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Dal monopolio pubblico del mercato del lavoro alla riforma c.d. Biagi del 2003 fino alla manovra finanziaria dell’agosto 2011.

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Introduzione

Con la presente trattazione si intende offrire una disamina sulla tutela penalistica rispetto al fenomeno dell’intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro, meglio noto come caporalato.

Dopo un breve excursus sociologico e criminologico e sulla normativa costituzionale, internazionale ed europea più rilevante in materia, si passerà ad analizzare come il diritto penale del lavoro abbia affrontato il tema dell’intermediazione e dell’interposizione nei rapporti di lavoro.

Dopo una fase iniziale di monopolio pubblico nel collocamento di manodopera (l. 29 aprile 1949, n. 264) e di divieto assoluto di intermediazione ed interposizione nei rapporti di lavoro da parte dei privati (l. 23 ottobre 1960, n. 1369), si è avuta una fase di timida apertura (l. 24 giugno 1997, n. 196 e d.lgs. 23 dicembre 1997, n. 469), culminata con la liberalizzazione del mercato del lavoro ad opera del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. “Legge Biagi”). Si vedranno, quindi, quali siano state le risposte penalistiche, dapprima ai divieti di cui sopra, e poi alla violazione della disciplina approntata dalla c.d. “Legge Biagi”.

Non essendo in grado le disposizioni contenute in questi strumenti normativi di reprimere appieno il fenomeno, oggetto della nostra trattazione, analizzeremo come gli interpreti abbiano fatto ricorso alle fattispecie codicistiche dei reati di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600 c.p.), di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) e di estorsione (art. 629 c.p.), con risultati, però, non molto soddisfacenti.

Seguirà poi l’analisi della fattispecie del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, dapprima nella versione introdotta dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, e poi in quella modificata ad opera della l.

199/2016, n. 199. In particolare, verranno esaminate le criticità che presentava la prima fattispecie e poi si passerà ad una disamina delle

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modifiche apportate dalla l. 199/2016, mettendo in luce anche eventuali perplessità.

Infine, l’ultimo capitolo sarà dedicato alla tutela dei lavoratori extracomunitari irregolarmente presenti sul territorio dello Stato italiano, che, a causa dello status in cui versano, possono essere facili vittime di sfruttamento lavorativo.

Da ultimo verranno illustrate le conclusioni e indicate possibili vie di intervento.

Dobbiamo, tuttavia, partire da una premessa. Nei dizionari e nelle enciclopedie giuridiche non è presente una voce dedicata allo sfruttamento lavorativo in quanto tale. Nell’ambito giuslavorista questo fenomeno può essere inteso come «l’utilizzazione delle energie psicofisiche del prestatore che vengono messe al servizio del datore di lavoro al fine di ricavarne un utile congruo»1, con la conseguenza di essere un elemento caratterizzante per natura lo stesso rapporto di lavoro. La nostra attenzione, e in particolare quella del legislatore penale, dovrà concentrarsi sul momento in cui lo sfruttamento diviene patologico, da intendersi come un «disequilibrio nello scambio di prestazioni corrispettive tra lavoro e salario»2 o «una serie di comportamenti patologici che limitano la libertà di autodeterminazione di una delle parti (ovvero, del soggetto debole incarnato nella vittima dello sfruttamento)»3.

1 E. Rigo, Lo sfruttamento come modo di produzione, 7 in E. Rigo (a cura di), Leggi, migranti e caporali. Prospettive critiche e di ricerca sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura, 2015, Pisa.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

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Che cosa è il caporalato

1. Il caporalato nella sua dimensione criminologica e sociologica Per caporalato si intende l’attività di intermediazione illecita nel rapporto di lavoro e lo sfruttamento dei lavoratori che ne consegue. Il caporale è colui che recluta manodopera giornaliera e perlopiù non specializzata attraverso canali informali e non legali, per collocarla presso i datori di lavoro, trattenendo per sé parte della retribuzione (anche il 50 o 60 % della paga giornaliera, che già di per sé è di gran lunga inferiore agli standard previsti dalle contrattazioni nazionale e di categoria).

I settori produttivi in cui si verificano maggiormente fenomeni di sfruttamento sono: l’edilizia, l’agricoltura, la manifattura, il lavoro domestico, la pesca e il turismo4.

Le vittime del caporalato sono generalmente soggetti che si trovano in una situazione di particolare vulnerabilità5 sul piano economico-sociale:

o stranieri, che hanno come unico soggetto di riferimento il caporale stesso e che sono spesso privi del permesso di soggiorno, o inoccupati alla ricerca disperata di un impiego.

Si è ormai assistito ad un’evoluzione della figura del caporale, che si è fatta sistema: questa non si limita più a reclutare manodopera irregolare nelle piazze dei paesi o nelle periferie delle città per condurla nei campi,

4 D. Mancini, La tutela del grave sfruttamento lavorativo ed il nuovo articolo 603-bis c.p., su www.altalex.com.

5 Cfr. sul punto A. Giuliani, I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, Padova University Press, 2015, 18, per il quale per

“particolare vulnerabilità” deve intendersi «quell’ insieme di condizioni di debolezza sociale ed economica che spingono l’individuo ad emigrare sovente rimanendo vittima dello sfruttamento di organizzazioni criminali».

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nei cantieri abusivi o nei laboratori manifatturieri, ma esercita una piena sorveglianza e un pieno controllo sulla vita del lavoratore-vittima. Il caporale infatti sempre più spesso si inserisce all’ interno di organizzazioni criminali dedite a vari reati, tra i quali l’ingresso illegale di persone straniere nel territorio della Repubblica italiana e la tratta di persone6. La vittima di caporalato viene quindi a trovarsi in una condizione di totale sottomissione rispetto al caporale che esercita su di lei un completo dominio e una signoria mantenuti con minaccia, violenza e intimidazione7. Il lavoratore-vittima subisce un processo di reificazione, diventa una merx, priva di qualsiasi soggettività giuridica, oggetto di scambio con i datori di lavoro. A tal proposito Elio Lo Monte nota che «la vecchia figura del caporale si è evoluta fino a divenire uno

6 Cfr. sul punto A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Universale Economica Feltrinelli, 2016, che descrive fatti di cronaca avvenuti tra il 2005 e il 2006, quando, grazie alla denuncia di tre ragazzi, venne alla luce un sistema di tratta tra la Polonia e la Puglia che vedeva coinvolte centinaia di persone di nazionalità polacca che, ingannate da annunci di lavoro in Italia, venivano poi inserite in veri e propri campi di lavoro. Qui venivano sottoposte a ritmi di lavoro incessanti (anche 12-14 ore al giorno) con paghe pressocchè inesistenti e fatte alloggiare in luoghi fatiscenti, per i quali dovevano pagare le spese dell’affitto e delle utenze. Le violenze erano all’ordine del giorno e difficile era scappare, anche a causa della mancanza di conoscenza della lingua e del luogo in cui si trovavano. Dice Maria R., che lavorava 15 ore al giorno dal lunedì alla domenica, dalle 5 del mattino alle 8 di sera, e che pagava 25 euro a settimana l’alloggio in una baracca: «Se la mattina non andavamo a lavorare [Mariusz Poleszak, il caporale] ci picchiava a pugni, calci, schiaffi. Qualcuno è stato anche picchiato con un bastone» (p. 40). Leogrande scrive che «con la raccolta dei pomodori la situazione è progressivamente peggiorata. Le ore di lavoro si protraevano ben oltre il calar del sole e, pressati a loro volta dai proprietari, che imponevano arbitrariamente il ritmo del raccolto, i caporali minacciavano di far pagare a chi non avesse rispettato i tempi di quella catena di montaggio improvvisata una «super-penale» di 700 euro, una somma che era praticamente impossibile mettere insieme in tali condizioni di indigenza» (p. 45). Viene poi narrata la storia di un’altra donna che «già da dieci anni soffriva di epilessia […]. Dopo due settimane, viste le condizioni di vita e di lavoro, aveva deciso di far ritorno in Polonia, ma a quel punto era stata trattenuta con la forza e, dopo un tentativo di fuga, violentata per punizione dal «cane» [Mariusz, cfr. sopra]. Dopo aver passato giorni e giorni a rubare pomodori per cercare di sfamarsi, una mattina aveva deciso di rimanere nella sua baracca, una ex stalla adibita a dormitorio. Lamentava forti dolori mestruali e – sebbene sapesse che avrebbe dovuto pagare i 20 euro di penale – non era riuscita ad alzarsi […]» (p. 46). A questo punto era stata nuovamente sottoposta a violenza sessuale e sevizie da parte del

«cane».

La vicenda ha suscitato notevoli clamore e sgomento soprattutto in Polonia tanto che una nota stampa rilasciata subito dopo gli arresti parlava di veri e propri «lager».

7 A. Giuliani, op. cit., 18.

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degli attori del mercato globalizzato» e come «il caporalato […] assume oggi, nell’ era della post-modernità e della globalizzazione, nuova vitalità, ponendosi come uno degli effetti più nocivi della stagione neoliberista e dei connessi processi di precarizzazione del mercato del lavoro»8.

Lo stato di sottomissione del lavoratore-vittima nei confronti del caporale è determinato anche dal fatto che spesso il primo, se straniero, si trova in una condizione debitoria, perché ha dovuto affrontare le spese del viaggio per arrivare in Italia e i (pochi) soldi guadagnati sono insufficienti rispetto alle spese per il pagamento dell’alloggio9. Il caporale, infatti, si può occupare anche della sistemazione del lavoratore in abitazioni, che sono il più delle volte fatiscenti, prive delle più elementari attrezzature igienico-sanitarie e condivise anche tra sette-otto persone o tre-quattro famiglie, anche se lo spazio risulta assolutamente non adeguato. In questo modo il lavoratore-vittima, indebitato, è ancora più assoggettato al potere del caporale, che rinforza così la propria posizione di supremazia10.

I caporali sono gerarchicamente organizzati al loro interno. Abbiamo il caporale apicale, generalmente esponente della malavita locale e di nazionalità italiana, che negozia con gli imprenditori il costo del lavoro, organizza la filiera di comando dei suoi sottoposti e garantisce che tutto vada secondo quanto concordato. I caporali intermedi (che sono

8 E. Lo Monte, Osservazioni sull’ art. 603-bis c.p. di contrasto al caporalato: ancora una fattispecie enigmatica, in Aa. Vv., Scritti in onore di Alfonso Stile, Napoli, Editoriale Scientifica, 2014, 955-956.

9 D. Mancini, art. cit.

10 Cfr. sul punto Agromafie e caporalato. Terzo rapporto FLAI-CGIL, a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto, 2016, 216-217: «Se il lavoratore non ha i soldi perché non è stato pagato deve indebitarsi con l’affittuario e pagare tutto quando riceverà lo stipendio o il salario. Oppure chiedere i soldi in anticipo al caporale con un interesse una tantum. Questo indebitamento – o con l’affittuario o con il caporale – rende il lavoratore maggiormente subalterno e assoggettato alla discrezionalità dell’uno e dell’altro o a entrambi quando tra loro sussiste un rapporto solidale e collaborativo mirato, di fatto, e in modo intenzionale, a sfruttare economicamente il lavoratore».

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solitamente della stessa nazionalità dei lavoratori-vittime) assicurano, invece, l’arrivo di forza lavoro “a buon mercato”. Sono quelli che hanno rapporto diretto con i lavoratori, che li ingaggiano e che dovrebbero pagarli, ovviamente trattenendo la parte della paga che si intestano per il “servizio” di intermediazione svolto. Tra questi però dobbiamo fare le opportune distinzioni. Ci sono i caporali che si occupano del trasporto dei lavoratori presso i luoghi di lavoro, ricevendo un compenso (sempre dedotto dalla paga già misera corrisposta ai lavoratori-vittime) per il servizio prestato, e che talvolta svolgono anche loro le stesse attività lavorative in posizione di caposquadra. Tra questi ci sono poi coloro che hanno un ruolo di vigilanza, di controllo minaccioso e intimidatorio dei lavoratori: è qui che generalmente si annidano le condotte di maggiore sfruttamento, violenza e arricchimento a danno dei lavoratori-vittime11. Altro fenomeno diffuso soprattutto in agricoltura è quello delle c.d.

cooperative senza terra, cui viene appaltata una fase della raccolta o della lavorazione del prodotto, e che figurano come datori di lavoro fittizi, essendo invece meri intermediari, una sorta di caporalato collettivo. Queste cooperative, che talvolta sono costituite all’ estero direttamente nel Paese di provenienza dei braccianti, ricevono dall’impresa committente un compenso forfettario per i servizi resi che, nei fatti, nasconde un corrispettivo di denaro per le ore lavorate. In queste cooperative non c’è nulla di mutualistico, ma all’ interno vige un forte principio di gerarchia: le decisioni più importanti vengono prese dal presidente e dai consiglieri più fidati, mentre i lavoratori figurano come soci, con conseguente violazione di tutte le norme a tutela dei lavoratori subordinati12.

Certo è che il caporale opera laddove vi sia un mandato da parte dell’imprenditore. E il mandato c’è, perché in certi contesti l’incontro

11 Cfr. sul punto Agromafie e caporalato. Terzo rapporto FLAI-CGIL, a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto, 2016, 186-187.

12 Ibidem, 132-134, 150-153, 210-211.

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tra domanda ed offerta di lavoro non è in grado di funzionare attraverso i canali legali, quali ad esempio le agenzie interinali e i centri per l’impiego13. Soprattutto nel settore agricolo, forte è l’elemento dell’incertezza, perché spesso c’è una diacronia tra i tempi e le esigenze della raccolta e gli eccessivi burocratismi degli attuali sistemi di collocamento. A ciò poi si aggiunge, soprattutto in periodi di contrazione economica come quello attuale (caratterizzato per di più dalla forte concorrenza di Paesi con un welfare molto ridotto rispetto a quello italiano, se non proprio nullo), la necessità di ridurre i costi di produzione, andando ad agire su quello del lavoro14.

Dal Terzo Rapporto FLAI-CGIL, Agromafie e Caporalato, a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto, si evince che in Italia vi sono circa 430.000 soggetti, italiani e stranieri, vittime di caporalato, con più di 100.000 lavoratori in condizione di grave sfruttamento e vulnerabilità alloggiativa. Nel 2015 sono state compiute ispezioni in circa 8.862 aziende, rilevando 713 fenomeni di caporalato.

Fenomeni di sfruttamento si estendono ormai su tutta la penisola italiana: dal Piemonte, dalla Liguria e dalla Lombardia (dove circa il 22,3% dei lavoratori stranieri in agricoltura risulta retribuito in maniera discrezionale e in condizioni lavorative non adeguate, senza considerare le occupazioni svolte senza contratto), al Veneto e all’Emilia-Romagna (dove il 17,3% dei lavoratori stranieri nel settore agricolo e zootecnico risulta privo di un contratto di lavoro formale e quindi a rischio di grave sfruttamento lavorativo, senza contare le componenti prive di qualsiasi contratto); dalla Toscana (con le provincie di Livorno, Arezzo e Grosseto in testa), alle Marche e al Lazio; dall’Abruzzo (dove è il 67,3%

dei lavoratori stranieri del settore agricolo ad essere retribuito in maniera

13 Ibidem, 185-186.

14 A. Leogrande, op. cit., 121-122: «Perché il caporale, oggi come ieri, e domani come oggi, i dieci operai alle 4 del mattino del giorno dopo, te li fa trovare al prezzo di 3,50 euro all’ora».

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discrezionale e quindi a rischio di lavoro indecente e grave sfruttamento, escludendo dal conto chi è completamente irregolare), dal Molise, dalla Campania e dalla Puglia, alla Basilicata (dove le organizzazioni sindacali stimano in 35/40.000 i lavoratori stranieri del comparto agricolo in condizione di irregolarità, cui si aggiungono le 2.400 unità retribuite discrezionalmente), alla Calabria (dove a ricevere un salario discrezionale e ad essere a rischio di lavoro indecente e di grave sfruttamento è il 91,4% dei lavoratori stranieri impiegati nel settore agricolo) e alla Sicilia.

I territori di provenienza sono principalmente l’Africa (Marocco, Tunisia, Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia, Senegal, Liberia, Costa d’Avorio, Mali, Burkina Faso), l’Asia (Cina, Sri-Lanka, Pakistan), la Turchia, la Macedonia e l’Europa dell’Est (Polonia, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Lituania)15.

Non dobbiamo, però, commettere l’errore di pensare che il fenomeno riguardi solo cittadini stranieri, in quanto vittime del caporalato sono ormai sempre più spesso anche italiani16, il cui numero è aumentato in seguito all’acuirsi della crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008.

15 Cfr. sul punto A. Leogrande, op. cit., dove si sottolinea come a partire dal 2004-2005 sia giunta in Italia un’ondata di nuovi poveri provenienti dai Paesi dell’Est Europa, che hanno beneficiato dell’entrata nella Comunità Europea e dell’accesso al mercato comune. In molti casi questi soggetti sono andati a costituire un nuovo e ricco bacino di utenza per i caporali, potendo circolare liberamente all’interno del territorio dell’allora Comunità Europea. A. Gaboardi, La riforma della normativa in materia di

“caporalato” e sfruttamento dei lavoratori: corretto lo strabismo, persiste la miopia, su www.lalegislazionepenale.eu, 3.4.2017, 15-16, mette, invece, in evidenza come oggi molte vittime del caporalato siano migranti provenienti da Paesi in guerra o vittime in patria di atti di discriminazione, e, perciò, presenti legittimamente sul nostro territorio e non in condizioni di clandestinità. In particolare, un’indagine condotta nel 2014 su un campione di circa 700 lavoratori nelle campagne lucane ha dimostrato che solo il 10% dei braccianti intervistati era presente in condizioni di irregolarità sul suolo nazionale.

16 Si ricordi a titolo di esempio la vicenda delle tre ragazze di Ceglie Messapica in Puglia che nel maggio del 1980 persero la vita in un autobus guidato da caporali, o più recentemente la vicenda di Paola Clemente, colta da malore e morta nel 2015 ad Andria, mentre raccoglieva uva durante una torrida giornata di luglio.

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2. Convenzioni internazionali in materia di schiavitù e contrasto al lavoro forzato o obbligatorio: Convenzioni ONU

Il 25 settembre 1926 la Società delle Nazioni ha adottato la Convenzione di Ginevra sulla schiavitù. L’ art. 1 definisce la schiavitù come «lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano qualunque o tutti i poteri inerenti al diritto di proprietà»17 e le Parti all’art. 2 lett. b si obbligano a «disporre, progressivamente e nel più breve tempo possibile, la completa abolizione della schiavitù in tutte le sue forme».

Si è discusso se inserire un riferimento anche al lavoro forzato, ma alla fine i delegati decisero di trattarlo separatamente. Solo nel Preambolo si indica la necessità di «prevenire il lavoro forzato che presenti condizioni analoghe alla schiavitù», ma non si legge negli articoli che seguono alcun impegno formale degli Stati Parti in tal senso.

Con la Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù delle Nazioni Unite, aperta alla firma degli Stati a Ginevra il 7 settembre 1956 ed entrata in vigore il 30 aprile 1957, gli Stati Parti si sono obbligati a prendere tutte le misure necessarie per ottenere

«progressivamente e quanto prima» l’abolizione e l’abbandono di una serie di istituzioni e di pratiche, tra cui la servitù per debiti, la servitù della gleba, il matrimonio servile e alcune forme di lavoro minorile. Il Preambolo osserva infatti che «la schiavitù, la tratta degli schiavi e le istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù non sono ancora state eliminate in tutte le parti del mondo» ed esprime quindi la necessità che la Convenzione sulla schiavitù del 1926 venga implementata dalla conclusione di una convenzione supplementare per intensificare gli sforzi nazionali e internazionali.

17 Cfr. Article 1: «Slavery is the status or condition of a person over whom any or all of the powers attaching to the right of ownership are exercised».

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Con il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, adottato a New York il 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore il 3 gennaio 1976 si afferma il riconoscimento del diritto al lavoro, inteso come «il diritto di ogni individuo di ottenere la possibilità di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente scelto od accettato», ed il conseguente impegno degli Stati Parti ad adottare le misure appropriate per garantirlo (cfr. art. 6 par. 1). All’art. 7 si prevede quindi il diritto di ciascun individuo di godere di «giuste e favorevoli condizioni di lavoro», in particolare: a) di una remunerazione equa ed uguale per un «lavoro di uguale valore», senza discriminazioni di genere, e tale da garantire un’esistenza decorosa; b) di sicurezza e igiene sul lavoro; c) del diritto alla promozione a mansioni superiori sulla base dell’anzianità di servizio e delle capacità personali; d) del diritto al riposo, ad una durata ragionevole delle ore di lavoro, alle ferie e alla retribuzione dei giorni festivi. L’art. 8 riconosce poi le liberà sindacali, in particolare il diritto di sciopero, il diritto di iscriversi ad un sindacato, il diritto dei sindacati a federarsi e a confederarsi e ad esercitare liberamente la propria attività con le limitazioni previste dalla legge a tutela dell’ordine pubblico, della sicurezza nazionale e degli altrui diritti e libertà. Fondamentale è l’art.

10 par. 3 dove si dice che «i fanciulli e gli adolescenti devono essere protetti contro lo sfruttamento economico e sociale» e che «il loro impiego in lavori pregiudizievoli per la loro moralità o per la loro salute, pericolosi per la loro vita, o tali da nuocere al loro normale sviluppo, deve essere punito dalla legge», disponendo altresì che gli Stati firmatari fissino per legge i limiti di età per il lavoro minorile, al di sotto dei quali scatterà la sanzione penale. Infine, l’art. 11 riconosce il «diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia», nonché «al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita» e il

«diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame».

Nella Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie adottata il 18

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dicembre 1990 ed entrata in vigore l’1 luglio 2003, si afferma l’impegno degli Stati Parti a rispettare e garantire a tutti i lavoratori migranti18 e ai membri delle rispettive famiglie19 che si trovino sul proprio territorio i diritti riconosciuti dalla Convenzione stessa «senza distinzione alcuna, e in particolare di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione o di convinzione, di opinione politica o di qualunque altra opinione, d’origine nazionale, etnica o sociale, di nazionalità, di età, di situazione economica, patrimoniale, di situazione matrimoniale, di nascita o di qualunque altra situazione» (cfr. art. 7).

In particolare, l’art. 11 afferma che nessun lavoratore migrante possa essere tenuto in schiavitù («slavery») o servitù («servitude») o possa essere costretto a svolgere un lavoro forzato o obbligatorio. I Paragrafi 2 e 3 individuano poi una serie di eccezioni, per cui non si deve considerare lavoro forzato: a) il lavoro inflitto con pena detentiva da un tribunale competente, se, nello Stato in cui il tribunale ha giurisdizione, certi crimini possono essere puniti con pena detentiva accompagnata da lavoro forzato; b) il lavoro o il servizio, non rientrante nell’ ipotesi sub a), normalmente richiesto ad una persona in stato di detenzione come conseguenza di una decisione legittimamente emessa da un tribunale o che stia scontando pene alternative; c) il servizio richiesto in caso di emergenza o di calamità che minacci la vita o il benessere della

18 Ai sensi dell’art. 2 par. 1, per lavoratori migranti si intende «le persone che eserciteranno, esercitano o hanno esercitato una attività remunerata in uno Stato cui loro non appartengono» (cfr. traduzione ufficiale inglese dell’Article 2 par. 1: «The term "migrant worker" refers to a person who is to be engaged, is engaged or has been engaged in a remunerated activity in a State of which he or she is not a national»).

19 Ai sensi dell’art. 4, per membri della famiglia si intendono «le persone sposate ai lavoratori migranti o aventi con questi delle relazioni che, in virtù della legge applicabile, producono degli effetti equivalenti al matrimonio, nonché i loro fanciulli a carico ed altre persone a carico che sono riconosciute come membri della famiglia in virtù della legislazione applicabile o di accordi bilaterali o multilaterali applicabili tra gli Stati interessati» (cfr. traduzione ufficiale inglese dell’Article 4: «the term ''members of the family" refers to persons married to migrant workers or having with them a relationship that, according to applicable law, produces effects equivalent to marriage, as well as their dependent children and other dependent persons who are recognized as members of the family by applicable legislation or applicable bilateral or multilateral agreements between the States concerned»).

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comunità; d) il lavoro o il servizio che sia parte dei normali obblighi civili nella misura in cui ciò sia egualmente imposto ai cittadini dello Stato considerato.

Un importante contributo al contrasto alla schiavitù e al lavoro forzato come conseguenza della tratta di persone e del traffico di migranti è stato dato dalla Conferenza di Palermo, svoltasi tra il 12 e il 15 dicembre 2000, nel corso della quale gli Stati membri dell’ONU hanno sottoscritto la United Nations Convention against trasnational organized crime e i due Protocolli Supplementari sullo Smuggling of migrants e sul Trafficking in persons.

La Convenzione da una parte mira a contrastare i c.d. serious crime, cioè fattispecie di reato già sanzionate dalle legislazioni nazionali e punite con una pena privativa della libertà personale di almeno quattro anni nel massimo o con una pena più elevata, che abbiano carattere transnazionale20 e che siano compiuti da un gruppo criminale organizzato21. Dall’altra impone di criminalizzare una serie di condotte (partecipazione a gruppo criminale organizzato, riciclaggio, corruzione e ostacolo alla giustizia) sia nella forma di crimine transnazionale e commesso da un gruppo criminale organizzato, sia nella veste di fattispecie monosoggettiva e priva del carattere transnazionale22. Emerge poi dalla Convenzione l’importanza della cooperazione e della collaborazione tra Stati nel contrasto a queste forme di criminalità (in

20 In base all’art. 3 della Convenzione, un’offesa è transnazionale in natura se: a) è commessa in più di uno Stato; b) è commessa in uno Stato, ma una sostanziale parte della sua preparazione, ideazione, direzione o controllo ha luogo in un altro Stato; c) è commessa in uno Stato, ma coinvolge un gruppo criminale organizzato che svolge attività criminali in più di uno Stato; d) è commessa in uno Stato, ma ha effetti sostanziali in un altro Stato.

21 L’Article 2 definisce l’«organized criminal group» come un gruppo strutturato di tre o più persone, esistente per un determinato periodo di tempo e operante d’accordo con lo scopo di commettere uno o più gravi reati o offese stabilite sulla base della convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, vantaggi finanziari o altri vantaggi materiali.

22 Per un approfondimento, v. E. Rosi, La tratta di esseri umani e il traffico di migranti.

Strumenti internazionali, in Cass. Pen., 2001, 06, p. 1986.

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particolare una serie di disposizioni tracciano una via di concreta collaborazione tra gli Stati c.d. industrializzati e quelli in via di sviluppo per lo scambio di training e best practises).

Attenzione alla materia del contrasto delle prassi di riduzione in schiavitù, sfruttamento e tratta di esseri umani, soprattutto migranti, è riservata nei due Protocolli addizionali alla Convenzione di Palermo.

Il Protocollo sullo Smuggling of migrants (lett.: contrabbando di migranti) mira a prevenire e combattere il traffico dei migranti e a promuovere la cooperazione tra gli Stati Parti in tal senso (cfr. art. 1).

Lo smuggling of migrants viene indicato all’art. 3 lett. a come «il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato Parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente»23.

Nel Protocollo addizionale sul Trafficking in persons, invece, la tratta di persone viene definita all’art. 3 lett. a come «il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento»24. E tale finalità abbraccia «lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro

23 Cfr. Article 3 della traduzione ufficiale inglese: «the procurement, in order to obtain, directly or indirectly, a financial or other material benefit, of the illegal entry of a person into a State Party of which the person is not a national or a permanent resident».

24 Traduzione tratta da www.asgi.it. Nel testo ufficiale in lingua inglese il trafficking of persons è definito come «the recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of persons, by means of the threat or use of force or other forms of coercion, of abducation, of fraud, of deception, of the abuse of power or of a position of vulnerability or of the giving or receiving of peyments or benefits to achieve the consent of a person having control over another person, for the purpose of exploitation».

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forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi» (cfr. art. 3 lett. a, seconda parte).

Interessante è il concetto di «posizione di vulnerabilità», che verrà ripreso anche dalla letteratura in materia di reati di schiavitù, servitù e intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Con esso si vuole intendere la condizione di colui che si trova in uno stato di inferiorità non solo psicologica, ma anche sociale, culturale e materiale, che, benchè dipendente dalla condizione di povertà o di bisogno, o meglio di necessità, in cui si trova, finisce per costituire elemento viziante del consenso che presta al reclutatore di vittime, in conseguenza della condotta ingannevole, fraudatoria e persuasiva di quest’ultimo. Nei lavori preparatori con riferimento al concetto di posizione di vulnerabilità si parla anche di quella situazione in cui il soggetto non ha una reale alternativa al sottrarsi all’abuso.

Il Protocollo sul Trafficking in Persons non dà una definizione di lavoro forzato. Si ritiene tuttavia che la definizione di tratta di cui all’art. 3 contenga gli elementi essenziali delle Convenzioni OIL n. 29, 105 e 182 e di altri strumenti internazionali che vietano la schiavitù25.

3. Convenzioni OIL26 sul lavoro forzato e obbligatorio e sui lavoratori migranti

Con la Convenzione OIL sul lavoro forzato e obbligatorio del 1930 (n.

29) ogni Stato Parte «s’impegna ad abolire nel più breve termine possibile l’impiego del lavoro forzato o obbligatorio in tutte le sue forme»27 (art. 1, par. 1) e «in vista di questa abolizione totale, si potrà

25 D. Mancini, op. cit.

26 L’Organizzazione Internazionale del lavoro è l’agenzia delle Nazioni Unite, nata con il Trattato di Versailles nel 1919, con lo scopo di promuovere il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana per uomini e donne.

27 Traduzione italiana non ufficiale. Fonte: G. Kojanec (dir.), Convenzioni e raccomandazioni della Organizzazione internazionale del Lavoro 1919-1968 [a cura della SIOI], Padova, 1969.

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far ricorso al lavoro forzato o obbligatorio, durante il periodo transitorio, solo per fini pubblici e a titolo eccezionale».

L’art. 2 al paragrafo 1 definisce il lavoro forzato o obbligatorio come

«ogni lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente». E al paragrafo 2 indica una serie di eccezioni per il lavoro che è richiesto da: 1) servizio militare obbligatorio, a condizione che sia di carattere puramente militare, 2) normali obblighi civici, 3) una condanna da parte di un tribunale, 4) casi di emergenza (guerra o calamità), 5) servizi pubblici minori eseguiti da membri di una comunità e nel diretto interesse della comunità stessa28.

L’art. 4 par. 1 proibisce immediatamente il lavoro forzato o obbligatorio a vantaggio di privati, aziende o associazioni.

L’art. 25 prevede che l’esazione illegale di lavoro forzato o obbligatorio sia punita come illecito penale e che ogni Stato che ratifichi la Convenzione assicuri che le sanzioni imposte dalla legge siano efficaci e vengano rigorosamente rispettate.

Per quanto concerne la definizione di lavoro forzato o obbligatorio, di cui all’art. 2, par. 1, il concetto di “minaccia di una punizione” deve essere interpretato in senso ampio29, cioè non come sola minaccia di sanzioni penali, ma come perdita di diritti o privilegi, quali una promozione, il trasferimento, l’accesso ad una nuova occupazione, la fruizione dell’alloggio, ecc…

Il concetto di “offerta volontaria” sta invece ad intendere il fatto che il lavoro eseguito sotto la minaccia di una punizione non è un lavoro accettato volontariamente: in ogni momento deve essere affermato il

28 Cfr. N. Deleonardis, Via le corde dall’uomo. Aspetti e momenti degli accordi internazionali per l’abolizione della schiavitù. Dal XIX secolo ai nostri giorni, Il Grillo Editore, Gravina in Puglia, 2015, per il Quale quest’ultima eccezione rappresentava in realtà un alleato nella legislazione internazionale per l’abuso e lo sfruttamento della forza lavoro, in quanto, spesso, rientravano nei fini pubblici opere a beneficio dei privati, grazie al sistema degli appalti e dei subappalti.

29 Cfr. D. Mancini, art. cit.

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diritto inalienabile del lavoratore alla libera scelta del lavoro e quindi occorre valutare sempre se il consenso al lavoro sia frutto di una libera scelta del lavoratore e se questi conservi il diritto a revocarlo.

La Convenzione OIL del 1930 è stata oggetto di un Protocollo aggiuntivo nel 2014, che, nel Preambolo, richiama la definizione di lavoro forzato o obbligatorio ex art. 2 della Convenzione e afferma che è ormai scaduto il periodo di transizione previsto dal testo del 1930 (con conseguente non più applicabilità delle disposizioni dell’art. 1, par. 2 e 3, e degli artt. 3 e 24)30.

L’art. 1 del Protocollo ribadisce al par. 1 come ogni Stato membro debba

«prendere misure efficaci per prevenire ed eliminare l’utilizzo del lavoro forzato, per assicurare alle vittime una protezione e l’accesso a meccanismi di ricorso e di risarcimento adeguati e efficaci, come l’indennizzo», mentre al par. 2 afferma che ogni Stato membro, «in consultazione con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, deve elaborare una politica nazionale e un piano di azione nazionale per la soppressione effettiva e duratura del lavoro forzato o obbligatorio»31. Tra le misure da prendere per prevenire il lavoro forzato o obbligatorio, l’art 2 indica: a) l’educazione e l’informazione delle persone, soprattutto di quelle considerate particolarmente vulnerabili, per evitare che diventino vittime del lavoro forzato o obbligatorio; b) l’educazione e l’informazione dei datori di lavoro, per evitare che si trovino implicati in pratiche di lavoro forzato o obbligatorio; c) sforzi per garantire l’applicazione della legislazione in materia di prevenzione del lavoro forzato o obbligatorio a tutti i lavoratori e settori dell’economia e che vengano rafforzati i servizi di ispezione del lavoro e altri servizi responsabili dell’ applicazione della legislazione in materia; d) la

30 Il comitato di esperti dell’OIL già nel 1998 sottolineava come, essendo trascorsi 67 anni dall’adozione della Convenzione, il periodo di transizione non poteva più essere invocato per giustificare pratiche di lavoro forzato, e che la sussistenza di contrasti con le norme della Convenzione equivalesse ad una sua violazione.

31 Traduzione italiana non ufficiale a cura dell’Ufficio OIL di Roma.

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protezione delle persone, specie dei lavoratori migranti, contro pratiche abusive o fraudolenti di reclutamento e collocamento; e) un sostegno alla ricognizione delle condizioni nei settori del pubblico e del privato, per prevenire rischi di lavoro forzato o obbligatorio e rispondere a tali rischi; f) un’azione contro le cause e i fattori che accrescono il rischio di lavoro forzato o obbligatorio.

L’art. 4 impone poi a ciascuno Stato membro di assicurare un «accesso effettivo» a meccanismi di ricorso e di risarcimento «adeguati e efficaci», come l’indennizzo, da parte di tutte le vittime di lavoro forzato o obbligatorio, e di prendere tutte le misure necessarie perché le autorità competenti non siano tenute a perseguire le vittime di lavoro forzato o obbligatorio in conseguenza di attività illecite che siano state costrette a svolgere in ragione della loro condizione di costrizione.

La Convenzione OIL sull’abolizione del lavoro forzato del 1957 (n. 105) è complementare rispetto alla Convenzione del 1930 (n. 29) e mira a proibire il lavoro forzato o obbligatorio in casi specifici. L’art. 1 obbliga infatti gli Stati membri dell’OIL che ratifichino la convenzione ad

«abolire il lavoro forzato o obbligatorio e a non ricorrervi sotto alcuna forma: a) come misura di coercizione o di educazione politica o quale sanzione nei riguardi di persone che hanno o esprimono certe opinioni politiche o manifestano la loro opposizione ideologica all’ordine politico, sociale ed economico costituito; b) come metodo di mobilitazione o di utilizzazione della manodopera a fini di sviluppo economico; c) come misura di disciplina del lavoro; d) come misura di discriminazione razziale, sociale, nazionale o religiosa»32.

Con la Convenzione OIL sulle peggiori forme di lavoro minorile del 1999 (n. 182) gli Stati Parti devono prendere «misure immediate ed

32 Traduzione italiana non ufficiale. Fonte: G. Kojanec (dir.), op. cit.

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efficaci atte a garantire la proibizione e l’eliminazione delle forme peggiori di lavoro minorile»33.

All’art. 3 vengono definite le “forme peggiori di lavoro minorile” come:

«a) tutte le forme di schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, quali la vendita o la tratta di minori, la servitù per debiti e l’asservimento, il lavoro forzato o obbligatorio, compreso il reclutamento forzato o obbligatorio di minori ai fini di un loro impiego nei conflitti armati; b) l’impiego, l’ingaggio o l’offerta del minore a fini di prostituzione, di produzione di materiale pornografico o di spettacoli pornografici; c) l’impiego, l’ingaggio o l’offerta del minore ai fini di attività illecite, quali, in particolare, quelle per la produzione e per il traffico di stupefacenti, così come sono definiti dai trattati internazionali pertinenti;

d) qualsiasi altro tipo di lavoro che, per sua natura o per le circostanze in cui viene svolto, rischi di compromettere la salute, la sicurezza o la moralità del minore». L’ art. 7 prevede poi che ogni Stato membro «deve prendere tutti i provvedimenti necessari a garantire l’effettiva messa in opera ed applicazione delle disposizioni attuative della presente Convenzione, anche istituendo e applicando sanzioni penali e, all’occorrenza, altre sanzioni».

Tra le Convenzioni OIL relative alla tutela dei lavoratori migranti, la Migration for Employement Convention (n. 97), adottata l’1 luglio 1949 ed entrata in vigore il 22 gennaio 1952, stabilisce che ogni Stato membro, che abbia proceduto alla ratifica, applichi, senza discriminazione di nazionalità, razza, religione o sesso, agli immigrati che si trovino legalmente nel proprio territorio, un trattamento non meno favorevole rispetto a quello applicato ai propri cittadini connazionali, con riguardo alla retribuzione, alla sicurezza sociale, alle imposte, alle tasse e ai contributi relativi al lavoro (cfr. art. 6).

33 Traduzione italiana non ufficiale pubblicata assieme al testo ufficiale francese in Supplemento alla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, 12 giugno 2000, n° 135.

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La Convenzione all’art. 11 dà poi la definizione di «lavoratore emigrante» come di «una persona che emigra da un paese verso un altro paese allo scopo di occupare un impiego che non dovrà esercitare per proprio conto e comprende qualsiasi persona ammessa regolarmente in qualità di lavoratore emigrante».

La successiva ILO Convention on Migrant Workers (n. 143) del 24 giugno 1975, ratificata in Italia con la l. 10 aprile 1981, n. 15834, ricalca la definizione di lavoratore migrante della precedente Convenzione OIL35, e, constata la diffusa presenza di illicit and clandestine trafficking in labour calls nel mercato del lavoro globale, impegna tutti gli stati firmatari a rispettare the basic human rights of all migrant workers (art.

1) e the individual and collective freedoms for persons who as migrant workers or as members of their families are lawfully within its territory (art. 10). In tal senso ciascuno Stato firmatario si impegna ad adottare tutti gli strumenti di carattere normativo, anche in collaborazione con gli altri Stati, laddove necessario, volti a sopprimere le migrazioni clandestine e l’impiego illegale di lavoratori migranti e a contrastare gli organizzatori di tali fenomeni criminosi (art. 3). Gli Stati firmatari sono quindi chiamati ad una cooperazione attraverso contatti e scambio sistematico di informazioni, anche coinvolgendo le organizzazioni rappresentative degli imprenditori e dei lavoratori (art. 4), e a creare un apparato sanzionatorio amministrativo, civile, ma soprattutto penale,

34 La Convenzione OIL del 1975 è stata attuata con l. 30 dicembre 1986, n. 943 (oggi abrogata e sostituita dal d.lgs. n. 286 del 1998), che all’art. 12 aveva introdotto il reato di intermediazione di movimenti illeciti di lavoratori extracomunitari migranti, che sanzionava «chiunque compi, in violazione della presente legge, attività di intermediazione di movimenti illeciti o comunque clandestini di lavoratori migranti ai fini dell’occupazione in provenienza, o a destinazione del proprio territorio o in transito attraverso lo stesso».

35 Sia l’Article 11 della Convenzione OIL n. 97 che l’Article 11 della Convenzione OIL n. 143 definiscono il «lavoratore migrante» come «a person who migrates from one country to another with a view to being employed otherwise than on his own account and include any person regularly admitted ad a migrant for employment», solo che l’Article 11 della prima convenzione parla di migrant for employment, cioè migrante in cerca di impiego, mentre l’Article 11 della seconda parla di migrant worker, cioè più propriamente di lavoratore emigrante.

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che includa la previsione della pena detentiva per i datori di lavoro che impieghino illegalmente stranieri immigrati (art. 6).

4. La CEDU e le disposizioni dell’Unione Europea in materia di schiavitù, servitù e lavoro forzato

La Convenzione europea sui diritti dell’uomo all’art. 4, par. 1 afferma che «nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù», prosegue al par. 2 affermando che «nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio», conclude prevedendo al par. 3 cosa non debba considerarsi lavoro forzato od obbligatorio.

Essa non contiene una definizione di schiavitù, servitù e lavoro forzato, con la conseguenza che la giurisprudenza in materia fa riferimento alle definizioni contenute negli strumenti internazionalistici, rispettivamente l’art. 1, par. 1 della Convenzione sulla schiavitù del 1926, l’art. 1, lett.

b) della Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù del 1956 e l’art. 2, par. 1 della Convenzione OIL sul lavoro forzato o obbligatorio del 1930. Si tratterrebbe quindi di condizioni di servaggio di intensità a gradazione progressivamente discendenti e la scelta di fattispecie aperte permette di andare a colpire anche quelle nuove forme di schiavitù che nel 1950 non erano pensabili (interpretazione evolutiva)36.

I divieti di schiavitù e servitù rivestono carattere di primarietà e fondamentalità e sono quindi inderogabili. L’art. 15, par. 2 CEDU, infatti, esclude espressamente dalla possibilità di una deroga a quei divieti, in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, l’art. 4, par. 1, tra gli altri. Questo perché la libertà dalla schiavitù e dalla servitù sarebbe un diritto irrinunciabile e inalienabile e il singolo non potrebbe prestare validamente il proprio consenso alla sua

36 Per un approfondimento, cfr. C. Tripodina, Commento art. 4 CEDU, su www.academia.edu.

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limitazione. Per violazione di tali divieti da parte degli Stati membri si deve intendere, non solo la diretta riduzione in schiavitù o servitù, ma anche il non aver adottato tutte le misure necessarie e appropriate per prevenire e reprimere tali fenomeni. Ecco che quindi in capo agli Stati membri si disegna un obbligo positivo contro la schiavitù e servitù, obbligo certamente erga omnes, cioè valevole nei confronti di tutti, indipendentemente dalle rispettive nazionalità.

La riduzione in schiavitù tende poi ad essere considerata crimine internazionale dello Stato e, in particolare, è inserita tra i crimini contro l’umanità dallo Statuto della Corte penale internazionale, adottato a Roma il 17 luglio 1998, che la definisce come «l’esercizio su una persona di uno o dell’insieme dei poteri inerenti al diritto di proprietà, anche nel corso del traffico di persone, in particolare di donne e bambini a fini di sfruttamento sessuale».

Per quanto concerne la nozione di lavoro forzato od obbligatorio, alla luce della definizione data dalla Convenzione OIL del 1930 (n. 29) e della giurisprudenza della CEDU sviluppatasi sul punto negli anni, due sarebbero gli elementi costitutivi: l’assenza di consenso al lavoro e la costrizione ad un lavoro iniquo, oppressivo o inutilmente vessatorio. Per quanto riguarda il primo criterio, gli organi CEDU ritengono che il consenso, una volta prestato liberamente e volontariamente, privi automaticamente il lavoro del suo carattere forzato od obbligatorio, almeno per tutti quegli aspetti che rientrerebbero nel suo esercizio normale e prevedibile. Il secondo criterio viene, invece, inteso in senso più restrittivo rispetto alla mera minaccia di una punizione qualsiasi. Da un’analisi delle sentenze e delle decisioni sul punto, si vede infatti come la giurisprudenza vada nel senso di escludere il più delle volte la violazione del divieto in questione37.

37 V. C. Tripodina, art. cit.

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Il par. 3 dell’art. 4 indica, infine, una serie di eccezioni al divieto previsto dal par. 2. Innanzitutto, in base alla lett. a) del par. 3, non può essere considerato lavoro forzato od obbligatorio «il lavoro normalmente richiesto a una persona detenuta alle condizioni previste dall’ articolo 538 della presente Convenzione o durante il periodo di libertà condizionale». L’avverbio «normalmente» è posto a garanzia contro decisioni arbitrarie delle autorità giudiziarie e carcerarie: perché non si possa parlare di lavoro forzato od obbligatorio, è necessario che quello richiesto ad una persona regolarmente detenuta sia previsto da una previsione normativa e si basi su una pronuncia giudiziaria legittimamente emessa. Gli organi CEDU tendono, però, a ritenere sufficiente il rispetto del solo par. 1 dell’art. 5, per escludere ipotesi di

38 Art. 5 CEDU – Diritto alla libertà e alla sicurezza: «1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente; b) se si trova in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge; c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono fondati motivi di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso; d) se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo di sorvegliare la sua educazione oppure della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente;

e) se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione. 2. Ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni accusa formulata a suo carico. 3. Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1 c del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o un altro magistrato autorizzato dalla legge a esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata a garanzie che assicurino la comparizione dell’interessato all’udienza. 4. Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima. 5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto a una riparazione».

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lavoro forzato od obbligatorio (CEDU, 24 giugno 1982, Van Droogenbroeck c. Belgio).

La lett. b) del par. 3, invece, non considera lavoro forzato od obbligatorio «il servizio militare o, nel caso degli obiettori di coscienza nei paesi dove l’obiezione di coscienza è considerata legittima, qualunque altro servizio sostitutivo di quello militare obbligatorio». Si vogliono dunque includere nella previsione anche gli obblighi militari assunti volontariamente (CEDU, 19 luglio 1978, W., X., Y., Z. c. Regno Unito) e la Convenzione non riconosce un diritto al servizio civile sostitutivo, ma lascia gli Stati membri liberi di decidere in tal senso, con la conseguenza che l’obiezione di coscienza non implica il diritto ad essere esonerato dal servizio civile sostitutivo, laddove previsto, senza che questo possa considerarsi lavoro forzato od obbligatorio (CEDU, 14 ottobre 1985, Johansen c. Norvegia e CEDU, 9 maggio 1984, A. c.

Svizzera).

La lett. c) del par. 3 esclude, poi, dai casi di lavoro forzato od obbligatorio «qualunque servizio richiesto in caso di crisi o di calamità che minacciano la vita o il benessere della comunità». La previsione troverebbe applicazione nel caso di emergenze gravi, ma limitate nel tempo, come le impreviste calamità naturali, per fronteggiare le quali gli Stati potrebbero richiedere ai cittadini determinati servizi, senza ricorrere all’applicazione dell’art. 1539.

39 Art. 15 CEDU – Deroga in caso di stato d’urgenza: «1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. 2. La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2, salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3, 4 § 1 e 7. 3. Ogni Alta Parte contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate. Deve ugualmente informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione».

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La lett. d) del par. 3, infine, non riconosce come lavoro forzato od obbligatorio «qualunque lavoro o servizio facente parte dei normali doveri civici». Questa, tra le quattro eccezioni, è la previsione più delicata, perché, trattandosi di servizi che è normale aspettarsi o che è lecito richiedere a determinati membri di una comunità nell’ interesse della stessa, anche in ragione della posizione occupata o della funzione svolta, potrebbe esporsi ad applicazioni discriminatorie. Ecco che infatti tale disposizione è spesso chiamata in causa insieme all’art. 1440, sulla base del fatto che la richiesta di un lavoro o di un servizio come normale dovere civico non è più giustificata, se la scelta dei gruppi o individui chiamati ad eseguirlo è stata effettuata in base a criteri discriminatori.

Il contenuto dell’art. 4 CEDU è poi ripreso dall’art. 5 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 200041. L’ articolo de quo prevede al par. 1 che «nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù», al par. 2 che

«nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio» e al par. 3 che «è proibita la tratta di esseri umani». Nelle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, pubblicate in G.U.U.E. il 14 dicembre 2007, si legge, infatti, che «il diritto di cui all’articolo 5, paragrafi 1 e 2, corrisponde a quello dell’articolo 4, paragrafi 1 e 2 della CEDU» e che «il significato e la portata di questi diritti sono pertanto identici a quelli conferiti da detto

40 Art. 14 CEDU – Divieto di discriminazione: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».

41 L’art. 6 del Trattato sull’ Unione Europea, così come modificato dal Trattato di Lisbona, riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta, attribuendo ad essa il medesimo valore giuridico dei Trattati, ma prevedendo espressamente che le disposizioni della Carta non possano in alcun modo estendere le competenze dell’Unione definite nei Trattati (per un approfondimento v. A. M. Calamia, Manuale breve di diritto dell’Unione Europea, Milano, Giuffrè Editore, 2015, 34).

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articolo, ai sensi dell’art. 52, paragrafo 3 della Carta42», con la conseguenza che «nessuna restrizione può essere imposta legittimamente al diritto previsto dal paragrafo 1» e che «nel paragrafo 2, le nozioni di lavoro forzato o obbligatorio devono essere interpretate alla luce delle definizioni negative contenute nell’articolo 4, paragrafo 3 della CEDU».

La novità rispetto all’art. 4 CEDU è il riferimento alla tratta di esseri umani contenuta nel par. 3 dell’art. 5 della Carta ed assente nel testo della Convenzione. Nel 2010, però, la Corte EDU nel caso Rantsev c.

Cipro e Russia ha riconosciuto che la tratta di esseri umani contrasti con lo spirito e gli scopi dell’art. 4 CEDU e dunque ricada nel suo ambito applicativo, abbracciando un tipo di interpretazione evolutiva della Convenzione43. La tratta viene quindi definita come l’esercizio di poteri corrispondenti a quelli di proprietà, in quanto gli esseri umani vengono trattati come merci da vendere, acquistare e assoggettare al lavoro forzato, senza alcun pagamento o in cambio di un pagamento infimo, nell’industria del sesso o in altre attività, qualsiasi loro azione è sottoposta a stretta sorveglianza e la loro libertà di movimento è fortemente limitata, venendo costretti con violenze, minacce e altre forme di coercizione a vivere e lavorare in condizioni di povertà e miserie estreme44. All’art. 5, par. 2 delle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea viene richiamata la definizione di tratta a scopo di sfruttamento sessuale contenuta nell’allegato della convenzione Europol, per cui: «Tratta degli esseri umani: il fatto di sottoporre una persona al potere reale e illegale di altre

42 L’art. 52, par. 3 della Carta prevede che i diritti contenuti nella Carta stessa, che siano corrispondenti a quelli contenuti nella CEDU, siano uguali a quest’ultimi per significato e portata, non precludendo però un’eventuale protezione più estesa da parte del diritto dell’Unione.

43 Già il 16 maggio 2005 era stata conclusa a Varsavia la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani che impegna gli Stati membri a contrastare tale fenomeno in qualsiasi forma si manifesti.

44 Cfr. C. Tripodina, art. cit., 102-103.

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persone ricorrendo a violenze o a minacce o abusando di un rapporto di autorità o mediante manovre, in particolare per dedicarsi allo sfruttamento della prostituzione altrui, a forme di sfruttamento e di violenza sessuale nei confronti di minorenni o al commercio connesso con l’abbandono dei figli».

Il più importante documento normativo dell’Unione Europea in materia di caporalato è costituito dalla Direttiva 2009/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, emanata il 18 giugno 2009 ed attuata in Italia mediante il d.lgs. n. 109 del 2012 (il c.d. decreto “Rosarno”)45. La finalità dichiarata del testo normativo è quella di contrastare quelle forme di sfruttamento dei lavoratori stranieri, come le prassi di caporalato, che comportino una compressione inaccettabile della dignità umana e dei diritti inviolabili dell’uomo. La direzione indicata nella direttiva ai singoli legislatori nazionali è quella di prevedere un divieto generale di assunzione dei cittadini di Paesi terzi, non autorizzati a soggiornare nel territorio dell’Unione Europea, con conseguenti sanzioni di carattere penale e amministrativo nei confronti dei datori di lavoro che dovessero violarlo. Quest’ultimi dovranno, quindi, verificare la genuinità e la regolarità dell’ingresso e della permanenza nel territorio europeo dei migranti per non violare il divieto di cui sopra e incappare nelle relative sanzioni, e parteciperanno in tal modo anche allo svolgimento di una funzione, propria dello Stato, che è quella del controllo dei flussi di entrata ed uscita dei migranti dal territorio nazionale, senza per questo assumere la qualifica di pubblici ufficiali o di soggetti esercenti servizi di pubblica necessità: i datori di lavoro sono chiamati in qualità di operatori privati a cooperare al raggiungimento di una sempre maggiore legalità nello svolgimento delle proprie attività di impresa nel territorio dell’Unione Europea.

45 Cfr. A. Giuliani, op. cit., 190-195.

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Le sanzioni da adottare contro lo sfruttamento lavorativo dovranno essere anche di carattere finanziario, proporzionali al numero dei cittadini di Paesi terzi assunti illegalmente, comprendenti il pagamento dei costi medi di rimpatrio e ridotte in caso di impiego da parte di datori di lavoro a fini privati se non sussistono condizioni lavorative di particolare sfruttamento (in base all’art. 1 lett. i) della direttiva,

“condizioni lavorative di particolare sfruttamento” sono da intendersi come quelle situazioni «risultanti di discriminazione di genere e di altro tipo, in cui vi è palese sproporzione rispetto alle condizioni di impiego dei lavoratori assunti legalmente, che incide, ad esempio, sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori ed è contraria alla dignità umana»).

Gli Stati membri sono poi chiamati ad adottare provvedimenti, che escludano i datori di lavoro colpevoli dal beneficiare di prestazioni, sovvenzioni e aiuti pubblici, compresi i fondi europei gestiti dagli Stati membri, per un periodo fino a 5 anni (prevedendo altresì l’obbligo di rimborso per quelli percepiti nei 12 mesi prima dell’accertamento dell’assunzione illegale), e dalla partecipazione ad alcuni appalti pubblici, per un periodo anche qui fino a 5 anni.

La direttiva impone poi l’introduzione da parte dei Paesi membri di sanzioni di carattere penale che vadano a colpire le assunzioni irregolari, reiterate in modo persistente, aventi ad oggetto l’ impiego simultaneo di un numero significativo di cittadini di Paesi terzi irregolarmente soggiornanti, riguardanti l’assunzione illegale di un minore, o perpetrate da un datore di lavoro che, pur non essendo accusato o condannato per un reato di cui alla decisione quadro 2002/629/GAI46, ricorre al lavoro

46 Adottata dal Consiglio dell’Unione Europea il 19 luglio 2002, impegnava gli Stati membri a prevedere sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive contro la tratta di persone, definita all’art. 1 come qualsiasi forma di reclutamento, trasporto, trasferimento, ospitalità o qualsiasi altro trattamento nei confronti di una persona che rientra in tale definizione. A tale decisione quadro è stata data attuazione nel nostro ordinamento dalla l. 11 agosto 2003, n. 228, che ha modificato gli artt. 600 (riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù), 601 (tratta di persone) e 602 (acquisto e alienazione di schiavi) c.p. Successivamente è stata emanata la direttiva 2011/36/UE, che ha sostituito la decisione quadro del 2002 e che è stata recepita nel nostro

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