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1. Rifondazione e/o ricostruzione post‐catastrofe

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Academic year: 2021

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1. Rifondazione e/o ricostruzione post‐catastrofe

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La  progettazione  di  nuove  città  trova  amplia  applicazione  nella  ricerca  storico‐urbanistica:  diverse  sono  infatti  le  cause  che  in  alcuni  momenti  storici  hanno  condotto  alla  creazione  di  nuovi  impianti  urbani.  In  particolare merita  ulteriori approfondimenti la tematica che unisce la rifondazione dei centri all’indomani  delle  catastrofi;  da alcuni  anni  infatti  è  proprio  quest’ultima  tematica  che  risulta  al  centro  del  dibattito  storico urbanistico ed ha costituito particolari spunti di dibattito nei convegni internazionali di storia urbana  (Berlino  2000)  e  nazionali  (Lecce  2002).  La  tematica  “cities  and  catastrophes”  riguarda  le  politiche  e  le  strategie  di  rinnovamento  e  recupero  messe  in  atto  dalle  città  nel  corso  della  storia  a  riguardo  delle  catastrofi.  Non  può  non  risultare  evidente  come  le  catastrofi  naturali  costituiscono  una  delle  principali  cause di trasformazione 

urbanistica  degli  insediamenti,  determinando  delle  trasformazioni  di  rottura  nel  porre  un  ripensamento  della  struttura  fisica  della  città  non  di  lungo  periodo,  come  comunemente  avviene  per  gli  interventi  urbanistici, ma di veloce attuazione. Le catastrofi hanno sempre segnato la storia delle città e dei territori;  in  particolare  poi  i  terremoti  hanno  segnato  per  secoli  le  città  meridionali  e  sono  stati  occasione  per  modificare profondamente i tessuti urbanistici, come i materiali, le tecniche di costruzione, e le norme che  regolano il costruire. Ciascuna città ha risolto nel corso della storia questo grave problema urbanistico, non  sempre secondo metodologie imposte autoritariamente da parte governativa, più spesso secondo linee  guida decise autonomamente dalle municipalità, o dai baroni del centro o dalle autorità religiose, mettendo  a fuoco diversi criteri per risolvere il problema del rinnovo degli abitati distrutti dopo il sisma.  La storia urbana è ricca di città nuove, e molte di queste vanno ricondotte a una ricostruzione o costruzione  ex novo operata all’indomani di catastrofici terremoti; di conseguenza molti studi, con una rilettura attenta 

delle  fonti,  hanno  affrontato  il  problema  delle  diverse  metodologie  messe  in  atto  dalle  “Università”  campane per operare il rinnovo dei centri dopo i diversi terremoti che hanno colpito il Sud d’Italia, di cui  alcuni  “famosi”  (1456,  1688,  1693,  1783,  1980),  per  operare  un  recupero  della  loro  vivibilità  in  aree  sismicamente più sicure. 

Di particolare interesse per l’originalità dei presupposti fondativi é la ricostruzione ex novo di molti centri  dell’Irpinia.  Le  distruzioni  causate  dal  sisma  mettono  in  atto  nuovi  criteri  di  pianificazione.  Questi  criteri  sono  alla  base  delle  scelte  da  operare  in  merito  alla  ricostruzione  in  sito  o  alla  volontà  della  nuova  fondazione;  sottolineando,  anche  in  relazione  ai  nuovi  studi  di  storia  urbana,  lo  stretto  rapporto  che  si  riscontra  tra  le  catastrofi  e  le  rifondazioni  dei  centri  urbani.  Lo  studio  delle  diverse  politiche  urbanistiche  adottate dalle città storiche campane  nel caso della “catastrofe terremoto”, assume particolare interesse  tra  la  fine  del  Seicento  e  il  Settecento,  quando  il  dibattito  sulla  città  e  la  sua  organizzazione  trova  nuovi  motivi  di  ispirazione  sulla  base  delle  grandi  trasformazioni  urbanistiche  attuate  nelle  grandi  capitali  europee. 

A  riguardo  della  tematica  di  ricerca  sulle  diverse  politiche  urbanistiche  adottate  nel  caso  della  catastrofe  terremoto,  più  recentemente  è  stato  oggetto  di  studio  un  centro  “rifondato”  dell’area  beneventana.  Per  l’originalità dei presupposti fondativi l’analisi della rifondazione di Cerreto Sannita, può essere di esempio  per la nostra ricerca attuale. Ivi si sono ripercorse le tappe dell’iter seguito dopo la catastrofe del terremoto  del  1688,  che  colpì  tutta  l’area  interna  della  regione,  distruggendo  non  pochi  abitati  storici  del        

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 D.Mazzoleni, M.Sepe, Rischio sismico, paesaggio, architettura: l’Irpinia, contributi per un progetto, CRdC-AMRA, Università degli studi di Napoli Federico II , Napoli, 2005, pag.89-90 

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beneventano.  La  vicenda  progettuale  di  Cerreto  Sannita  è  stata  analizzata  attentamente:  sia  perché  strettamente  legata  alla  vasta  problematica  inerente  la  ricostruzione  delle  città  distrutte  da  eventi  e  calamità naturali, sia principalmente per le idee innovative ivi realizzate. La Cerreto nuova, riedificata in un  altro  sito  per  la  totale  distruzione  dell’antico  abitato,  fu  progettata  secondo  uno  schema  regolare  organizzato  intorno  a  un  asse  viario  centrale,  su  cui  si  impostano  lotti  allungati  e  paralleli;  pertanto  costituisce  un  esempio  innovativo  per  il  Sud  di  impianto  regolare,  non  impostato  su  di  una  scacchiera  regolare. 

Un esempio di notevole rilevanza di città nuova perché progettata durante il periodo del regno spagnolo,  come  è  noto  fortemente  propenso  a  privilegiare  impianti  ortogonali  sulla  scia  dell’esperienza  dell’urbanistica  coloniale  dell’America  centrale  e  meridionale,  mentre  invece  a  Cerreto  sono  attuate  concezioni spaziali dell’età barocca. 

Nella  relazione  presentata  a  Napoli  al  Convegno  “La  città  e  l’uomo”  nel  2000  fu  affrontato  il  tema  della  stretta relazione tra i centri storici e il loro sviluppo urbanistico e i terremoti nella loro continuità su uno  stesso  sito  e  mettevamo  in  evidenza  la  necessità  che  la  storia  degli  insediamenti  non  va  disgiunta  dai  processi  di  trasformazione  del  contesto  territoriale  in  aree  da  sempre  esposte  al  rischio  sismico,  tra  cui  certo è da annoverare l’Irpinia, ma si deve operare una ricognizione della loro storia sismica unita alla storia  delle politiche urbanistiche adottate all’indomani di ciascun sisma. 

Essere coscienti della realtà storica degli antichi centri nella loro millenaria stratificazione è la prima tappa  per  avere  un  giusto  approccio  sia  per  operare  una  scelta  strategica  all’indomani  del  sisma  sia  per  poter  prevedere una azione corretta di preservazione dal rischio sismico. 

Solamente  su  uno  studio  di  dettaglio  dei  tessuti  urbani  (Indagine  storica,  Rilevamento  puntuale  e  aereo  fotogrammetrico,  catalogazione  dei  beni,  ecc.)  possono  considerarsi  ragionevolmente  i  danni  operati  dal  sisma  e  di  conseguenza  gestire  l’operazione  post‐sisma  di  recupero  senza  dar  luogo  a  inappropriate  demolizioni che aggiungono alla catastrofe naturale il disastro prodotto dall’uomo. Si pensi ai danni inferti  al centro irpino di Laviano, dopo il terremoto del 23 novembre 1980, dalle ruspe. 

A  riguardo  si  sottolineava  la  necessaria  conoscenza  di  come  la  città  era  stata  pianificata,  ricostruita  o  “rifondata” per resistere alle azioni dei terremoti nel corso della storia e per sopravvivere ai danni dei nuovi  terremoti. Si aggiungeva a queste considerazioni la necessità di attuare oggi una prevenzione strategica e  contemporaneamente una politica di mitigazione del danno con una manutenzione e un recupero corretto  del tessuto abitato dei centri storici. 

Non  sempre  però  la  risoluzione  dei  gravi  problemi  offerti  dalla  drammatica  realtà  all’indomani  di  una  catastrofe, riesce a ottemperare le esigenze culturali e gli assunti teorici della conservazione integrata con  l’oggettiva devastazione del patrimonio architettonico ‐ sociale e umano per l’urgenza di rapide soluzioni,  dovute al pericolo d’incolumità pubblica. 

In particolare nelle aree degli abitati storici, ove le qualità artistico ‐ architettoniche coesistono proprio, nel  valore  dei  tessuti  compatti  degli  insediamenti,  che  non  in  valori  emergenti  figurativi  (ripristino  dell’autenticità edificata), si aggiunge la presenza della popolazione residente che ne determina i caratteri  sociali  anch’essi  stratificati  che  vanno  considerati  nel  ripristino  dell’autenticità  di  quei  luoghi  (ripristino  dell’autenticità sociale). 

L’azione di conservazione dei centri dovrà essere intrapresa sia mettendo a fuoco un’azione preventiva di  messa in sicurezza sia un’accurata pianificazione della gestione post‐terremoto. In relazione poi alla scelta  di possibili opzioni di recupero deve prevalere l’identificazione dei veri valori degli edifici sopravvissuti, 

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che possono non essere quelli monumentali e che non per questo devono essere sottovalutati, perché la  loro  presenza  potrebbe  da  sola  giustificare  il  mantenimento  del  centro  urbano  nel  suo  originario  sito  e  secondo il suo impianto di fondazione. 

Solamente  seguendo  tale  linea  secondo  le  direttive  a  livello  internazionale,  si  potrà  pensare  di  attuare  il  nostro compito di ricostruire la “autenticità” complessiva di quegli insiemi o palinsesti urbani che sono le  città storiche devastate dalla catastrofe. 

2. La ricostruzione post‐sisma: mutazione urbana e paesistica

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  “Le prime confutazioni di quello che è stato definito “assioma della conservazione della continuità”, per cui  azioni che variano con continuità provocano effetti che variano allo stesso modo, sono dovute a una serie  di studi sul comportamento della crosta terrestre, la cui storia è caratterizzata da numerose trasformazioni  profonde, anche associate alla scomparsa di esseri viventi, contraddistinte da un carattere violento quanto  improvviso e indicate sin dall’Ottocento col nome di “catastrofi”. È significativo che l’idea alla base di quella  che negli anni ’70 sarà la “teoria delle catastrofi”, con cui René Thom metterà definitivamente in crisi  l’assioma della conservazione della continuità, nasca proprio dai fenomeni tellurici, e più precisamente da  quelli scaturiti da “cause improvvise”, che sconvolgono la forma della superficie terrestre. Erompendo dagli  strati  geologici  sulla  faccia  della  Terra,  queste  catastrofi  geofisiche  generano  a  cascata  altre  catastrofi,  territoriali, sociali, umane… incidendo ogni volta la cifra della discontinuità, più o meno ben visibile, sulle  forme precedenti. 

Per restare nel Meridione d’Italia, nelle ricostruzioni che interessano la Sicilia orientale dopo il terremoto  del 1693 della Val di Noto e della pianura catanese, è possibile ritrovare la stessa varietà di soluzioni che  riscontriamo negli interventi contemporanei, prodotta dalla dialettica tra potere centrale e feudalità locale:  piccoli  centri riedificati su se stessi, rifondazioni urbane a breve distanza, o  ancora dislocazioni più  nette,  come  quella  che  riguarda  Granmichele,  per  rispondere  a  precise  esigenze  della  produzione  agricola.  Più  impattante l’apporto del potere centrale borbonico nelle ricostruzioni conseguenti al terremoto del 1783 in  Calabria, caratterizzate da una diffusa razionalizzazione del territorio rurale che “spazza via qualsiasi eredità  urbanistica  delle  zone  interessate”.  In  ambedue  i  casi,  con  gradazioni  diverse,  l’inerzia  della  storia,  la  maggiore  tutrice  dell’identità  paesistica,  viene  smossa  dalle  conseguenze  del  sisma  e  vinta  dalle  logiche  sempre più stringenti dell’efficienza economica, che si traducono in chiarezza geometrica degli impianti e  diffusione di tipologie di edilizie standardizzate, in un contesto di generale uniformità linguistica. 

Le  ricostruzioni  contemporanee  tendono  a  spingersi  oltre  nella  prevaricazione  dell’insediamento  storico,  avendo  perduto  ogni  contatto  con  i  criteri  di  produzione  edilizia  che  caratterizzavano  le  culture  materiali  locali e possedendo capacità di trasformazione territoriale incomparabilmente maggiori. 

L’estrema  conseguenza  della  “singolarità”  tettonica,  del  fenomeno  puntuale  che  origina  la  catastrofe  geologica,  è  spesso  rappresentata  da  nodi  infrastrutturali  e  frammenti  di  periferie  urbane  e  di  distretti  manifatturieri  che  improvvisamente  si  sovrappongono  alla  continuità  sedimentata  del  paesaggio  rurale,  incidendo  nell’ipertesto  paesistico  l’autografo  inconfondibile  della  svolta  epocale,  della  “catastrofe”  territoriale.  È  innegabile  la  suggestione  peggiorativa  che  questo  termine  porta  con  sé,  ma  non  è  forse  inopportuno sottolineare che è frequentemente applicabile, nella sua accezione corrente, all’effetto 

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 D.Mazzoleni, M.Sepe, Rischio sismico, paesaggio, architettura: l’Irpinia, contributi per un progetto, CRdC-AMRA, Università degli studi di Napoli Federico II , Napoli, 2005, pag.221-223 

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che  tali  interventi  hanno  sull’identità  dei  luoghi  colpiti  e  sulla  sostenibilità  dello  sviluppo  che  vorrebbero  indurvi. 

Evidentemente il sisma coglie impreparato il territorio e gli attori della sua trasformazione, e l’accelerazione  dei  processi  dovuti  all’emergenza  improvvisa  non  fa  altro  che  enfatizzare  questa  impreparazione.  Il  paesaggio diventa quindi una delle vittime illustri e misconosciute del sisma. 

Pare  dunque  necessario  correggere  la  prassi  che  regola  gli  interventi  nell’emergenza  post‐sismica  e  nelle  fasi  successive,  in  maniera  da  considerare  l’importanza  del  paesaggio  per  il  suo  valore  sia  come  fondamento di identità delle popolazioni che come risorsa per lo sviluppo sostenibile, in armonia con la  Convenzione Europea del Paesaggio e come ribadito dal recente Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.”   

3. Variazione della configurazione spaziale urbana della provincia dell’Aquila dopo

il sisma del 6 Aprile 2009

Il violento sisma che la notte del 9 Aprile 2009 ha colpito la Valle dell’Aterno, ha determinato un elevato  numero  di  morti,  il  crollo  del  centro  storico  dell’Aquila  e  di  numerosi  paesi  sviluppatisi  attorno  al  capoluogo.  Nelle  ore  seguenti  l’evento,  agli  occhi  increduli  dei  sopravvissuti  e  dei  primi  soccorritori  si  palesava  l’enormità  dei  danni  materiali.  L’onda  tellurica  così  come  gli  innumerevoli  incendi  divampati  in  conseguenza  di  essa,  danneggiavano  gravemente  o  abbattevano  una  parte  consistente  degli  edifici,  testimonianza  della  lunga  storia  cittadina:  l’Ospedale,  la  Prefettura,  le  sedi  universitarie,  le  banche,  il  Duomo, i palazzi storici che si ergono lungo le principali vie del centro storico, il Teatro. 

Grandi furono i danni provocati e grande fu l’impegno della popolazione superstite, della Protezione Civile e  di tutta Italia per aiutare nella prima fase di soccorso. 

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1‐1. Cartografia con l’indicazione della “Zona Rossa” del centro storico Aquilano al 20 gennaio 2011.   

Ma  oggi, chi osserva una planimetria aggiornata allo stato post sisma della provincia Aquilana,nota che è  stato altrettanto grande il disinteresse di non ripristinare o ricostruire i paesi distrutti dal sisma  e lo stesso  centro  storico  Aquilano,  dove  le  principali  vie  della  città  restano  tutt’ora  inaccessibili  come  gli  edifici  pubblici e privati che fino alla notte del 6 Aprile popolavano il centro storico.  Con decreto n.3701 del 19 Maggio 2010, firmato dal Capo Dipartimento della Protezione Civile, sono state  rese note le 19 aree in cui sono state realizzate le abitazione del Progetto C.A.S.E.:  come è possibile notare  nella cartografia sottostante, queste aree sono situate tutte nella periferia aquilana, al confine tra le zone  industriali e zone agricole, tra quest’ultime e le aree residenziali periferiche, lasciando inalterato il tessuto  storico e senza creare una continuità compositiva con le edificazioni esistenti.  Al contrario delle scelte che sono state fatte per la ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto del Friuli  nel 1976, all’Aquila non è stata rispecchiata l’originalità insediativa ambientale del territorio in quanto non  sono stati riedificati i borghi storici, che stando alla sottoutilizzazione del patrimonio edilizio precedente al  terremoto  erano più  che  sufficienti a  contenere la  domanda abitativa. La realtà della ricostruzione non  è  stata  coerente  con  l’impostazione  originaria  visto  che  sono  state  cancellate  in  gran  parte  l’identità  e  la  riconoscibilità umana. La mancanza di un effettivo controllo progettuale ed esecutivo dello sviluppo post‐ terremoto ha prodotto alcuni effetti macroscopici nelle aree di nuova espansione. 

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  1‐2 Indicazione delle aree individuate per la costruzione del Progetto C.A.S.E. 

La  spinta  alla  ricostruzione  all’esterno  delle  aree  storiche    ha    reso  inconsistente  la  densità  edilizia  e  la  continuità della quinta stradale in molti borghi; nelle corti, i vuoti delle case non ricostruite coesistono in  maniera casuale con nuove edificazioni. 

Quei luoghi che si riconoscevano per la loro piazza, per la chiesa, per la cortina edilizia si contrappongono  alle nuove zone che per la loro assenza di qualità nulla hanno di diverso da una periferia indifferenziata se  non per una più elevata presenza di verde. 

D’altra  parte  il  post‐terremoto  ha  innescato  tali  e  tante  trasformazioni  sociali  ed  economiche  per  cui  è  doveroso domandarsi se la struttura urbana policentrica imperniata sul modello dei borghi e legata ad un  modello  di  economia  “rurale”  oramai  datato,  sia  ancora  oggi  un  modello  valido  e  suscettibile  di  miglioramenti ed adattamenti per le esigenze odierne e future della comunità. 

Le aree individuate per la costruzione del Progetto C.A.S.E. hanno assunto una configurazione formale del  tutto  dissimile  dalle  aree  preesistenti:  quest’ultime  sono  tutte  di  forma  molto  regolare,  molto  vicine  tra  loro  e  non  sparse  sul  territorio  ad  incentivare  una  maggiore  disomogeneità  costruttiva.  Ad  esempio,  le  C.A.S.E. di Sant’Elia 1 e Sant’Elia 2 sono state costruite su terreni dislocati in una zona periferica, circondata  dalla  campagna  e  dalle  industrie  e  non  amalgamate  con  il  resto  delle  aree  residenziali,  deturpando  lo  scenario naturalistico.  

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