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Indice

GIANLUIGIPALTRINIERI

Relativismi

Relativisms p. 000

Questioni

LUIGIPERISSINOTTO

In sé, per noi, per loro. Alcune note e digressioni sul relativismo

In itself, for us, for them. Notes and digressions on relativism » 000 PAOLOCOSTA

Quanto è moderno il relativismo? Il mondo messo in prospettiva e le svolte as-siali dell’umanità

How modern is relativism? The world put into perspective and the axial turns

of humanity » 000

MATTEOGIANNASI

Fenomenologia del relativismo e relativismo fenomenologico

Phenomenology of relativism and phenomenological relativism » 000 GIANLUCALIGI

Paradossi del relativismo in antropologia culturale

Paradoxes of relativism in cultural anthropology » 000

Figure

DARIOCALIMANI

Relativismo ebraico: l’apertura del testo e la libertà del commento

Jewish relativism: the opening of the text and the freedom to comment » 000 GIANLUIGIBRENA

Il problema del relativismo morale e religioso. In dialogo con Putnam

The problem of moral and religious relativism. In dialogue with Putnam » 000 GIOVANNITRABUCCO

La verità dell’atto/l’atto della verità. Tra e oltre il dogmatismo e il relativismo

The truth of the act/the act of truth. Between dogmatism and relativism, and

beyond » 000

Interventi

GAETANOLETTIERI

Il differire della metafora. II. Ricoeur e Derrida interpreti divergenti di Agostino

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ALAINGERVAISNDOBA

Kant: de Dieu à l’idée de Dieu

Kant: from God to idea of God » 000

ANDREANICOLINI

Il desiderio dell’altro. Note a partire da Kojève

The desire of the other. Notes from Kojève onward » 000

Schede

A cura di Claudio Belloni, Giorgio Bouchard, Gian Paolo Cammarota, Michele Di Bartolo, Adriano Fabris, Andrea Fiamma, Alfonso Salvatore, Cloe Taddei

Ferretti, Angelo Maria Vitale » 000

Indice

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Relativismi

«Suona strano, approvo la maggior parte di ciò che leggo». A esprimersi in questi termini, riportati da Dilthey, non è il più superficiale dei relativisti, ma Leibniz, strenuo fautore moderno della verità e della sua intima raziona-lità. Quando si hanno intelligenza e pazienza sufficienti per penetrare nelle fi-bre connettive delle diverse posizioni si troverà verità anche nelle prospettive più distanti, persino in quelle dell’avversario. È la verità stessa a differenziarsi, a variare infinitamente, sino a farsi cogliere da rappresentazioni che conflig-gono tra loro. Si legge nel paragrafo 57 della Monadologia [1714]: «Come una medesima città, guardata da punti di vista differenti, sembra tutta diversa ed è come moltiplicata secondo la prospettiva, così, a cagione della moltitudine infinita delle sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi, i quali in-vece non sono che le prospettive di un solo universo guardato secondo il dif-ferente punto di vista di ogni monade». Sebbene toccato da intenti apologetici – l’Europa come specchio dell’unica verità, insieme razionale e cristiana –, Leibniz rende giustizia alla complessità e all’indisponibilità della verità del mondo. È come in una metropoli dei giorni nostri, dove si incrociano genti delle più svariate etnie, lingue, religioni, maniere di vivere e di pensare. Fa-rebbe di sé un idolo quella parte in gioco che, forte solo della propria parziale prospettiva, pretendesse di abbracciare in un sol sguardo quella immensa città, resa inesauribile dal suo moltiplicarsi in un numero infinito di rappresenta-zioni prospettiche. Eppure i differenti punti di vista non sono erronei o illu-sori. In ognuno di essi riverbera la verità di questa unica metropoli che è il mondo.

Il ‘relativismo’ leibniziano è interno al dispiegarsi infinitamente vario del-l’unica verità ed è sinonimo della complessità insaturabile di questa. La stessa verità, infinita, si articola e sfaccetta in un’infinità di prospettive, sì vere ma comunque parziali, e dunque sovrastate dall’ampiezza del vero. Tuttavia quello leibniziano, costituito anche dalle infinite rappresentazioni che lo mettono in scena, è un universo armonioso, senza crepe e senza dissidi incomponibili. Vi-ceversa, se il relativismo continua ad attirare l’attenzione di filosofi e teologi,

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è soprattutto perché è uno dei principali atteggiamenti teorici nei confronti del fatto importante, spesso drammaticamente doloroso, che gli esseri umani pen-sano, immaginano e si comportano in maniera diversa. Non si tratta di mere differenze di grado che increspino le acque di un denominatore naturale con-diviso, ma proprio di una concreta eterogeneità, resa ancor più drammatica dal contrapporre esseri appartenenti allo stesso genere umano e destinati a convi-vere nella medesima metropoli planetaria. Vuoi per l’indisponibilità di me-diazioni conciliative, vuoi – soprattutto – perché non è l’assenza di verità a farci confliggere bensì proprio il dissidio che è intrinsecamente costitutivo del dispiegarsi del vero, il relativismo resta una delle chiavi per decifrare questo fatto che ci affanna e insieme, però, ci interessa e meraviglia.

Perché, allora, le posizioni relativistiche tendono a scontentare tutti, al punto che persino molti relativisti sono riluttanti a dirsi tali? Perché esse sem-brano ridurre a un che di arbitrario e di casuale quanto è più rilevante per gli esseri umani: il vero, il giusto, il bello. Più che paura il relativismo suscita di-sprezzo critico. Ciò accade tutte le volte che, in chiave semplicistica e pseudo-storica, propone un variare superficiale e interscambiabile delle idee e dei modi d’essere che sostengono la nostra vita. Anche le cause, che esso considera de-terminanti, suonano come circostanze del tutto accidentali, come se le que-stioni decisive dell’esistenza umana fossero determinate da un gioco a ‘mosca cieca’ dello spazio-tempo. Fossimo nati in Cina saremmo confuciani o buddi-sti, ma visto che siamo nati in Italia… Essendo nato in Europa dopo il 1945 da genitori pacifisti, questo figlio considererà guerra e violenza un disvalore, fosse nato in un contesto storicamente o geograficamente diverso le sue prio-rità valoriali sarebbero state opposte. La veprio-rità e il senso morale parrebbero variare senza alcuna ragione fondativa, a mo’ delle preferenze, individuali e insindacabili, che esprimiamo ‘scegliendo’ i gusti di un cono gelato. Peraltro, il disprezzo di noi euro-americani per la superficialità di questo relativismo è alimentato anche da una nostra sotterranea inquietudine. Infatti, pur senza averne intenzione, esso rimanda a un’altra possibile verità che rischia di ri-guardarci molto da vicino: come già intravedeva Voltaire, aprendo la voce «Tol-leranza» nel suo Dizionario filosofico, è in Borsa che oggi si stabiliscono le regole condivise del gioco e quando usciamo da essa, per tornare a casa, il va-riare di opinioni e abiti morali e religiosi è tollerato perché innocuo. La di-versità tra un ebreo, un cristiano, un musulmano e un non-credente è solo un variare che ‘non fa la differenza’. Ne siamo gelosi, ma come lo siamo dei ve-stiti nei nostri armadi privati – ci caratterizzano e guai a chi ce li toccasse –, ma contano nulla, se non a nutrire la nostra illusione di libertà e originalità. Nessuno degli odierni critici del relativismo mira ad avversare il plurali-smo che quello sembra difendere. Semmai si contesta il modo astratto e

in-Gian Luigi Paltrinieri - Relativismi

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consistente in cui questa difesa viene proposta: il pluralismo come sinonimo di un’equivalenza indifferenziata delle possibili alternative, specie quelle etico-morali. È in questa direzione che, per esempio, Diego Marconi (Per la verità. Relativismo e filosofia, 2007) e Roberta De Monticelli (La questione morale, 2010) attaccano il relativismo, il primo più preoccupato di salvaguardare la ve-rità in senso epistemologico, la seconda più attenta a disinnescare lo scettici-smo pratico-morale. Entrambi si fanno promotori della disposizione filosofica a rendere ragione e a giustificare pubblicamente le nostre pretese di verità. Queste, allora, non saranno tutte valide ed equivalenti, e sarà possibile sce-gliere le ben argomentate, lasciando cadere le altre. Ora, già Aristotele (Me-tafisica, IV, 5-6) aveva sottolineato la non serietà delle posizioni relativistiche, insistendo però su un ancoraggio realistico-ontologico quasi naturalistico: il re-lativismo ritiene che asserzioni reciprocamente contraddittorie possano simul-taneamente essere entrambe vere ma è solo un parlare «per il piacere di par-lare», privo del rigore scientifico-filosofico necessario a riconoscere ciò che è vero. Tuttavia Aristotele poteva additare come unico fondamento l’ontologia della sostanza perché muoveva dal presupposto della naturale autocentralità del cosmo e del logos ellenici: mancava ogni sensibilità storica per la propria e per le alternative altrui. I barbari, dunque, non erano altro che i non-greci. Occorre rimarcare, allora, che la questione del relativismo è propriamente mo-derna e in particolare ricordare, con Tito Perlini (Verità Relativismo Relati-vità, 2008), come non vi sia solo un relativismo sbrigativo e volgare, ma an-che uno serio, la cui dignità getta le radici nel romanticismo tedesco. Con que-st’ultimo emerge una nuova sensibilità per le differenze che animano il moto della storia umana. Decisivo nel mediare questa eredità romantica tedesca ai successivi relativismi ‘non relativistici’ è stato Wilhelm Dilthey (Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito), il quale ha insistito sulla nozione di ‘storicità’ in modo che ‘relativismo’ fosse sinonimo di finitezza e situatezza spazio-temporale e linguistica, e non di assenza di vero valore o di arbitrarietà. Sono questi motivi a preparare il ‘relativismo serio’ del Novecento, che riemerge sul versante fenomenologico-ermeneutico, dove si sot-tolinea la precedenza del mondo-della-vita, e sul versante wittgensteiniano, dove si mostra l’inaggirabile rilevanza pragmatica delle forme di vita.

Il ‘relativismo’ heideggeriano e quello wittgensteiniano – peraltro ben di-versi tra loro – sono degni di attenzione solo nel caso in cui non risultino ri-ducibili a quelle chiavi di lettura post-modernistiche che vi scorgono la sem-plice liquidazione della verità. Resta infatti aperta un’altra via interpretativa secondo la quale Heidegger e Wittgenstein, ognuno da par suo, ridanno voce all’eteronomia esistenziale e pragmatica che vede gli esseri umani consegnati a possibilità determinate, nel mondo-della-vita e nella forma-di vita, dalla si-5

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tuatezza ontologica, spazio-temporale e linguistica. Si tratta dell’eteronomia che lo spirito moderno sa intendere solo come cedimento alla casualità e al-l’insensatezza delle circostanze fattuali, recepite come una baraonda acciden-tale di fenomeni, legata da mere contiguità spazio-temporali, da riscattare at-traverso il lavoro autonomo della ragione conoscitiva e morale. Lungi dal por-tare acqua a siffatto idealismo rappresentativo, sia pure in versione post-mo-derna, l’ermeneutica heideggeriana da un lato e l’osservazione wittgensteinana dell’uso dall’altro ne sono viceversa i più strenui antidoti. Dunque «i valori sono figli del tempo e dello spazio» (Marconi) proprio come inteso dal relati-vismo? Tutta la tensione filosofica di Heidegger e del secondo Wittgenstein mira a mettere in luce il carattere non accidentale o arbitrario del condizio-namento ontologico, spazio-temporale e linguistico che viene dall’essere – noi umani – concretamente ed effettivamente situati nel mondo. È tale condizio-namento la più concreta manifestazione della verità, la quale è verità anche in quanto non si lascia prendere alle spalle da quelle rappresentazioni che sono le nostre spiegazioni e giustificazioni razionali. Ora, tutto questo comporta senz’altro una minaccia per il progetto del moderno, basato com’è sulla pro-messa di metodi che superino la naturale divergenza e conflittualità tra gli umani, e tuttavia, a parte il fatto che tale progetto può vantare ben pochi suc-cessi sulle situazioni di conflitto, l’autentico punto cruciale sta qui: anche per il ‘relativismo serio’ non c’è mai errore, tutti quanti sono nel vero. La verità è differenziata in se stessa, segnata da eterogeneità che la pongono in dissidio con se stessa, e di ciò non dispone alcuna soggettività libera, autonoma e ra-zionale. Se Heidegger e Wittgenstein restano ‘relativisti’, grandi e rigorosi, è perché alludono a un altro tipo di responsabilità, disgiunta dall’autocausa-zione, e soprattutto perché evitano ogni ipostasi idolatrica della ‘fetta di spa-zio e di tempo’ dataci in sorte. La messa in luce di una fondaspa-zione, che non dipenda dal principio di ragion sufficiente o da quello di bivalenza vero-fun-zionale, è salvaguardata da ogni blocco dogmatico e purista che occulterebbe innanzitutto la storicità della situatezza ontologico-pragmatico-esistenziale umana. Per quanto ineludibilmente conflittuali, i nostri modi di vivere non sono monoliti impermeabili e semplicemente autoreferenziali. La situatezza che ci condiziona è storica, e come tale costitutivamente segnata da promiscuità e metamorfosi, prestiti e influenze patite. Viceversa – come ebbe a sottolineare Jacob Burckhardt (Considerazioni sulla storia universale, 1870) – «i barbari non spezzano mai il proprio guscio culturale, così come l’hanno ricevuto. La loro barbarie è nella loro mancanza di storia». Posseggono solo leggende au-toreferenziali e «il loro agire rimane legato alla razza».

La redazione Nord-orientale della Rivista ha deciso di raccogliere questo fascicolo sotto un titolo al plurale, Relativismi, in quanto molteplici sono gli

Gian Luigi Paltrinieri - Relativismi

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ambiti – epistemologico, morale, religioso, antropologico, culturale – e soprat-tutto le accezioni e le valutazioni che se ne possono proporre. Peraltro gli stessi autori dei contributi, qui presentati, hanno provenienze, sensibilità e compe-tenze assai diverse tra loro. Il quadro ne acquista, tale è l’auspicio, in ricchezza e dinamicità.

Affidando al sommario e agli abstract il compito di offrire una prima idea delle tematiche affrontate nei singoli saggi, è possibile qui limitarsi a richia-mare tre snodi, interconnessi, su cui i contributori insistono attraverso consi-derazioni di taglio e giudizio diverso. 1. Tutti distinguono tra relativismo e re-lativismo, e tuttavia propendono per sottolineare come le domande e le rispo-ste del relativismo siano «fuori luogo» (Perissinotto), un «falso problema» (Brena), in quanto scaturito da un «filosofare da fuori e dall’alto» (Giannasi) o da «pigrizia intellettuale» (Costa), scissi dalla pratica della vita. 2. Il relati-vismo pare ricondurre a fatti accidentali (Giannasi) e a contingenze casuali (Brena) le scelte esistenziali, morali e religiose, che risultano decisive per le nostre vite. Si tratta allora, di contro, di portare in luce il carattere non acci-dentale del modo in cui gli esseri umani significano e valutano le proprie vite: le categorie di pensiero sono cucite nella stessa pelle (Ligi), costitutive della prassi (Perissinotto), vi è una ragionevolezza di tipo contestuale (Brena-Put-nam), un ethos razionale che permea le preferenze individuali (Giannasi-Hus-serl). 3. ‘Relativismo’ non si oppone ad assolutismo o a dogmatismo, ma a ve-rità, o meglio, a una relazione con il vero in cui questo ha una precedenza co-munque inaggirabile. Una verità performativa, storica e concretamente antro-pologica, e perciò metamorfica e porosa (Ligi), dinamica e vivente (Costa), ef-fettiva come la chiamata di Dio cui risponde la coscienza umana, cristiana, con l’atto della propria fede (Trabucco). Alla questione della verità è connesso, sia pure in maniera eccentrica, anche il contributo di Calimani. In esso si offre un esempio vivo di relativismo interno alla verità, anziché opposto a essa. Nella libertà e apertura dei possibili commenti alla Torah la tradizione ebraica scorge il dispiegarsi effettivo della verità infinita del testo sacro, verità che nel suo sottrarsi a ogni presa umana inequivoca e definitiva si rivela proprio nell’e-sercizio infinitamente vario e ‘relativo’ della libertà del commento.

Gian Luigi Paltrinieri 7

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In sé, per noi o per loro

Alcune note e digressioni sul relativismo

Non è facile dare una definizione del relativismo né classificare i vari tipi di re-lativismo e individuare in quali relazioni si trovino l’un o con l’altro; altrettanto com-plicato è stabilire quali siano le implicazioni pratiche (morali e politiche) del relativi-smo, in particolare di quello morale. Il saggio dà alcune indicazioni su questi problemi in relazione soprattutto alle seguenti tre questioni e temi: (1) le motivazioni del rela-tivismo?; (2) che cosa fa di un problema un problema morale? (3) se il relativista ha ragione, perché e di che cosa disputiamo quando disputiamo?

It is not an easy task either to define relativism, or to classify the various types of relativism and identify their mutual relations; likewise it is complicated to deter-mine what the practical (moral and political) implications of relativism are, in partic-ular as to moral relativism. This essay throws some light on the above issues, espe-cially as concerns the following three questions and topics: (1) what are the motiva-tions behind relativism?; (2) what makes a problem a moral one?; (3) if the relativist is right, why – and about what – do we debate, when we do?

1. Diverse cose colpiscono subito quando si affronta la vasta e variegata letteratura sul relativismo1.Una di queste è la difficoltà di precisare che cosa

esattamente voglia dire essere un relativista, a che cosa propriamente si op-ponga il relativismo2,come (con quali strategie critiche e mezzi

argomenta-1Questa letteratura è, com’è ovvio, vastissima. Uno strumento molto utile per orientarsi nel

dibat-tito filosofico contemporaneo sul relativismo è il recente A Companion to Relativism, a cura di S.D. Ha-les, Wiley-Blackwell, Oxford 2011.

2Secondo la classificazione proposta da Maria Baghramian, il relativismo rigetta almeno una delle

seguenti quattro posizioni filosofiche: universalismo («ci potrebbe e ci dovrebbe essere un accordo uni-versale in questioni di verità, bontà, bellezza, significatività, ecc.»), oggettivismo («i valori cognitivi, etici ed estetici come verità, bontà e bellezza sono indipendenti dalla mente (mind-independent)»), assoluti-smo («verità, bontà, bellezza, ecc. sono atemporali, inalterabili e immutabili»), moniassoluti-smo («per ogni data area o per ogni dato argomento ci può solo essere una opinione, giudizio o norma corretta») (M. BA -GHRAMIAN, Relativism, Routledge, London/New York 2004, p. 2).

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tivi) vi si opponga o addirittura se vi si possa coerentemente3opporre; una

seconda cosa che risulta subito evidente è che pochi filosofi, anche tra co-loro che sembrano essere, per gli antirelativisti, casi paradigmatici di relati-visti, accettano per sé l’etichetta di «relativista», preferendo altre meno fi-losoficamente problematiche o compromesse caratterizzazioni4; una

conse-guenza curiosa e non priva di inconvenienti è che solitamente sono gli an-tirelativisti che ci spiegano che cosa sia e sostenga il relativismo5;è forse per

questo, ossia per la sua carica critico-polemica, che l’epiteto «relativista» è quasi sempre subito come un’accusa da cui difendersi o una critica a cui reagire, magari rinviandola, come popolarmente si dice, al mittente6; una

terza cosa riguarda le manifeste implicazioni pratiche (morali e politiche) del relativismo, anche di quelle versioni del relativismo che sembrerebbero, al-meno a prima vista, del tutto asettiche, e il radicale disaccordo su quali pro-priamente siano queste implicazioni7; se infatti per alcuni (ovviamente i

re-Questioni

10

3Come ricorda la Baghramian, «[s]toricamente, il più incisivo così come il più popolare argomento

contro il relativismo, almeno a partire da Platone, è stato l’accusa che il relativismo si autoconfuta»; l’ar-gomento è così riassunto: Si consideri l’affermazione «(Ogni) verità è relativa» (R) e ci si domandi se essa sia vera assolutamente o solo relativamente. Ora, «[s]e R è vera assolutamente, allora c’è almeno un’affermazione che è vera non-relativamente. Se, dall’altro lato, è vera secondo la concezione relativista della verità […], allora R è tuttavia falsa secondo l’assolutista, e il relativista non può in alcun modo di convincere il suo avversario della sua verità» (Ivi, p. 132; una discussione dell’intera questione si trova alle pp. 132-141).

4Nella lista dei relativisti contemporanei Richard Rorty è quasi sempre presente; in polemica con

Hilary Putnam, Rorty rifiuta però, in maniera recisa, l’etichetta, di relativista, si proclama etnocentrista dichiarandosi d’accordo con le critiche che Putnam muove al relativismo; vedi, al riguardo, R. RORTY,

Putnam e la minaccia relativistica, in Il neopragmatismo, a cura di G. Marchetti, La Nuova Italia, Firenze 1999, in particolare p. 99, nota 13 nella quale Rorty ribadisce che «non vi è alcuna verità nel relativi-smo, ma molta verità nell’etnocentrismo: non possiamo giustificare le nostre credenze (in fisica, in etica o in altre aree) a tutti, ma soltanto a coloro le cui credenze si sovrappongono alle nostre in una misura appropriata» (qui Rorty sta citando dal suo saggio Solidarietà o oggettività?, in IDEM, Scritti filosofici, I,

tr. it. M. Marraffa, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 46, nota 13).

5Come ha osservato Alberto Artosi, che ha a lungo insistito su questo aspetto, «quasi tutte le

de-finizioni correnti del relativismo sono dede-finizioni ostili» (A. ARTOSI, Il relativismo è incoerente. E allora?,

in Relativismo in gioco: regole saperi politiche, a cura di R. Brigati e R. Frega, «Discipline filosofiche», XVII, 2, 2007, p. 1011, nota 45).

6Secondo Putnam, per esempio, «[c]he il relativismo (totale) sia incoerente è una verità

comune-mente accettata dai filosofi: dopo tutto, infatti, non è una contraddizione evidente sostenere un punto di vista e allo stesso tempo sostenere che nessun punto di vista è più giusto, o giustificato, di qualsiasi al-tro» (H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, tr. it. N. Radicati di Brozolo, Il Saggiatore, Milano 1985, p. 130); a sua volta, Michael Devitt ritiene però che «la posizione di Putnam ricordi il kantismo relativi-stico che ho attribuito a Kuhn, Feyerabend e ai filosofi radicali della scienza» (M. DEVITT, Realism and

Truth, Princeton University Press, Princeton, NJ, 19972, p. 230).

7Come è stato osservato, sono queste implicazioni, morali e politiche che spiegano la passione che

caratterizza la controversia sul relativismo: «Sono le implicazioni morali che il relativismo è spesso rite-nuto avere che spiega l’attrazione che esercita sui suoi aderenti; è ugualmente vero che l’opposizione a esso è solitamente motivata su basi morali» (N. LEVY, Moral Relativism. A Short Introduction, Oneworld,

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lativisti e i loro amici) il relativismo promuove, contro ogni prevaricazione e violenza, la convivenza e la tolleranza tra culture, forme di vita, sistemi di valori differenti, per altri (gli antirelativisti, siano essi universalisti, oggetti-visti, assolutisti o monisti, e i loro amici) esso ha la duplice negativa conse-guenza, per un verso, di indebolire i nostri valori, in particolare i nostri va-lori morali8, ma anche, e insieme, quelli epistemici, e, per un altro, di

pri-varci della capacità e del diritto di criticare i disvalori, le superstizioni e le pratiche aberranti altrui9; una quarta e ultima cosa riguarda il carattere di

diagnosi storica che la critica al relativismo come la sua difesa sovente as-sume: il relativismo sarebbe il segno di un tempo o di un’epoca (l’epoca della nietzscheana «morte di Dio»)10 segnata dalla caduta di tutti gli

asso-luti (verità, valori, criteri) e da quello che, proprio sulle orme di Nietzsche, Max Weber ha chiamato «il politeismo dei valori»: «A seconda del proprio atteggiamento di fondo ciascuno considera l’uno il dio e l’altro il demonio o viceversa. Ognuno deve decidere quale per lui è il dio e quale il demonio. E lo stesso si ripete in tutti gli ordinamenti della vita. […] oggi il politei-smo è la realtà quotidiana»11. Se questa è la diagnosi, non può stupire che

il relativismo sia da molti considerato poco più che un aspetto o una mani-festazione del tanto diffuso e così inquietante nichilismo contemporaneo.

2. Una cosa è comunque certa: vi sono molte varietà di relativismi così come vi sono diversi modi di classificarli. Come ha scritto Maria Baghra-mian, «[i]l relativismo assume molte figure e forme e la loro combinazione ha reso ancora più difficile un problema già intricato. Una difficoltà le di-scussioni sul relativismo devono affrontare è la mancanza di accordo su 11

Luigi Perissinotto - In sé, per noi o per loro

8Con riferimento al relativismo morale, così ha scritto, per fare uno dei tanti esempi possibili, John

W. Cook: «Se la dottrina del relativista si diffonde in lungo e in largo e la gente arriva a credere che la moralità non è nient’altro che un insieme di convenzioni sociali arbitrarie, la gente non si sentirà più sinceramente obbligata a fare (o a non fare) certe cose» (J. W. COOK, Morality and Cultural Differences,

Oxford University Press, Oxford/New York 1999, p. 41).

9Infatti, quelli che per noi sono infatti disvalori e pratiche aberranti possono essere per loro valori

e pratiche moralmente lecite o addirittura moralmente obbligatorie. Si pensi, al riguardo, agli esempi spesso impiegati nella letteratura pro e contro il relativismo morale: i sacrifici umani, la schiavitù, l’infi-bulazione femminile, eccetera.

10Il riferimento è ovviamente al § 125 (L’uomo folle) de La Gaia scienza: «Che mai facemmo, a

scio-gliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?» (F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, tr. it. F. Masini, in Idilli di Messina. La gaia scienza. Scelta di Frammenti postumi 1881-1882, a cura di G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano 1971).

11MAXWEBER, La scienza come professione, tr. it. P. Volonté con testo tedesco a fronte,, Rusconi,

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come classificare le sue varie forme»12. Qui non affronterò nel dettaglio il

problema né difenderò una mia proposta di classificazione. Mi basterà ri-chiamare alcuni punti al fine di proporre alcune considerazioni, ancora molto generali, sul relativismo, con particolare riferimento a quello che è noto come relativismo morale, con l’obiettivo di mostrare che ciò che il re-lativismo primariamente ci restituisce13 è una rappresentazione, più

dram-matica che irenica, della nostra condizione etica; una condizione a cui non si può reagire semplicemente sulla base dell’appello al bisogno umano di as-solutezza.

Possiamo considerare relativista chi sostenga che niente, in tutti i domini o in qualche determinato dominio (cognitivo, etico, estetico, eccetera), è quello che è, o che niente è quello che dichiariamo che sia, simpliciter o as-solutamente: una proposizione non è vera (o falsa) simpliciter; una credenza non è giustificata (o ingiustificata) simpliciter; un oggetto non è bello (o brutto) simpliciter; un’azione non è moralmente buona (o moralmente cat-tiva) simpliciter; un albero non è un albero simpliciter. Basandosi sul tipo di valore di volta in volta coinvolto (verità, giustificatezza, bellezza, bontà, esi-stenza) possiamo chiamare, come ormai si è soliti fare, il primo tipo di re-lativismo aletico (o della verità), il secondo epistemico, il terzo estetico, il quarto etico o morale, il quinto ontologico14. Forte, estremo o globale è il

relativismo che dichiara che ciò vale per tutti i domini e valori; ma ovvia-mente un relativismo può essere forte anche solo per quanto riguarda il pro-prio specifico dominio e valore; per esempio, per il dominio cognitivo e il valore verità, forte è il relativismo il quale sostenga che tutte le verità sono relative, ossia che non vi è alcuna proposizione che sia vera simpliciter; mo-derato o locale15è invece, rispetto a questo dominio e valore, il relativismo

Questioni

12

12BAGHRAMIAN, Relativism, cit, p. 5. Proposte di classificazione si possono trovare in P. O’GRADY,

Relativism, Acumen, Chesham 2002, il quale si richiama alla classificazione di S. HAACK, Manifesto of a

Passionate Moderate, Chicago University Press, Chicago 1998, p. 149, M. KRAUSZ, Mapping Relativisms, in Relativism. A Contemporary Anthology, a cura di M. Krausz, Columbia University Press, New York 2010, pp. 13-30, A. COLIVA, I modi del relativismo, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. x-xii.

13Forse sarebbe meglio dire che è questo l’aspetto del relativismo che trovo più rilevante, quali che

siano le motivazioni e gli obiettivi che caratterizzano le diverse posizioni relativiste.

14Ovviamente, i diversi tipi di relativismo non se ne stanno semplicemente l’uno accanto all’altro.

Per esempio, come è stato osservato, «[p]arlando in generale, i relativisti epistemici sono anche relativi-sti morali. Se su nessun soggetto vi può essere conoscenza assoluta, allora non ci può essere conoscenza assoluta sulla moralità. Così solitamente si ritiene che il relativismo epistemico implichi il relativismo mo-rale» (LEVY, Moral Relativism, cit., p. 17).

15Moderato o locale viene talvolta chiamato chi è relativista rispetto a un determinato dominio e

valore, ma non rispetto a tutti i domini e valori. In questo senso, un relativista morale che non fosse an-che un relativista aletico sarebbe un relativista moderato o locale.

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che sostenga che, se non tutte, almeno alcune verità sono o possono essere relative.

Ma relative a che cosa? Le risposte a questa domanda sono state molte e diverse e hanno dato luogo a una classificazione dei relativismi che si in-treccia con quella sopra richiamata: relative alle culture, alle forme di vita, alle epoche storiche, alle lingue, agli schemi concettuali, ai sistemi episte-mici, a quelli etici o a quelli estetici16. Quale che sia la risposta (culture,

forme di vita, epoche storiche, lingue, schemi concettuali, sistemi epistemici, etici, estetici), ciò che è essenziale è che essa si declini al plurale; in effetti, storicamente il relativismo nasce proprio dal riconoscimento che le culture, le lingue, eccetera, sono molteplici e che, di conseguenza, la nostra cultura non è la sola e unica cultura, la nostra lingua non è la sola e unica lingua, eccetera; del resto, è solo scoprendo che vi sono altre culture, lingue, ecce-tera, che si può scoprire che vi è qualcosa come la nostra cultura, la nostra lingua, eccetera, e che si può, a partire da questo, riconoscere che la nostra cultura non ci è necessariamente dettata dalla natura, così come la nostra lingua non ci è necessariamente dettata dal pensiero come ridicolmente ri-teneva quell’uomo politico francese il quale, come ricorda Wittgenstein, «scrisse una volta che è una peculiarità della lingua francese che le parole siano collocate nello stesso ordine in cui vengono pensate»17.

All’origine del relativismo sta dunque la scoperta degli altri e che gli al-tri sono tali perché considerano giuste cose che noi consideriamo ingiuste (e viceversa), apprezzano cose che noi disprezziamo (e viceversa), confidano in cose su cui noi abbiamo imparato a diffidare (e viceversa), sopportano cose che noi consideriamo insopportabili (e viceversa), credono cose che noi troviamo incredibili (e viceversa), desiderano cose che noi aborriamo (vice-versa), eccetera, eccetera; le loro credenze insomma sono spesso, o almeno talora, incompatibili con le nostre e le loro reazioni e comportamenti sono spesso, o almeno talora, inconciliabili con i nostri: quello che per noi è un 13

Luigi Perissinotto - In sé, per noi o per loro

16Ovviamente, una risposta non esclude le altre; per esempio, «lingue» e «schemi concettuali»

pos-sono essere parte di una stessa risposta se si ritiene, come molti filosofi novecenteschi hanno ritenuto, che al di fuori della lingua non vi siano né concetti né padronanza concettuale.

17L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, tr. it. R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967,

Parte prima, § 336. Così inteso, il relativismo si è storicamente assunto una funzione che potremmo chia-mare «antidogmatica», se per dogmatismo si intende ciò che intende quando nelle Ricerche filosofiche denuncia come dogmatici coloro credono «di star continuamente seguendo la natura, ma in realtà non si seguono che i contorni della forma attraverso cui la guardiamo» (Parte prima, § 114). Che vi sia un legame tra relativismo e antidogmatismo è già evidente in questo motissimo passo di Michel de Mon-taigne: «[O]gnuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo» (M. DEMONTAIGNE, Saggi, tr. it. F. Garavini, Adelphi, Milano 1992, vol. I, p. 272

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gesto di pietà è per loro un gesto di viltà; quello che per noi è un torto su-bito è per loro un atto di riparazione; quello che per noi è un omicidio è per loro un sacrificio; quello che per noi è un evento naturale è per loro un segno divino; quella che per noi è la fine della vita ne è per loro l’inizio. È per questo che noi siamo noi e loro sono loro, anche se questo non esclude che molto di loro sia in noi e molto di noi in loro18. Ovviamente, è quando

noi e loro ci troviamo a occupare lo stesso tempo e spazio che queste dif-ferenze, o almeno alcune di esse, diventano problematiche; per esempio, è abbastanza evidente che, se vogliamo vivere insieme organizzando uno spa-zio comune, un sacrificio umano non può essere allo stesso tempo un cidio. Ma che cosa dovremmo fare in questo caso? Condannare come omi-cidio quello che consideravano un sacrificio o sublimare come sacrificio quello che consideravamo un omicidio? Nei sacrifici umani degli Aztechi gli Spagnoli videro solo stragi e omicidi. Avevano forse ragione? O fu solo un atto di sopraffazione? È nella risposta che dà a questa e ad altre domande simili che si manifesta il relativista.

Relativista, infatti, non è semplicemente colui che constata o attesta le differenze; che molti antropologi (abituati per il loro mestiere a trattare la diversità) siano (o siano stati) relativisti è un fatto, non un tratto costituivo o necessario della loro disciplina. Perché vi sia relativismo occorre fare un ulteriore passo e sostenere che nessuna cultura (in generale, nessun sistema di riferimento) è, di principio, superiore (epistemicamente, eticamente, ec-cetera) a un’altra; una cultura è sempre e solo diversa da ogni altra, mai mi-gliore o peggiore; ciò significa che è sempre indebito19valutare una cultura

dall’esterno perché questo esterno è solo e unicamente un’altra, diversa e paritaria cultura. Per esempio, una pratica come la già ricordata infibula-zione femminile, che per noi è moralmente sbagliata non lo è o può non es-serlo per loro; ovviamente, date certe condizioni, possiamo spiegar loro per-ché la riteniamo moralmente sbagliata, e perper-ché essi, secondo noi, sbagliano a non considerarla tale, ma le ragioni che possiamo dare sono e restano, in ultima istanza, le nostre ragioni (nostre perché relative alla nostra cultura, al nostro sistema di valori, eccetera); a loro volta, date certe condizioni, essi possono spiegarci perché non lo sia affatto sbagliata, e perché sbagliamo, se-condo loro, a considerarla tale, ma le ragioni che ci possono dare sono e

re-Questioni

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18Uso qui, con grande libertà e imprecisione, questa distinzione tra noi e loro solo per comodità,

senza voler suggerire in nessuna maniera una visione monolitica e aproblematica del «noi» e del «loro». Su tutta questa tematica, in relazione a Wittgenstein e alla sua lettura di James G. Frazer si veda C. RO -FENA, Wittgenstein e l’errore di Frazer. Etica morfologica ed estetica antropologica, Mimesis, Milano-Udine

2011.

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stano, in ultima istanza, le loro ragioni (loro perché relative alla loro cultura, al loro sistema di valori, eccetera). Ma com’è veramente o in sé quella pra-tica? È o non è moralmente sbagliata? Secondo il relativista non vi può es-sere che una risposta: per noi (per i nostri principi, valori) lo è, moralmente sbagliata; per loro (per i loro principi e valori) non lo è. Questo è tutto; e questo è tutto significa: fermati qui e evita di domandare se i loro principi e valori siano peggiori o migliori dei nostri. Su quali principi e valori po-tresti mai basarti per stabilirlo? Evidentemente non sui loro, ma nemmeno sui nostri. Forse su altri principi e valori? Ma su quali e perché mai? Come faresti a stabilire che questi altri principi e valori sono migliori sia dei no-stri che dei loro? Forse ricorrendo ad altri principi e valori? Ma quali? È proprio questa risposta che fa di qualcuno un relativista. Come ricorda-vamo, questa conclusione può essere, a sua volta, valutata positivamente o negativamente nelle sue implicazioni; per gli uni essa significa tolleranza e rinuncia a ogni prevaricazione; per gli altri, significa indifferenza, moral-mente colpevole, per le molte sofferenze e umiliazioni che quella pratica produce.

Ovviamente, questa è la risposta che dà il relativista; per noi quella pra-tica può essere sbagliata simpliciter, non sbagliata per noi; per noi le nostre ragioni sono le ragioni; e per loro, quella stessa pratica può non essere sba-gliata, simpliciter e non per loro; per loro le loro ragioni sono le ragioni. Viene allora da domandarsi da quale luogo il relativista parli se non può non essere né il nostro né il loro luogo. La risposta non deve obbligatoriamente essere che egli, con ben poca coerenza, parla da quello stesso «non-luogo»20

che rimprovera all’assolutista di aver evocato. Forse egli parla, come si di-ceva, da quel deserto in cui la «morte di Dio» lo ha lasciato. In questo senso, anche il relativismo è relativo, così come anche il deserto è un luogo. Del resto, come si può facilmente constatare, il relativismo non attecchisce là dove Dio è ancora vivo e vegeto, abbia esso il volto del Dio della Bibbia o del Corano o il volto inaspettato della scienza dei naturalisti. In questo senso, relativista non è tanto chi afferma che tutto (o che molto) è relativo, quanto piuttosto colui che ci domanda innanzitutto che cosa vi sia di asso-luto; e questo, come abbiamo ricordato, storicamente accade quando un ‘as-soluto’ si scontra con qualche altro ‘as‘as-soluto’ o con i molti altri ‘assoluti’. Così inteso, il relativista è colui che può ritenere che l’onere della prova spetti all’assolutista.

15

Luigi Perissinotto - In sé, per noi o per loro

20Come ha scritto Putnam, il relativismo è, come il realismo metafisico, «un tentativo impossibile

di guardare al mondo da nessun luogo» (H. PUTNAM, Realismo dal volto umano, tr. it. E. Sacchi, Il

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Ma forse ciò che il relativista vuole suggerire è che tutti noi (noi e loro) siamo, per così dire, implicitamente relativisti. Sbagliato è sempre sbagliato per noi, anche se quel «per noi» resta implicito quando affermiamo che qualcosa è sbagliato; così come tutta la legna è tutta la legna che ho tagliato nel bosco, anche se quel «che ho tagliato nel bosco» resta implicito quando affermo che ho accatastato in cantina tutta la legna. Ma come la mettiamo con tutti quelli che ritengono che qualcosa è moralmente sbagliato anche e proprio perché non lo è meramente per noi; ossia, per coloro per i quali «È sbagliato per noi» è tutt’al più un modo di dire qualcosa come: «Crediamo che sia sbagliato, ma potrebbe non esserlo»? Ciò che il relativista può even-tualmente affermare è che costoro sono assolutisti relativamente, non che sono implicitamente relativisti. Ciò che il relativista non può negare, in-somma, è che vi siano assolutisti, anche se ritiene l’assolutismo (filosofica-mente) errato. Come subito vedremo, è questo che rende il relativismo più drammatico, o meno irenico, di quanto normalmente supposto.

3. Torniamo all’esempio dell’infibulazione femminile. Come si sa, per noi (ci si perdoni, ancora una volta, questo «noi» generico e indistinto) l’in-fibulazione femminile è qualcosa di moralmente sbagliato. Ora, di fronte alle società che la praticano la domanda che spesso ci si pone è perché non lo sia anche per loro: «Come fanno a non considerare sbagliata un’usanza così evidentemente sbagliata? Un’usanza che umilia e ferisce, nel fisico e nell’a-nima, le donne?». La risposta del relativista è che per loro (anche qui ci si perdoni questo «loro» generico e indistinto) in essa non vi è nulla di mo-ralmente sbagliato; al contrario, essa è parte integrante della loro cultura e sistema di valori; per loro insomma sarebbe moralmente sbagliato non pra-ticarla. Ci troviamo così in un vicolo cieco; per un verso, infatti, ci sentiamo moralmente obbligati a impedire qualcosa che riteniamo moralmente sba-gliato; dall’altro, se lo facessimo, obbligheremo qualcuno a non fare qual-cosa che ritiene di essere moralmente obbligato a fare. Certo, se potessimo dimostrargli che quell’usanza è universalmente o in sé moralmente sbagliata, usciremmo subito da quel vicolo; ma è proprio quello che, a detta del rela-tivista, non possiamo fare. Perché mai i nostri principi e valori dovrebbero essere superiori ai loro? Insomma, chi siamo noi per giudicarli? In fondo, si potrebbe dire, è proprio perché siamo noi che li giudichiamo che non li possiamo giudicare. A chi ritenga sbagliata l’infibulazione femminile e sia anche un relativista non resta insomma che sperare che essa arrivi a essere giudicata da chi ora la pratica come noi già la giudichiamo, ossia come mo-ralmente sbagliata. Ma se può così sperare è perché egli è sì relativista, ma niente affatto scettico o nichilista: egli non ha dubbi che l’infibulazione

fem-Questioni

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minile sia moralmente sbagliata; se aggiunge «per noi», non è per ricondurre il sapere al mero credere. È per questo che, come già anticipato, il relativi-smo è più drammatico, o meno irenico, di quello che solitamente si pensa. Che altri non ritengano sbagliata l’infibulazione femminile non la rende per noi in alcun modo meno moralmente sbagliata né rende meno cogenti le no-stre ragioni. Se prima ci domandavamo chi siamo noi per giudicare, ora dob-biamo anche domandarci chi siamo noi per non giudicare. E vale ovvia-mente anche il viceversa: chi siamo noi per essere giudicati, ma anche: chi siamo noi per non essere giudicati. Per il relativista, le due domande non possono che andare insieme. In questo senso, il relativismo, più che una so-luzione etica o una dissoso-luzione dell’etica, costituisce una rappresentazione della nostra condizione etica.

4. Dunque, la stessa cosa (azione, pratica, eccetera) è per noi moral-mente sbagliata, mentre per loro non lo è. Ciò significa che sia loro che noi distinguiamo tra ciò che è moralmente sbagliato e ciò che non lo è, anche se ciò che è moralmente sbagliato per noi non sempre lo è anche per loro. Per il relativista, insomma, tra noi e loro vi è disaccordo su ciò che è mo-ralmente sbagliato e questo in quanto essi rispondono diversamente da noi alla stessa domanda: Com’è questa cosa (azione, pratica, eccetera)? Moral-mente sbagliata o no? Insomma: vi è disaccordo perché le risposte sono di-verse; ma le risposte possono essere diverse perché la domanda è la stessa. E il disaccordo resta, anche se il relativista aggiunge che le risposte, per quanto incompatibili, possono essere entrambe corrette; infatti, come più volte ribadito, la stessa cosa può essere (per noi) e non essere (per loro) mo-ralmente sbagliata; e viceversa. Anzi, per il relativista questo disaccordo deve essere preservato perché è proprio esso che rende il relativismo filo-soficamente (e non solo filofilo-soficamente) non banale.

Ma siamo davvero certi che la domanda sia la stessa? Ammettiamo pure che le nostre risposte siano sempre nostre e le loro sempre loro, ma di chi è propriamente la domanda? Da dove proviene: da loro, da noi, da loro e da noi all’unisono? Per esempio, per noi l’infibulazione femminile può es-sere un evidente caso di pratica moralmente sbagliata; per loro, al contra-rio, può essere un evidente caso di pratica moralmente giusta; ma vi è an-che una terza possibilità, ossia, per dirla un po’ rozzamente, an-che per loro l’infibulazione sia una pratica che con la morale non ha proprio nulla a che fare: essa è parte della loro vita e moralmente non è né giusta né sbagliata; a un certo punto la si pratica; questo è tutto. Ebbene, ciò che dovremmo ora domandarci è se potremmo mai convincerli (razionalmente) che questo non è tutto, ossia se potremmo mai convincerli (razionalmente) a conside-17

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rare la loro pratica moralmente problematica. Ma come si decide che cosa appartiene alla morale? Si pensi, per esempio, all’uccisione degli animali, per cibarsene, per trarne oggetti e suppellettili (pellame e pellicce, per esempio), per sperimentare nuovi farmaci e terapie mediche o addirittura per diverti-mento, come nella caccia. Molti oggi considerano questa uccisione moral-mente sbagliata, in tutti i casi e senza eccezioni; altri la considerano sbagliata solo in alcuni determinati casi o se avviene secondo certe modalità (con sof-ferenze inutili, eccetera) o se riguarda certe specie di animali (per esempio, i primati); molti altri sono incerti: si pongono il problema senza avere per esso una risposta certa o univoca; altri non si pongono nemmeno il pro-blema, anche se è sempre più difficile non porselo. Ed è sempre più diffi-cile perché quello dell’uccisione degli animali e, più in generale, quello del nostro rapporto con gli animali è progressivamente diventato per molti di noi un problema morale. Ma come lo è diventato? Credo che sia impossi-bile dare una risposta univocamente secca a questa domanda. Potremmo dire che perché qualcosa diventi per noi moralmente problematico occorre che molte cose cambino in noi (in quello che sentiamo, immaginiamo, ec-cetera) e attorno a noi (nelle nostre condizioni materiali di vita, per esem-pio, ma ovviamente non solo). Se niente cambia, qualcosa non diventa, per magia, un problema morale. È questo che forse ci suggerisce Wittgenstein in una delle sue tarde annotazioni: «Potrebbe darsi, per esempio, che un ti-zio che sia appena sfuggito al terrore della morte, eviti di far male anche a una mosca, anche se in un’altra occasione l’avrebbe ammazzata senza pen-sarci su due volte. O che, avendo davanti ai propri occhi questa esperienza vissuta, esiti a fare quello che altrimenti avrebbe fatto senza esitare»21. È

come se qualcuno ora ci domandasse se per noi sia moralmente sbagliato spezzare il ramo di un albero per farne un bastone o lanciare lontano la pie-tra che ci ha fatto inciampare. Credo che risponderemmo che qui, in que-sti due casi, non è in queque-stione il moralmente giusto o di sbagliato, anche se forse sentiremmo che il caso del ramo spezzato non è esattamente simile a quello della pietra lanciata. Possiamo ovviamente provare a immaginare che l’una o l’altra di queste azioni (spezzare un ramo; lanciare lontano una pietra) o addirittura entrambe diventino oggetto di interrogazione morale: si deve o non si deve (moralmente) spezzare un ramo? Si deve o non si deve (moralmente) lanciare lontano una pietra? Il punto è che immaginare una vita con un posto per queste domande e per queste esperienze morali si-gnifica immaginare una vita assai differente dalla vita come noi la cono-sciamo e viviamo. Ma una vita che si ponesse questi interrogativi sui rami

Questioni

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spezzati e le pietre lanciate sarebbe una vita moralmente superiore o mo-ralmente inferiore a una vita (la nostra vita) in cui senza esitazione alcuna i rami vengono spezzati e le pietre lanciate? Certo, sarebbe molto diversa e non vi è dubbio che per loro sarebbe moralmente sbagliato (e insopporta-bilmente antropocentrico) ciò che per noi, a quanto sembra, non è nem-meno un problema morale. Che dire d’altro? Come rispondere? Vi può es-sere una risposta? Oppure, come ritiene il relativista, è la domanda stessa a essere fuori luogo? Ma possiamo evitare di porla una volta posta?

5. È indubbio che su molti temi morali vi sono dispute e dibattiti ed è anche indubbio che talora ciò che è in gioco non è tanto l’applicazione di un principio a un caso particolare, quanto piuttosto la stessa validità di quel principio o, quantomeno, la sua relazione con altri principi. Se due principi, entrambi moralmente cogenti, entrano in conflitto, quale dei due deve pre-valere? Per esempio, nel dibattito sulla eutanasia il conflitto non è (o non sempre è)22sui principi in quanto tali, bensì sull’ordine di priorità tra

prin-cipi condivisi. Qui non intendo però toccare questo ordine di problemi. Ciò che voglio domandarmi è piuttosto questo: se per il relativista si possano davvero dare dispute, per esempio dispute morali, in un qualche senso non banale del termine.

Normalmente, si ha una disputa quando qualcuno asserisce qualcosa (che la poesia di Guido Gozzano è noiosa; che le droghe non devono essere in nessun caso liberalizzate; che Heidegger è il più importante filosofo del Novecento; che la politica inglese ha inizialmente favorito l’espansione na-zista; che le rape sono insipide, eccetera, eccetera) e qualcun altro asserisce il contrario (o il contraddittorio) di quanto asserito dal primo (che la poe-sia di Gozzano è tutt’altro che noiosa; che le droghe dovrebbero essere li-beralizzate; che il più importante filosofo del Novecento non è Heidegger, bensì Husserl; che la politica inglese è stata ininfluente; che le rape sono gu-stosissime, eccetera, eccetera). Com’è ovvio, perché una disputa anche solo inizi occorre che quelli che vi prendono parte condividano molte cose dif-ferenti; per esempio, (a) devono parlare la stessa lingua o capire ciascuno la lingua dell’altro; (b) devono avere in comune molti concetti, conoscenze e valori; così, per esempio, non potrebbe esserci una disputa sulla poesia di Gozzano se nessuno dei due avesse mai letto una poesia di Gozzano, se «noiosa» non fosse per entrambi una valutazione negativa, se non avessero 19

Luigi Perissinotto - In sé, per noi o per loro

22Per esempio, la disputa è sui principi se qualcuno rifiuta l’eutanasia sulla base di un principio

etico-teologico («La vita è un dono divino che nessuno può rifiutare») che l’altro non riconosce o rifiuta come principio.

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alcun concetto di letteratura, verso, composizione poetica, eccetera; ma so-prattutto (c) devono sapere (almeno implicitamente) che cosa comporti e quale sia, per così dire, il point del disputare (nei suoi vari momenti: asse-rire, argomentare, confutare, eccetera). Bisogna insomma che sappiano (al-meno implicitamente) perché si disputa e quali sono le condizioni del di-sputare. Ma, per l’appunto, perché si disputa?

Semplificando, potremmo dire che chi partecipa a una disputa, se non lo fa solamente per noia o per il puro gusto di stupire o contraddire o per altri simili motivi, lo fa perché ritiene (a) che ciò che asserisce sia vero; (b) che le sue ragioni per asserirlo siano buone; (c) che sia in ogni caso impor-tante stabilire che lo sia; (d) che per farlo occorra provare che le ragioni di chi lo nega non sono buone ragioni. Insomma, chi partecipa a una disputa vuole che si arrivi a fissare la verità o almeno la giustificatezza di quanto ha asserito contro chi sostiene che ha asserito il falso o almeno che ci sono buone ragioni per asserire il contrario di quanto egli ha asserito. Per dirlo con una formula, chi partecipa a una disputa vuole che la disputa si con-cluda. Ovviamente, e come ben sappiamo, non sempre (per non dire solo raramente) le dispute si concludono, anche se si chiudono o terminano; e questo per i più vari motivi. Alcuni di questi casi sono per noi qui irrile-vanti; per esempio, una disputa può terminare perché almeno uno la inter-rompe perché semplicemente non ha più tempo, perché gli sembra che l’al-tro non lo stia davvero ad ascoltare, perché ha di meglio da fare, perché non è poi così importante chi abbia ragione, perché ben poco dipende dall’esito della disputa, perché non vuole dimostrarsi troppo testardo, perché l’ami-cizia è più importante della disputa e del suo esito, eccetera, eccetera. Ma vi sono anche i casi in cui la disputa si conclude provvisoriamente perché le ragioni, per quanto non decisive, stanno più da una parte piuttosto che dall’altra; per quanto provvisoria, anche questa è una conclusione, così come una battaglia vinta è pur sempre una vittoria, anche se, per così dire, la guerra resta ancora da vincere. E vi sono poi quei casi in cui la disputa non sembra avere una conclusione; le ragioni dell’uno non scalzano né indebo-liscono le ragioni dell’altro (e viceversa), e questo anche se nessuno dei due ha confuso i termini, ha argomentato malamente o ha ignorato cose che do-veva conoscere. In questi casi, si può sospendere (in uno spirito scettico) il giudizio o si può semplicemente rinviarlo23.

Le dispute a cui pensa il relativista non sono però di questo genere; per esempio, la disputa sull’infibulazione sembra chiusa prima ancora di

ini-Questioni

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23Su questo e altri aspetti del problema si possono vedere i vari saggi raccolti nel volume

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ziare. Su che cosa dovremmo mai disputare? Per loro l’infibulazione non è moralmente sbagliata e hanno tutte le ragioni (le loro ragioni) per giudicarla così; per noi, l’infibulazione è moralmente sbagliata e abbiamo tutte le ra-gioni (le nostre rara-gioni) per giudicarla così. Su questo non vi è disputa. Si-curamente non possiamo pretendere che essi concludano, sulla base delle loro ragioni, che l’infibulazione è moralmente sbagliata (nessuna delle loro ragioni sostiene questa conclusione per cui sarebbe del tutto irragionevole per loro assentirvi), né essi, a loro volta, lo possono pretendere da noi (nes-suna delle nostre ragioni sostiene la conclusione che l’infibulazione non sia moralmente sbagliata per cui sarebbe del tutto irragionevole per noi assen-tirvi). A quanto sembra, solo se una delle due parti diventa irragionevole la disputa si conclude. Ma questa difficilmente può essere chiamata una con-clusione o può essere ciò che vogliamo come concon-clusione. Viene allora da domandare al relativista perché mai si continui, e con grande intensità, a di-sputare e di che cosa propriamente si disputi. Sembra che il relativista non abbia una risposta; per lui le dispute morali sembrano essere, nella sostanza, inutili o addirittura ingannevoli24;ciò che si potrebbe quasi ritenere una

re-ductio ad absurdum del relativismo, soprattutto se si considera quanto rile-vanti e coinvolgenti siano, sia in teoria che nella pratica e agli occhi dello stesso relativista, le dispute morali. In questa maniera sembriamo esser con-dotti a una conclusione che avevamo già intravisto: più che una posizione in etica, il relativismo è una rappresentazione della nostra condizione etica o, quantomeno, di quella condizione etica (contemporanea? occidentale?) nella quale ci troviamo a disputare di ciò che ci appare, nel contempo, in-disputabile. Insomma: come possiamo non giudicare? Ma insieme: come facciamo a giudicare25?

Luigi Perissinotto 21

Luigi Perissinotto - In sé, per noi o per loro

24Almeno una disputa non può comunque essere inutile per il relativista: quella in cui si disputa

sulle stesse condizioni della disputa. Dal mio punto di vista, una parte non secondaria delle dispute mo-rali appartengono a questo genere di dispute.

25Ovviamente, tutto questo non parla di per sé in favore dell’assolutismo, soprattutto se, come

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Quanto è moderno il relativismo?

Il mondo messo in prospettiva

e le svolte assiali dell’umanità

Nella vita quotidiana per «relativismo» intendiamo cose diverse, alcune apprez-zabili, altre meno. Anche nel discorso filosofico tendiamo a distinguere il relativismo come forma di pigrizia intellettuale, dal relativismo come sforzo iperriflessivo teso a smascherare la dipendenza anche delle nostre certezze più solide da un contesto tacito ingiustificabile. Spesso questa variante di relativismo è contrapposta al realismo anche se, a ben vedere, il concetto moderno di realtà può essere esso stesso considerato come il prodotto di una mossa relativizzante. Nel saggio viene proposta una variante debole di realismo non epistemico, del quale viene suggerita la compatibilità con un’attitu-dine relativistica. Quest’ultima, a sua volta, viene contestualizzata storicamente sulla base di tre metaracconti concentrici che potrebbero servire da genealogia non svilente del relativismo moderno.

In everyday life, we mean different things by «relativism», some valuable, others less so. In philosophy as well, we tend to distinguish relativism as a form of intellec-tual laziness from relativism as a hyperreflective effort aimed at exposing the depend-ence of even our most solid certainties on an unjustifiable tacit context. Often, this variety of relativism is contrasted with realism, although, with the benefit of hind-sight, the modern concept of reality may itself be regarded as the product of a rela-tivizing move. In the essay, a weak variant of epistemic realism is advocated, which is thought to be compatible with a non-quietist relativistic attitude. The latter, in turn, is historically contextualized on the basis of three concentric metanarratives that are intended as a non-debunking genealogy of modern relativism.

1. «D’altra parte, tutto è relativo». Come perla di saggezza snocciolata alla fine di una discussione accalorata, questa frase inoffensiva assolve spesso nelle nostre vite la stessa funzione dell’«ultima parola» evocata nel titolo di un bel libro di Thomas Nagel1. Per il disappunto del filosofo americano,

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non si tratta però di un autentico knock-down argument: la vetta trionfale di un crescendo inferenziale che ponga insindacabilmente fine a una disputa condotta con i migliori argomenti disponibili. È piuttosto un’efficace exit strategy che lascia tutto invariato nella vita delle persone. Dire «tutto è re-lativo» equivale in sostanza a rasserenare gli animi: «orsù, non prendertela: che ci vuoi fare?».

In che cosa consiste, allora, se esiste, il depositum sapientiae di tale cli-ché? La sua rilevanza teorica – l’idea che desta la curiosità degli amanti delle controversie filosofiche – sta nel suo far balenare l’ipotesi che ogni opinione, e qualsiasi strategia di giustificazione che cerchi di validarla, sia sempre l’e-spressione di un punto di vista e, di conseguenza, il prodotto di una sele-zione ingiustificata dell’infinita complessità dell’esperienza, appesantita dai suoi inevitabili punti ciechi.

Il dubbio è contagioso. E se il nostro accesso ai contenuti della cono-scenza non fosse affatto neutrale? Se fosse l’effetto di uno stile di parzialità impossibile da giustificare? E se il ricorso alle dimostrazioni ostensive – «guarda là, le cose stanno proprio come ti avevo detto» – fosse impratica-bile al di fuori di situazioni elementari, cognitivamente poco significative?

Le conseguenze di questa deflagrazione di perplessità potrebbero essere catastrofiche per l’edificio delle nostre certezze e, quindi, per la nostra stessa pace interiore. In tal caso, però, come si potrebbe sensatamente parlare di una «exit strategy»? Il punto, come può facilmente intuire chiunque abbia anche solo un minimo di familiarità con l’arte dell’argomentazione, è che la tesi retroagisce su se stessa, limitando immediatamente la portata universale e quindi il potenziale disturbante di ciò che vi viene enunciato. Anche l’af-fermazione che tutto è relativo è infatti relativa. Nulla di assoluto è impli-cato da essa. Nessuna minaccia seria, dunque, alla nostra libertà di smettere di pensare quando lo desideriamo2.

Comprensibilmente, è il disimpegno del relativista, il suo quietismo, la facilità con cui si sottrae al gioco del chiedere e rendere ragioni, a provo-care la reazione stizzita della maggioranza dei filosofi, che subodorano in questa scarsa combattività argomentativa una mancanza di serietà, una pi-grizia intellettuale, che non fa onore a un pensatore degno di questo nome. Come si può continuare a fregiarsi del titolo di filosofo una volta che si sia rinunciato alla posta in gioco che sta alla base di qualsiasi scommessa teo-rica, cioè la disgiunzione tra apparenza e realtà o tra il vero e il falso? Come 23

Paolo Costa - Quanto è moderno il relativismo?

2A proposito dell’orrore dell’irrevocabile come tratto distintivo del relativismo contemporaneo, cfr.

A. BELLAN, L’orrore del determinato. Relativismo, pluralismo, contingenza, in «L’ospite ingrato», I (nuova

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ha osservato qualche anno fa Agnes Heller con malcelato disprezzo: «Il re-lativismo non è una posizione epistemologica, ma la manifestazione filoso-fica della rinuncia alla scommessa. I relativisti sono i codardi del pensiero»3.

Dare del vigliacco al relativista può essere eccessivo, ma, d’altra parte, che cosa resta del lavoro intellettuale una volta che l’abbiamo privato della dimensione dello struggle, dello sforzo, della lotta contro qualcosa che op-pone resistenza alla volontà e all’arbitrio? La nozione stessa di onestà intel-lettuale presuppone la presa d’atto che nella ricerca del sapere non sia af-fatto facile resistere alla tentazione di barare, aggiustare i risultati, cedere alla fatica, al wishful thinking, o imboccare una scorciatoia per arrivare prima alla meta. D’altro canto, si viola una regola costitutiva del gioco epi-stemico – in altre parole, si smette di giocare quel gioco – se non si ammette la possibilità di distinguere tra un autentico sforzo conoscitivo e uno sfog-gio teatrale o eristico di virtuosismi intellettuali. L’effetto è altrettanto auto-distruttivo di quello che scaturirebbe dall’impossibilità di distinguere tra chi vince e chi perde nei giochi competitivi4.

È tutto qui allora? Si tratta solo di scegliere tra l’indolenza e l’integrità intellettuale?

In realtà, non è per nulla scontato che al relativista tocchi sempre il ruolo del pigro in quello scambio frenetico delle parti che caratterizza le discus-sioni tra i critici del relativismo e i suoi difensori. Il senso della labilità an-che delle convinzioni apparentemente più salde non è forse una conquista che si paga a caro prezzo e la sicumera non è un difetto tipico dei giovani? Bertrand Russell ha parlato non a caso del «dogmatism of the untravelled», del dogmatismo di chi non ha mai viaggiato5. Nello stesso spirito,

l’antro-pologo Clifford Geertz ha concluso la sua celebre requisitoria in difesa del relativismo antropologico quale effetto imprevisto dell’esperienza diretta della varietà delle espressioni dell’umano con un monito a non rintanarsi nelle rassicuranti certezze del familiare: «If we wanted home truths, we should have stayed at home» (se le uniche verità che ci interessavano erano quelle che conoscevamo già, dovevamo restarcene a casa)6. In questo caso

Questioni

24

3A. HELLER, A Philosophy of History in Fragments, Blackwell, Oxford 1993, p. 35. Bernard

Wil-liams ha parlato di «idle relativism» in Truth and Truthfulness: An Essay in Genealogy, Princeton Uni-versity Press, Princeton 2002, p. 52 (trad. it. di G. Pellegrino, Genealogia della verità, Fazi, Roma 2005). La «pigrizia intellettuale» è evocata anche da Nagel in L’ultima parola, cit., p. 14.

4Sulla immagine della conoscenza come «struggle for truth» cf. WILLIAMS, Truth and Truthfulness,

cit., pp. 141-148.

5B. RUSSELL, Unpopular Essays, Routledge, London 2009, p. 14. Sul nesso che lega viaggio e

rela-tivismo cf. M. AIME, Gli specchi di Gulliver. In difesa del relativismo, Bollati Boringhieri, Torino 2006,

cap. 6.

(25)

l’accusa di pigrizia intellettuale viene ribaltata e ricade sulle sintesi prema-ture, l’etnocentrismo, l’assolutismo premoderno degli antirelativisti7.

2. Se nessuno può rivendicare per sé il monopolio delle virtù intellet-tuali, vale la pena allora tornare a riflettere, se possibile sine ira et studio, sul valore teorico dell’attitudine antidogmatica dei relativisti. Metterla a fuoco non è difficile. Proprio come lo scettico incarna all’eccesso le doti ri-chieste da ogni autentico sforzo conoscitivo (irrequietezza, sottigliezza, un instancabile spirito autocritico), anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista sul mondo, incluso il proprio, può essere descritta come l’espressione asistematica, senza esiti costruttivi, ma forse proprio per que-sto persino più pura, più radicale, della potenza della riflessività del pen-siero. Con un’agilità e una forza degna del Barone di Münchhausen il rela-tivista coerente è disposto infatti a riconoscere che anche le verità che gli sono più care e gli appaiono più indubitabili sono rese possibili solo dal-l’assunzione di una visuale in ultima istanza non giustificabile. Come ha no-tato Karsten Harries, riflettendo sull’origine della passione tutta moderna per la prospettiva, «la consapevolezza di quanto il mio punto di vista con-tribuisca a farmi apparire le cose come mi appaiono non è separabile da un’altra scoperta: la consapevolezza di ciò che costituisce un particolare punto di vista porta inevitabilmente con sé la consapevolezza di altri possi-bili punti di vista. Per riconoscere i limiti imposti a ciò che vedo dalla mia collocazione qui e ora, devo essere in un certo senso già oltre questi limiti, capace di immaginare e concepire altre collocazioni»8.

È superfluo aggiungere che la presa di coscienza dell’orizzonte opaco che fa da sfondo alla nostra relazione conoscitiva esplicita con il mondo è il precipitato di una virtù epistemica preziosissima, che compensa il divario mai perfettamente colmabile tra giustificazione e verità9. La rivedibilità

strutturale di ogni conoscenza – il fatto, cioè, che essa incarni una pretesa di verità e non sia concepibile come l’effetto necessario di una causa indi-pendente – esige come correlato mentale o psicologico l’agilità mentale, la 25

Paolo Costa - Quanto è moderno il relativismo?

2, 1984, pp. 263-278, qui p. 278 (trad. it. di G. de Finis e P. Vereni, Anti anti-relativismo, in «Il Mondo 3», I, 2, 1994, pp. 72-86).

7Per farsi un’idea dello scambio di ruoli di cui sto parlando può essere utile consultare la

trascri-zione dell’Incontro con Giovanni Jervis pubblicata in «L’ospite ingrato», I (nuova serie), 1, 2008, pp. 173-204, soprattutto l’introduzione di Romano Luperini.

8K. HARRIES, Infinity and Perspective, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2001, pp. 42-43. Si veda

an-che H. JOAS, La fede come opzione. Possibilità di futuro per il cristianesimo, ed. it. a cura di P. Costa,

Queriniana, Brescia 2013, p. 184: «È sbagliata l’idea che tutte le persone vedano solo e sempre il mondo da una prospettiva e che altri modi di vederlo restino perciò loro inaccessibili».

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mobilità del pensiero: la capacità, cioè, di smarcarsi da ogni datità (compresi i prodotti del pensiero) per chiederne ragione. In questo senso, nessuna giu-stificazione può essere sostituita da un fatto bruto e qualsiasi pretesa di ve-rità è una open question nel senso inteso da G.E. Moore nei Principia ethica. Avere un accesso epistemico al vero significa infatti fornire una giustifica-zione e quindi accedere al gioco del chiedere e dare ragioni, proprio come la formulazione di un giudizio morale («è giusto che X» o «è buono che X») non è mai riducibile alla constatazione di una semplice identità o equi-valenza («è buono perché è ‘così’ (piacevole o accettato universalmente o ordinato da Dio)»)10.

Certo, la non perfetta sovrapponibilità tra la proprietà di essere giustifi-cato e quella di essere assolutamente certo, non impedisce di considerare al-cune affermazioni come altamente plausibili e quindi come il deposito di co-noscenze affidabili. È altrettanto chiaro, però, che tale riconoscimento non le immunizza da un’ulteriore, sempre possibile, richiesta di ragioni. È que-sto, in fondo, che fa di ogni forma di conoscenza un esercizio di libertà. E non c’è migliore argomento contro chi nega l’esistenza del libero arbitrio che far notare che il chiedere e dare ragioni è di per sé già una manifesta-zione di libertà.

Senza dubbio, la libertà negativa di cui danno prova e su cui fanno leva gli scettici e i relativisti – la libertà di rifiutare il proprio assenso, magari an-che solo tacendo – sfiora pericolosamente l’arbitrio, ma, come la menzogna, resta un’espressione interessante delle facoltà mentali umane. Entro quali li-miti, però, ha senso rivendicare il primato della libertà persino rispetto alla realtà stessa, come quando si sostiene, a prima vista contro ogni evidenza, che non esistono fatti ma solo interpretazioni? In altre parole, come si può formulare coerentemente la tensione essenziale, che pure esiste ed è inne-gabile, tra il riconoscimento della mai completa coincidenza della ragione con la realtà fisica (o dello spazio delle ragioni con il regno della legge, per usare l’utile formula di John McDowell) e l’answerability della mente al mondo, il riferimento degli atti intenzionali a un contenuto almeno ideal-mente separabile da essi, insomma il dovere delle teorie di rispondere al mondo, di tenere conto di esso?

3. Per rispondere a questo quesito latente in ogni dibattito sul relativi-smo è necessario premettere alcune riflessioni generali sul realirelativi-smo. Con

Questioni

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10Su questo aspetto della questione sono ancora valide le osservazioni di R. RORTYin Philosophy

and the Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979, pp. 306-311 (trad. it. di G. Mil-lone e R. Salizzone, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986).

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