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La riabilitazione del burnout professionale/scolastico

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Academic year: 2021

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La riabilitazione del burnout professionale/scolastico

Il burnout deriva dal termine inglese “bruciarsi” ed indica uno stato di logoramento emotivo, mentale e fisico che perdura per un periodo prolungato e si associa ad assenza di motivazione e senso di fallimento. Come abbiamo spiegato in precedenza chi rimane colpito dal burnout, che sia uno studente o un professionista, lamenta scarsa autostima, esaurimento emotivo, irritabilità e disengagement; tuttavia il burnout non è una malattia mentale (Pycha et al., 2009) bensì un fattore di rischio per lo sviluppo di episodi depressivi (Bakker et al., 2000), sindromi d’ansia (Everson et al., 2003), disturbi somatici e dipendenze. Esso può anticipare una malattia fisica o psichica o associarsi ad essa (Golembiewski et al., 1992).

I soggetti predisposti presentano una personalità piuttosto propensa al sacrificio e tendono a mettere i propri bisogni in secondo piano. Sono persone ipercritiche, estremamente coscienziose e con uno spiccato bisogno di riconoscimento. Nel caso del burnout professionale, a questi tratti si associano variabili ambientali come condizioni di lavoro sfavorevoli e conflittuali mentre nel caso dello studente la presenza di attività extra-curriculari (Salmela-Aro e Upadyaya, 2014), la paura per il futuro (Dahlin e Runeson, 2007) e il carico di studio eccessivo (Jacobs e Dodd, 2003) possono svolgere un ruolo significativo nell’esordio del burnout.

L’ultimo decennio è servito a caratterizzare il burnout, ma la standardizzazione di un trattamento terapeutico mirato è una strada ancora da percorrere (Farber, 2000). Lo stesso Farber (2000), prima di proporre un modello di intervento, individua una differenziazione interna al burnout professionale:

- Burnout Classico (o frenetico) quando il soggetto di fronte allo stress reagisce aumentando a dismisura le risorse attivate fino a raggiungere una condizione di esaurimento;

- Burnout da sotto-stimolazione (underchallenged) dovuto ad un ruolo lavorativo monotono e non motivante;

- Burnout da scarsa gratificazione (wornout) dovuto ad un lavoro ritenuto troppo stressante rispetto al riconoscimento che lo comporta.

Quando Farber propone questa distinzione, pensando alla situazione degli insegnanti, oppone le risorse alle richieste del contesto di lavoro. In accordo con il modello richieste-risorse, Demerouti et al. (2004), con il loro studio, hanno dimostrato che le richieste di lavoro pressanti

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sono gli antecedenti più significativi dell’esaurimento emotivo, mentre le risorse di lavoro disponibili (autonomia e sostegno sociale) hanno un ruolo protettivo sul burnout, favorendo l’engagement. Ma le risorse di lavoro da sole, non riescono a tamponare un’eventuale scompenso tra le richieste di lavoro e l’esaurimento emotivo. Questo modello è estendibile anche al burnout scolastico.

Salmela-Aro e Upadyaya (2014) riprendono questo modello applicandolo al contesto scolastico. A tal fine costituiscono un campione di 1709 studenti sottoposti a cinque

misurazioni: una durante la transizione tra la della scuola media (comprehensive school) e la scuola superiore (post-comprehensive school), due durante la scuola superiore e due gli anni successivi. Ecco le evidenze raccolte:

1) Pressanti richieste scolastiche correlano positivamente con lo sviluppo del burnout un anno dopo;

2) Elevate risorse ambientali sono correlate con un elevato engagement un anno dopo; 3) Un elevata autoefficacia correla positivamente con l’engagement scolastico e

negativamente con il burnout;

4) Engagement e Burnout sono due costrutti indipendenti, ma negativamente correlati (Kiuru et al., 2009). Salmela-Aro e Upadyaya confermano questa evidenza.

5) Tra la disponibilità di risorse ambientali e la soddisfazione verso la propria vita non c’è una correlazione significativa.

Gli strumenti utilizzati per misurare i parametri suddetti sono i seguenti: UWES-9 (Schaufeli, Bakker e Salanova, 2006) un questionario che misura tre sotto-aree dell’engagement ossia il Vigore, la Dedizione e il Coinvolgimento; SBI (Salmela-Aro et al., 2009) che misura il burnout attraverso tre sotto-aree che sono l’Esaurimento, il Cinismo e l’Inadeguatezza; il DEPS-10

(Salokangas, Stengard e Poutanen, 1994) che misura la depressione; la Life Scale che misura il

livello di soddisfazione raggiunta e per l’indagine degli obiettivi scolastici scelti da ogni studente la scala di Valasampi et al. (2010).

Farber (2000) ipotizza anche che, in attesa di un intervento socio-istituzionale sull’organizzazione e sull’ambiente di lavoro, il progetto terapeutico andrebbe rigorosamente personalizzato in base al tipo di professionista a rischio e dovrebbe includere una componente psicoterapeutica volta a perseguire quattro obbiettivi uguali per tutti:

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1. Diminuire la componente onirico-idealista associata al proprio lavoro, ridimensionando le aspettative e rendendole realistiche;

2. Evidenziare gli aspetti positivi del lavoro, trascurando quelli negativi;

3. Coltivare interesso al di fuori del lavoro per distrarsi e non focalizzare l’attenzione esclusivamente sui doveri professionali;

4. Lavorare in compagnia di altre persone per condividere stress ed esperienze, evitando l’isolamento.

Friedman (2000) e Pithers (1995) affrontano la questione della prevenzione indicando tre livelli sui quali lavorare intensamente: livello professionale, interpersonale e organizzativo attraverso

incontri e workshop che forniscano al professionista strumenti di comunicazione validi, strategie di problem solving funzionali e competenze nuove per fronteggiare lo stress.

Spesso, ancor prima di stabilire come intervenire, bisogna capire a chi rivolgersi. Uscire da una situazione come il burnout e individuare le cause è più facile se ci si rivolge ad un esperto (Pycha et al., 2009). In presenza di patologie associate è necessario affidarsi a uno psicologo o psichiatra. Pycha et al. (2009) individuano una serie di linee guida utili per chi non sa cosa si può fare per migliorare una condizione di burnout professionale: il primo passo che deve fare il soggetto è rendersi conto dello stress e ridurre il carico, introdurre delle pause oppure rapportarsi più attivamente con colleghi e collaboratori, il secondo passo consiste nel capire cosa lo stare bene, introdurre nuove prospettive nel suo quotidiano, rilassarsi attraverso tecniche attive (bicicletta, corsa...) o passive (yoga, training autogeno, massaggi…). Inoltre il soggetto non deve mai smettere di cercare il sostegno sociale poiché “riconoscimento e stima sono presupposti importanti per un corretto sviluppo della personalità” (Pycha et al., 2009). Un counselor esperto, con metodologie adeguate, può aiutare il soggetto a guardare con distacco una situazione professionale critica. Nella supervisione rientrano l’auto-riflessione, l’auto-organizzazione (“come reagisco allo

stress?”), il ragionamento sulla gestione delle situazioni difficili e la definizione di nuovi obiettivi. Queste tappe possono essere affrontate in un contesto di lavoro individuale oppure di gruppo: i gruppi di auto-mutuo-aiuto rappresentano una delle realtà più di successo nell’approccio ad un disturbo poiché la condivisione di testimonianze rappresenta il valore aggiunto.

La supervisione e il coaching possono aiutare il soggetto ad analizzare le questioni riguardanti la sua quotidianità professionale, individuare le fonti del tuo sovraccarico, focalizzare l’attenzione sui problemi più impellenti, così come a trovare delle soluzioni alternative. Non corrisponde ad

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un’ammissione di debolezza, bensì ha funzione di un sostegno e di rafforzamento delle competenze (Behringer et al., 2010).

Se il soggetto presenta tutti i sintomi del burnout e una comorbidità psichiatrica, siamo di fronte a una casistica più severa che necessita di un intervento più specifico. In tal caso l’ideale sarebbe un approccio integrato che combina la psicoterapia con una cura farmacologica antidepressiva, ansiolitica o, addirittura neurolettica (Leupold, 2007)..

Una delle modalità di intervento recentemente associato al trattamento dello stress

lavoro/studio-correlato e del burnout è l’MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) (Kabat Zin, 1979): tramite questo modello lo studente/professionista impara a riconoscere i segnali dello stress, prenderne consapevolezza e a gestirli. Nello specifico due sono le tecniche più efficaci: il Body Scan, che consiste nella focalizzazione dell’attenzione sulle varie parti del corpo al fine di incrementare la consapevolezza corporea e la Meditazione camminata che consiste nel porre attenzione alternativamente ad un arto e all’altro in un ciclo di otto incontri. Goodman e Schorling (2012), sottoponendo il protocollo del MBSR ad un gruppo di professionisti sanitari, dimostrarono che la dimensione dell’Esaurimento Emotivo e della Depersonalizzazione si erano ridotti

significativamente tra il pre e il post-test.

Durante la fase acuta, in cui si possono verificare anche forti intenzioni suicide, i farmaci possono essere un vero salvavita.

Oltre alle benzodiazepine, ai tranquillanti e ai sonniferi cioè quei rimedi, che durante la fase acuta possono contribuire a sedare i più gravi stati d’ansia e di disperazione, nella cura di casi gravi di burn out, paragonabili alla depressione, sono indicati in particolare gli antidepressivi. Farmaci di elezione, e molto importanti nella routine clinica, sono i moderni inibitori selettivi della ricattura della serotonina (SSRI) con la loro alta tollerabilità. Essi possono costituire per il paziente una sorta di punto di partenza da integrare con la psicoterapia. Il tipo di psicoterapia sulla quale si sta

ponendo più enfasi è di stampo cognitivo-comportamentale, ma tutti gli studi sull’argomento rimangono pieni di limitazioni (Korkzack, 2010; R; Rösing, 2003).

Probabilmente, a gravare ulteriormente su questo “ritardo” nel disporre di un approccio di intervento valido al trattamento del burnout nelle sue varie sfaccettature, è la non

contemplazione del burnout all’interno dei manuali di classificazione diagnostica.

Il motivo principale per il quale non configura nel DSM-IV è la pretesa di individuare prima gli aspetti sociali, eziologici e psicopatologici del disturbo, prima di pensare ai trattamenti (Farber,

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2000). Il burnout, pur non essendo una malattia mentale (Pycha et al., 2009) è una sindrome che sta acquisendo sempre più confini, dal punto i vista clinico. Merita un posto nei manuali

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