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Si deve osservare come il concetto di reati religiosamente orientati sia di recente formulazione. Esso viene coniato muovendo dall’analogia con la nozione di reati culturalmente motivati.

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Introduzione

La presente trattazione si pone l’obiettivo di analizzare la tematica dei reati religiosamente orientati, con particolare riferimento al porto del kirpān.

Per affrontare la questione occorre una riflessione preliminare.

Si deve osservare come il concetto di reati religiosamente orientati sia di recente formulazione. Esso viene coniato muovendo dall’analogia con la nozione di reati culturalmente motivati.

I reati culturalmente motivati hanno ad oggetto comportamenti qualificabili come illeciti alla stregua dell’ordinamento italiano ma che, all’interno del diverso gruppo culturale del soggetto agente, sono accettati o addirittura imposti.

Seguendo un’impostazione analogica, si può ritenere che i reati religiosamente orientati abbiano invece ad oggetto comportamenti che, pur classificati come illeciti dall’ordinamento italiano, sono doverosi alla luce di un precetto religioso.

Nell’ottica di questa estensione analogica si deve innanzitutto riflettere sul rapporto fra i concetti di religione e cultura e le rispettive libertà.

Va da subito evidenziato come non esista, ad oggi, una nozione giuridicamente rilevante di religione.

Nel corso degli anni sono state sviluppate a livello teorico varie definizioni di religione, tutte accomunate da una generale astrattezza;

tali nozioni si limitavano, e si limitano ancora oggi, a delineare gli

elementi essenziali che caratterizzano il concetto di cultura. Ad

esempio, l’Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti definisce la

religione come “il complesso di credenze, sentimenti, riti che legano

un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro, in

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2

particolare con la divinità, oppure il complesso dei dogmi, dei precetti, dei riti che costituiscono un dato culto religioso” 1 .

La ratio di tale impostazione, e soprattutto dell’assenza di una definizione rilevante a livello giuridico, è da ricercare nella volontà di non delimitare eccessivamente l’ambito di tutela legato al concetto di religione.

Al contrario, con riferimento alla concezione di cultura, sono individuabili, oltre a numerose nozioni elaborate dagli antropologi, anche definizioni giuridicamente rilevanti, in particolare sul fronte internazionale.

Il Preambolo della Dichiarazione universale dell’UNESCO sulla diversità culturale del 2001 definisce la cultura come “l’insieme dei distinti aspetti presenti nella società o in un gruppo sociale quali quelli spirituali, materiali, intellettuali ed emotivi, e che include sistemi di valori, tradizioni e credenze, insieme all’arte, alla letteratura e ai vari modi di vita”.

Nel tentativo di estensione analogica, si deve poi cercare di individuare un punto di contatto fra il concetto di religione e il concetto di cultura.

È con il riferimento alla nozione di coscienza che si può riconoscere un elemento di assonanza dei due concetti di cultura e religione. Si può ravvisare un minimo comune denominatore nello sviluppo di una propria convinzione intima e nella scelta di condurre la propria vita nell’osservanza di quest’ultima.

Nel proseguire tale percorso si deve passare ad analizzare il piano delle libertà connesse alla sfera della religione e a quella della cultura.

Contrariamente a quanto osservato in merito alla questione della definizione, la problematicità circa la disciplina delle libertà si ravvisa con riferimento alla cultura.

1

Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti,

Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2008.

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3

La libertà di religione trova richiami sia a livello nazionale, nella Costituzione, sia a livello internazionale.

Con riferimento al piano nazionale si analizzerà in particolar modo l’articolo 19 della Costituzione, quale emblema della libertà religiosa individuale. A partire dalla lettura del suddetto articolo emerge la possibilità di attribuire valore giuridico ad atti compiuti in nome di un credo religioso. Allo stesso tempo, però, questa norma individua anche un espresso vincolo, rappresentato dal buon costume.

Si delinea così a livello costituzionale una libertà religiosa vincolata, o meglio, doppiamente vincolata: al limite espresso del buon costume si deve aggiungere quello della legalità, come confine intrinseco che scaturisce dalle fondamenta dell’ordinamento giuridico italiano.

La tutela della libertà religiosa prevista a livello nazionale si rafforza poi in virtù delle ulteriori previsioni normative a livello internazionale, quali quelle contenute nella CEDU e nella Carta di Nizza. In entrambi i testi si proclama il “diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione” 2 , la cui manifestazione non può essere limitata se non in forza di restrizioni stabilite dalla legge.

Questa positivizzazione a due livelli è ulteriormente consolidata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea e della Corte europea dei diritti dell’Uomo, che tutelano l’effettività di tali previsioni normative.

Sul versante della cultura, invece, non si hanno norme che sanciscano espressamente una specifica libertà culturale.

Già sul piano costituzionale si ravvisa tale assenza, seppur questa sia giustificabile in una prospettiva storica: nel 1948 il principale fattore di alterità era la religione.

Sul piano internazionale si è andata tuttavia definendo una nozione di diritti culturali, identificabili con quelle forme simboliche che

2

Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà

fondamentali, Roma, 04/11/1950, art. 9; Carta dei diritti fondamentali dell'Unione

europea, Nizza, 07/12/2000, art. 10.

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4

contraddistinguono le comunità culturali al punto di condizionare le identità personali che vivono al loro interno.

In questa ottica anche la cultura si presenta come manifestazione della coscienza del soggetto: si ravvisa nuovamente il possibile punto di contatto fra religione e cultura, anche con riferimento alle relative libertà.

Esaminate le nozioni di base di cultura e religione, grazie alle quali si possono ricostruire i concetti di reati religiosamente e culturalmente orientati, si passerà ad interrogarsi su quali siano le possibili concause alla base di questi reati.

In questa prospettiva si prenderanno in esame, da un lato, il localismo e la non neutralità del diritto penale 3 e, dall’altro, il fenomeno della globalizzazione.

In primo luogo, si deve evidenziare come il diritto penale si presenti come un “prodotto tipico locale”, nascendo all’interno di uno Stato e essendo destinato ad un’applicazione all’interno dei suoi confini.

In particolar modo, in ogni Stato è presente un determinato catalogo di reati che non è completamente assimilabile a quello di altri stati.

A tale localismo è connesso l’aspetto di “non neutralità” del diritto penale. Esso si delinea sulla base della cultura diffusa all’interno dello Stato che ha elaborato quel determinato diritto.

Il diritto penale finisce così per fotografare la realtà di una determinata società in un preciso contesto spaziale e temporale.

La predisposizione del diritto penale ad una consumazione solo in loco pare scontrarsi con il fenomeno attuale della globalizzazione.

Con il termine globalizzazione si indica “un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo” 4 .

3

F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Giuffrè, Milano, 2010, p. 75 e ss.

4

Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti,

Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2008.

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Tale insieme di fenomeni arriva ad interessare vari aspetti dell’esperienza umana, compreso il diritto.

Una delle conseguenze della globalizzazione è l’indebolimento delle

“barriere normative” dei vari Stati. Si registra cioè un allentamento dello stretto legame fra diritto, in particolare quello penale, e territorio.

Questa apparente opposizione può essere tuttavia smentita da una lettura dei due fenomeni sotto la prospettiva del glocalismo, ossia di quella “dinamica tipica della globalizzazione, che muove verso la reciproca contaminazione di tratti locali e globali” 5 .

La glocalizzazione, sul piano del diritto penale, permette di mettere in contatto i due poli del localismo e della globalizzazione, che non si presentano più come distinti ma intrinsecamente connessi. Tramite queste spinte glocaliste si assommano tendenze federaliste, volte alla riscoperta del legame con il territorio statuale, e propensioni all’ultraterritorialità. Se, da un lato, si mira a conservare le peculiarità dei diritti nazionali, dall’altro si cerca di elaborare principi sempre più generali e comuni ai vari Stati.

Questa panoramica teorica ci permette di affrontare su un piano più pratico la tematica dei reati religiosamente orientati.

Tra di essi si colloca il porto del kirpān, simbolo religioso indossato dai fedeli Sikh.

Esso rappresenta uno dei cinque emblemi che i Sikh battezzati sono obbligati a portare. In particolare, il kirpān simboleggia la difesa di tutto ciò che è giusto e in quanto tale dovrebbe essere utilizzato solo per proteggere deboli ed indifesi.

Nella sua concezione originaria il kirpān non ha alcuna connotazione offensiva, essendo equiparabile nella sua ratio ad altri simboli religiosi

5

M. R. Ferrarese, La “glocalizzazione” del diritto: una trama di cambiamenti

giuridici, in Global law v. local law. Problemi della globalizzazione giuridica. XVII

Colloquio biennale Associazione Italiana di Diritto comparato, Brescia, 12-14

maggio 2005, a cura di C. Amato, G. Ponzanelli, Giappichelli, Torino, 2006, p. 19.

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6

indossati dai fedeli di altre confessioni, quale il crocifisso per i Cristiani.

Si può ritenere che, ad oggi, il porto del kirpān sia l’unico reato propriamente dettato dalla religione, in quanto prescinde da influenze strettamente culturali. Il suo porto non è determinato in alcun modo da una concezione propria di un gruppo culturale, essendo invece previsto come dovere per tutti i fedeli Sikh battezzati.

Il comportamento del fedele Sikh consistente nell’indossare il kirpān crea una serie di problemi nel nostro ordinamento giuridico legati alla sua natura potenzialmente offensiva, dal momento che ha una forma simile ad un pugnale.

Il kirpān potrebbe essere qualificato come un’arma bianca, o quantomeno come uno strumento da taglio o da punta, il cui porto in Italia risulta vietato dall’articolo 699, secondo comma del codice penale e dall’articolo 4, secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, contenente “Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi”.

Al contrario, per un fedele Sikh esso costituisce il simbolo della lotta tra il bene e il male, non essendo quindi considerato come un oggetto atto ad offendere.

La diversità di posizioni in merito alla sua possibile qualificazione sembra produrre una sorta di stallo.

Questo lavoro, per superare tale impasse, si propone di cambiare la prospettiva di lettura del conflitto che è nato fra i valori propri dell’ordinamento italiano e le ragioni dei Sikh in merito al porto del kirpān.

Innanzitutto, si vuole svolgere un’analisi critica della giurisprudenza italiana sulla questione che, a partire da due sentenze della Cassazione del 2016 6 , ha sviluppato un atteggiamento di scarsa tolleranza riguardo

6

Cassazione penale, Sez. I, 16/06/2016, n. 25163; Cassazione penale, Sez. I,

14/06/2016, n. 24739.

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7

al porto del kirpān, in controtendenza rispetto alla giurisprudenza precedente 7 .

La Cassazione parrebbe affermare che la destinazione simbolica sarebbe conferita solo eccezionalmente al kirpān e questo non ne giustificherebbe un utilizzo in pubblico.

In particolare, un limite esterno alla libertà di culto o di fede, quale risulta il porto del kirpān, è rappresentato dall’insieme dei valori costituzionali, primo fra tutti quello della tutela della sicurezza pubblica.

È sulla base della preminenza di questo limite che le suddette sentenze sembrano affermare che il simbolismo non è sufficiente a differenziare il kirpān da un’arma a tutti gli effetti, il cui porto è vietato dall’ordinamento italiano.

Il simbolo religioso del kirpān indossato dai fedeli Sikh ha interessato anche altri ordinamenti giuridici di paesi dove si registra, da molto più tempo rispetto all’Italia, una forte presenza Sikh, come quello canadese. Sulla questione del porto del kirpān si analizzerà in particolare l’iter giurisprudenziale del cd. “caso Multani”, affrontato dalle corti canadesi.

L’analisi della giurisprudenza canadese consente di individuare i punti di contatto e di discrepanza rispetto all’indirizzo giurisprudenziale italiano più recente, evidenziando così possibili vie alternative della trattazione della questione del porto del kirpān.

In particolare, la Corte Suprema canadese dà preminenza all’elemento soggettivo del problema, ossia alla percezione che il fedele Sikh ha del proprio simbolo religioso 8 . Al contrario, per la Cassazione italiana l’elemento soggettivo soccombe di fronte alla tutela della sicurezza pubblica.

7

Tribunale Cremona, 19/02/2009, n.15; Tribunale Vicenza, Ufficio del giudice per le indagini preliminari, ordinanza di archiviazione, 28/01/2009, n.140.

8

Cour Suprême du Canada, 02/03/2016, n. 30322.

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8

Per vagliare ulteriori strade percorribili rispetto a quelle prospettate dalla suddetta giurisprudenza, ho deciso di analizzare la questione in un’ottica interculturale.

Ho cercato infatti di considerare conflitto e diversità come componenti fisiologiche, strutturali delle relazioni umane 9 . In questa prospettiva si vuole leggere il conflitto come un processo che nasce da una situazione di equilibrio e che, al termine della parentesi conflittuale, si conclude con un equilibrio nuovo e diverso.

Tale nuovo equilibrio, essendo il conflitto una situazione fisiologica, non deve identificarsi con l’individuazione di una ragione e di un torto.

Un conflitto non necessariamente deve avere una soluzione, con l’individuazione di un vincitore.

È più proficuo, a mio avviso, il tentativo di gestire il conflitto in esame.

La ricerca del suddetto nuovo equilibrio potrà essere dunque condotta mettendo in comunicazione le convinzioni proprie del fedele Sikh con i principi espressi dall’ordinamento italiano.

Il conflitto potrà trasformarsi in un’occasione di dialogo, in cui entrambi cercano di comprendere le ragioni altrui.

Esaminata la posizione dell’ordinamento italiano tramite la recente giurisprudenza, allo scopo di capire meglio il punto di vista dei fedeli Sikh e le loro ragioni sul porto del kirpān, ho svolto alcune interviste con la Sikhi Sewa Society, organizzazione non lucrativa nata e registrata nel 2011 a Novellara, in provincia di Reggio Emilia 10 . Durante tali interviste abbiamo analizzato insieme tutte le possibili vie di gestione del conflitto, che permettano di far dialogare le istanze dei fedeli Sikh con i valori propri dell’ordinamento italiano.

Questa ricerca di un incontro tra le ragioni delle due parti in conflitto mira così ad individuare un compromesso concreto tra le esigenze di

9

Cfr. P. Consorti, Conflitti, mediazione e diritto interculturale, Pisa University Press, Pisa, 2014, p. 75.

10

http://www.sikhisewasociety.org/chi-siamo.html.

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9

sicurezza, promosse dall’ordinamento italiano, e la volontà di

difendere la propria identità religiosa da parte dei fedeli Sikh.

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