolore entra in questo cerchio di estraniazione, in quel circolo vizioso entro cui soli- tudine e abbandono scivolano una nell’altra, creando penosa distanza tra sé e gli altri25. Il sentimento della precarietà, implicato nella perdita, spezza la fiducia

25 Cfr. s. natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 29 e sgg.

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nelle possibilità di nuove alternative; chi soffre la de- lusione sa che il futuro è ormai chiuso, e non rimane che il deserto dell’anima e l’abbandono della speran- za. Questi traumi, del resto, non sono che la prova «di quel succedersi agitato che compone anche la nostra vita, con lo scialbo ripetersi di avvenimenti comuni a tutti i figli di Eva: preoccupazioni per il pane, molto dolore, molte lacrime e un paio di piccole gioie»26.

Accanto a queste figure che disegnano la feno- menologia della delusione può comparire – lo si è già visto sulla strada di Emmaus – lo smarrimento della propria identità che porta in sé alcune signifi- cative modifiche dei parametri, attraverso cui l’uomo apprezza il senso e la verità del suo mondo27. Non è quanto intende ricordare lo Sconosciuto ai due ami- ci sulla strada di Emmaus? Il rimprovero è duro e al contempo pacato: «O stolti e tardi di cuore a credere a tutto ciò che dissero i profeti. Forse non doveva sof- frire queste cose il Cristo ed entrare nella sua gloria?»

(Lc 24,26). Colui che sembrava definitivamente per- duto, può, anzi, deve essere ri-trovato e ri-conosciuto dopo aver attraversato, come tutti i profeti, il cam- mino aspro della sofferenza e dello smarrimento. Gli attoniti discepoli di Emmaus, attratti dall’occasionale compagno del loro cammino, lo invitano a fermarsi con loro: «Resta con noi, perché si fa sera» (Lc 24,29).

La richiesta, subito esaudita, innesca la dinamica del riconoscimento: i gesti del pellegrino “straniero”, in- fine ri-conosciuto, spazzano via gli ultimi residui del patire deluso. Finalmente è possibile, anzi, necessario prepararsi al “ritorno”.

26 Cfr. l. boros, Esistenza redenta, Queriniana, Brescia 1967, p. 84.

27 Cfr. P. sEqUEri, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita

& Pensiero, Milano 2002, pp. 29-40. Si veda anche C. noica, Sei malattie dello spirito contemporaneo, Il Mulino, Bologna 1992.

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Il ri-conoscimento si converte in ri-conoscenza.

Non è stato facile giungere ad Emmaus, è di certo più agevole il cammino a ritroso, quello che riporta a Ge- rusalemme, specie se si è stati intercettati dal Compa- gno velato. Il cammino di ritorno diventa così rapido, e nessuno percorre da solo la strada a ritroso: solitu- dine, smarrimento, precarietà, delusione, abbandono sono ormai sciolte, come nebbia alla comparsa del sole28. C’è da pensare, al riguardo, che, se molti in- traprenderanno la via del ritorno, potrebbe venire il giorno in cui nessuno desidererà più lasciare Gerusa- lemme.

4. UnattEsaProfonDa

Max Scheler, fenomenologo acuto della simbolo- gia delle emozioni, interpreta, in tal senso, i sentimen- ti umani nella duplice dimensione di mozioni stati- che e sensoriali, e anche di potenzialità vive, capaci di spalancare il vissuto su delle inaudite sfere del senso e della Verità29. La delusione, la nostalgia, il dolore, insomma, non sono soltanto l’effetto di un sentire psi- cologicamente acutizzato, ma la spia di un’attesa pro- fonda del vivere, occasioni di prova e di giudizio per l’intero senso dell’esistenza.

Così che la via che attraversa tutte le tappe che, dallo sconforto conducono alla speranza, appare lun- ga e faticosa, perché difficile – forse improponibile – è immaginare una forma unica, esclusiva e universale di esistenza riuscita, una figura univoca di realtà, in

28 Sulla densità rivelativa ed esistenziale del “ritorno” rinvio a P. ricci sinDoni, Il ritorno, il segreto, la soglia, «Aquinas», 1/ XLV (2002), pp. 65-77.

29 M. schElEr, Il dolore, la morte, l’immortalità, Elledici, Torino 1983, pp. 37 e sgg.

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cui possa prendere corpo nel nostro tempo il senso pieno della vita umana. Fuga e ansia nel voler presto rinvenire un porto sicuro, potrebbe farci precipitare negli equivoci più dolorosi. Si tratta perciò di attrez- zarsi per tentare un’operazione di tipo trascendentale, in grado di giustificare filosoficamente alcune coordi- nate antropologiche, utili a bene impostare la com- plessità dei percorsi formativi.

È sulle radici intime del nostro essere – nota al riguardo Ortega y Gasset – che è infine possibile ri- trovare il luogo delle nostre certezze che, apparen- temente oscurate dalle difficili prove, riemergono, distinguendosi nettamente da quelle “idee” di tipo intellettualistico e culturale, che si sono impiantate nel nostro universo simbolico. È infatti nelle nostre credenze che «viviamo, ci muoviamo e siamo. Da una parte ci costituiscono, dall’altra ci danno la real- tà e ci spiegano perché la realtà piena e autentica non è altro che quello in cui crediamo. Mentre le idee na- scono dal dubbio, cioè da un vuoto o una mancanza di credenze. Ciò che ideiamo pertanto non ha per noi realtà piena e autentica»30.

Non si tratta dunque di costruire o di proporre idealmente o razionalmente un nuovo progetto edu- cativo, in grado di neutralizzare le inquietudini e le crisi che attraversano ormai le fibre nascoste dell’es- sere umano nel mondo, quanto individuare nell’uo- mo la dimensione del suo reale trascendimento. Que- sto movimento non è altro «che la capacità che hanno gli esseri di uscire da sé, oltrepassando i propri stessi limiti, lasciando l’impronta di un altro essere, pro- ducendo un effetto, agendo oltre se stessi, come se

30 J. ortEgay gassEt, Idee e credenze, in Aurora della ragione storica, SugarCo, Milano 1983.

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l’essere di ogni cosa terminasse in un’altra»31. In una parola indicando a ciascuno un originale percorso di liberazione.

In un discorso, tenuto da Jaspers nel 1951 a Ba- silea di fronte a una platea di presidi delle scuole me- die superiori, il termine trascendenza veniva da lui tradotto con questo valore aggiunto: “l’indipenden- za interiore”, come luogo da educare e far crescere:

«Quando in un uomo va perduto il “suo” mondo, egli può conservare come singolo la propria indipen- denza; ma un interrogativo si pone: come può attin- gere, in luogo della propria identità che è svanita, l’origine dei valori, e in luogo del vuoto, un nuovo mondo?»32.

La risposta del filosofo tedesco è legata alla sua convinzione di lavorare per il ripristino dell’umane- simo occidentale, consapevole dei valori della scien- za ma anche di una rivalutazione critica di tutto il patrimonio culturale europeo. La formazione umani- stica diventava in tale contesto ideale assolutamen- te decisiva: compenetrandosi con gli obiettivi della scienza, senza demonizzarli in nome di una purezza filosofica costitutivamente impensabile, era necessa- ria la dura disciplina dello studio e della riflessio- ne critica, che solo l’appropriazione del passato e lo sguardo disincantato verso il presente potevano garantire. Compito essenziale di ogni essere umano, destinato ad abitare in ogni parte del pianeta, si con- figurava perciò come indipendenza di giudizio e di azione, traducendosi in primo luogo «nello strappa-

31 m. zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Mi- lano 1996, p. 85.

32 K. JasPErs, Per un nuovo umanesimo: condizioni e possibilità, trad.

R. Celada Ballanti, in D. Venturelli (a cura di), Etica e destino, Il Melangolo, Genova 1997, p. 29.

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re da sé la menzogna radicale»33, quella che «cresce come forza di una fede fanatica […] e di un’obbe- dienza cieca»34.

La Bildung, detto in altri termini, non poteva esaurirsi in un processo di “autodeterminazione”

(Selbstbestimmung) sulla linea della Paideia illumini- stica, che – come si sa – era piuttosto orientata alla formazione individualista del soggetto, nella sua ricerca personale di autorealizzazione, della colti- vazione di sé secondo quella categoria pedagogica che ancora oggi appare vincente35. L’apporto della filosofia era in grado di garantire, al contrario, come il rapporto fra individuo e mondo, che pur esigeva un cammino personale e un’esperienza fondamen- tale di verifica delle proprie possibilità esistenziali, era inscindibilmente legato alla comunicazione fra gli uomini e all’interazione del loro mondo comune.

Un modo per precisare come il percorso culturale e spirituale della Bildung, più che essere un patri- monio conoscitivo, diventava un obiettivo etico, che andava coltivato, protetto, valorizzato. Esiste insomma sul fondo di ogni essere umano un’ansia di trascendenza, che è pura fidatezza nella capaci- tà rivelativa dell’incontro, nella possibilità estrema di intercettare l’alterità da questo tesoro di fiducia congenita, da questa fonte originaria, con cui ci si apre con slancio alla compiutezza di ciò che l’uomo vuole essere.

33 Ivi, p. 31.

34 Ibidem.

35 f. cambi, Dibattiti in corso: sulla “Bildung” e dintorni, «Topologik.

Rivista internazionale di scienze filosofiche, pedagogiche e socia- li», 10 (2011), p. 62.

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5. trascEnDEnzaEsPEranza

«Il doversi creare il proprio essere si manifesta precisamente con ciò che chiamiamo speranza»36, che è un altro modo per dire trascendenza. L’essere umano, al contempo solitario e mancante, ha bisogno di una realtà intera in cui vivere, di una terra in cui cresce- re e dimorare, di un luogo che sia tanto ospitale da condensare la sua totale coscienza temporale. Questa appare infatti sempre esposta alla drammatica alter- nativa di doversi irrigidire in un presente vuoto e as- solutizzato, in un passato sterilmente assunto, oppure in un futuro, dato come puro non–essere37.

Né si pensi che tale struttura teorica, che disegna la coscienza della temporalità, sia lontana o estranea ai compiti pedagogici. Chi vive in mezzo agli studenti sa bene come denuncino talvolta il clima apocalittico e nichilista di tanti sedicenti “maestri del pensiero” e invochino al contrario parole che orientino il pensare e l’agire.

La speranza, infatti, non è soltanto “effettivi- tà del possibile”38 o non solo orizzonte aperto verso quell’ulteriorità di “essere” che preme per un pieno compimento di sé. È anche garanzia di un legame rin- saldato nell’incontro, quello che sempre si compie nel presente, nel tempo cioè divenuto luogo originario della “presenza”. Un modo per dire che la speranza non è tensione autentica verso un futuro amato e cer- cato, se non si fa terra presente dell’incontro, luogo che preme, oggi, ora, perché ciò che sta oltre, divenga sogno credibile. Certo, questa non è ancora speran- za tematizzata, ma solo innata tensione umana, che

36 m. zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 90.

37 v. mElchiorrE, Sulla speranza, Morcelliana, Brescia 1968, p. 171.

38 Ivi, p. 43.

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spinge per ritrovare nel presente il terreno su cui ra- dicare l’attesa, “speranza primordiale”, può essere detta39, quella che consente di radicare il senso della formazione e il luogo certo dell’educazione delle gio- vani generazioni. La speranza di un futuro migliore è indistruttibilmente fondata sull’umana aspirazione alla felicità, che può rivestire i panni, a volte, di segni poco appariscenti, ma attraverso i quali può succede- re di scoprire i riflessi di una dignità e di una aspira- zione profonda.

«L’uomo non va capito tanto dal suo passato, quanto dal futuro che egli sogna»40, dal momento che le attese, sempre più grandi delle possibilità, paio- no forzare la realtà, essere in tal senso performative, e spingerla verso quella sorgente originaria, ancora in parte nascosta. Tale fonte primordiale è indicata in modo grandioso e suggestivo in quel principio di comprensione cristiana dell’esistenza, che Paolo ha così espresso: «Ciò che nessun occhio ha visto, e che nessun orecchio ha udito, e ciò che in nessun cuore umano è emerso, Dio lo ha preparato per coloro che lo amano» (1 Cor 2,9). Non c’è dubbio che questo scena- rio di incontro nella reciproca attesa vive pienamen- te nella promessa veterotestamentaria, progettata da JHWH e proposta al popolo da lui scelto.

Questo Dio ripete ad ogni uomo, quello che ha già detto a Mosè: «Io sarò con te» (Es 3,12). Il Dio del- la Bibbia non è il Dio metafisico e immateriale della filosofia greca, a cui si accede per dimostrazione, ma l’Essere che, per “sua” volontà, viene sperimentato dal popolo ebraico nel fuoco della storia, imparando così a riconoscerlo attraverso le vicende del tempo.

39 l. boros, Il Dio presente, Queriniana, Brescia 1968, p. 171.

40 Ivi, p. 180.

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Israele non parla mai di Dio, ma con Dio, in una storia che è innanzitutto vicenda di un incontro, di un rapporto, di una elezione. Non a caso – come nota Martin Buber – è lo stesso tetragramma sacro, JHWH, a indicare nella sua densità semantica il senso di una invocazione che genera e promette un incontro.

JHWH, nome impronunciabile, viene infatti tradotto in tedesco con “Er ist da”. Come invocazione infatti il tetragramma appare in Genesi 49,18 nella formu- la impiegata da Giacobbe: «da te spero la salvezza, o JHWH»41. Intere generazioni di teologi non mancano perciò di notare come il Dio, Signore del suo popolo – così come è presente nel Pentateuco – è il Dio speran- za assoluta, illimitata; con questa tradizione religiosa, assai differente dalle altre limitrofe, si inaugura una storia nuova e con essa una capacità assoluta dell’uo- mo di sperare42.

Come può notarsi, è completamente assente in questo universo religioso la dimensione del tragico, tipica della cultura greca, per imporsi al contrario una tipologia teologica ed esistenziale, entro cui sperare non significa accedere all’impossibile, ma solcare la terra, fatta dimora dell’incontro con colui che distri- buisce la certezza di sollevarsi oltre la delusione, oltre il fallimento, oltre la morte.

Nella narrazione centrale dell’ incontro di JHWH con Mosè presso il roveto ardente (Es 3,2-22), vicenda cruciale per la successiva messa in atto dell’opera di Dio nei confronti del suo popolo, Dio si rivela come speranza, perché alimenta e promette il sogno della liberazione dalla schiavitù, facendo presagire un fu- turo, che già si realizza nell’oggi proprio attraverso

41 m. bUbEr, Mosè, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 45.

42 Cfr. g. von raD, Teologia dell’Antico Testamento, vol. 1, Paideia, Brescia 1972, pp. 31 e sgg.

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l’esplicitazione del suo Nome, della sua essenziale identità. Dio si fa riconoscere nell’“essere presente”, e sempre accanto alle alterne vicende del suo popo- lo come Rosenzweig, Buber, Heschel, Fackenheim hanno ripensato nel Novecento. La sua dimensione eterna non è disposta secondo delle coordinate avul- se dalla linea spazio-temporale, ma all’interno di un

“oggi” gravido di futuro, perché suggellato dalla sua inderogabile presenza che sempre attende di rendersi messianicamente visibile.

Una lettura non necessariamente fideistica, ma volta a rinvenire una base ontologica della speranza, non può che trovare, ad esempio, nelle pagine delle Lettere di Paolo una chiave di lettura per incontrare una speranza che non delude (Rm 5,5), anzi si pone come dinamica positiva contro le inevitabili ricadu- te nel dolore e nella disperazione: «Noi sappiamo che il Cristo, una volta risorto da morte, non muore più.

La morte non ha potere su di lui.[…] anche voi dove- te pensare di voi la stessa cosa» (Rm 6, 9-11). E tutto ciò può e deve essere esperito, anche quando si è tra- volti dal dolore e dalla delusione. Senza un pensiero dell’alleanza, che si traduce laicamente in volontà di trasmettere e di istituire l’assolutezza della speranza attraverso legami di solidarietà, non sarebbe neppure comprensibile l’esperienza del fallimento e del dolo- re43. Questo non significa certo che la lunga pazienza dello sperare annulli d’incanto la ineliminabile pre- senza del male nel mondo, là dove il rischio del fal- limento è sempre in agguato. Lo sanno bene quanti sono preposti alla responsabilità verso le giovani ge- nerazioni.

Convinti che la formazione e l’educazione siano

43 s. natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale,, cit, pp. 204 e segg.

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i percorsi difficili ma necessari per questa impresa e seguendo le parole conclusive di Hans Jonas durante l’elogio funebre di Hannah Arendt44, si può dire che conviene affidarsi a quel grande mare di mistero che è il tempo che dobbiamo vivere, e, nella direzione in- dicata dal libro dell’Ecclesiaste (11,1), gettiamo pure il nostro pane, le nostre azioni sulla superficie dell’ac- qua. Ci è promesso infatti che “dopo molto tempo lo ritroveremo”. Come lo ritroveremo, e quando, dipen- de naturalmente dall’acqua, ma anche dalla qualità di pane che abbiamo gettato. L’impegno è che sia pane impastato con lievito buono e a tutti distribuito.

44 h. Jonas, Agire, conoscere, pensare: spigolature dall’opera filoso- fica di Hannah Arendt, «Aut Aut», 239-249, Sett. - Dic. 1990, p. 63.

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