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Lettera di richiamo per lite tra colleghi

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Academic year: 2022

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Lettera di richiamo per lite tra colleghi

Autore: Redazione | 04/11/2018

Litigio col collega: si rischia il licenziamento o il trasferimento? Quali sanzioni può subire il dipendente che aggredisce un lavoratore della stessa azienda.

In ufficio c’è, da diversi mesi, un forte clima di tensione. Tra te e un collega si sono

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verificati degli attriti, sfociati in contestazioni reciproche. Gli altri dipendenti si sono subito schierati chi con l’uno, chi con l’altro. Il risultato è che il vostro diverbio ha di fatto diviso chi lavora intorno a voi. E se anche c’è qualcuno che non ha preso evidente posizione, tu temi che questi possa fare una faccia con te e un’altra con il tuo rivale. Tutto ciò genera ancor di più diffidenza e incapacità a cooperare per gli raggiungere gli obiettivi prefissati dall’azienda. Anche se ritieni di essere dalla parte della ragione, non hai mai dimostrato un atteggiamento tollerante agli altrui insulti. Così un giorno, esasperato, hai usato toni forti e minacciosi, arrivando ad alzare la voce, tant’è che in molti ti hanno sentito. Lì per lì non ne hai fatto menzione col datore di lavoro perché non è tuo uso fare la spia, ma ti sei riservato la possibilità di parlarne coi vertici qualora le cose non si fossero sbloccate e l’ambiente fosse diventato intollerabile. E invece, il capo l’ha saputo. E ora intende procedere con delle sanzioni disciplinari. Per il momento è solo una voce di corridoio, ma temi che si possa tramutare in una vera e propria sanzione. È possibile una lettera di richiamo per lite tra colleghi? E come ci si difende in un caso del genere?

Il tuo timore è ovviamente che, per colpa di un’aggressione o di un banale litigio, si possa rischiare il licenziamento o, magari, il trasferimento presso un’altra sede. E non hai torto: difatti il datore di lavoro può prendere provvedimenti tutte le volte in cui si verifica una “incompatibilità ambientale” ossia una compromissione dei rapporti tra i colleghi di lavoro – che invece dovrebbero collaborare per il bene dell’azienda – tale da rallentare o addirittura paralizzare l’attività. Poiché ogni dipendente deve anteporre il bene dell’impresa al proprio orgoglio, ecco che la giurisprudenza ha dettato più volte delle linee guida per i casi di litigio sul lavoro.

Da ultimo una ordinanza della Cassazione [1] si è occupata proprio di un caso simile al tuo, decretando il sì al trasferimento del dipendente che aveva litigato con la vicina di scrivania creando tensione in ufficio. Di tanto parleremo qui di seguito e ti spiegheremo cosa rischia chi ha diverbi (verbali o, peggio, fisici) con gli altri dipendenti, quale dei due subisce la sanzione disciplinare (chi ha iniziato o chi ha reagito?) e soprattutto come rispondere a una lettera di richiamo per lite tra colleghi.

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È vietato litigare con i colleghi di lavoro

Essere nervosi e litigare fa male alla salute e anche al posto di lavoro. Ogni dipendente non può limitarsi a rispettare le direttive del datore ma deve fare in modo di non contrastare il lavoro dei propri colleghi. Tanto è vero che la legge punisce anche il cosiddetto mobbing orizzontale, quello cioè operato tra dipendenti di pari livello contrattuale (per distinguerlo dal mobbing verticale, che invece è quello posto dai superiori gerarchici). Chi prende in giro, emargina, allontana, denigra il compagno di scrivania o quello dell’ufficio accanto può perdere il posto di lavoro.

Quando ricorre la giusta causa di licenziamento in caso di rissa fra colleghi?

La giurisprudenza ha ritenuto peraltro licenziabile il dipendente che partecipa a una rissa all’interno dell’azienda, trattandosi di un comportamento che lede al decoro del luogo di lavoro e finisce, inevitabilmente, per danneggiarlo anche sotto il profilo economico. A riguardo la Cassazione ha detto che [2] «ai fini dell’integrazione della giusta causa del licenziamento dovuto ad una rissa tra colleghi, diventa importante stabilire se vi è stato consensuale passaggio alle vie di fatto, oppure se una parte è stata responsabile del litigio e dello sbocco violento dello stesso».

L’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi (al contrario che per le sanzioni disciplinari che non comportano la perdita del posto di lavoro) ha solo un valore esemplificativo. Si può pertanto licenziare il dipendente in caso di rissa o di ipotesi più tenui (anche non rientranti nel reato previsto dal codice penale) [3] tutte le volte in cui il fatto può provocare un’alterazione della regolarità e del pacifico e ordinato svolgersi della vita collettiva all’interno di esso.

Sempre la Corte ha detto che «In tema di licenziamento per giusta causa, è eccessivo parlare di rissa tra lavoratori allorchè il contatto fisico si sia limitato ad una spallata, senza conseguenze sull’equilibrio fisico della persona colpita, e senza alcun turbamento nell’attività lavorativa» [4].

Licenziamento per giusta causa per discussioni tra lavoratori: escluso se il contatto fisico sia rappresentata da una sola spallata

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Incompatibilità ambientale: si rischia il trasferimento

Quando si verifica una incompatibilità ambientale, una situazione cioè in cui un lavoratore si pone in costante conflitto con i colleghi, è possibile spostarlo di ufficio per il bene dell’azienda. Secondo la Cassazione, il dipendente viene trasferito anche se è dalla parte della ragione. Il provvedimento adottato per incompatibilità ambientale prescinde infatti da colpa: non ha natura disciplinare o punitiva, ma serve a evitare disfunzioni organizzative. Pertanto il capo non deve neanche applicare le regole sui procedimenti disciplinati, con la comunicazione della contestazione all’interessato tramite raccomandata e i cinque giorni per ricevere le sue difese scritte.

Naturalmente, per arrivare a una decisione così drastica non è sufficiente il semplice bisticcio occasionale, né la divergenza di opinioni (naturale in una normale dialettica aziendale). È necessario che i rapporti privati degenerino fino al punto di creare un pregiudizio per l’azienda.

Nel caso deciso dai giudici supremi, l’episodio è stato ritenuto «increscioso» perché aveva destato scandalo in azienda: i due – un uomo e una donna – si erano querelati a vicenda dopo aver intrattenuto una relazione sentimentale. Lavorando quasi fianco a fianco (i loro uffici erano ricavati nello stesso ambiente e risultavano separati soltanto da armadi) erano praticamente vicini di scrivania e l’accesso alle postazioni era comune. Alla società non è restato altro che trasferire l’uomo in un’altra sede: la tensione fra i due si ripercuoteva infatti sull’attività dell’ufficio.

Chi viene trasferito in caso di incompatibilità ambientale?

L’aspetto più interessante della decisione in commento è che consente il trasferimento senza bisogno di avviare il procedimento disciplinare di contestazione. Difatti il codice civile [5] stabilisce che «Il lavoratore può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive». Non si tratta di un provvedimento punitivo ma rivolto a garantire il funzionamento dell’azienda. Quindi anche una situazione di incompatibilità ambientale rientra tra le giustificazioni che consentono la mobilità

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interna, ossia il trasferimento del lavoratore ad altre unità produttive. E non importa se il lavoratore trasferito, nell’ambito del diverbio col collega, era dalla parte della ragione: non essendo un provvedimento di carattere disciplinare, lo spostamento di ufficio può essere giustificato semplicemente richiamandosi al bene comune dell’impresa.

Tale previsione è significativa poiché consente, nei limiti previsti, il potere unilaterale di modificare in via definitiva il luogo della prestazione lavorativa a parità di mansioni. Il trasferimento può essere disposto, però, solo per comprovate ragioni tecnico-organizzative, che il datore ha l’onere di provare e di comunicare al lavoratore interessato, anche se solo su richiesta di questi e non contestualmente al provvedimento di trasferimento.

Neanche il tribunale può giudicare il merito della decisione adottata dall’imprenditore il quale resta titolare della «libertà di iniziativa economica»: è libero cioè di organizzare il lavoro per come meglio crede.

Anche il Consiglio di Stato ha sposato lo stesso indiretto interpretativo stabilendo che [6] il trasferimento per incompatibilità ambientale, in quanto conseguente ad una valutazione dei fatti che sconsigliano la permanenza in una determinata sede, fa sì che la sua adozione non possa presupporre né una valutazione comparativa delle esigenze organizzative dei propri uffici da parte dell’Amministrazione, né l’espressa menzione dei criteri in base ai quali vengono determinati i limiti geografici della ritenuta incompatibilità ai fini dell’individuazione della sede più opportuna; con la conseguenza che le condizioni personali e familiari del dipendente vengono in secondo piano di fronte all’interesse pubblico alla tutela del buon funzionamento degli uffici e del prestigio dell’Amministrazione stessa.

Il provvedimento di trasferimento del dipendente pubblico è adottato se lo stesso ha messo in pericolo il prestigio dell’azienda o del pubblico ufficio

L’origine della situazione che ha comportato l’adozione di un provvedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale non assume alcuna rilevanza, in quanto il provvedimento di trasferimento può prescindere da ogni giudizio di rimproverabilità della condotta all’interessato, essendo lo stesso adottato per il semplice fatto che sia stato messo in pericolo il prestigio dell’Amministrazione.

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Lettera di richiamo per lite tra colleghi:

come difendersi

Come abbiamo detto, la lettera di richiamo non è obbligatoria se l’azienda intende procedere al trasferimento. Si potrà però contestare il provvedimento contestando l’esistenza delle valide ragioni organizzative o produttive.

Se invece il datore dovesse optare per un procedimento disciplinare con una sanzione per chi si è macchiato di un comportamento che, se anche rivolto al collega, ha finito per costituire un oltraggio all’azienda, le difese dovranno essere orientate a dimostrare di essere stati piuttosto la vittima e non l’artefice del dissidio.

Note

[1] Cass. ord. n. 27226/18 del 26.10.2018. [2] Cass. sent. n. 8710/2017. [3] Cass.

sent. n. 2830/2016. [4] Cass. sent. n. 2830/2016. Cfr. anche Cass. sent.n.

28492/2018 [5] Art. 2103 cod. civ. [6] Cons. Stato sent. n. 3784/2018.

Sentenza

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - L, ordinanza 26 settembre – 7 novembre 2018, n. 28492 Presidente Doronzo – Relatore Ghinoy Rilevato che: 1.

la Corte d'appello di Palermo confermava la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva respinto la domanda con la quale Ca. An. Ch. aveva chiesto dichiararsi l’illegittimità del licenziamento intimatogli da Telecom S.p.A. in data

23.12.2011 per aver aggredito il collega Cl. Bi., cagionandogli lesioni personali giudicate guaribili in 30 giorni. La Corte, disposta una nuova audizione del teste Bi.

già escusso in primo grado e l'escussione di altro testimone, condivideva la valutazione del primo giudice confermativa dell'addebito e riteneva che non avesse trovato riscontro la tesi del appellante secondo la quale egli si era limitato

a reagire ad un'aggressione. Aggiungeva che la condotta posta in essere, tenuto conto delle modalità attuative, della non indifferente entità delle lesioni cagionate

e del clamore creato nell'ambiente di lavoro, era idonea a determinare un'irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, anche a prescindere dalla tipizzazione delle ipotesi suscettibili di applicazione di sanzioni disciplinari contenuta nel contratto collettivo, avente valenza meramente esemplificativa. 2.

Per la cassazione della sentenza Ca. An. Ch. ha proposto ricorso, affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso Telecom Italia S.p.A. Considerato che: 1.

come primo motivo di ricorso viene dedotta la nullità della sentenza d'appello in

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relazione all'art. 132 n. 4 c.p.c. in quanto la motivazione del giudice di merito sarebbe meramente apparente nella ricostruzione delle risultanze istruttorie, in specie per la contraddittorietà relativa all'attendibilità o meno della deposizione del teste Bi.. 2. Come secondo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione

degli art. 45 e 48 del C.C.N.L. per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di telecomunicazione del 23/10/2009. Il ricorrente riferisce che il contratto collettivo prevede il licenziamento senza preavviso per l'ipotesi di rissa nel luogo di

lavoro, fattispecie che nel caso non si era verificata, essendosi realizzato un mero diverbio tra due colleghi di lavoro, rimasto una vicenda privata alla quale nessuno

aveva assistito e che non aveva recato all'azienda alcun nocumento morale o materiale, né aveva costituito delitto a termini di legge. 3. Il primo motivo non è fondato. La Corte d'appello, anche esaminando il motivo di gravame che atteneva

propriamente alla ricostruzione fattuale ed all'inattendibilità del teste Bi. e dopo avere escusso nuovamente il Bi. ed il teste Tr., ha ampiamente motivato la propria ricostruzione dei fatti, riscontrando le dichiarazioni del Bi. con le ulteriori risultanze istruttorie, considerando anche elementi quali le conseguenze fisiche riportate dal

Bi. a fronte dell'assenza di lesioni del Ch. e le affermazioni del Ch. dopo il fatto quali riferite dai testimoni. La motivazione dunque è completa ed esauriente ed il

motivo, al di là della rubrica formulata, chiede un vaglio di legittimità sulla ricostruzione fattuale che esorbita dai limiti delineati da Cass. S.U 07/04/2014, n.

8053 e 8054. 4. Neppure il secondo è fondato. Per giustificare un licenziamento disciplinare, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli

obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l'elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia

alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo (cfr., per tutte, Cass. n. 13149 del 24/06/2016, Cass. n. 25608 del 03/12/2014). Tale valutazione rientra nell'attività sussuntiva e

valutativa del giudice e non è vincolata dalle previsioni contenute nel codice disciplinare del contratto collettivo. Anche quando la condotta sia astrattamente

corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, infatti, occorre pur sempre che essa sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, attraverso un

accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (v. da ultimo Cass. n. 8826 del 05/4/2017, Cass. n. 1595 del 18/1/2016 ed i precedenti conformi ivi richiamati). 5.

Ciò non comporta che dalle valutazioni del codice disciplinare il giudice possa prescindere. Con la predisposizione del codice disciplinare, sebbene di solito in

modo generico e meramente esemplificativo, l’ autonomia collettiva individua infatti il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e

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2015 c.c. in quel determinato momento storico ed in quel contesto aziendale. In tal senso, il codice disciplinare è stato richiamato dall'art. 7 dello statuto dei lavoratori in funzione di monito per il lavoratore e di garanzia di prevedibilità della reazione

datoriale. Ne consegue coerentemente che, pur non essendo vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso, la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c., e che le parti ben potranno sottoporre il risultato di tale valutazione cui è pervenuto il giudice di merito all'esame di questa Corte sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare (v. Cass. n.

18715 del 23/09/2016, Cass. n. 9396 del 16/04/2018). 6. Nel caso, la Corte ha argomentato che la gravità della condotta ben poteva essere ritenuta a prescindere dalla ricorrenza degli estremi del delitto di rissa, considerato che il disvalore della condotta risultava dalle modalità attuative della condotta, dalla non

indifferente entità delle lesioni cagionate, dal clamore creato nell'ambiente di lavoro, reso evidente anche dal numero dei colleghi di lavoro accorsi. Ha quindi correttamente ritenuto non vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal

contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso, ma ha tenuto conto degli elementi concreti, soggettivi ed oggettivi, della

fattispecie, valorizzando circostanze coerenti anche con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i valori fatti propri dalla coscienza sociale, e

idonee a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario. 7. Per tali motivi, condividendo il Collegio la proposta del relatore notificata ex art. 380 bis c.p.c.

all'esito della quale le parti non hanno formulato memorie, il ricorso, manifestamente infondato, va rigettato con ordinanza in camera di consiglio, ai

sensi dell'art. 375, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.. 8. La regolamentazione delle spese processuali segue la soccombenza. 9. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115,

introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 . P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per

esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del D.Lgs. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza

dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma

1 bis dello stesso art. 13.

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