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2. Libri per la discussione

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2. Libri per la discussione

Che cos’è, in effetti, il presente? Nell’infinito della durata, un

punto minuscolo che sfugge senza posa; un istante che, appena nato,

muore. […] Nel linguaggio corrente presente vuol dire passato

prossimo.

Marc Bloch, 1940

1.

Attiva per nove anni, la collana dei Lb ospitò contributi eterogenei sia dal punto di vista tematico che metodologico. Questa

eterogeneità era intrecciata intorno al concetto di attualità che, come abbiamo visto, si presta ad una pluralità di interpretazioni molto ampia. In questo studio cercheremo di comprendere che cosa questo concetto significò per coloro che, a vario titolo, presero parte al lavoro di realizzazione della collana: chi erano e come lavoravano? Quali finalità culturali perseguivano? In linea generale, possiamo dire che al progetto e alla realizzazione della collana presero parte decine di persone diverse, alcune dall’inizio alla fine, altre solo per brevi periodi; alcune con ruoli marginali e occasionali, altre con ruoli di maggior responsabilità e impegno, anche ideologico. I Lb erano una collana non firmata ovvero diretta non da una singola personalità, come avveniva nel caso di altre collane o collezioni, ma dalla collettività del Consiglio editoriale che settimanalmente si

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riuniva per discutere le proposte di pubblicazione avanzate dai redattori o dai consulenti della Casa editrice. Questo intreccio di nomi, persone, sensibilità, percorsi politici e intellettuali anche distanti tra loro se da una parte garantiva ricchezza in termini di idee e proposte, dall’altra costituiva il primo ostacolo ad uno sviluppo uniforme del progetto editoriale. La gestione collegiale della collana sommata alla labilità del concetto stesso di attualità rappresentava un elemento di rischio per la definizione dell’identità del nuovo progetto editoriale: dietro l’eterogeneità dei titoli proposti i lettori dovevano essere in grado di cogliere il senso di un discorso che rimandasse ad un contesto di senso più ampio e strutturato. Per favorire questa comprensione la Casa editrice dotò i singoli libri della collana di uno spazio nel quale erano esplicitamente dichiarati i motivi che avevano concorso alla decisione di pubblicare quel libro in quella collana: i testi pubblicati nella collana erano quindi introdotti da brevi note editoriali che, oltre a fornire al lettore alcune coordinate necessarie alla miglior comprensione del testo (una presentazione dell’autore e delle sue precedenti pubblicazioni), assolvevano alla funzione di dichiarare la motivazione per cui il libro veniva pubblicato. Questa seconda funzione si rivelava necessaria tanto più se la scelta di un titolo poteva apparire insolita rispetto all’ambito della collana come nel caso dell’unico testo di invenzione che la serie bianca ospiterà, la commedia satirica di Nazim Hikmet Ma è poi esistito Ivan Ivanovic?. Commissionate dal consiglio editoriale al redattore che aveva seguito la preparazione del libro più da vicino o, nel caso in cui l’opera non fosse italiana, a chi lo aveva tradotto, le note dovevano essere pubblicate anonime e chi le redigeva parlava non a titolo personale ma a nome della Casa editrice: la pluralità di coloro che partecipavano al lavoro editoriale lasciava il passo a una voce collettiva attraverso cui la Casa editrice intendeva proporre un proprio percorso di ricerca e approfondimento sul presente.

La consuetudine della nota editoriale è contraddetta da poche e significative eccezioni tra cui il terzo volume della collana, il breve

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scritto di Antonio Giolitti Riforme e rivoluzione: della sua pubblicazione e delle molteplici e diverse ripercussioni che essa generò fuori e dentro il contesto del lavoro editoriale ci occuperemo in questo capitolo. L’analisi dettagliata di questo episodio della storia della collana dovrebbe permetterci di comprendere cosa la collana fu ma anche ciò che avrebbe potuto essere. Il libro di Giolitti rappresenta un caso editoriale saliente per più motivi:

l’autorevolezza del suo autore e il suo doppio ruolo di dirigente politico e consulente editoriale; le conseguenze politiche che la pubblicazione del libro determinò; la peculiarità della risposta che il Pci e Togliatti in particolare riservarono alla pubblicazione di uno scritto redatto da uno dei suoi dirigenti; l’interesse che il libro immediatamente suscitò sulla stampa, diventando fonte di dibattito politico. Riforme e rivoluzione sarebbe potuto diventare il prototipo di un nuovo modo di fare editoria, ridisegnando la fisionomia culturale della casa editrice nel suo complesso. Ma le cose andarono in modo diverso, anzi opposto.

2.

Il concetto di attualità contiene in sé l’elemento dell’imprevedibilità: possiamo definire cosa è attuale ora, più difficile è prevedere cosa sarà attuale tra un mese o tra un anno: la nuova collana di attualità dovrà pertanto essere in grado di adattarsi ai tempi veloci, fuggevoli, imprevedibili del presente. Nel momento in cui la nuova serie bianca veniva progettata uno scritto come quello di Giolitti non poteva essere programmato: il suo autore lo aveva composto in fretta, sull’onda degli eventi, e in fretta andava pubblicato.

Questo breve saggio era nato come memoriale per rispondere alle richieste di chiarimento avanzate dalla direzione del partito comunista al deputato Giolitti dopo l’intervento polemico all’VIII

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congresso: si trattava dunque di un documento che, nelle intenzioni iniziali del suo autore, era destinato a rimanere nell’ambito della discussione interna al partito. Ma il memoriale era rimasto senza risposta e allora Giolitti aveva deciso di pubblicarlo attraverso la casa editrice cui collaborava da quasi vent’anni, sperando così di rispondere in modo esauriente sia alle critiche che provenivano dalle file del partito sia a coloro che nel suo dissenso si erano identificati. Tra questi ultimi, come abbiamo detto, si schiera compatta la redazione della Casa editrice, che prepara la pubblicazione dello scritto di Giolitti con impegno intellettuale e passione civile inusuali: anche il testo della fascetta stampata in copertina viene sottoposto a un’elaborazione collettiva di cui Giulio Bollati dà notizia a Giolitti in una lettera del primo aprile 1957:

Dopo uno spoglio accurato dei passi del tuo libro che meglio esprimono il contenuto e lo spirito del lavoro, Einaudi e noi con lui, ci siamo fermati su questo (p. 22 delle bozze): «Affrontare questi problemi in questi termini non è

“revisionismo senza principi”: ciò comporta non l’abbandono dei principi, bensì dei vecchi schemi (…) e il riesame di certi giudizi e di certe previsioni sulla crisi del capitalismo che i fatti hanno smentito e che l’analisi marxista non solo permette, ma si impone di correggere».

Bollati informa Giolitti che questo testo è stato approvato

«all’unanimità da tutti quanti»; la vicenda editoriale legata al terzo libro della collana è vissuta dalla casa editrice come esperienza collettiva: una novità che non ha precedenti e che è comprensibile solo alla luce del contesto storico e politico nella quale essa prese forma; una novità destinata a rimanere, come vedremo, nell’ambito dell’eccezione e non della regola.

La Casa editrice misurava così, per la prima volta, la sua capacità di incidere sul dibattito politico con un testo percepito dal suo autore come «moderatamente polemico»: un autentico «libro per la discussione» nella direzione del dibattito pacato e libero, una sfida che l’Einaudi lanciava innanzitutto a se stessa e alle case editrici concorrenti.

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Giolitti aveva organizzato il suo breve scritto, sessanta pagine in tutto, in sette paragrafi tesi a dimostrare «ricongiungendo la politica e l’economia, che il riformismo aveva separate, il significato

intrinsecamente rivoluzionario, e non riformista, delle riforme di struttura, nelle quali si sostanzia la politica della “via italiana al socialismo”». Il nodo centrale, secondo Giolitti, è quello del rapporto tra socialismo e democrazia che il riformismo ha invano cercato di risolvere sostituendo a un programma di riforme per il socialismo un programma di riforma del capitalismo: «il riformismo dei nostri tempi non è più il socialismo riformista, è il

neocapitalismo riformista, è il riformismo dei monopoli. È questo il fenomeno da studiare, il pericolo da evitare, il nemico da

combattere». Giolitti evita accuratamente l’astrazione teorica fine a se stessa, l’intellettualismo arido, l’erudizione lontana dai problemi reali: così, nella terza parte del libro, si confronta con la realtà italiana concentrandosi sulle prospettive concrete per la classe operaia italiana di trasformare la società attraverso l’instaurazione di nuovi rapporti di produzione. La funzione dirigente della classe operaia dovrà iniziare dal controllo del processo produttivo e da qui conquistare il potere politico: «quella che Gramsci chiamava la coscienza che l’operaio ha di se stesso come produttore, l’azione politica consapevole della classe operaia nel processo produttivo, è elemento indispensabile di una lotta rivoluzionaria per il socialismo, è fattore decisivo per la conquista del potere politico nell’attuale situazione italiana». Attraverso il concetto di egemonia della classe operaia, che è ben diverso dal concetto di dittatura del proletariato, il socialismo diventa conciliabile con la situazione di un paese, come l’Italia, economicamente sviluppato e già retto da un sistema democratico.

L’analisi di Giolitti si conclude con una riflessione sulle prospettive del socialismo italiano alla luce dei fatti del ’56: il XX congresso del Pcus e i fatti polacchi e ungheresi impongono la rivendicazione di un socialismo diverso da quello sovietico e il riconoscimento che in quest’ultimo sono ravvisabili non solo errori ma delitti, e che essi

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sono comparabili a quelli di cui si macchia quotidianamente l’imperialismo: «ma se si macchiano degli stessi orrori le forze che portano al socialismo – scrive Giolitti – allora non soltanto sono offese la civiltà e l’umanità, ma sono dilaniate le nostre speranze, calpestate le nostre convinzioni, sporcati i nostri ideali».

L’uscita del libro, che viene segnalata sul «Notiziario Einaudi» da una recensione molto favorevole di Norberto Bobbio, suscita le reazioni che Giolitti aveva immaginato e auspicato come occasione per riprendere il discorso sulle questioni politiche emerse negli ultimi mesi del ’56. Anche dal punto di vista commerciale rappresenta, per gli standard di quegli anni, un certo successo raggiungendo, nel giro di pochi mesi, quattro edizioni. Il manifesto di Giolitti suscita consensi e malumori che spaccano ulteriormente la compagine della sinistra italiana lungo la linea Psi-Pci: se da parte socialista l’opuscolo viene salutato come occasione per riflettere «sui problemi più vivi del movimento operaio nel nostro tempo […] senza indulgere in nessun dogmatismo e […] senza cadere in luoghi comuni di un noto revisionismo di dozzina», la stampa di area comunista discute le tesi di Giolitti per confutarle non di rado con toni di violenta polemica: sulle pagine del quindicinale «Il dibattito politico» che si ispirava alle idee e si valeva della collaborazione di Franco Rodano ed diretto dagli ex deputati democristiani Ugo Bartesaghi e Mario Melloni, vengono pubblicati tre articoli di confutazione delle tesi di Giolitti firmati da Lucio Magri: pur rifiutando le posizioni ideologiche di Giolitti come

«tendenzialmente opportuniste […], estranee alla migliore

tradizione di pensiero del movimento operaio» e ispiratrici di una «prospettiva politica estremamente pericolosa» Magri considera l’opuscolo «un’opera svolta con serietà di intenti, con lodevole impegno, spesso acuta in molte osservazioni, e sempre condotta, come ormai capita difficilmente, al livello di una dignitosa tecnica culturale». Su «Paese Sera» il giudizio è più pacato e argomentato: se le tesi di Giolitti hanno il merito di esaminare con serietà e

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consapevolmente sul terreno della revisione dei principi marxisti e rivelando lo sforzo di non cadere nel riformismo socialdemocratico» è pur vero, secondo il recensore, che alcune questioni rimangono confuse, in particolare il rapporto tra seconda rivoluzione industriale e miglioramento delle condizioni della classe operaia, la

contrapposizione tra dittatura e democrazia («per un marxista anche la democrazia, da un punto di vista del contenuto di classe, è una dittatura»), la valutazione dei fatti d’Ungheria («mentre è certamente dalla parte del giusto quando parla delle gravi responsabilità dei dirigenti dello Stato e del partito i quali avevano dimenticato in Ungheria come in Polonia che il socialismo si costruisce con gli uomini e per gli uomini, lo è molto meno quando considera rivoluzionaria e socialista la rivoluzione dello scorso ottobre»). Mario Alicata recensisce l’opuscolo sul numero di maggio di «Cronache meridionali»: «spiace particolarmente in questo

volumetto del compagno G. la soverchia magniloquenza del tono – che raggiunge il suo massimo nel finale tutto intessuto di citazioni faustiane – al quale non corrisponde adeguatamente la sostanza dell’analisi, delle argomentazioni e delle documentazioni». Ma «il compagno Giolitti» non è un semplice intellettuale: egli ricopre incarichi politici all’interno di un partito al quale, delle sue prese di posizione, deve rendere conto. E la reazione dei dirigenti del Pci non si fa attendere: nella riunione della Direzione del partito convocata l’8 maggio 1957 il terzo punto della discussione viene dedicato alla disamina del «caso Giolitti». Togliatti introduce la discussione constatando che la posizione di Giolitti non è isolata e che dunque la reazione del partito dovrà avere «toni molto chiari e aspri» per respingere quello che viene definito «un atto politico contro il partito». Togliatti invita dunque alla reazione decisa ma anche alla cautela:

Attenti al modo d’agire verso Giolitti. Nel partito si può, si deve discutere. Se Giolitti avesse inviato un articolo sul progresso tecnico l’avremmo pubblicato con una risposta. Qui siamo di fronte a un’altra cosa, non è un dibattito nel partito ma

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una sfida a mettere in esame l’esistenza stessa del partito. Il peso dell’azione deve consistere nell’impegnare il partito a difendersi, contro le posizioni false.

La prima mossa di questa strategia di difesa consiste nella pubblicazione su «Rinascita» di un articolo non firmato ma attribuibile a Togliatti in cui sono confutati «errori di metodo ed errori di sostanza» dell’opuscolo di Giolitti: al compagno di partito viene mossa l’accusa di essersi fatto trascinare dalla scia

dell’agitazione anticomunista abusando di frasi fatte che ignorano deliberatamente le posizioni che il partito ha formulato e

chiaramente espresso durante l’VIII Congresso. «Allusioni,

reticenze, contraffazioni ed equivoci»: in questo consistono gli errori di metodo di Giolitti e non nella scelta di rendere pubblico il suo dissenso su questioni che interessano la vita del partito e sulle quali la discussione aperta è, secondo Togliatti, non solo lecita ma anche necessaria. Ma dagli errori di metodo derivano errori di sostanza: Togliatti li ravvisa nella distorsione del pensiero di Gramsci, nel ritorno alle vecchie concezioni del marxismo al puro aspetto dei rapporti economici fino al limite di ridurre l’economia stessa a uno solo dei suoi momenti, «lo sviluppo delle tecniche produttive e quindi delle forze di produzione», nella reticenza ad affrontare i problemi odierni nella loro dimensione concreta sia nazionale che internazionale. La stroncatura delle tesi di Riforme e rivoluzione è netta: Giolitti appare agli occhi di Togliatti colui che non è stato capace di cogliere la sostanza del «grande processo storico reale» che il socialismo ha sino a quel momento compiuto sotto la guida dell’Unione sovietica. E tuttavia Togliatti concede al dissidente diritto di replica; Giolitti se ne avvale pubblicando sul numero di giugno di «Rinascita» uno scritto attraverso cui ribatte, con determinazione e pacatezza, alle osservazioni di Togliatti. La

concessione del diritto di replica da parte del segretario del Pci era – ricorda Giolitti – «una novità senza precedenti, che suscitò grandi speranze nell’area ormai vasta dei comunisti che condividevano le mie opinioni, a cominciare dagli einaudiani e specialmente da

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Calvino che calorosamente mi incoraggiava». La risposta di Giolitti a Togliatti, improntata sul tono della disamina serena delle tesi della controparte, arriva alla conclusione che tra queste e le proprie posizioni vi siano divergenze meno nette di quanto si voglia far apparire:

Il definitivo superamento della teoria del crollo del capitalismo, della tesi della necessità della violenza per instaurare la dittatura del proletariato, delle posizioni settarie nei confronti del progresso tecnico, mi sembra dunque costituire un giusto obiettivo di lavoro teorico per sviluppare, sul piano ideologico, le tesi dell’VIII congresso e tutta l’esperienza politica del Pci, per potenziare ed estendere la sua funzione dirigente nazionale nella lotta per il socialismo in Italia. (…) Credo di aver dimostrato che rispetto a questi problemi non esiste alcuna divergenza tra le mie idee e la linea politica tracciata dall’VIII congresso.

Giolitti vuol ricomporre la frattura ideologica che lo ha allontanato dal partito non trincerandosi dietro una verità di principio ma concedendosi alla discussione pubblica e aperta che il suo opuscolo «insufficiente sì, ma non inutile» ha voluto provocare: ma il diritto di replica «fu una rondine che non fece primavera»: intorno a Giolitti cala il silenzio del partito che sta intanto preparando una contromossa inusuale e imprevedibile.

Il 17 maggio Luigi Longo, vicesegretario del Pci, si mette in contatto con Giulio Einaudi per informarlo della sua intenzione di redigere una risposta a Riforme e rivoluzione di Giolitti. Scrive Longo: «penso che, agli effetti del dibattito sui temi trattati, sarebbe bene se anche la mia risposta apparisse nella stessa collezione in cui è apparsa la pubblicazione di Giolitti. Sei d’accordo? La mia

risposta occuperà un numero di pagine press’a poco uguale a quelle del lavoro di Giolitti». Einaudi dichiara di accettare «ben volentieri» la proposta di Longo: è un’occasione importante per la collana di presentarsi come spazio libero di discussione e confronto sui temi politici all’ordine del giorno. Il senso di questa scelta viene reso esplicito nella brevissima nota editoriale che accompagnerà lo scritto di Longo:

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Ci sembra – recita la nota – che una discussione pubblica tanto franca ed esplicita tra due esponenti del maggior partito di sinistra costituisca nella nostra recente vita politica un fatto nuovo e chiarificatore, suscettibile di ulteriori interessanti sviluppi. La discussione tra Longo e Giolitti si inserisce nel più ampio dibattito in corso nello schieramento della sinistra italiana. La nostra collana resta aperta a quanti, uomini di cultura e uomini politici, vorranno contribuire ad approfondirlo. In pochi giorni il vicesegretario del Pci consegna il suo dattiloscritto sollecitandone la pronta pubblicazione. La composizione del

pamphlet è talmente precipitosa nei tempi che non viene nemmeno stipulato un contratto tra la casa editrice e l’autore, il quale attende due anni prima di reclamarlo. La questione meramente contrattuale ne illumina una più sostanziale relativa ai modi e ai tempi attraverso cui si è giunti alla realizzazione di un prodotto editoriale che è percepito come «anomalo» dalla stessa casa editrice: sia l’autore che l’editore hanno fretta di pubblicare il libro per non indebolirne la portata polemica.

In Revisionismo nuovo e antico, le tesi di Giolitti vengono confutate da Longo secondo una struttura fissa che è riproposta per ciascuno dei sette paragrafi in cui la trattazione è organizzata (sette erano i paragrafi dello scritto di Giolitti): lunghe citazioni da Riforme e

rivoluzione controbattute dalle tesi dell’VIII Congresso che Longo

ripropone in ampli stralci. Attraverso questo schema Longo vuol dimostrare che Giolitti ha composto un campionario di «reticenze, manca di oggettività e di riferimenti precisi, generalizzazioni ed astrazioni» secondo una precisa ragione politica ed ideologica che pone Giolitti ideologicamente e politicamente al di fuori del Pci tra le fila dei revisionisti e dei riformisti: sono conclusioni che

sembrano mosse dall’intento di sbarrare la strada a qualsiasi forma di ulteriore dialogo e confronto con Giolitti. E infatti la lettura in casa editrice delle bozze del libro di Longo convince Giolitti dell’impossibilità di continuare la sua avventura politica dentro il Pci: le dimissioni diventano una scelta irrevocabile.

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13 luglio 1957 con cui il segretario del Pci lo invitava a «un incontro strettamente personale» per stabilire col dissidente «un contatto migliore e una migliore comprensione». Il giorno prima di

quest’ultimo tentativo compiuto da Togliatti per trattenere Giolitti dentro il partito, il libro di Longo viene finito di stampare e mandato nelle librerie col titolo Revisionismo nuovo e antico, «dove

evidentemente – ricorda Giolitti – il sostantivo era già di per sé infamante». Giolitti invia al partito la propria lettera di dimissioni. Luciano Barca ricorda che Longo lo incaricò di presiedere il Comitato federale di Cuneo convocato per discuterla:

Per prima cosa mi sono recato alla Einaudi e ho chiesto di parlare con Giulio. Con il massimo garbo ho detto ad Einaudi che una parte di responsabilità per

l’asprezza che aveva assunto lo scontro del centro del partito con Giolitti l’aveva anche lui: capivo benissimo che, dati i suoi rapporti di amicizia con Giolitti e dato che Giolitti era uno dei lettori della casa, non poteva non informarlo del testo di Longo che, come editore, si accingeva a pubblicare. Era comunque una violazione del codice deonotologico che la replica di Giolitti alle tesi di Longo (quella che aveva dato luogo alla mia prima missione a Cuneo) fosse uscita prima del libro di Luigi Longo.

Barca ricorda, infine, di come avesse cercato di convincere Giulio Einaudi «a fare il possibile per parlare con Antonio e invitarlo a ritirare le dimissioni o a sospenderle in attesa di un possibile

chiarimento». Il tentativo di mediazione di Einaudi si rivela inutile e il 24 luglio la lettera di dimissioni di Giolitti viene pubblicata

dall’«Unità». Si tratta di un fatto insolito che va interpretato alla luce di un mutamento di clima interno al Pci: «per la prima volta nella storia del PCI –scrive Barca – le dimissioni politiche di un compagno sono accolte con civiltà e rispetto e non tramutate in radiazione». Lo stesso rispetto verrà dimostrato nei confronti dell’uscita dal Pci di Calvino, la cui lettera di dimissioni viene pubblicata, sempre dall’«Unità» il 7 agosto. Tra i motivi che lo hanno spinto alla decisione «ponderata e dolorosa» delle dimissioni, Calvino rievocherà, «la drastica e sprezzante stroncatura del lavoro

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di ricerca di Antonio Giolitti (cui mi lega una profonda stima e una fraterna solidarietà)».

Giolitti avrebbe continuato il suo «lavoro di ricerca» attraverso la direzione della rivista «Passato e presente», pubblicata dal ’58 al ’60. Negli stessi anni egli continua a collaborare anche alla continuazione della collana di attualità, proponendo titoli e autori che possano alimentare il dibattito sulle questioni, non solo politiche, che più gli stanno a cuore.

3.

La centralità della figura di Giolitti in questa fase iniziale della collana si manifesta anche per la preparazione del quarto volume della collana. Nell’agosto del ’57 viene infatti pubblicato lo studio di un autore fortemente sostenuto da Giolitti, Silvio Leonardi, all’epoca direttore dell’Ufficio Studi della Camera del lavoro di Milano.

Il progetto del libro di Leonardi è particolarmente interessante come segno di quel rapporto complesso tra continuità e discontinuità di cui è intessuta la storia dell’Einaudi. Già nel novembre del ’55 Leonardi era stato invitato da Giolitti a pubblicare un’inchiesta sulle

Human Relations che sarebbe dovuta uscire nella collana Inchieste.

Nell’arco di due anni cambia tutto: la collana viene chiusa e

Leonardi si persuade che il tema centrale del libro sia superato e che ci si debba occupare di tematiche più attuali come quella delle prospettive dell’unificazione sindacale. E tuttavia, la casa editrice, con Giolitti in testa, non vuol rinunciare alla pubblicazione di un contributo di Leonardi sul tema originariamente stabilito: si arriva allora al compromesso, soddisfacente per tutti, di pubblicare in un volumetto della serie bianca l’introduzione all’inchiesta.

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rapporti tra uomo e macchina («molto controversa è la definizione di macchina. Noi crediamo, come già fece osservare Marx, che non si debba ricercarne la definizione dal punto di vista strettamente tecnico, ma piuttosto in un modo storicamente determinato di concepire e di realizzare l’attività produttiva») e tra tecnica e rapporti di proprietà: se gli sviluppi della tecnica modificano i rapporti di proprietà, questi ultimi a loro volta, influiscono sugli sviluppi della tecnica, favorendoli o ostacolandoli. Il graduale distacco del lavoratore dall’oggetto del proprio lavoro conseguente alla cosiddetta seconda rivoluzione industriale ha emancipato il lavoratore dalla fatica del lavoro manuale creando una categoria di lavoratori che svolgono funzioni di carattere intellettuale:

l’organizzazione sociale della produzione si sta dunque modificando nel senso di una maggiore responsabilità del lavoratore rispetto all’ambito di lavoro a cui partecipa e quindi di una sua maggiore integrazione e responsabilità nel processo della produzione. Il regime capitalistico, affinché questa nuova condizione di lavoro non si traduca in un primo passo verso la partecipazione del lavoratore al potere decisionale, ha introdotto le human relations, «l’insieme di principi teorici e di metodi di applicazione pratica mediante i quali si cerca […] di ottenere l’integrazione del lavoratore nell’azienda, legandolo a quest’ultima ideologicamente e materialmente senza però fare alcuna sostanziale concessione nel campo della sua partecipazione alle decisioni e quindi al potere».

Le argomentazioni di Leonardi si mantengono su un piano generale ed astratto conducendolo a considerazioni né particolarmente

originali né innovative: lo stesso Leonardi ne è consapevole quando, nel maggio del ’57, comunicando a Boringhieri la scelta del titolo per il saggio, esprime la necessità di una prefazione che informi il lettore del percorso travagliato che il libro ha subito e a cui andranno imputate le eventuali carenze della trattazione. La richiesta è

accettata e lo scritto di Leonardi viene introdotto da due pagine nelle quali l’autore spiega ai lettori la genesi del libro («doveva essere l’introduzione a uno studio su alcuni aspetti dello sviluppo delle

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forze produttive in Italia nel corso di questi ultimi anni. Doveva costituire, cioè, la parte generale di un lavoro più particolareggiato e limitato al nostro paese») e giustificando così la carenza di esempi concreti che avvalorassero le sue tesi: «Molte cose sono appena accennate perché il loro sviluppo dovrebbe aver luogo attraverso esempi concreti, cioè attraverso l’elaborazione e l’ampliamento di indagini e di documentazioni che sono alla base delle

generalizzazioni qui esposte». Contro ogni previsione dell’autore il libro riceve una buona accoglienza di critica anche da parte

comunista: polemizzando con Arialdo Banfi che sull’«Avanti!» aveva contrapposto le conclusioni di Leonardi alle impostazioni del Pci, Longo scrive: «vi sono nel saggio in esame impostazioni e valutazioni, in tutto e per tutto corrispondenti a quelle elaborate dal nostro partito e sostenute dai nostri dirigenti e attivisti sindacali». Il libro di Leonardi viene proposto al pubblico dei lettori come approfondimento della seconda tesi elaborata in Riforme e

rivoluzione, laddove Giolitti teorizzava la concentrazione

monopolistica del capitalismo italiano come freno allo sviluppo economico e al benessere sociale. Un comunicato stampa datato 20 luglio 1957 recita:

Il dibattito nella sinistra italiana continua. Mentre Antonio Giolitti su «Rinascita» riafferma le proprie tesi dopo le critiche di Togliatti, esce presso l’editore Einaudi (nella stessa serie che ha pubblicato Riforme e rivoluzione di Giolitti)

Revisionismo nuovo e antico di Luigi Longo, un violento attacco del

vicesegretario del P.C. contro le tesi del parlamentare piemontese. Replicherà l’onorevole Giolitti? Intanto, quella che può definirsi la seconda tesi di Giolitti, viene approfondita in uno studio storico e tecnico dell’industria moderna che Giulio Einaudi pubblica insieme all’opuscolo dell’on. Longo: Progresso tecnico e

rapporti di lavoro di Silvio Leonardi, che costituisce una elaborazione critica sulle

prospettive di sviluppo dell’azione sindacale e politica delle organizzazioni operaie.

In questa fase iniziale della storia della collana sembra possibile realizzare quell’unità di discorso sulla contemporaneità che in

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passato era stata teorizzata in più occasioni ma mai attuata e che adesso si traduceva nella concezione dei singoli libri come capitoli di un progetto unitario continuamente aggiornato.

4.

Nonostante la fragilità dello scritto di Leonardi, la cui pubblicazione rispondeva ad esigenze di tipo organizzativo più che a sincere motivazioni culturali, la nuova collana sembrava definirsi come spazio di confronto e discussione sui temi dell’attualità politica italiana. E invece la direzione intrapresa è subito invertita: la realtà italiana scompare sostanzialmente dalla collana mentre si afferma una prospettiva internazionale dei problemi e delle questioni del presente.

In questa prospettiva di apertura della collana a tematiche extra-nazionali fanno eccezione due libri di argomento italiano: si tratta della raccolta, curata da Danilo Dolci e intitolata Per una politica

per la piena occupazione e lo scritto di Cesare Cases, Marxismo e neopositivismo. Due approcci alla realtà nazionale tra loro molto

diversi, il primo ascrivibile al genere del saggio tecnico-sociologico, il secondo al pamphlet polemico. Se lo scritto di Cases nasceva, secondo le parole di Solmi autore della presentazione anonima del libro, come polemica «contro la concezione o mentalità

neopositivistica, o, per dir meglio, contro le sue infiltrazioni nello schieramento di sinistra» e come difesa «del materialismo storico e dialettico come concezione del mondo» nell’ambito del dibattito suscitato dalla pubblicazione del saggio di Giulio Preti, Praxis ed

empirismo, la raccolta curata da Dolci andava nella direzione di

un’editoria al servizio dei problemi nazionali più stringenti: il problema della disoccupazione, scrive Giolitti nell’introduzione, è all’ordine del giorno nonostante le inchieste parlamentari e il varo

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del Piano Vanoni del ’49. L’iniziativa di studio promossa da Dolci è una di quelle occasioni di mobilitazione delle migliori energie intellettuali di cui l’Italia ha bisogno:

Pubblicare in questa serie – conclude Giolitti – le relazioni e le comunicazioni scritte è un modo di sottolinearne l’attualità e l’importanza, non soltanto teorica, di alimentare la discussione del problema, e l’azione politica per risolverlo, con un valido contributo di analisi, di suggerimenti, di proposte, di stimoli.

Questo libro poteva creare il precedente per quel contributo attivo di idee e stimoli sulle questioni più stringenti della situazione italiana. E invece, ancora una volta, la dimensione nazionale, nei Lb come nelle altre collane, non avrebbe però ancora spazio: così la proposta, caldeggiata dai redattori Fonzi e Ponchiroli, di raccogliere alcuni articoli dell’inchiesta sull’università italiana pubblicati da Nello Finocchiaro sul «Mondo» rimane sulla carta come anche il progetto di inchiesta condotto da Gianni Alasia sulla Savigliano, che Calvino riconosce esser fatto molto bene – «nel suo genere un modello di inchiesta» – ma inattuale: «è molto dubbio che il caso della

Savigliano interessi ancora oggi. Rientra in un momento della storia della lotta sindacale in Italia ormai superato». Altre questioni

diventano prioritarie nel discorso culturale condotto dalla casa editrice entro l’ambito della nostra collana; e sono per lo più questioni che emergono da scenari geograficamente lontani rispetto all’Italia.

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