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OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Contratti, 2016, 12, 1135 (commento alla normativa)

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CONCORRENZA E PUBBLICITA' OBBLIGAZIONI E CONTRATTI

Contratti, 2016, 12, 1135 (commento alla normativa) PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE E FORCED LABOUR

di Adriana Addante (* )

Com. 12-12-2007, art. 5 L. 04-08-1955, n. 848, art. 4

D.Lgs. 06-09-2005, n. 206, art. 27-bis D.Lgs. 06-09-2005, n. 206, art. 139 D.Lgs. 06-09-2005, n. 206, art. 140 D.Lgs. 06-09-2005, n. 206, art. 140-bis

Il ricorso alla manodopera forzata, quale forma sistematica di violazione dei diritti fondamentali della persona, caratterizza un numero crescente di attività di impresa tanto delocalizzate all'estero, quanto operanti sul territorio nazionale. Gli strumenti di contrasto al fenomeno sono tradizionalmente ascritti alle maglie del diritto pubblico, ma la complessità del medesimo impone un'indagine su più livelli che ricomprenda anche le relazioni interprivatistiche. Un primo segmento riguarda il piano della concorrenza ed attiene alle conseguenze derivanti dall'illecito vantaggio competitivo conseguito da un'impresa sleale nei confronti delle concorrenti virtuose. Un secondo segmento, qui analizzato, si snoda invece nell'alveo dei rapporti fra impresa e consumatori e attiene alla possibilità che costoro possano esercitare la pretesa ad una corretta informazione sulle modalità di produzione dei beni di cui sono destinatari. La falsa o carente informativa circa il ricorso al forced labour, nelle sue molteplici sfaccettature, potrebbe essere valutata in termini di pratica commerciale scorretta ed in particolare di azione ingannevole, corroborando l'attuale tendenza al diretto coinvolgimento del consumatore nelle dinamiche di mercato.

Sommario: Attività di impresa e "nuove schiavitù" nel quadro delle fonti - Illecito vantaggio competitivo e concorrenza sleale - Il ruolo del consumatore nel contrasto al forced labour - L'incidenza dei parametri etici nelle decisioni di natura commerciale del consumatore - Informazione precontrattuale e azioni ingannevoli - Peculiarità dell'inquadramento del forced labour nell'alveo delle omissioni ingannevoli - Difficoltà applicative e possibili percorsi

Attività di impresa e "nuove schiavitù" nel quadro delle fonti

Il dilagare di forme di "moderna schiavitù" rappresentate dall'utilizzo di manodopera forzata nelle attività di impresa pone la necessità di una riflessione attorno al ruolo direttamente attribuibile alle relazioni di scambio interprivatistiche (1) . Sebbene infatti la repressione delle condotte di ricorso o sfruttamento della manodopera sia tradizionalmente consegnata alle maglie del potere pubblico, comincia ad emergere il convincimento che anche meccanismi complementari di private enforcement possano giocare un ruolo di primaria importanza nel contrasto al fenomeno (2) .

Misure di ordine pubblico e privato costituiscono fonti di tutela multilivello, in una cornice di diritto internazionale e consuetudinario estremamente articolata, della quale talune norme - ed in primis l'art. 4 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, l'art. 4 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e, più di recente, l'art. 5 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE - costituiscono autentici capisaldi (3) . Ciò nondimeno l'effettiva protezione dei diritti fondamentali nell'attività di impresa è destinata a soccombere per effetto dei perversi meccanismi di c.d. " dumping sociale" ed economico (4) .

L'insidiosità del dumping sociale riflette la dilagante prassi dell'impresa a carattere multinazionale, di localizzare la propria attività in aree in cui possano beneficiare di regolamentazioni meno restrittive in tema di tutela del lavoro (o in cui il costo del lavoro sia inferiore) (5) .

Il fenomeno è chiaramente più articolato nella dimensione transnazionale e dovrebbe abbracciare anche fattispecie nelle quali non si configurino condotte illecite direttamente perpetrate dalle imprese, ma di

"complicità" (c.d. joint action) con i governi locali di Paesi in via sviluppo o di "incoraggiamento" (c.d. aiding and abetting standard o persino practical assistance) al compimento di gravi atti criminosi, coinvolgendo parti private (6) .

Le difficoltà di contrasto avverso condotte di sfruttamento della manodopera non derivano dall'assenza di appigli normativi, bensì da un insieme complesso di concause, nelle quali forte impatto è da ascriversi all'uso distorto dei meccanismi di esternalizzazione (7) : delocalizzando sia le attività produttive sia le persone, i sistemi economici attuali sfruttano la perdita di efficacia dell'intervento dei singoli Stati sulle attività produttive e determinano inevitabili contraddizioni e disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, con la conseguente negazione di fatto dei diritti fondamentali, solo formalmente tutelati (8) .

Il fenomeno, seppur maggiormente percepibile nell'azione dell'impresa multinazionale, non è circoscritto ad essa; con connotati differenti si estende anche alla realtà domestica. Sarebbe in merito sufficiente soffermare lo sguardo, tanto a quella agricola meridionale, ove si assiste a moderne forme di caporalato e sfruttamento dei braccianti agricoli, in spregio alle lotte secolari condotte fino all'approvazione degli artt. 35 ss. della nostra Costituzione; tanto a quella produttiva di settori in espansione, quale il tessile, rispetto alla quale la giurisprudenza inizia ad interrogarsi (9) .

Altro è infatti lo stato della legislazione vigente, che conduce da tempo al ripudio di siffatte azioni criminose, altro è che il sistema normativo, per carenza di controlli o di coordinamento con le norme internazionali ovvero per biechi interessi di natura economica, non riesca a contrastare la piaga del lavoro forzato (10) .

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Soltanto in apparenza, dunque, le pratiche di sfruttamento appartengono ad una dimensione storica superata o alla tradizione di Paesi o realtà socio-politiche lontane. Il fenomeno della schiavitù è tutt'altro che relegato a tempi remoti; serpeggia con nuove forme e modalità, anche in un contesto, quale quello nazionale ed europeo convenzionalmente ritenuto "avanzato", da un punto di vista sociale e giuridico.

Illecito vantaggio competitivo e concorrenza sleale

Il passaggio dal fronte pubblicistico a quello strettamente civilistico è tutt'altro che intuitivo, poiché la valutazione dell'operato dell'impresa nazionale o transnazionale, in relazione alla manodopera forzata, richiede un cambio di rotta, un'inversione di tendenza essenzialmente culturale (11) .

Il punto nodale è qui rappresentato non dalla sanzione inflitta dallo Stato al soggetto che perpetra un reato o un illecito (12) , ma dalla possibilità che tali eventi acquistino rilevanza direttamente nelle relazioni fra privati.

Il primo fascio di relazioni che in merito viene in evidenza attiene ai rapporti fra imprese concorrenti e concerne le ripercussioni in termini di concorrenza sleale delle pratiche di forced labour.

Pur nella difficoltà di esemplificare una congerie di piani di indagine e fonti normative (si pensi alle possibili interazioni con la disciplina della subfornitura), l'aspetto di più immediata percezione attiene al vantaggio competitivo concretamente perseguibile dall'impresa che, ricorrendo a forme di manodopera forzata o paraschiavistica, abbatta illecitamente i costi di produzione dei propri prodotti e riesca progressivamente ad imporsi sul mercato a scapito delle imprese concorrenti.

Il problema si pone - in particolare, ma non soltanto - nelle ipotesi in cui l'impresa ricorra ad imprese cc.dd. terziste (spesso formalmente gestite da soggetti di altra nazionalità) per attività esternalizzate e sia indotta dal perverso sistema del mercato internazionale concorrenziale a ricercare l'abbattimento dei costi di produzione e la massimizzazione dei profitti, ricorrendo ad appalti di prestazioni d'opera (13) .

In tale complesso fenomeno si pone, in capo al giurista, il delicato compito di ricostruzione degli assetti delle responsabilità endoaziendali, in relazione alle varie fasi di produzione, ivi comprese quelle delocalizzate (14)

. Siffatta analisi deve necessariamente includere i molteplici elementi organizzativi interni all'impresa quali fattori direttamente incidenti sul gioco concorrenziale e valutabili in termini di correttezza professionale.

Quest'ultimo rilievo, tutt'altro che pacifico, si innesta nel solco dell'articolata riflessione in ordine alla qualifica degli atti di concorrenza sleale rispetto all'attività nel suo complesso e attribuisce specifica rilevanza alla violazione di quelle norme che, pur non finalizzate direttamente alla disciplina della concorrenza, la preservano indirettamente, e fra esse, in primis, le norme sulla tutela ambientale e delle condizioni di lavoro

(15) .

Non sembra potersi dubitare sulla sistematica alterazione del gioco concorrenziale, a danno delle imprese che invece si accollino i costi del rispetto della normativa ambientale e del lavoro, sicché, anche solo stando al sostrato giuridico interno, verrebbe in rilievo la violazione dei precetti contenuti all'art. 2598, comma 3, c.c.; e ciò soprattutto allorché il "danno" consista nella progressiva espulsione dal mercato delle concorrenti virtuose.

La fonte illecita del vantaggio competitivo ottenuto da un'impresa a scapito delle altre poste sul medesimo segmento di mercato stride evidentemente, non soltanto con il divieto di contrasto con l'utilità sociale, ma soprattutto con quello di recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, contenuto all'art. 41, comma 2, Cost. (16) ; propositi intrinsecamente traditi dalla violazione dei diritti fondamentali che il ricorso alla manodopera schiavistica comporta.

È tuttavia sul piano probatorio che si riscontrano le maggiori difficoltà per una corretta emersione del fenomeno (17) . La giurisprudenza, infatti, non ammette automatismi e richiede, a latere della prova della violazione di norme pubblicistiche, che da questa violazione sia derivato un ingiusto vantaggio competitivo al concorrente (18) .

Stabilire, tuttavia, sul piano probatorio un nesso diretto fra la violazione di norme e principi a tutela della sicurezza o della dignità dei lavoratori e la concorrenza sleale è arduo, in ragione della intrinseca mancanza di informazioni, da parte della singola impresa, sugli assetti organizzativi interni della concorrente.

La qualifica di atto di concorrenza sleale per il ricorso alla manodopera forzata - pur fra complessi ostacoli di ordine sostanziale e processuale - conferirebbe al privato concorrente una possibilità di azione, anche per mezzo degli enti di rappresentanza della categoria, come prescritto dall'art. 2601 c.c., potrebbe rivelarsi un meccanismo di contrasto complementare rispetto alla mera azione pubblica.

Il ruolo del consumatore nel contrasto al forced labour

Il secondo fascio di relazioni qui in analisi, ad oggi poco esplorato, concerne la sussunzione delle conseguenze del forced labour nell'alveo dei rapporti fra imprese e consumatori ed, in particolare, la possibilità di ampliamento della funzione propulsiva di contrasto dello sfruttamento della manodopera anche ai soggetti destinatari di beni e servizi.

L'interrogativo che in particolare ci si pone attiene alla possibilità che anche il consumatore possa annoverarsi fra i soggetti attivamente coinvolti nella pretesa alla corretta informazione sulle modalità di produzione dei beni che acquista e possa conseguentemente denunziare il ricorso a manodopera forzata (19) , quale pratica commerciale sleale (pcs), corroborando l'attuale tendenza al diretto coinvolgimento del consumatore nelle dinamiche di mercato (20) .

Siffatta possibilità dovrebbe in primo luogo ancorarsi alla selezione degli interessi sottesi alla protezione del consumatore.

La tutela del medesimo è, infatti, tradizionalmente orientata alla preservazione del primario interesse alla sicurezza della sua persona, nonché dei suoi interessi economici, ampliandosi non a caso sul versante della sicurezza dei prodotti, delle garanzie di conformità dei beni, del giudizio di vessatorietà delle clausole e del più generale tentativo di riequilibrio dell'immanente disparità di potere contrattuale.

Tali obiettivi sono stati progressivamente perseguiti valorizzando, a livello europeo prima e nazionale poi, anche contenuti e modalità del processo informativo (21) . Sotto questo profilo può affermarsi che le

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tecniche informative, variamente impiegate al fine di fornire al soggetto svantaggiato un più elevato livello conoscitivo, non rappresentino un limite all'autonomia privata, ma semmai consentano di esplicare in modo più consapevole la propria libertà negoziale (22) .

La corretta formazione del consenso è infatti, inscindibilmente legata alla trasparenza dei contenuti trasmessi ed anzi la pienezza dell'informazione rappresenta l'unica via possibile, attraverso la quale tentare di colmare l'intrinseca asimmetria di potere contrattuale (23) .

Per tale via si è altresì affermato il convincimento che la tutela in capo al consumatore non si arresti alla sola fase di contrattazione, ma anche nei momenti di contatto antecedente e successivo e, persino, laddove non si addivenga affatto alla stipula del contratto. La normativa in esame induce infatti a sostenere che l'attuale focus sia l'attività, ossia il profilo funzionale del comportamento e non più quello strutturale o del risultato

(24) , con ciò altresì enfatizzandosi che il paradigma non sia il consumatore in senso stretto e nelle sue varie accezioni, ma il rapporto di consumo (25) .

Lo stesso codice del consumo (all'art. 39) contiene un'importante norma di ordine generale, in base alla quale le attività commerciali devono essere improntate al rispetto dei principi di buona fede, correttezza e lealtà, valutati anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori (26) .

In tale complesso quadro evolutivo - da ultimo culminato con la recentissima attuazione italiana della Dir.

2011/83/UE (27) , con conseguente modifica di numerose norme del codice del consumo - fondamentale apporto è da ascriversi alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette, la cui specifica ratio risiede nel rafforzamento della tutela del consumatore avverso ogni azione, omissione, condotta, dichiarazione, comunicazione commerciale e forma pubblicitaria falsa o idonea a falsare in modo apprezzabile il suo

"comportamento economico", anche in fase antecedente e successiva alla stipula (28) .

L'incidenza dei parametri etici nelle decisioni di natura commerciale del consumatore

Prima facie, sembrerebbe che il legislatore abbia inteso riferirsi alla sola ipotesi in cui, per effetto di una condotta ingannevole o aggressiva da parte del professionista, il consumatore risulti pregiudicato nella sua sfera economica e, in ragione di ciò, adisca le autorità competenti.

L'accesso alla giustizia avviene, come noto, principalmente su due fronti: dinanzi all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, ex art. 27 c. cons., al fine di far inibire la pratica stessa e farne cessare gli effetti

(29) ; dinanzi all'autorità giudiziaria, anche nella forma dell'azione collettiva ai sensi degli artt. 139 e 140 c.

cons., nonché di classe, ex art. 140 bis, così come modificato dalla novella del 2012 (30) . In tale ultima ipotesi l'azione sarà volta al ristoro dell'eventuale pregiudizio derivante al consumatore da pratiche scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali, (art. 140 bis, comma 2, lett. c), c. cons.), purché ne ricorrano tutti i requisiti (e fra essi, in primis, l'omogeneità dei diritti lesi e l'attitudine alla plurioffensività) (31) . In tal senso, un eventuale provvedimento dell'autorità Antitrust di accertamento della scorrettezza costituirà uno strumento di prova privilegiata nel giudizio di classe, anche se resta fermo il prudente apprezzamento del giudice in ordine ai requisiti richiesti dalla legge.

Notevoli, ma qui non indagabili sono le peculiarità ascrivibili alle diverse forme di tutela, ivi comprese quella di composizione extragiudiziale delle controversie, ex art. 141 c. cons., ovvero di previo tentativo di espletamento di una procedura di autodisciplina, ex art. 27 ter c. cons.

Sussiste tuttavia un tratto che pare accomunare l'iniziativa dei consumatori e risiede proprio nell'alterazione della libertà contrattuale del consumatore: in assenza della pratica scorretta, infatti, il consumatore avrebbe orientato diversamente la propria scelta commerciale (si pensi al caso di costi supplementari per un prodotto presentato come gratuito; ai sistemi di promozione a carattere piramidale, ecc.) o deciso di non contrattare affatto; e, laddove costui abbia anche subito un danno di natura patrimoniale e non patrimoniale, mirerà a far valere la propria pretesa risarcitoria (32) .

Se ci si fermasse a tale conclusione si rischierebbe, però, di obliterare un aspetto non secondario, ossia la ragione di fondo che può indurre il consumatore alla scelta di un bene. In tal senso potrebbe muoversi da una generale premessa: ciascun utente (nell'accezione ormai ampia comprensiva anche delle microimprese) pone particolare riguardo a più aspetti specifici inerenti al contenuto del bene. Rispetto a tali profili (sintetizzabili nella qualità del prodotto, nelle caratteristiche materiali, nell'ampiezza delle garanzie, assistenza manutentiva, ecc.) sia la disciplina delle pcs, sia più in generale quella degli obblighi informativi precontrattuali si è ampliata esponenzialmente, cercando di colmare il gap di tutela conseguente alla mancanza o inesattezza delle informazioni, dovute anche all'assenza di trattativa individuale (33) .

Il dato - riscontrabile a fortiori nella contrattazione a distanza o in settori caratterizzati da elevata asimmetria informativa (si pensi ai servizi finanziari) - poggia, però, sull'implicito presupposto che il consumatore sia prevalentemente guidato dall'asettico calcolo fra il parametro del costo e quello del beneficio ottenuto, in termini di ribasso del prezzo.

È tuttavia lecito presumere che almeno un segmento di consumatori si interroghi sull'origine del ribasso in parola. Quid iuris, dunque, laddove il ribasso del prezzo sia frutto di un'attività contraria alla legge, sub specie di illecito sfruttamento di manodopera, nelle varie accezioni possibili (dalla mancata o insufficiente retribuzione, alle condizioni di lavoro insalubri, alla mancata adozione di misure di sicurezza a presidio del lavoratore, ecc.)?

Se si accedesse soltanto ad un'asfittica visione bidimensionale del rapporto impresa-consumatore, si correrebbe il rischio di sostituirsi alle tali (possibili) valutazioni del consumatore dirette invece ad incorporare un ulteriore parametro riassumibile nelle esternalità negative derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali e umane tipico della produzione dei beni di consumo (34) .

Deve in linea di principio ammettersi che il contratto non sia veicolo di fini meramente egoistici, ma possa, in un'ottica solidaristica, resa palese dalla stessa lettura costituzionalmente orientata della disciplina di diritto comune e speciale, declinarsi anche nella considerazione di elementi estrinseci alla persona o patrimonio dei soggetti direttamente coinvolti. Il problema risiede semmai negli strumenti che costoro (e nella specie

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il consumatore) abbiano per elevare a rango di interessi meritevoli di tutela giuridica, valutazioni di ordine etico, incorporandole nella "decisione di natura commerciale".

Il discorso, con le dovute differenziazioni, può essere condotto analogicamente rispetto alla crescente domanda di acquisti responsabili in ambito ambientale (c.d. domanda green), che sta progressivamente conducendo ad un sostanziale ampliamento dell'apparato informativo trasmesso dalle imprese ai consumatori (35) . La valutazione e conseguente pubblicizzazione dell'impatto ambientale dei prodotti posti in commercio sta assumendo un'importanza crescente, travalicando gli obblighi imposti per via legislativa e collocandosi in un'area di complessa interazione, che qui per brevità potremmo ascrivere alla c.d.

responsabilità sociale dell'impresa.

Informazione precontrattuale e azioni ingannevoli

La via verosimilmente percorribile risiede nell'apparato informativo, ma occorre verificare in che modo la mancata o inesatta informazione sull'illecito sfruttamento della manodopera possa essere racchiusa nella nozione di pratica commerciale scorretta.

L'analisi, stante il differente ambito applicativo riservato alle cc.dd. pratiche aggressive, è circoscritta alle sole pratiche cc.dd. ingannevoli, le quali sono incentrate propriamente sull'ampiezza e trasparenza dei doveri informativi a carico del professionista. La pratica ingannevole può essere, come noto, qualificata tanto sul piano dei comportamenti attivi, quanto su quelli meramente omissivi.

Sul fronte attivo (o commissivo), l'appiglio normativo alla mendace o elusiva comunicazione in materia di protezione dei diritti umani, sub specie di forced labour, potrebbe rinvenirsi perlomeno in tre differenti ipotesi. Le prime due di più agevole interpretazione, in quanto potenzialmente ascrivibili a quella black list di pratiche considerate in ogni caso ingannevoli, ex art. 23 c. cons.

In particolare, ci si riferisce al caso in cui il professionista affermi falsamente di essere firmatario di un codice di condotta (comma 1, lett. a), nonché al caso in cui costui affermi, in modo non rispondente al vero, che il codice di condotta abbia ottenuto l'approvazione da parte di un organismo pubblico o di altra natura (comma 1, lett. c); in questo ambito potrebbe, a titolo esemplificativo, collocarsi la falsa esibizione di un marchio di fiducia, derivante dall'adozione di un sistema di certificazione (36) .

Il nesso è chiaro: la maggioranza dei codici di condotta costituisce un veicolo di intenti della mission imprenditoriale, di forte impatto nel pubblico degli Stakeholders ed in particolare dei consumatori. Lungi dal costituire un mero vincolo interno per l' agere imprenditoriale, i codici in discorso riverberano i propri effetti in termini di immagine, acquisendo, come ben evidenziato anche all'art. 27 bis c. cons., precipua rilevanza esterna.

Fra gli intenti di ordine sociale caratterizzanti tali dichiarazioni, assai di frequente è menzionata l'assenza di pratiche di lavoro forzato nella catena produttiva; talora traspare persino il positivo impegno dell'impresa nella lotta ai crimini connessi allo sfruttamento, con il precipuo intento di carpire il favore di una collettività sempre più vasta di utenti. Si presume infatti che costoro siano portati a riporre maggiore fiducia in un professionista che si impegni volontariamente a rispettare una congerie di precetti di carattere etico o solidaristico, fra i quali in primis quelli attinenti alla tutela dei diritti fondamentali della persona umana. La circostanza che il codice, pur pubblicizzato presso terzi, manchi del tutto o risulti solo falsamente approvato da organismi competenti, in contrasto con quanto affermato dall'impresa, costituirebbe una chiara lesione dell'affidamento riposto dal pubblico dei consumatori, con conseguente alterazione della corretta formazione del relativo consenso alla stipula. Non a caso, tali due condotte sono qualificate dallo stesso legislatore come

"in ogni caso ingannevoli".

A queste, potrebbe aggiungersi, sempre sul piano dei comportamenti attivi, un terzo segmento, questa volta non ascrivibile alla c.d. lista nera, ma per il quale occorre una specifica valutazione circa la contestuale presenza della contrarietà a diligenza professionale, nonché della sua falsità o idoneità a falsare, in misura apprezzabile, il comportamento del consumatore.

L'ipotesi è espressamente contemplata all'art. 21, comma 2, lett. b), c. cons., ove si menziona il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti in un codice di condotta che il medesimo si sia impegnato (dunque volontariamente) a rispettare; ciò nella misura in cui l'impegno sia fermo e verificabile e il professionista indichi in una pratica commerciale che è vincolato al codice (37) .

L'ingannevolezza della pratica qui consiste, non nell'assenza totale del codice o della relativa approvazione, ma nel dichiarare un impegno poi disatteso; ossia nel fatto che il professionista non abbia rispettato un impegno specifico, fra quelli contenuti nel codice, formalmente assunto con il pubblico dei destinatari.

In rapporto alle ipotesi poc'anzi menzionate, quest'ultima verosimilmente costituisce quella destinata a verificarsi con maggior frequenza; non a caso diverse imprese (perlopiù) multinazionali sono state interessate da scandali connessi all'utilizzo, anche indiretto di pratiche di forced labour, nonostante l'adozione di codici di condotta o specifici marchi (es. marchio c.d. fair trade) contenenti l'espressa dichiarazione di assenza di manodopera forzata lungo la catena produttiva (38) .

Si tratta dunque dell'ipotesi più frequente, ma anche di quella che potrebbe presentare maggiori margini di complessità sul piano probatorio.

Mentre infatti nelle ipotesi contemplate all'art. 23 c. cons. dovrebbe essere più agevole dimostrare che l'inganno della pratica sia persino intenzionale e dunque di matrice dolosa, di contro, nella citata ipotesi sub art. 21 cod. cons., la pratica di forced labour potrebbe non essere perpetrata direttamente dall'impresa che adotta il codice, bensì da sue controllate, da subfornitori, da imprese collegate da un mero subappalto di servizi. Ne scaturisce la necessità di un attento esame dal punto di vista soggettivo, volto ad evidenziare se la condotta sia da qualificarsi come dolosa, oppure più verosimilmente colposa; ed in quest'ultimo caso, la colpa potrebbe concretarsi anche in un'omissione di sorveglianza.

Costituisce in ogni caso un grave vulnus al corretto e leale svolgimento dei rapporti commerciali (in contrasto anche con il citato art. 39 c. cons.) assumere volontariamente un impegno, comunicarlo all'esterno e dunque

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al pubblico, al fine di acquisire clientela attenta ai profili etici dell'attività d'impresa, e poi disattendere quanto dichiarato.

L'impegno, infatti, una volta dichiarato diviene vincolante e passibile di essere posto a fondamento di pretese da parte dei terzi (ivi compresi i consumatori). Può poi disquisirsi in merito all'effettivo rispetto di siffatti codici

(39) ; alle difficoltà probatorie connesse alla violazione dei relativi precetti; al loro inquadramento in istituti più familiari alla nostra tradizione civilistica (quali la promessa unilaterale, la promessa al pubblico o il contratto a favore di terzo, ecc.) che, con modalità differenti, consentirebbero di prospettare, e soprattutto far valere in giudizio, la concreta vincolatività dell'impegno assunto dal professionista nei confronti della generalità del pubblico al quale si rivolge l'opera di pubblicizzazione o commercializzazione di un dato prodotto (40) . Il dato di fatto è che il loro recepimento nella disciplina delle pratiche in analisi non costituisce un elemento di valutazione neutro o trascurabile.

La stessa Commissione europea, nel quadro della disciplina sulle pratiche commerciali sleali, ricordava che l'adozione di codici di condotta applicabili in tutta l'UE potrebbe promuovere una convergenza delle aspettative relative alla diligenza professionale, determinando un'ulteriore riduzione degli ostacoli al mercato interno (41) , con ciò evidenziandosi anche il doppio vantaggio riconducibile ad un utilizzo non distorto dei codici di condotta: il primo, sul fronte del corretto gioco della concorrenza, il secondo, su quello di protezione dei consumatori.

Nella misura in cui l'operatore professionale dovesse violare le disposizioni del codice, (ad esempio adoperando manodopera forzata, a fronte di una dichiarazione contraria), la sua condotta sarebbe da considerarsi automaticamente illecita proprio sul fronte dell'informazione mendace e ciò consentirebbe una più agevole attivazione dei rimedi, anche nella specifica modalità prevista all'art. 27 ter, ossia convenendo con il professionista di adire preventivamente il responsabile del codice (42) .

Peculiarità dell'inquadramento del forced labour nell'alveo delle omissioni ingannevoli

Quid iuris, in assenza di tali appigli normativi? Il quesito attiene al delicato passaggio dal fronte attivo a quello omissivo ossia alla possibilità di ricondurre alla nozione di pratica commerciale scorretta anche la mera omissione informativa in ordine alla presenza di forced labour. Ciò implicherebbe che, anche in mancanza dell'adozione di codici di condotta, sistemi di certificazione, marchi fair trade, ecc., il professionista sarebbe perseguibile per il fatto stesso di non aver fornito adeguata informativa sul ricorso a manodopera forzata, per il prodotto che pone in commercio.

Le disposizioni sin ora richiamate (artt. 21 e 23) non potrebbero trovare applicazione, in quanto strettamente connesse alla presenza di una condotta attiva del professionista, di asserzione contraria al vero o persino cristallizzata in un corpus di best practices o precetti destinati alla diffusione presso terzi.

Il caso che invece si suole ricondurre alle cc.dd. omissioni ingannevoli, ai sensi dell'art. 21 c. cons., non può ancorarsi ai menzionati "contenitori" di informazioni diffuse al pubblico, ma si concreta in una forma di comunicazione commerciale omissiva.

Il contatto commerciale (anche in forma di dichiarazione) raggiunge il consumatore parzialmente o completamente inficiato dall'assenza di informazioni "rilevanti" di cui il consumatore medio necessita per l'assunzione di una decisione consapevole; e ciò avviene anche allorché il professionista, ex art. 22, comma 2, c. cons., occulti o presenti in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le predette informazioni.

Il terreno è pertanto assai più scivoloso e le implicazioni che ne derivano, con specifico riguardo ai rapporti con i rimedi di diritto comune, alle interferenze con i vizi del consenso e con l'illecito sono notevoli e qui non indagabili (43) .

Per un verso, giova che la disciplina in parola vieti le pratiche commerciali sleali in sé, a prescindere dall'indagine intorno all'intenzione o alla negligenza del professionista ed anche in modo meno stringente rispetto ai tradizionali vizi del consenso (44) . Cionondimeno, ardua potrebbe manifestarsi la ricostruzione del nesso causale fra la condotta di sfruttamento della manodopera e la lesione della libertà negoziale del consumatore raggiunto dalla pubblicizzazione del prodotto.

Seguendo, infatti, il medesimo percorso argomentativo poc'anzi delineato, un primo elemento di difficoltà sussiste allorché il professionista che pone in essere la pratica commerciale non abbia alcun rapporto di controllo, subfornitura, collegamento negoziale con il soggetto che perpetra il comportamento criminale a monte della catena produttiva. Al professionista in questione, non è neppure ascrivibile la superficiale incorporazione di informazioni false in codici, marchi fair trade, etichette o similari, né una dichiarazione commerciale in sé non rispondente al vero. Vertendo il divieto attorno ad un'omissione, sarà a fortiori necessario valutare se sussista un elemento di connessione fra condotta e comunicazione commerciale (45) . Sebbene infatti le omissioni sul piano informativo stiano assumendo un'importanza crescente anche alla luce delle più recenti tendenze espresse in ambito europeo (46) , non tutte sono foriere di conseguenze in termini di illiceità. La portata del dovere informativo precontrattuale in capo al professionista è ampia, ma non indiscriminata, per una serie di motivazioni anche connesse alla c.d. razionalità limitata del consumatore

(47) . Sovente, infatti, fornire al consumatore una mole alluvionale di informazioni può rilevarsi fuorviante e controproducente in termini di consapevolezza della scelta commerciale.

Sotto questo profilo, la disciplina delle pratiche commerciali tout court, ivi compresa quella delle omissioni ingannevoli è stata elaborata con il prevalente fine di preservare gli interessi economici degli utenti (con la recente estensione soggettiva anche alle microimprese) (48) ; e ciò in particolare quando lo strumento di contrattazione sia altresì foriero di ulteriori restrizioni di spazio e tempo, come avviene nei contratti a distanza o stipulati fuori dei locali commerciali.

Il nodo centrale non sembra, tuttavia, risiedere nella natura degli interessi, quanto piuttosto nell'atto finale compiuto dal destinatario della pratica, ossia la decisione di natura commerciale che, in presenza di un'informazione piena e veritiera, non sarebbe stata adottata.

A stretto rigore, pertanto, sembrerebbe che il fulcro dell'indagine verta attorno al concetto di "informazione rilevante", e dunque di ciò che per il consumatore costituisce elemento di valutazione necessaria affinché

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sia indotto alla stipulazione del contratto. In tal senso, anche nel caso di semplice invito all'acquisto, è incorporata la nozione di "caratteristiche rilevanti" del prodotto.

Fermo restando che il parametro di riferimento è costituito dal consumatore medio, non è aprioristicamente da escludere che una fascia sempre più cospicua di utenti possa reputare rilevante l'informazione attorno al metodo produttivo del bene, ed in particolare che esso non sia frutto di lavoro servile, alla stessa stregua di quanto sta accadendo per l'interesse alle caratteristiche di impatto ambientale nei prodotti, nella c.d.

comunicazione commerciale green.

Ciò potrebbe astrattamente comportare che, anche ai sensi dell'art. 2601 c.c., gli enti esponenziali, in rappresentanza della categoria dei consumatori, possano rilevare l'atto di concorrenza sleale, perpetrato attraverso la menzionata omissione, e promuovere l'azione di tutela degli interessi collettivi dei consumatori.

Difficoltà applicative e possibili percorsi

Questo collocherebbe la disciplina in parola nell'alveo di quel binario di tutela marcatamente preventivo, volto a contrastare pratiche che minano il corretto funzionamento del mercato interno.

Difficilmente però il consumatore, quandanche debitamente assistito, potrà farsi carico dell'onere di indagare sui metodi di produzione di un bene ed effettuare la relativa segnalazione alle autorità competenti, in base a meri indici presuntivi; e ciò a fortiori per attività di illecito sfruttamento perpetrate all'estero per le quali occorrerebbe invocare la diretta applicabilità delle norme internazionali cogenti e consuetudinarie. È dunque più verosimile che un concorrente (es. leso dalla circolazione di beni a prezzo eccessivamente basso) possa avere i mezzi per attivarsi al fine di effettuare indagini sulla loro provenienza illecita e ne denunci i risultati, anche con azione giudiziale.

Dimostrare che il professionista (in genere mero distributore del bene) abbia artatamente omesso di divulgare informazioni delle quali era a conoscenza o che avrebbe dovuto conoscere secondo l'ordinaria diligenza, è impresa assai ardua.

Ammettendo, tuttavia, che ciò avvenga, occorre verificare in quale modo sia possibile ancorarvi il pregiudizio derivante dall'alterazione della capacità del consumatore di prendere una decisione commerciale.

L'anello di congiunzione potrebbe, in via ipotetica, essere costituito dall'inclusione, nell'ambito del concetto di "caratteristica" del prodotto, anche di quanto concerna i metodi di produzione, con espresso richiamo al rispetto di standard minimi ( Core Labour Standards) di tutela della salute e dei diritti della persona del lavoratore.

Ma tale assunto potrebbe apparire forzato, poiché il riferimento è alle caratteristiche "principali" del prodotto, in misura adeguata al mezzo di comunicazione utilizzato, e dunque a quelle qualità che risultino essenziali e di immediata percezione per l'uso o il funzionamento del prodotto.

Includere le caratteristiche derivanti dai metodi di produzione (nella direzione dell'assenza di manodopera forzata) implicherebbe un significativo cambio di prospettiva che dovrebbe sfociare in una modifica dello stesso art. 6 c. cons. il quale individua, fra le informazioni minime da fornire al consumatore, i materiali impiegati ed i "metodi di lavorazione ove questi siano determinanti per la qualità o le caratteristiche merceologiche del prodotto" (lett. e).

Si dubita che tale obiettivo possa essere raggiunto mediante un'interpretazione estensiva della norma ora menzionata. La ratio attuale della norma sembra essere quella di tutela della sfera personale e patrimoniale del consumatore - riferita, in particolare, agli standard di qualità e sicurezza del prodotto. Dunque, il metodo di lavorazione e le caratteristiche del prodotto vengono in rilievo in funzione protettiva degli interessi del consumatore, sia con riguardo alla sua persona, sia con riguardo a profili meramente economici (si pensi alla disponibilità, all'assistenza post-vendita, ecc.).

Solo operando l'incorporazione degli standard lavorativi minimi fra le cc.dd. "caratteristiche principali del prodotto" si potrebbe pervenire alla conseguente integrazione/modifica dell'art. 22 c. cons., relativo alle omissioni, così tutelando, anche in termini di responsabilità precontrattuale, il diritto del consumatore ad un'adeguata informazione e corretta pubblicità posto a fondamento dell'integrità del consenso all'acquisto.

In presenza di tali presupposti potrebbe più agevolmente prospettarsi l'attivazione dei meccanismi di tutela amministrativa e giurisdizionale, previsti all'art. 27 c. cons. e, da ultimo, anche nella forma dell'azione di classe ex art. 140 bis c. cons., precisandosi le summenzionate difficoltà di ordine probatorio, nonché di quantificazione del danno.

In questo difficile percorso, il ruolo esercitato dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato si rivela essenziale, non soltanto a livello nazionale, ma anche nella sua veste di autorità competente ai fini della cooperazione fra Stati membri, in ordine all'esecuzione della normativa a tutela dei consumatori ( Reg.

2006/2004 e succ. modifiche), stante la natura spesso transnazionale del fenomeno.

Ma deve avvertirsi che il percorso è alquanto periglioso, perché non sempre la soluzione legislativa rappresenta una soluzione adeguata. Sarebbe auspicabile che gli Stati membri per primi, come da ultimo suggerito all'art. 18 della Dir. 2011/36/UE, adottino misure che scoraggino concretamente la domanda di prodotti frutto di tratta di esseri umani (49) . Da questo punto di vista, particolarmente utile sarebbe il raffronto con quanto sta accadendo in materia di appalti pubblici, ove, per effetto dell'entrata in vigore delle direttive 2014 nn. 23/24/25/UE, spazio sempre più ampio si sta attribuendo alla tematica in questione (50) . Per essere misura effettiva e non meramente declamatoria, occorrerebbe, in primis, predisporre adeguati strumenti di responsabilizzazione lungo l'intera catena produttiva, inclusi i rapporti contrattuali con fornitori e subfornitori ed ivi compreso il complesso fenomeno della delocalizzazione.

In un contesto imprenditoriale nel quale risulti sempre più diffusa l'adesione ad elevati standard di sostenibilità sociale ed ambientale, (non necessariamente collegati all'adesione formale a codici di condotta) sarebbe, infatti, più agevole tacciare di slealtà, il comportamento delle imprese che, dolosamente o colposamente, non si preoccupino della tracciabilità del prodotto commercializzato.

(7)

La fonte illecita del vantaggio competitivo, ottenuto da un'impresa a scapito delle altre poste sul medesimo segmento di mercato, stride, non soltanto con il divieto di contrasto con l'utilità sociale, ma soprattutto con quello di recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, contenuto all'art. 41, comma 2, Cost.; propositi intrinsecamente traditi dalla violazione dei diritti fondamentali che il ricorso alla manodopera schiavistica comporta (51) .

Una richiesta di "eticizzazione dei rapporti commerciali" e di responsabilità sociale, anche in termini di best practices a carico delle imprese dovrebbe andare di passo con un'opera di "responsabilizzazione dei consumatori".

Si tratta, però di un complesso cambiamento culturale, strettamente connesso ad un previo processo di sensibilizzazione del consumatore "medio" ad "un'adeguata informazione" (art. 2 c. cons.), anche nel segno della trasparenza dei rapporti contrattuali.

Ed in tale contesto l'obiettivo di conferire maggiore effettività ai codici di condotta, ai sistemi di certificazione della responsabilità sociale dell'impresa ed alle dichiarazioni commerciali deve ritenersi prioritario (52) .

(* ) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.

(1) L'uso distorto di un meccanismo essenziale e connaturato a tutte le economie moderne, quale è quello che governa la mobilità dei capitali oltre i confini nazionali, può contribuire in maniera determinante a " riportare la forza lavoro a livello di pura merce, svuotando di significato il riconoscimento di quei diritti inviolabili della persona del lavoratore, su cui si formano le moderne democrazie costituzionali", G.

Tucci, Thurgood Marshall e l'"infame" ruolo della schiavitù negli Stati uniti: un confronto con l'Italia e con l'Europa dei diritti, in La giustizia e diritti degli esclusi, Napoli, 2013, 149. Il forte richiamo, nelle parole di Cesare Vivante, alle istanze di solidarietà sociale anche nel rapporto con la classe operaia resta sempre di straordinaria modernità, C. Vivante, La penetrazione del socialismo nel diritto privato, in Critica sociale, 1902, 345 ss.

(2) Il tema si innesta in un filone di ricerca molto ampio, che coinvolge principalmente studi di diritto internazionale, del lavoro e penale e che, solo in tempi recenti, ha iniziato ad essere scandagliato da quella porzione di studiosi di diritto civile e commerciale, sensibile alla tutela dei diritti degli "esclusi".

All'argomento in forma interdisciplinare è stato recentemente dedicato il volume AA.VV., Impresa e "forced labour ": strumenti di contrasto, a cura di F. Buccellato - M. Rescigno, Bologna, 2015. Il presente lavoro costituisce una rielaborazione aggiornata del saggio ivi pubblicato, a nome di A. Addante - G. Tucci, Forced labour e pratiche commerciali scorrette nel rapporto di consumo, op. loc. cit., 205 ss.; nello stesso senso si v. A. Addante, La tutela dei diritti fondamentali degli "esclusi" nelle attività di impresa, in Riv. dir. priv., 2014, 3, 475.

(3) Numerose fonti internazionali risalenti affiancano la Dichiarazione universale dei diritti umani del '48, a testimonianza della vastità e complessità del fenomeno: ex multis, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali del 1966, la Convenzione supplementare relativa all'abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi, e delle istituzioni e delle prassi analoghe alla schiavitù del 1956, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale del 2000 e il Protocollo contro il traffico illecito di migranti per terra, per aria e per mare del 2000, la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie del 1990, la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti del 1984, la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1979 e la Convenzione relativa ai diritti delle persone disabili del 2006.

(4) Mentre tuttavia il dumping economico è oggetto di specifica attenzione nell'ambito delle norme GATT, volte a osteggiare il fenomeno di c.d. international price discrimination, ossia le fattispecie di vendita di un prodotto su un mercato estero ad un prezzo inferiore a quello praticato nel mercato di origine o a un prezzo in ogni caso insufficiente a coprire i costi di produzione, il dumping sociale non ha, in sé, ricevuto alcuna forma di riconoscimento normativo e non è conseguentemente sanzionato da alcuna fonte internazionale. Per approfondimenti, si rinvia a A. Perulli, Globalizzazione e dumping sociale: quali rimedi?, in Lav. dir., 2011, 1, 13 ss.

(5) Attenta dottrina coglie la peculiare complessità del fenomeno ricordando che "L'espressione dumping sociale interiorizza molteplici aspetti di una comune matrice problematica. Benché, infatti, con la stessa si faccia riferimento a fenomeni diversi, quali l'importazione di prodotti provenienti da Stati in cui esistono condizioni lavorative non dignitose secondo i parametri delle democrazie occidentali, ovvero, le prestazioni di servizi transfrontalieri in cui le imprese utilizzano manodopera meno costosa di quella locale, ovvero, ancora, la delocalizzazione della produzione in ambiti, caratterizzati da livelli remunerativi e regimi normativi più favorevoli (...), l'elemento da cui deriva il fenomeno pare, in ultima analisi, rappresentato dalle differenze di regolamentazione sociale proprie dei singoli ordinamenti che, di converso, determinano (direttamente o indirettamente) diversità di costi del fattore lavoro", R. Pessi, Dumping sociale e diritto del lavoro, W.P. Libertà, lavoro e sicurezza sociale, 3, 2011 e Id., Dumping sociale e diritto del lavoro, in Riv.

dir. lav. sic. soc., 2011, 3, 617-632.

(8)

(6) Si veda, in merito, fra i più noti, il caso Wiwa v. Royal Dutch Petroleum Ltd (226 F.3d, 915, 2001), in cui la Shell fu accusata di aver utilizzato forze di sicurezza locale per reprimere l'opposizione in atto in Nigeria, avverso le operazioni di estrazione del petrolio. Altrettanta risonanza è stata riscossa dal caso Doe v. Unocal, sentenza Joe Doe v. Unocal Corp., 395 F.3d, 932 (IX Cir. 2002), a carico della multinazionale Unolocal, accusata, da parte di cittadini e associazioni birmane, di aver fatto ricorso alle forze militari locali per la costruzione di un oleodotto, fornendo tacito consenso e persino assistenza alla commissione di crimini gravissimi e violazioni dei diritti umani.

(7) D. Arcidiacono, Concorrenza sleale, core labour standards e violazioni in materia ambientale, in Orizz.

dir. comm., 2014, 2.

(8) F. Galgano, I l dogma della statualità del diritto di fronte alla globalizzazione dell'economia, in Id.

Dogmi e Dogmatica del diritto, Padova, 2010, 73.

(9) Sul piano legislativo deve segnalarsi il recentissimo atto normativo che segna una profonda rivisitazione della materia ( Legge 29 ottobre 2016, n. 199, Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo, in G.U. n. 257 del 3 novembre 2016). Sul piano giurisprudenziale, fra i primi riscontri si legga la pronuncia resa da Trib. Forlì 10 luglio 2012, n. 933, con nota di F. Buccellato, Verso "Roma, 9 Maggio 2014 - Impresa e Forced Labour": Linee Guida per una rinnovata azione di contrasto nel solco della Eu Strategy towards the Eradication of Trafficking in Human Beings 2012-2016, in Dir. comm. int., 2014, 1, 177-208.

(10) A latere della legislazione speciale, la stessa lettura di disposizioni, a struttura aperta, quali, in primis, quelle contenute agli artt. 2 e 3 Cost., potrebbe già costituire un importante baluardo avverso condotte di approfittamento dell'altrui subalternità, soprattutto laddove l'attività economica sia svolta in spregio all'utilità sociale e dignità della persona e, dunque, contravvenendo espressamente al ben noto precetto contenuto all'art. 41, comma 2, Cost.

(11) La difficoltà risiede peraltro nel rendere concretamente operativi principi oramai fondanti lo stesso diritto dell'Unione europea. La nuova formulazione dell'art. 3 del Trattato di Lisbona, afferma una

concezione del sistema economico europeo fondata sugli obiettivi dello sviluppo sostenibile, della coesione e dell'integrazione sociale e proclama l'impegno europeo, oltre che per la promozione della tutela

ambientale, della lotta alla disoccupazione anche dell'esclusione sociale, della protezione sociale, della parità tra uomini e donne, della solidarietà tra le generazioni e della tutela dei minori. Ciò evidenzia, nella lettura combinata con gli artt. 1 bis e 2 la centralità della protezione dei diritti umani in un'ottica di economia sociale di mercato non più subordinata alla mera crescita economica degli attori economici.

(12) Quale può essere l'assoggettamento a lavoro forzato o l'impiego di prodotti provenienti da sfruttamento della manodopera, ovvero la mancata predisposizione di adeguate misure di sicurezza e protezione del lavoratore

(13) Questi, a loro volta, sono frequentemente caratterizzati da sistematica mancata assunzione dei costi e delle cautele inerenti agli adeguamenti per la sicurezza del lavoro, oltre che alla regolarizzazione contributiva di manodopera assunta in nero.

(14) F. Buccellato, Verso "Roma, 9 Maggio 2014 - Impresa e Forced Labour", cit., 196. L'A. qui

opportunamente richiama, in merito, T. Treu, Trasformazioni delle imprese: reti di imprese e regolazione del lavoro, in Mercato, Concorrenza e Regole, 2012, n. 1, 7.

(15) Per un'efficace sintesi del dibattito in materia, si legga D. Arcidiacono, Concorrenza sleale, core labour standards e violazioni in materia ambientale, cit., 7 ss.

(16) Se il ribasso è compiuto grazie ai risparmi conseguenti all'inosservanza di norme di sicurezza o di qualità a favore dei lavoratori o dei consumatori, ovvero di norme, legali o contrattuali, relative ai diritti dei lavoratori dipendenti, la lesione di interessi sociali costituzionalmente garantiti è certa, e, con essa, la illiceità concorrenziale del ribasso, G. Ghidini, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978, 177. Il concetto è ben chiarito anche in G. Floridia, Le valutazioni giurisprudenziali in termini di correttezza professionale, in AA. VV., Diritto industriale - Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2009, 341, che in proposito enfatizza la centralità dei principi costituzionali, laddove, " la tutela del diritto alla lealtà della concorrenza dovesse accreditarsi presso la nostra giurisprudenza.".

(17) L'ipotetico attore che volesse provare l'indebito vantaggio, sul piano concorrenziale, di un'impresa allocata in nazioni che non possiedono un'adeguata legislazione a protezione del lavoro e che ricorrono sistematicamente al lavoro forzato, dovrebbe sobbarcarsi un onere probatorio quasi impossibile, essendo necessario dimostrare fatti che si verificano in paesi lontani ed essere in possesso di dati ed informazioni difficilmente accessibili o che richiedono costi particolarmente elevati. Sul punto amplius, V. Giorgi, Forced labour e concorrenza sleale, in Impresa e "forced labour ", cit., 76.

(9)

(18) Trib. Torino 17 agosto 2011, ord., in Dir. ind., 2012, 37; Cass. 27 aprile 2004, n. 8012, in Dir. ind., 2005, 203. Un illecito vantaggio è ad esempio certamente riscontrabile per il caso di violazione di norme fiscali, Cass. 17 luglio 2008, n. 19720, in Foro it., 2008, I, 3143.

(19) Sul punto si v. anche P. Cassinis, Prime considerazioni sulla rilevanza del fenomeno del c.d. Forced labour in relazione alle norme a tutela dei consumatori, in Impresa e "forced labour", cit., 84 ss.

(20) La disciplina delle pratiche commerciali sleali, come noto introdotta con la Dir. 2005/29/CE e in Italia con il D.Lgs. n. 146/2007, è attualmente racchiusa nel codice del consumo (artt. 18-27 quater). Le norme in questione, unitamente alle disposizioni dedicate alla relativa tutela e all'accesso alla giustizia, hanno subito ulteriori ampliamenti nel 2012, in particolare, per effetto delle Leggi nn. 27 e 221.

(21) La promozione del diritto all'informazione in capo ai consumatori è, a livello europeo, oltre che oggetto di iniziative settoriali, anche di disposizioni di carattere generale, fra le quali spicca l'attuale art.

169 ( ex art. 153 del TCE), versione consolidata del TUE e TFUE e Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (v. da ultimo, Bruxelles, 12 novembre 2012 pubblicata on line nel febbraio 2013, con modifiche rispetto alle versioni presenti in GU C 326 e C 327 del 26 ottobre 2012). Nel nostro ordinamento, la

qualifica di "fondamentale" del diritto ad un'adeguata informazione, unitamente ad una corretta pubblicità, era prevista sin dalla L. n. 281/1998 ed attualmente codificata all'art. 2, comma 2, c. cons.

(22) Tale considerazione è espressa in dottrina, dopo attento esame delle peculiarità ascrivibili a ciascuna tecnica, a seconda che, ad esempio, si verta intorno all'acquisizione di beni suscettibili di esame diretto, beni conoscibili con l'esperienza, beni fondati sulla fiducia, S. Grundmann, L'autonomia privata nel mercato interno: le regole d'informazione come strumento, in Eur. dir. priv., 2001, 302.

(23) V. Roppo, Regolazione del mercato e interessi di riferimento: dalla protezione del consumatore alla protezione del cliente?, in Riv. dir. priv., 2010, 25, ricorda che uno dei due soggetti è outsider e dunque

"privo delle conoscenze specifiche e delle capacità tecnico-organizzative che consentono il controllo della prestazione caratteristica a lui presentata".

(24) Così D. Valentino, Timeo danaos et dona ferentes. La tutela del consumatore e delle microimprese nelle pratiche commerciali scorrette, in Riv. dir. civ., 2013, 1163.

(25) Sul punto G. Alpa, La disciplina della concorrenza e la correttezza nell'attività commerciale, in Econ. e diritto del terziario, 2002, 365.

(26) In dottrina si è affermato che la disciplina in parola "seppur di carattere settoriale, costituisce una rilevante novità del nostro ordinamento civilistico generale, in quanto tende a definire la "qualità"

dell'attività economica, come un a priori rispetto al contenuto ed al regolamento dei rapporti giuridici che nell'ambito dell'attività vengono posti in essere", M. Sandulli, Comm. sub art. 39, in G. Alpa - L. Rossi Carleo (a cura di), Codice del consumo. Commentario, Napoli, 2005, 289.

(27) Ci si riferisce al D.Lgs. 11 marzo 2014, n. 21 che, in recepimento della Dir. 2011/83/UE (c.d.

consumer rights), ha apportato un profondo ampliamento degli obblighi informativi, in particolare artt.

46-67 c. cons. L'assonanza con i più recenti tentativi di armonizzazione, anche mediante strumenti opzionali, è di tutta evidenza in particolare nella Proposta di Regolamento sul "Diritto comune europeo della vendita" (COM 2011/635, nella versione P7_TA-PROV(2014)0159, febbraio 2014). Sul punto sia consentito il rinvio a A. Addante, Gli obblighi informativi precontrattuali nella Proposta di Regolamento per un " Diritto comune europeo della vendita", in Riv. dir. priv., 2014, 1, 17-60. Le numerose criticità riscontrate in sede di approvazione della Proposta di Regolamento hanno tuttavia indotto le istituzioni europee prima a ridimensionarne la portata alla sola vendita di prodotti online, poi ad un informale abbandono del progetto in favore di nuovi impegni legislativi della Commissione europea. Il riferimento è in particolare alle recentissime proposte di direttiva in tema di fornitura di contenuti digitali e sulla vendita di beni online (Proposte di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 dicembre 2015, rispettivamente relative a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale, COM(2015) 634 e a determinati aspetti dei contratti di vendita online e di altri tipi di vendita a distanza di beni, COM(2015) 635. Le due proposte affrontano i principali ostacoli al commercio elettronico transfrontaliero nell'UE ed in particolare la frammentazione giuridica nel settore del diritto contrattuale dei consumatori, foriera di elevati costi transattivi per le imprese, nonché la scarsa fiducia dei consumatori nell'acquisto di beni sul mercato europeo. Per una prima disamina, A. Addante, Obblighi precontrattuali di informazione e tutela dei consumatori nei contratti telematici, (in corso di pubblicazione) in Tutela del consumatore nei contratti telematici e nuove frontiere del diritto europeo della vendita (a cura di A. Addante), Padova, 2016.

(28) Nel senso che una pratica commerciale scorretta debba indurre o essere idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti

adottato, cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 17 febbraio 2012, n. 853; Cons. Stato, Sez. VI, 27 ottobre 2011, n. 5785; Cons. Stato, Sez. VI, 26 settembre 2011, n. 5364; Cons. Stato, Sez. VI, 22 giugno 2011, n. 3763; Cons. Stato, Sez. VI, 4 aprile 2011, n. 2099; Corte di Giustizia UE, Sez. I, 15 marzo 2012, n.

453.

(10)

(29) Per una recente disamina del ruolo dell'Autorità antitrust e dell'ampliamento delle proprie

competenze, si v. S. Perugini, I "nuovi" strumenti di intervento dell'AGCM, in Corr. giur., 2014, 44 ss.

(30) Proprio con riguardo alla sussistenza di rimedi individuali contemplati nell'ambito del codice civile rispetto a quelli menzionati si parla di "doppio binario di tutele", R. Calvo, Le azioni e le omissioni

ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contr. impr. Europa, 2007, 1, 71 e che "non comporta che le rispettive discipline costituiscano monadi reciprocamente

impermeabili", C. Granelli, Le "pratiche commerciali scorrette" tra imprese e consumatori: l'attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, in Obbl. e contr., 2007, 783 ss.

(31) U. Perfetti, Pratiche commerciali scorrette e profili rimediali individuali, in G. Alpa (a cura di), I contratti del consumatore, Milano, 2014, 263, nel quale anche un'approfondita analisi circa l'utilizzo dello strumento dell'art. 140 bis cod. cons., in particolare dopo le ultime modifiche apportate nel 2009 e nel 2012.

(32) L'ampiezza della nozione in questione è testimoniata dalla più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, ove si precisa (anche argomentando sulle differenze linguistiche che hanno caratterizzato la trasposizione della direttiva nei diversi Stati membri), che l'art. 2, lett. k), Dir. 2005/29/CE debba essere interpretato "nel senso che nella nozione di 'decisione di natura commerciale' rientra qualsiasi decisione che sia direttamente connessa con quella di acquistare o meno un prodotto". La Corte, in tale modo in sostanza amplia le ipotesi includendo, non soltanto la decisione di acquistare o meno un prodotto, ma anche quella che presenta un nesso diretto con quest'ultima, ossia la decisione di entrare nel negozio. Nella specie, infatti, il consumatore era stato indotto a recarsi presso un punto vendita, ingannato dal prezzo vantaggioso esposto in volantino, rispetto ad un prodotto in realtà non disponibile, Corte di Giustizia UE, Sez. VI, 19 dicembre 2013, n. 281/12, in Dir. Comunit. on line, 2014.

(33) In particolar modo, nei casi in cui manchi una vera e propria trattativa, è evidente che il consumatore basi il proprio convincimento, più che sull'attenta lettura del regolamento contrattuale, sulle informazioni fornite anche oralmente dal professionista, in una o più occasioni di contatto e non abbia l'abilità di operare un confronto fra le stesse e quelle (corrette e veritiere) fornite con supporto scritto. In dottrina, con specifico riguardo alla contrattazione on line, si afferma che ogni contatto tra consumatore e

professionista possa rivelarsi risolutivo per la definizione del consenso e debba pertanto, essere presidiato da un adeguato apparato di regole informative, F. Rende, Nuove tecniche di condizionamento delle scelte di consumo e rimedi conformativi del regolamento contrattuale, in questa Rivista, 2012, 735.

(34) Altrove si è precisato che la valutazione dell'impatto ambientale e quella dell'impatto sociale delle attività di impresa non siano completamente assimilabili, avendo caratteristiche peculiari che possono occupare una diversa collocazione nella menzionata scelta di fondo del consumatore. Per semplicità espositiva le due componenti sono assimilate nella complessiva dizione di esternalità negativa, al fine di enfatizzare l'apparente alienità delle stesse rispetto alla sfera strettamente personale del consumatore, A.

Addante, La tutela dei diritti fondamentali degli "esclusi" nelle attività di impresa, cit., 475.

(35) Non a caso la più accorta dottrina sta riflettendo sull'altra faccia della medaglia, ossia sulla possibilità che la comunicazione commerciale punti proprio sulla crescente sensibilità dei consumatori rispetto ai citati "acquisti responsabili", per poter propagandare qualità ecologiche dei prodotti, non rispondenti al vero. Questo profilo di indagine rientra in una dimensione patologica della comunicazione commerciale, al cui contrasto la stessa disciplina delle pratiche commerciali scorrette è diretta. Si v., in merito, M.

Libertini, La comunicazione pubblicitaria e l'azione delle imprese per il miglioramento ambientale, in Giur. comm., 3, 2012, 331, il quale evidenzia che, al crescere della comunicazione ambientale d'impresa, si è immediatamente contrapposto un movimento d'opinione spontaneo volto a "smascherare le

ecobugie" (c.d. greenwashing).

(36) In quest'ultimo caso, disquisendo in ordine al rapporto fra rimedi contro le pratiche commerciali e vizi del consenso, la dottrina ammette che vi sia un "minimo di attività complessa finalizzata a trarre in inganno e tale da consentire l'aggancio al rimedio dell'annullabilità del dolo", U. Perfetti, Pratiche commerciali scorrette e profili rimediali individuali, cit., 283.

(37) In merito si punta l'accento, non tanto sulla circostanza che gli impegni siano di "carattere dettagliato o circostanziato", ma piuttosto nella capacità delle espressioni adottate di suscitare un ragionevole

affidamento nell'osservatore medio e di riferirsi ad atti o comportamenti suscettibili di avere una (qualche) concreta attuazione e di essere oggettivamente osservabili, S. Rossi, Luci e ombre dei codici di impresa, in V. Di Cataldo - P.M. Sanfilippo (a cura di), Le fonti private del diritto commerciale, Milano, 2008, 31 ss.

(38) L'utilizzo di marchi fair trade è molto diffuso fra le multinazionali sempre più protese ad acquisire consensi - peraltro con imponenti campagne pubblicitarie - non soltanto in virtù delle qualità dei propri prodotti, ma anche in relazione al loro impegno nella salvaguardia dell'ambiente, della dignità della persona, nella promozione del miglioramento delle condizioni di lavoro, ecc. Altrettanto frequentemente accade, tuttavia, che siano oggetto di denunce per aver con mendacio esibito tali marchi. Condotte esattamente contrarie a quelle dichiarate vengono sistematicamente perpetrate in singoli segmenti

(11)

della filiera, generalmente in fase di estrazione delle materie prime. Eclatante è stato il caso della nota multinazionale Victoria's Secret, i cui prodotti sono accompagnati dal marchio fair trade. Nel 2008, viene sporta denuncia per accertata violazione dei diritti umani e sfruttamento del lavoro minorile in Burkina Faso. Da quel momento pare che la multinazionale si sia limitata a rimuovere la dicitura fair trade dalle etichette dei propri prodotti provenienti dal tale Paese.

(39) Con specifico riguardo alla relazione con le pratiche in discorso, P. Fabbio, I codici di condotta nella disciplina delle pratiche commerciali sleali, in Giur. comm., 2008, I, 706.

(40) Il tema è stato affrontato secondo diverse angolazioni, ex multis, N. Irti, Due temi di governo societario (responsabilità amministrativa - codici di autodisciplina), in Giur. comm., 2003, I, 694. Da ultimo sullo specifico rapporto fra codici di condotta e manodopera forzata, si v. F. Benatti, L'impegno a non far ricorso al forced labour nei codici etici e di condotta: dalla funzione premiale al vincolo giuridico?, Relazione tenuta a Roma, 9 maggio 2014 - Impresa e forced labour. cit. L'A., nel rimarcare la necessaria vincolatività dei codici, per i quali una mera funzione premiale sarebbe riduttiva, ricorda la centralità dell'affidamento che essi sono in grado di ingenerare nelle diverse categorie di soggetti che vengono in contatto con l'impresa.

(41) V. Considerando 20, Dir. 2005/29/CE.

(42) Deve in ogni caso darsi atto degli eterogenei ostacoli applicativi che, di fatto, spesso derivano dalla mancanza di integrazione e fra enforcement pubblico e autodisciplina, F. Ghezzi, Codici di condotta, autodisciplina, pratiche commerciali scorrette. Un rapporto difficile, in Riv. Società, 4, 2011, 680.

(43) La circostanza che la disciplina delle pratiche non pregiudichi l'applicazione delle disposizioni in materia contrattuale (ed in particolare quelle sulla formazione, validità o efficacia del contratto, v. art. 19, comma 2, lett. a, c. cons.) comporta una serie di interferenze e difficoltà di inquadramento delle pratiche in parola nell'ambito delle categorie tradizionali, ma ciò sollecita la necessità di una rilettura in chiave evolutiva del diritto interno, in rapporto a quello comunitario, A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, in Riv. dir. priv., 2010, 3, 37 ss.

(44) Si v. a riguardo l'approfondita analisi dei rapporti con le varie forme di dolo in R. Calvo, Le azioni e le omissioni ingannevoli, il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contr. impr.

Eur., 2007, 74 ss.

(45) Allorché l'azione sia intentata dal consumatore per ottenere il risarcimento del danno da pratica commerciale sleale, incombe su quest'ultimo l'onere della prova circa la connessione fra la sua scelta commerciale e la decettività della pratica. L'indirizzo è rigidamente inteso dalla giurisprudenza anche per ipotesi che riguardano la sfera personale del consumatore. Si v. in merito, una recente pronuncia resa con riguardo ad un'azione di classe intentata avverso un'impresa distributrice di un test farmacologico per la rilevazione dell'influenza, Trib. Milano 13 marzo 2012, con commento di S. Bugatti, Pratiche commerciali scorrette e tutela risarcitoria del consumatore, in Danno e resp., 2013, 2, 195-205. Per la relativa ordinanza che ha dichiarato ammissibile, per la prima volta in Italia, un'azione di classe, si v. Trib.

Milano 20 dicembre 2010, in Giur. it., 2011, 1860, con nota di F. Macario ed in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 502, con nota di M. Libertini - M.R. Maugeri.

(46) Si richiama, a mero titolo esemplificativo, la rilevanza accordata anche alle semplici dichiarazioni commerciali, nella citata Proposta di Regolamento per un diritto europeo della vendita, all'art. 69 ( Clausole contrattuali desunte da dichiarazioni precontrattuali).

(47) G. Howells, The Potential and Limits of Consumer Empowerment by Information, in Journ. of Law and Society, 32, n. 3, 2005, 349 ss.

(48) V. art. 18, d) bis, c. cons. (lettera inserita dall'art. 7, comma 1, D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27).

(49) La menzionata Dir. 2011/36/UE (5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI, in GU, L 101/1 del 15 aprile 2011) all'art. 18, comma 4, richiama gli Stati membri ad una valutazione della possibilità che costituisca reato la condotta di chi ricorre consapevolmente ai servizi, oggetto dello sfruttamento. La direttiva vincola gli Stati all'adozione delle necessarie misure affinché il trafficking in human beings - ossia ogni pratica di reclutamento, trasporto, trasferimento, alloggiamento o ricevimento di persone per finalità di sfruttamento - sia adeguatamente sanzionato. In attuazione della direttiva in parola, si v. il D.Lgs. n. 24/2014 ( Attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI, in GU n. 60 del 13 marzo 2014).

(50) Si vedano, in particolare gli art. 28, par. 4, lett. f), Dir. 23/2014/UE e art. 57, par. 1, lett. f), Dir. 24/2014/UE. Per il recepimento nazionale delle citate direttive, si v. D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di

(12)

concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (G.U. 19 aprile 2016, n. 91).

(51) G. Ghidini, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978, 177; G. Floridia, Le valutazioni giurisprudenziali in termini di correttezza professionale, in AA.VV., Diritto industriale - Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2009, 341, che in proposito enfatizza la centralità dei principi costituzionali, laddove "la tutela del diritto alla lealtà della concorrenza dovesse accreditarsi presso la nostra giurisprudenza.".

(52) Lo stesso richiamo positivo alla presenza di codici di condotta sarebbe fine a sé stesso, se non corroborato da misure che ne rendano effettiva la portata. Un indice interessante in tal senso è rappresentato dalla circostanza che il legislatore nazionale, in recepimento alla citata Dir. 2011/83/

UE, abbia espressamente annoverato l'esistenza di "codici di condotta pertinenti" fra le informazioni precontrattuali che il professionista è tenuto a fornire al consumatore, in maniera chiara e comprensibile, prima che costui sia vincolato da un contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali o da una corrispondente offerta (v. art. 49, lett. f, c. cons.).

Riferimenti

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