1. Rifondazione e/o ricostruzione post‐catastrofe
1La progettazione di nuove città trova amplia applicazione nella ricerca storico‐urbanistica: diverse sono infatti le cause che in alcuni momenti storici hanno condotto alla creazione di nuovi impianti urbani. In particolare merita ulteriori approfondimenti la tematica che unisce la rifondazione dei centri all’indomani delle catastrofi; da alcuni anni infatti è proprio quest’ultima tematica che risulta al centro del dibattito storico urbanistico ed ha costituito particolari spunti di dibattito nei convegni internazionali di storia urbana (Berlino 2000) e nazionali (Lecce 2002). La tematica “cities and catastrophes” riguarda le politiche e le strategie di rinnovamento e recupero messe in atto dalle città nel corso della storia a riguardo delle catastrofi. Non può non risultare evidente come le catastrofi naturali costituiscono una delle principali cause di trasformazione
urbanistica degli insediamenti, determinando delle trasformazioni di rottura nel porre un ripensamento della struttura fisica della città non di lungo periodo, come comunemente avviene per gli interventi urbanistici, ma di veloce attuazione. Le catastrofi hanno sempre segnato la storia delle città e dei territori; in particolare poi i terremoti hanno segnato per secoli le città meridionali e sono stati occasione per modificare profondamente i tessuti urbanistici, come i materiali, le tecniche di costruzione, e le norme che regolano il costruire. Ciascuna città ha risolto nel corso della storia questo grave problema urbanistico, non sempre secondo metodologie imposte autoritariamente da parte governativa, più spesso secondo linee guida decise autonomamente dalle municipalità, o dai baroni del centro o dalle autorità religiose, mettendo a fuoco diversi criteri per risolvere il problema del rinnovo degli abitati distrutti dopo il sisma. La storia urbana è ricca di città nuove, e molte di queste vanno ricondotte a una ricostruzione o costruzione ex novo operata all’indomani di catastrofici terremoti; di conseguenza molti studi, con una rilettura attenta
delle fonti, hanno affrontato il problema delle diverse metodologie messe in atto dalle “Università” campane per operare il rinnovo dei centri dopo i diversi terremoti che hanno colpito il Sud d’Italia, di cui alcuni “famosi” (1456, 1688, 1693, 1783, 1980), per operare un recupero della loro vivibilità in aree sismicamente più sicure.
Di particolare interesse per l’originalità dei presupposti fondativi é la ricostruzione ex novo di molti centri dell’Irpinia. Le distruzioni causate dal sisma mettono in atto nuovi criteri di pianificazione. Questi criteri sono alla base delle scelte da operare in merito alla ricostruzione in sito o alla volontà della nuova fondazione; sottolineando, anche in relazione ai nuovi studi di storia urbana, lo stretto rapporto che si riscontra tra le catastrofi e le rifondazioni dei centri urbani. Lo studio delle diverse politiche urbanistiche adottate dalle città storiche campane nel caso della “catastrofe terremoto”, assume particolare interesse tra la fine del Seicento e il Settecento, quando il dibattito sulla città e la sua organizzazione trova nuovi motivi di ispirazione sulla base delle grandi trasformazioni urbanistiche attuate nelle grandi capitali europee.
A riguardo della tematica di ricerca sulle diverse politiche urbanistiche adottate nel caso della catastrofe terremoto, più recentemente è stato oggetto di studio un centro “rifondato” dell’area beneventana. Per l’originalità dei presupposti fondativi l’analisi della rifondazione di Cerreto Sannita, può essere di esempio per la nostra ricerca attuale. Ivi si sono ripercorse le tappe dell’iter seguito dopo la catastrofe del terremoto del 1688, che colpì tutta l’area interna della regione, distruggendo non pochi abitati storici del
1
D.Mazzoleni, M.Sepe, Rischio sismico, paesaggio, architettura: l’Irpinia, contributi per un progetto, CRdC-AMRA, Università degli studi di Napoli Federico II , Napoli, 2005, pag.89-90
beneventano. La vicenda progettuale di Cerreto Sannita è stata analizzata attentamente: sia perché strettamente legata alla vasta problematica inerente la ricostruzione delle città distrutte da eventi e calamità naturali, sia principalmente per le idee innovative ivi realizzate. La Cerreto nuova, riedificata in un altro sito per la totale distruzione dell’antico abitato, fu progettata secondo uno schema regolare organizzato intorno a un asse viario centrale, su cui si impostano lotti allungati e paralleli; pertanto costituisce un esempio innovativo per il Sud di impianto regolare, non impostato su di una scacchiera regolare.
Un esempio di notevole rilevanza di città nuova perché progettata durante il periodo del regno spagnolo, come è noto fortemente propenso a privilegiare impianti ortogonali sulla scia dell’esperienza dell’urbanistica coloniale dell’America centrale e meridionale, mentre invece a Cerreto sono attuate concezioni spaziali dell’età barocca.
Nella relazione presentata a Napoli al Convegno “La città e l’uomo” nel 2000 fu affrontato il tema della stretta relazione tra i centri storici e il loro sviluppo urbanistico e i terremoti nella loro continuità su uno stesso sito e mettevamo in evidenza la necessità che la storia degli insediamenti non va disgiunta dai processi di trasformazione del contesto territoriale in aree da sempre esposte al rischio sismico, tra cui certo è da annoverare l’Irpinia, ma si deve operare una ricognizione della loro storia sismica unita alla storia delle politiche urbanistiche adottate all’indomani di ciascun sisma.
Essere coscienti della realtà storica degli antichi centri nella loro millenaria stratificazione è la prima tappa per avere un giusto approccio sia per operare una scelta strategica all’indomani del sisma sia per poter prevedere una azione corretta di preservazione dal rischio sismico.
Solamente su uno studio di dettaglio dei tessuti urbani (Indagine storica, Rilevamento puntuale e aereo fotogrammetrico, catalogazione dei beni, ecc.) possono considerarsi ragionevolmente i danni operati dal sisma e di conseguenza gestire l’operazione post‐sisma di recupero senza dar luogo a inappropriate demolizioni che aggiungono alla catastrofe naturale il disastro prodotto dall’uomo. Si pensi ai danni inferti al centro irpino di Laviano, dopo il terremoto del 23 novembre 1980, dalle ruspe.
A riguardo si sottolineava la necessaria conoscenza di come la città era stata pianificata, ricostruita o “rifondata” per resistere alle azioni dei terremoti nel corso della storia e per sopravvivere ai danni dei nuovi terremoti. Si aggiungeva a queste considerazioni la necessità di attuare oggi una prevenzione strategica e contemporaneamente una politica di mitigazione del danno con una manutenzione e un recupero corretto del tessuto abitato dei centri storici.
Non sempre però la risoluzione dei gravi problemi offerti dalla drammatica realtà all’indomani di una catastrofe, riesce a ottemperare le esigenze culturali e gli assunti teorici della conservazione integrata con l’oggettiva devastazione del patrimonio architettonico ‐ sociale e umano per l’urgenza di rapide soluzioni, dovute al pericolo d’incolumità pubblica.
In particolare nelle aree degli abitati storici, ove le qualità artistico ‐ architettoniche coesistono proprio, nel valore dei tessuti compatti degli insediamenti, che non in valori emergenti figurativi (ripristino dell’autenticità edificata), si aggiunge la presenza della popolazione residente che ne determina i caratteri sociali anch’essi stratificati che vanno considerati nel ripristino dell’autenticità di quei luoghi (ripristino dell’autenticità sociale).
L’azione di conservazione dei centri dovrà essere intrapresa sia mettendo a fuoco un’azione preventiva di messa in sicurezza sia un’accurata pianificazione della gestione post‐terremoto. In relazione poi alla scelta di possibili opzioni di recupero deve prevalere l’identificazione dei veri valori degli edifici sopravvissuti,
che possono non essere quelli monumentali e che non per questo devono essere sottovalutati, perché la loro presenza potrebbe da sola giustificare il mantenimento del centro urbano nel suo originario sito e secondo il suo impianto di fondazione.
Solamente seguendo tale linea secondo le direttive a livello internazionale, si potrà pensare di attuare il nostro compito di ricostruire la “autenticità” complessiva di quegli insiemi o palinsesti urbani che sono le città storiche devastate dalla catastrofe.
2. La ricostruzione post‐sisma: mutazione urbana e paesistica
2“Le prime confutazioni di quello che è stato definito “assioma della conservazione della continuità”, per cui azioni che variano con continuità provocano effetti che variano allo stesso modo, sono dovute a una serie di studi sul comportamento della crosta terrestre, la cui storia è caratterizzata da numerose trasformazioni profonde, anche associate alla scomparsa di esseri viventi, contraddistinte da un carattere violento quanto improvviso e indicate sin dall’Ottocento col nome di “catastrofi”. È significativo che l’idea alla base di quella che negli anni ’70 sarà la “teoria delle catastrofi”, con cui René Thom metterà definitivamente in crisi l’assioma della conservazione della continuità, nasca proprio dai fenomeni tellurici, e più precisamente da quelli scaturiti da “cause improvvise”, che sconvolgono la forma della superficie terrestre. Erompendo dagli strati geologici sulla faccia della Terra, queste catastrofi geofisiche generano a cascata altre catastrofi, territoriali, sociali, umane… incidendo ogni volta la cifra della discontinuità, più o meno ben visibile, sulle forme precedenti.
Per restare nel Meridione d’Italia, nelle ricostruzioni che interessano la Sicilia orientale dopo il terremoto del 1693 della Val di Noto e della pianura catanese, è possibile ritrovare la stessa varietà di soluzioni che riscontriamo negli interventi contemporanei, prodotta dalla dialettica tra potere centrale e feudalità locale: piccoli centri riedificati su se stessi, rifondazioni urbane a breve distanza, o ancora dislocazioni più nette, come quella che riguarda Granmichele, per rispondere a precise esigenze della produzione agricola. Più impattante l’apporto del potere centrale borbonico nelle ricostruzioni conseguenti al terremoto del 1783 in Calabria, caratterizzate da una diffusa razionalizzazione del territorio rurale che “spazza via qualsiasi eredità urbanistica delle zone interessate”. In ambedue i casi, con gradazioni diverse, l’inerzia della storia, la maggiore tutrice dell’identità paesistica, viene smossa dalle conseguenze del sisma e vinta dalle logiche sempre più stringenti dell’efficienza economica, che si traducono in chiarezza geometrica degli impianti e diffusione di tipologie di edilizie standardizzate, in un contesto di generale uniformità linguistica.
Le ricostruzioni contemporanee tendono a spingersi oltre nella prevaricazione dell’insediamento storico, avendo perduto ogni contatto con i criteri di produzione edilizia che caratterizzavano le culture materiali locali e possedendo capacità di trasformazione territoriale incomparabilmente maggiori.
L’estrema conseguenza della “singolarità” tettonica, del fenomeno puntuale che origina la catastrofe geologica, è spesso rappresentata da nodi infrastrutturali e frammenti di periferie urbane e di distretti manifatturieri che improvvisamente si sovrappongono alla continuità sedimentata del paesaggio rurale, incidendo nell’ipertesto paesistico l’autografo inconfondibile della svolta epocale, della “catastrofe” territoriale. È innegabile la suggestione peggiorativa che questo termine porta con sé, ma non è forse inopportuno sottolineare che è frequentemente applicabile, nella sua accezione corrente, all’effetto
2
D.Mazzoleni, M.Sepe, Rischio sismico, paesaggio, architettura: l’Irpinia, contributi per un progetto, CRdC-AMRA, Università degli studi di Napoli Federico II , Napoli, 2005, pag.221-223
che tali interventi hanno sull’identità dei luoghi colpiti e sulla sostenibilità dello sviluppo che vorrebbero indurvi.
Evidentemente il sisma coglie impreparato il territorio e gli attori della sua trasformazione, e l’accelerazione dei processi dovuti all’emergenza improvvisa non fa altro che enfatizzare questa impreparazione. Il paesaggio diventa quindi una delle vittime illustri e misconosciute del sisma.
Pare dunque necessario correggere la prassi che regola gli interventi nell’emergenza post‐sismica e nelle fasi successive, in maniera da considerare l’importanza del paesaggio per il suo valore sia come fondamento di identità delle popolazioni che come risorsa per lo sviluppo sostenibile, in armonia con la Convenzione Europea del Paesaggio e come ribadito dal recente Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.”
3. Variazione della configurazione spaziale urbana della provincia dell’Aquila dopo
il sisma del 6 Aprile 2009
Il violento sisma che la notte del 9 Aprile 2009 ha colpito la Valle dell’Aterno, ha determinato un elevato numero di morti, il crollo del centro storico dell’Aquila e di numerosi paesi sviluppatisi attorno al capoluogo. Nelle ore seguenti l’evento, agli occhi increduli dei sopravvissuti e dei primi soccorritori si palesava l’enormità dei danni materiali. L’onda tellurica così come gli innumerevoli incendi divampati in conseguenza di essa, danneggiavano gravemente o abbattevano una parte consistente degli edifici, testimonianza della lunga storia cittadina: l’Ospedale, la Prefettura, le sedi universitarie, le banche, il Duomo, i palazzi storici che si ergono lungo le principali vie del centro storico, il Teatro.
Grandi furono i danni provocati e grande fu l’impegno della popolazione superstite, della Protezione Civile e di tutta Italia per aiutare nella prima fase di soccorso.
1‐1. Cartografia con l’indicazione della “Zona Rossa” del centro storico Aquilano al 20 gennaio 2011.
Ma oggi, chi osserva una planimetria aggiornata allo stato post sisma della provincia Aquilana,nota che è stato altrettanto grande il disinteresse di non ripristinare o ricostruire i paesi distrutti dal sisma e lo stesso centro storico Aquilano, dove le principali vie della città restano tutt’ora inaccessibili come gli edifici pubblici e privati che fino alla notte del 6 Aprile popolavano il centro storico. Con decreto n.3701 del 19 Maggio 2010, firmato dal Capo Dipartimento della Protezione Civile, sono state rese note le 19 aree in cui sono state realizzate le abitazione del Progetto C.A.S.E.: come è possibile notare nella cartografia sottostante, queste aree sono situate tutte nella periferia aquilana, al confine tra le zone industriali e zone agricole, tra quest’ultime e le aree residenziali periferiche, lasciando inalterato il tessuto storico e senza creare una continuità compositiva con le edificazioni esistenti. Al contrario delle scelte che sono state fatte per la ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto del Friuli nel 1976, all’Aquila non è stata rispecchiata l’originalità insediativa ambientale del territorio in quanto non sono stati riedificati i borghi storici, che stando alla sottoutilizzazione del patrimonio edilizio precedente al terremoto erano più che sufficienti a contenere la domanda abitativa. La realtà della ricostruzione non è stata coerente con l’impostazione originaria visto che sono state cancellate in gran parte l’identità e la riconoscibilità umana. La mancanza di un effettivo controllo progettuale ed esecutivo dello sviluppo post‐ terremoto ha prodotto alcuni effetti macroscopici nelle aree di nuova espansione.
1‐2 Indicazione delle aree individuate per la costruzione del Progetto C.A.S.E.
La spinta alla ricostruzione all’esterno delle aree storiche ha reso inconsistente la densità edilizia e la continuità della quinta stradale in molti borghi; nelle corti, i vuoti delle case non ricostruite coesistono in maniera casuale con nuove edificazioni.
Quei luoghi che si riconoscevano per la loro piazza, per la chiesa, per la cortina edilizia si contrappongono alle nuove zone che per la loro assenza di qualità nulla hanno di diverso da una periferia indifferenziata se non per una più elevata presenza di verde.
D’altra parte il post‐terremoto ha innescato tali e tante trasformazioni sociali ed economiche per cui è doveroso domandarsi se la struttura urbana policentrica imperniata sul modello dei borghi e legata ad un modello di economia “rurale” oramai datato, sia ancora oggi un modello valido e suscettibile di miglioramenti ed adattamenti per le esigenze odierne e future della comunità.
Le aree individuate per la costruzione del Progetto C.A.S.E. hanno assunto una configurazione formale del tutto dissimile dalle aree preesistenti: quest’ultime sono tutte di forma molto regolare, molto vicine tra loro e non sparse sul territorio ad incentivare una maggiore disomogeneità costruttiva. Ad esempio, le C.A.S.E. di Sant’Elia 1 e Sant’Elia 2 sono state costruite su terreni dislocati in una zona periferica, circondata dalla campagna e dalle industrie e non amalgamate con il resto delle aree residenziali, deturpando lo scenario naturalistico.