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Non violenza - Trump - Brasile - Giordania

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Academic year: 2022

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NP dicembre 2016

RIVISTA MENSILE - Spedizione in Abbonamento Postale - art. 2 comma 20/c - Legge 662/96 - Filiale di Torino - € 3,00

Non violenza - Trump - Brasile - Giordania

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NUOVOPROGETTON.10DICEMBRE2016

IL MENSILE DEL SERMIG DAL 1978

La luce

annulla il buio

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NP dicembre 2016

Abbonati!

Direttore responsabile: Ernesto Olivero Gruppo redazionale: Corrado Avagnina, Rosanna Tabasso, Claudio Maria Picco, Simone Bernardi, Elena Goisis, Guido Morganti, Annamaria Gobbato, Elena Canalis, Monica Canalis, Valentina Turinetto, Renato Bonomo, Mauro Palombo, Marco Grossetti, Matteo Spicuglia.

Fotografie: Archivio Sermig, A. Gotico, L. Nacheli, G. De Franceschi Sync Studio: P. Siccardi, M. Ferrero, A. Ramella.

Illustrazioni: G. Ferrari, P.Rovero.

Impaginazione e progettazione: Sermig Autorizzazione: Tribunale di Torino N° 4866 del 19-12-1995

Stampa: Gruppo Alzani – Pinerolo (TO) Tel. 0121/322657

Stampato su: Chorus print new matt 90 g/m2, per Editore: Sermig

Proprietà: Associazione Sermig Fraternità della Speranza C/C bancario Banca Prossima

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P.zza Borgo Dora 61 – 10152 Torino Tel. 011/4368566 Fax 011/5215571 nuovoprogetto@sermig.org - www.sermig.org Ai sensi della Legge 196/2003

si comunica agli abbonati che i dati da loro forniti all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento sono contenuti in un archivio informatizzato idoneo a garantirne la sicurezza e la riservatezza.

Questo numero è stato consegnato alle Poste il ?? dicembre 2016

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La luce annulla il buio 10 L’ONU può ancora garantire la pace?

di Edoardo Greppi 12 Martiri senza carnefice di MichaelDavide Semeraro 14 Da Giorgio La Pira all’Arsenale della Pace di Guido Morganti 16 Humanity di Gianfranco Cattai 18 Una speranza per tutti a cura della redazione ZOOM

20 Arsenale della Speranza (Brasile) Foto di Max Ferrero e Renata Busettini Testo di Lorenzo Nacheli

N P

in Copertina Foto: Max Ferrero

n.10

Attualità

4 Quartapagina di Corrado Avagnina Giovani a casa

4 EcoFelicità di Pierluigi Conzo L’ISTAT implementa i BES 6 Pontifex di Domenico Agasso Jr.

Fedeli fino alla morte 6 Today di Gian Mario Ricciardi I suoni del Natale

7 Cose che capitano di Matteo Spicuglia Il volto migliore

8 Due pagine a cura della redazione È possibile... cambiare

25 Senza barriere di Chiara Genisio Misericordia dietro le sbarre 26 Orient Express di Sandro Calvani Cambio climatico, è tempo di agire 27 Jambo di Mauro Palombo Sud Sudan, guerra e povertà 28 Latinos di Lucia Capuzzi Al di qua e al di là del confine 29 Eurolandia di Lucia Sali Trump, e adesso?

30 The insider di Aldo Maria Valli Yoruba name

30 Ambiente di Carlo Degiacomi Il clima cambia, altri no 34 Monitor di Michelangelo Dotta Nuove strategie

Rubriche

5 Editoriale di Ernesto Olivero Il sogno di una Chiesa scalza 32 Psiche di Gabriella Delpero Amare non è mai stato facile 33 Orzata con latte di Andrea Gotico Tru versus Mp

33 #usi&costumi di Elisa d’Adamo Dietro le quinte della moda 35 Diapason di Mauro Tabasso Sogni

36 Al cine di Davide Bracco Il menù di Natale 37 Fuori gioco di Carlo Nesti Piepoli. Il perdono nello sport 38 Redattore sociale di Stefano Caredda Cara futura mamma...

38 The Family di Alessandro Riva Lasciami volare

40 Cuore puro di Cesare Falletti Paura di cambiare

41 Minima di Flaminia Morandi Ahia! Che male...

46 Quello che conta di Rosanna Tabasso L’umiltà che costruisce

Notes

31 Tecnology di Stefano Ravizza 32 Yonas e Senait di Pierpaolo Rovero 34 Sipario di Simona Carrera

35 Lei non sa chi suono io di G. Giletti 36 Books di Dirce Soncin

37 Comics di Alessandro Del Gaudio 39 #dialogo di Annamaria Gobbato 40 Parole di Fabio Arduini

41 Uova e colori di Chiara Dal Corso 42 Arsenalive

47 Il manifesto di Gian Piero Ferrari

Nphoto

Arsenale, le armi della pace Un’immagine del musical prodotto dalla cantante bra- siliana Ziza Fernandes che a Rio de Janeiro, San José dos Campos e San Paolo del Bra- sile ha messo in scena la pro- fezia del Sermig.

Foto:

Rodrigo Roncolato/Oficina Viva

Sommariodicembre 2016

N P FOCUS

Forse pochi sanno che l’Arsenale è diventato anche un musical. Sì, un musical con ballerini, attori e cantanti! Quando ci hanno chiesto di poter usare la nostra storia come fonte d’ispirazione, abbiamo guardato negli occhi Ziza Fernandes, la cantante e compositrice brasiliana che ce lo proponeva e le abbiamo detto: “Cercheremo di aiutarti, ma per noi sarà come un intervento a cuore aperto. Non sarà facile!”. E lei, con grande rispetto: “So che è una storia grande, complessa, è una sfida che spaventa anche noi, sarà come costruire un ponte tra l’Italia e il Brasile... Vi chiedo di fidarvi e di accogliere me e i miei ragazzi come accogliete queste mille persone. È proprio questa storia d’amore che ci ha portati fin qui”. Il ponte tra di noi, poco a poco, ha costruito il ponte più grande: una trama che racconta un incontro immaginario, in un vicolo di San Paolo, tra Ernesto Olivero, fondatore del Sermig, dom Luciano Mendes de Almeida, vescovo di Mariana e un bambino di strada, anzi, una bambina, soprannominata Anfibio.

Nella storia, la banda di Anfibio accerchia Ernesto e dom Luciano per una rapina, ma le sirene della polizia disperdono il gruppo che, fuggendo, si lascia dietro la piccola Anfibio.

Lontano dalla banda, impaurita dalla Polizia e senza conoscere quei due, Anfibio tira fuori un’arma e li tiene in ostaggio. Qui comincia un dialogo lungo e difficile tra i tre.

Dom Luciano: “...e se io ti dicessi che il mio amico Ernesto è capo di un Arsenale?”.

Anfibio: “Chi? Questo zietto?! Figurati... Voi non sapete niente di armi e nemmeno cosa vuol dire avere freddo, fame e dormire per strada con la paura di non svegliarsi, anzi, sperando di non svegliarsi! E voi? Dove dormite questa notte!?”. Ernesto: “Sai, Anfibio, non è la prima volta che mi chiedono questa cosa...”. Anfibio: “No?”. Ernesto: “No... Un giorno, nel mio Arsenale...”.

Ed ecco che la storia (e le storie) degli Arsenali della Pace, della Speranza e dell’Incontro diventano le armi per arrivare al cuore di quel bambino e disarmarlo da dentro, prima ancora che da fuori.

Un atto unico, di 1 ora e venti, ha presentato alla platea brasiliana una storia piena di violenza e di problemi sociali, ma anche di sogni e di persone vere disposte a fare la loro parte. Il pubblico ha risposto bene, speriamo che continui nella vita reale!

NPfocus

Le armi della pace

Obrigado di Simone Bernardi

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NP dicembre 2016

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Quando è stato eletto, ho sentito di chiamarlo semplice- mente “padre atteso”. Aspettavo davvero un papa come Francesco e dal primo momento ho intravisto in lui il trat- to di una profezia che avevo nel cuore, coltivata nell’ami- cizia con Giovanni Paolo II, nell’incontro con la saggezza e la profondità di Benedetto XVI: la profezia di una Chiesa povera di beni e ricca di misericordia. Una Chiesa scalza come si addice a un nuovo Francesco. Questi anni di pon- tificato, la giovinezza che rimane anche in un ottantenne, mi ricordano che il tempo e l’età non contano. Sono solo opportunità per crescere, per dare forza a un ideale, per imparare ad amare, per costruire, per coltivare un sogno con i piedi per terra e lo sguardo verso il Cielo.

Papa Francesco ha saputo tradurre la profezia di una Chiesa vicina ai lontani con l’abbondanza di parole, ge- sti, riflessioni che hanno caratterizzato il

Giubileo appena concluso. Soprattutto, con il richiamo alla misericordia che è lo stile di Dio. Anzi, il suo nome. La miseri- cordia è realtà, concretezza, tenerezza, apertura continua agli altri. Non è lassi- smo, non è negazione dei propri ideali, ma braccia e cuore sempre aperti.

Chi vive di misericordia sa che ogni for- ma di giudizio è come una condanna a morte. Lo sa perché conosce prima di tutto le proprie miserie, le proprie diffi- coltà. Conosce l’umiliazione, conosce la

fatica e sa che quando si fa esperienza dell’umiliazione e della fatica più di un giudizio conta lo sguardo, una pre- senza amica, un incoraggiamento. Conta l’amore che in- dica la possibilità di cambiare, che ti fa

risorgere, che nella conver- sione e nell’umiltà ti fa

diventare un maestro di saggezza. Pen-

so siano questi i miracoli della mi-

sericordia.

Ricordo benissi- m o

uno dei miei primi incontri in carcere. Avevo davanti una ragazzina di diciotto anni che aveva ucciso. Non la giu- dicai, la abbracciai per comunicarle tutta la mia disponi- bilità. Lei mi raccontò la sua storia e alla fine mi chiese con un filo di speranza: “Potrò mai diventare come i tuoi ragazzi?”. Quell’incontro mi fece capire che non bisogna mai negare una possibilità. E papa Francesco ce lo ha ri- petuto tante volte.

Nel nostro mondo, non è necessario uccidere per esse- re condannati a morte. Mi viene in mente la storia di una donna che scoprì di avere un figlio terrorista. Erano gli anni Settanta, le Brigate Rosse avevano scelto la stra- da della clandestinità. Tanti giovani insospettabili scelse- ro la cosiddetta lotta armata. Padri e madri da un giorno all’altro vedevano sparire i figli. Mai avrebbero immagi-

nato la verità. In tanti mi venivano a parlare.

“ Ernesto, dove sarà andato mio fi- glio?”. Io soffrivo con loro. Capitava poi che la verità piombasse come un macigno nella vita tranquilla di queste persone. Ricordo una pove- ra mamma, famiglia bene che vive- va sulla collina torinese. Una mat- tina, ascoltando la radio, sentì di un’operazione antiterrorismo con diversi arresti. In prigione era finito anche il figlio. Momenti di dispera- zione. Quella donna non sapeva a chi rivolgersi. Il gesto fu istintivo: si preparò in fretta, prese la macchina e, sconvol- ta, andò in chiesa per avere conforto. Fu una doccia fred- da. C’era la messa e il celebrante dedicò tutta l’omelia a quella vicenda. “Che vergogna, un terrorista tra noi! È uno scandalo per il nostro paese!”. Quella donna svenne da- vanti a tutti. Non mise più piede in chiesa.

Qualche anno dopo ci conoscemmo all’Arsenale e, forse, proprio grazie ad un luogo ancora poco connotato come l’Arsenale della Pace, riuscì a comprendere che Dio non le aveva chiuso la porta. Quando penso a questa mamma capisco bene quando papa Francesco parla di una Chie- sa che sia luogo di non giudizio, ma luogo di riconciliazio- ne con Dio. Il suo sguardo profetico ha visto la sofferenza di tanta gente ed ha voluto che la Chiesa tornasse ad es- sere per tutti l’abbraccio di una madre.

Papa Francesco lancia così la Chiesa nelle sfide del tem- po che viviamo, nel mondo, con gli strumenti giusti per leggere le nuove sfide, i nuovi segni che vengono sempre dalle persone che si incontrano.

Il clima elettorale di queste settimane mi ha fatto soffermare su una riflessione del prof. Becchetti riguardo la scarsa capacità del PIL di offrire ai partiti di governo una fotografia attendibile sullo stato di benessere del Paese. Paragonando l’attuale tasso di crescita del PIL degli Stati Uniti (2.5%) con quello del 2009 (-2.7%) sembra che il partito democratico sia riuscito a tirare il Paese fuori dalla crisi. Eppure, i risultati elettorali mostrano un Paese sostanzialmente insoddisfatto. Caso ancora più emblematico è quello dell’Irlanda, in cui il partito di governo ha ottenuto il peggior risultato elettorale dal 2002, nonostante il tasso di crescita del PIL fosse del 6.6%.

Come ho più volte scritto in questa rubrica, la felicità e la soddisfazione di vita sono concetti complessi e il reddito, indicatore monodimensionale, fornisce solo una parziale rappresentazione del benessere dei cittadini. L’utilizzo di indicatori multidimensionali che tengano in considerazione altre importanti dimensioni di soddisfazione di vita sembrerebbe auspicabile, soprattutto per quei politici curiosi di conoscere l’esito delle prossime elezioni. Da qualche anno l’ISTAT ha implementato i BES (misure di Benessere Equo e Sostenibile). Si tratta di indicatori scelti attraverso un processo che ha coinvolto diversi attori sociali, politici ed economici e volti a misurare il benessere in 12 dimensioni: salute, istruzione, equilibrio lavoro- vita privata, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, patrimonio (culturale e naturale), ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi.

Le regioni italiane vincitrici, cioè più alte in classifica in termini di benessere multidimensionale (BES) rispetto alla loro posizione in termini di PIL, sono Friuli Venezia Giulia, Veneto, Marche e Toscana.

Al contrario, Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna, Liguria e Valle d’Aosta sono le regioni “perdenti”, cioè con bassi livelli di BES rispetto alla loro posizione in termini di PIL. Le dimensioni che aumentano il benessere nelle regioni vincitrici sono l’istruzione, le relazioni sociali, il patrimonio culturale e l’ambiente per il Friuli; sicurezza, ambiente e patrimonio per la Basilicata; equilibrio lavoro-vita privata, relazioni sociali, patrimonio, ambiente e qualità dei servizi per il Veneto. I cittadini delle regioni perdenti, invece, dichiarano bassi livelli di benessere in termini di salute, relazioni sociali, sicurezza e ambiente (Lazio);

salute, istruzione, politica e istituzioni, qualità dei servizi (Valle d’Aosta); relazioni sociali, patrimonio, ambiente, ricerca e innovazione (Liguria).

Queste differenze costituiscono un patrimonio informativo utile ad analizzare l’insoddisfazione dei cittadini rispetto ad alcune politiche, identificare dimensioni dove urge un miglioramento e captare, quindi, le possibili tendenze elettorali a livello locale e nazionale.

Giovani a casa

ernesto olivero

editoriale L’ISTAT implementa i BES

corrado avagnina

quartapagina

Il sogno di una Chiesa scalza

EcoFelicità

Pierluigi Conzo

Chi vive di misericordia sa che ogni forma di giudizio è come una condanna a morte. Lo sa perché conosce prima di tutto le proprie miserie, le proprie difficoltà.

Si sono cimentati in tanti a commentare il dato emerso da Eurostat sulla situazione in cui si troverebbero i giovani italiani (in età 18-34 anni), restando due su tre ancora in casa con papà e mamma. In- somma vivrebbe in famiglia il 67,3% di questa ampia fascia giovani- le, mentre in Francia ed in Gran Bretagna si attesterebbe – lo stes- so riscontro – al 34%, in Germania al 43%, in Europa mediamente al 47,9%. Facile fare battute disinvolte, al riguardo. Magari evocando il famoso termine accreditato solo ieri, cioè quello di “bamboccioni”. Ma – di getto – non ci si può aggrappare a stereotipi più o meno azzecca- ti. Intanto c’è pure da risalire a questo quadro familiare che frettolosa- mente si liquida come sconsolante. Infatti se si va a scavare negli altri dati, si hanno altre piccole-grandi sorprese. Tra i ragazzi che rimango- no a casa con mamma e papà, il 25% ha un lavoro a tempo indeter- minato ed a tempo pieno e si ferma al 20% il gruppo dei disoccupati.

E poi il 42% è rappresentato da figli che studiano ancora. Ma andia- mo oltre le percentuali, che alla lunga potrebbero annoiare, senza ri- lanciare spunti emblematici. In gioco ci sono persone, speranze, atte- se, mondi di umanità. La crisi incide, non si può negare. Ma c’è anche altro. È troppo parlare di un contesto culturale o sociale? Forse no.

Perché se non vanno demonizzati tout court i legami familiari che du- rano a lungo, sul terreno concreto della coabitazione, ci deve interro- gare sulla soglia ideale oltre la quale andare a vivere da soli o restare a condividere con i genitori spazi e momenti. Mantenere i contatti con papà e mamma non è di per sé un male. Se deresponsabilizza, se sa di comodo, se risente di pigrizia, se fa apparire come dei “profittatori”, certamente bisogna darsi una regolata. Ma forse è improprio genera- lizzare, senza scampo. Si deve ritornare a ragionare sull’assunto che ritorna spesso: “L’Italia non è Paese per giovani”. Infatti dal recente rapporto Caritas si evidenzia che cresce la povertà tra under 35 ed invece arretra tra gli over 65 anni. E poi ci sono 107mila nostri giovani che vanno a lavorare all’estero. Il chiaroscuro allora si propo- ne come la cifra predominante. Ed il raffronto di generazioni giovanili di ieri e dell’altro ieri, da chi aveva 18 anni nel ’68 a chi era chiamato a vent’anni sotto le armi per le guerre che hanno insanguinato il seco- lo scorso, ai papà venticinquenni ed alle mamme ventenni del passa- to neanche tanto lontano… può anche pungolare per capire se oggi si sta ritardando un po’ tutto, nei passaggi di consegne e nel ricam- bio ad assumersi responsabilità. Se le nostre famiglie sono più dispo- nibili a far largo ai giovani figli al loro interno, ospitandoli più a lungo, possono apparire anche un punto fermo per darsi una mano, per re- lazioni più calde e meno intransigenti, per un reticolo di sostegni che comunque rappresenta un modo altro di pensare le relazioni, anzi di abitare le relazioni. Il nodo cruciale e delicato riguarda invece il cam- mino verso la maturità delle nuove generazioni. Ci si sta preparan- do alla vita o ci si sta defilando? Si costruiscono responsabilità o ci si chiama fuori? Si guarda alla famiglia di origine come ad un paracadu- te o come ad un luogo vitale che sostiene nell’approntare una nuova famiglia in proprio? Si è zavorra o sanguisuga in casa da giovani che non si schiodano dalle pareti domestiche o si è protagonisti, coinvolti, creativi, disponibili anche restando all’ombra di papà e mamma? In- somma il tutto è più complesso di quanto lo si possa dipingere a pen- nellate che portano via il pezzo…

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Chi non ha paura della morte, alzi la mano. Be- ato lui o lei. Ma probabilmente la maggioranza delle persone non la alzerebbe. Eppure, c’è un modo per non avere timore del trapasso: essere fedeli a Dio. Parola di papa Francesco.

Ne parla nell’omelia del 22 novembre a Casa Santa Marta, mettendo in guardia dall’inganno dell’«alienazione» del vivere, cioè quello stile di vita scelto «come se mai si dovesse perire», esortando invece a pensare a quale «traccia lascia» la propria presenza sulla terra. La morte costringe a pensare a che cosa si lascia, a qual è la «traccia» del proprio cammino sulla terra.

Nell’Apocalisse san Giovanni ricorda che, dopo la fine dell’esistenza, ci sarà il giudizio. Per tutti.

Dunque, secondo papa Bergoglio «ci farà bene pensare: ma come sarà quel giorno in cui io sarò davanti a Gesù? Quando lui mi domanderà sui talenti che mi ha dato, che ne ho fatto; quando lui mi chiederà come è stato il mio cuore quando è caduto il seme, come un cammino o come le spine: quelle parabole del Regno di Dio. Come ho ricevuto la Parola? Con cuore aperto? L’ho fatta germogliare per il bene di tutti o di nascosto?».

Il papa esorta poi a non lasciarsi «ingannare».

Quale inganno intende? Il pontefice si riferisce al modo di vivere condotto «come se mai dovessi morire». Il pontefice non ha dimenticato che

«da bambino, quando andavo al catechismo ci insegnavano quattro cose: morte, giudizio, inferno o gloria. Dopo il giudizio c’è questa possibilità.

“Ma, padre, questo è per spaventarci…”. – “No, è la verità! Perché se tu non curi il cuore, perché il Signore sia con te e tu vivi allontanato dal Signore sempre, forse c’è il pericolo, il pericolo di continuare così allontanato per l’eternità dal Signore”». E questo è «bruttissimo!».

Ecco infine le considerazioni sulla paura del momento del trapasso. Francesco usa il consiglio dell’Apostolo Giovanni: «Sii fedele fino alla morte – dice il Signore – e ti darò la corona della vita». La fedeltà a Dio, evidenzia il papa, non «delude. Se ognuno di noi è fedele al Signore, quando verrà la morte, diremo come Francesco “sorella morte, vieni”… Non ci spaventa». E all’appuntamento col giudizio divino, si potrà guardare Dio e dire: «“Signore ho tanti peccati, ma ho cercato di essere fedele”. E il Signore è buono. Questo consiglio vi do: “Sii fedele fino alla morte – dice il Signore – e ti darò la corona della vita”».

I suoni del Natale. Cornamuse, sax, violini disseminano i giorni di ritrovate sensazioni. Lasciamoci immergere nel fiume carsico di percezioni rare. La corsa, qualunque essa sia, rallenta, gli spot imperversano, gli altoparlanti disseminano occasioni e distrazioni. Nelle ore più belle dell’anno, quando un bimbo nasce, povero tra i poveri c’è modo, forse, di ritrovare un frem di umanità. Facciamoci cullare dalle melodie d’un tempo, respiriamo le ore di una volta. L’attesa impregnata di desideri, i passi attutiti dalla neve ed induriti dal freddo, sono il terreno fertile per rivedere i tempi di quando non avevamo nulla. Ma eravamo felici per un mandarino, due noccioline, la serata con nonni e zii a snocciolare la vita in allegria. Prima della messa di mezzanotte, il suc ‘d Natal nel camino per prepararci un’accoglienza tenera, dopo.

Ora, certo, il mondo è cambiato. In peggio. Tecnologico, veloce, ag- guerrito, manageriale, ma spesso senz’anima. Ma perché? Perché sia- mo travolti dal rumore e dai rumori. «Se non faremo nulla, il silenzio rischia di sparire nei prossimi dieci anni». A lanciare l’allarme è l’ecologo ameri- cano Gordon Hempton, che da 35 anni percorre il mondo – microfono alla mano – lavorando in silenzio per cogliere le voci della vita, i suoni del bo- sco, delle foglie, del vento, dell’uomo, i suoni della vita.

Non cerca il silenzio assoluto. Non saprebbe che farsene lui e neppure noi. Ma vorrebbe tornare a sentire, nelle campagne, il latrare e i segnali dei cani, nelle città i rumori delle case, uditi e colti dalle strade, se le accelerate dei motori di moto e auto, le musichette dei supermercati, i tocchi metallici dei bancomat, delle banche, degli ascensori. E anche noi.

Il nostro orecchio percepisce umori distanti anche venti chilometri. Ma quando mai l’abbiamo capito? Per colpa della corsa, del deserto della crisi e i mille casini l’abbiamo dimenticato.

Perfino nel cuore della foresta amazzonica, a duemila chilometri dalla città più vicina, il rombo di un reattore ci raggiunge.

Ecco perché negli Stati Uniti c’è un santuario del silenzio, l’Olympic National Park nello stato di Washington: uno degli ultimi luoghi silenziosi della terra segnalato da una pietra rossa, dal 2005 su un tronco di muschio, che simboleggia i pochi centimetri quadrati di silenzio che lui lavora per proteggere.

Ascoltare la natura è un’esperienza spirituale. Quello che rischiamo di perdere nel mondo di oggi è la capacità di ascoltare veramente. Perché non tornare, per poco, ad essere cullati dal fruscio del vento tra le foglie, il cinguettio degli uccelli e il rombo della tempesta, i fiocchi di neve che scen- dono a terra.

Ci possiamo provare. Nei suoni di Natale c’è tutta la nostra vita: le parole non dette, i silenzi voluti, gli occhi abbassati. Nei silenzi del Natale ci siamo noi: con i nostri problemi, le tragedie, i drammi, le paure, gli inganni. Ci sono i nostri giorni, vissuti imbronciati, passati saltando da un’auto al tram, al bus, al treno. Con nello zainetto i nostri desideri spenti, i sogni infranti, le tensioni.

In fondo ad una capanna, avvolto in stracci (come i rifugiati di oggi), c’è un bimbo che è l’immagine dell’innocenza ma anche della fragilità umana, lui Dio, noi uomini. Perché in questi “giorni speciali” non lasciamo – per qualche ora al giorno – parlare soltanto lui. Lui sa tutto di noi. Lui può essere una scialuppa di salvataggio in questa società così complessa e difficile. Sentiamolo! Sta parlando. Sottovoce.

I suoni del Natale

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matteo spicuglia cose che capitano

La speranza che si fa strada nelle difficoltà, anche tra i danni dell’alluvione...

Una notte di novembre. Una come tante. Ma a Perosa Argentina, in Val Chisone, piove ormai da giorni, come in tante altre zone del Piemonte. C’è una donna sola in casa: 80 anni e una forza incredibile. Lei come altri non può immaginare quello che sta per vivere. Poco più a monte, alle spal- le della sua casa, la forza delle ac- que è incontrollabile: un diluvio che ingrossa i corsi d’acqua, penetra nel terreno, provoca frane. Nel cuore del- la notte, il cedimento più grave: le roc- ce si frantumano e sfiorano la casa, in piedi per miracolo. Se i massi si fer- mano in strada, non sarà così con l’acqua e il fango che sfondano por- te e finestre sorprendendo la signora.

Per lei iniziano ore da incubo: intrap- polata tra due armadi, con l’acqua al collo. Fuori, i soccorsi bloccati, i figli che temono il peggio, i vicini che co- minciano a darsi da fare.

La signora sarà messa in salvo, rico- verata, per poi riprendersi nell’arco di qualche giorno. Storia a lieto fine, ma i danni alla casa e a quella dei vicini sono enormi. Abitazioni di montagna completamente invase dal fango: tut- to da buttare, i ricordi di una vita finiti

nel nulla. Passano appena 48 ore, è domenica. Arriva il sole, l’allarme per il momento è passato, ma non la for- za che sorprende in situazioni come queste.

Sono le 8 del mattino. Nessuno li ha chiamati, nessuno ha chiesto nul- la. Hanno fatto tutto da soli. È basta- to il tam tam, il passaparola, la voglia di far: decine di giovani e adulti arri- vati da tutta la valle con stivali, van- ghe, attrezzi da lavoro. “Siamo qui per aiutarvi, diteci cosa fare!”. La fa- miglia della donna non si aspettava un gesto simile, ma ha accolto tut- to e tutti. “Mettiamoci a spalare”, l’u- nica risposta. La squadra si è messa così al lavoro. E in pochi minuti quella casa devastata è diventata l’opportu- nità di bene di tanti. Un brulicare con- tinuo, decine di mani, la fatica buona che fa costruire nonostante tutto. C’è un ragazzo giovanissimo. “Perché sei qui?”. “Sento che devo farlo, non c’è un motivo. Siamo stati colpiti tutti ed è giusto fare la nostra parte”.

Da lontano, lo guarda una signora sui 50 anni, anche lei volontaria di un paese vicino. “Sa, per noi è un do- vere. Siamo una valle forte e solida-

le. Quello che è successo riguarda tutti. Noi non siamo stati colpiti diret- tamente, ma chi ha perso tutto meri- ta la nostra solidarietà. Siamo qui a sporcarci le mani perché o ci rialzia- mo tutti insieme o rimaniamo tutti fer- mi”. La nuora e la nipote della don- na salvata ascoltano. Al lavoro anche loro, con gli occhi lucidi. Commosse.

“È meraviglioso vedere questa ca- tena di solidarietà, è una carezza in questi momenti difficili”. “La gioia oggi è sapere che la nonna è ancora viva e che potrà raccontare questa disav- ventura. Ma è ancora più bello vedere chi ci ha donato tempo e forza anche senza conoscerci. Non lo dimentiche- remo mai”.

Scene così nei giorni dell’alluvione si sono ripetute decine e decine di vol- te. In Val Chisone come a Moncalie- ri, a Torino, a Cuneo. A Borgo Vittoria, una frazione completamente allagata, la solidarietà tra vicini è scattata im- mediatamente. Chi ha avuto la casa distrutta è stato ospitato, chi ha avu- to la cantina allagata, è stato aiutato.

Tutti insieme si sono messi a spalare il fango dalle strade.

Così nella frazione di Tetti Piatti, tra le più colpite. Volontari e vicini hanno pulito case, strade, giardini. Si sono sostenuti a vicenda, senza alcuna dif- ferenza, senza rabbia, nello spirito di solidarietà che fa incontrare. Sempli- cemente. Storie così sono l’immagine migliore del nostro Paese, la speran- za che opera dietro l’odio sociale, le contrapposizioni violente, le polemi- che fini a se stesse. È un Paese che va avanti grazie a questa generosità nascosta che palpita, non si arrende, esiste davvero. Aspetta solo di essere vista, riscoperta, amata. Pronta a ren- derci migliori, più pacificati, con uno sguardo diverso sul futuro, sugli altri, su noi stessi.

Il volto migliore

domenico

agasso jr pontifex

gian mario ricciardi today Fedeli fino alla morte

GOTICO / NP

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NP dicembre 2016

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IL CUORE BIANCO

Ogni uomo è creato da Dio con un cuo- re totalmente bianco. Anche io, ma purtroppo sono nato e cresciuto in Af- ghanistan. Da quando sono nato, il Pa- ese ha vissuto l’esperienza della guerra civile e la violenza ha fatto sempre par- te della mia vita. Non posso dimenti- care. Quando ero piccolo, per strada i cadaveri erano ovunque. E noi bambini guardavamo la morte in faccia. È suc- cesso con i Mujaheddin, con i Talebani, in parte anche oggi. Io sono cresciuto respirando il fondamentalismo, creden- do in un Dio che non è il vero Dio. Le scuole coraniche insegnano quello che vogliono. Tu dovevi ascoltare i mullah oppure l’imam che dicevano cose as- surde come questa: “Se partecipi a u- na lapidazione, Dio ti riduce il peccato.

Se tu uccidi un infedele, hai il paradiso”.

Ci mettevano queste idee in testa. Ri- cordo che al tempo dei talebani in tutti gli stadi di calcio venivano organizza- ti questi spettacoli: tagliavano le mani ai ladri, lapidavano le donne, uccideva- no i condannati. E noi, tutti a vedere, a partecipare, perché credevamo che in questo modo saremmo diventati pu- ri. Per me non esisteva un altro mondo.

Anzi. Credevo che l’Occidente fosse il male. In quegli anni il mio cuore era di- ventato nero, ma un puntino bianco e- ra rimasto: la mia mamma, sottomessa

come tutte le donne, ma con piccoli ge- sti cercava di farmi capire che la violen- za non era la strada.

LA SVOLTA IN ITALIA

Sono arrivato in Italia nel 2005 a se- guito di mio padre nominato addetto militare dell’ambasciata. Il mio cam- biamento non è stato improvviso, ma è stato come un percorso attraverso i piccoli gesti. Cominciai a riflettere. Mi ricordo un giorno che avevo litigato con la mia famiglia. Ero per strada e piange- vo. Mi ferma una donna, una che in te- oria consideravo infedele: “Che cosa ti è successo? Tutto bene? Vieni che ti do dell’acqua!”. E io a chiedermi: “Ma per- ché questa infedele si preoccupa per me?”. Poi, nel 2006 sono entrato all’Ac- cademia militare di Modena. Erano le vacanze di Pasqua e un mio compagno di corso mi volle a tutti i costi ospitare a casa sua. Condivisi per la prima volta la vita di una famiglia italiana all’inizio con il terrore che mi volessero converti- re. Ricordo di essere stato accolto con un profondo rispetto. Ma la cosa che mi commosse fu un’altra. In quei giorni mi ammalai, avevo la febbre alta. Alle due e mezza, le tre del mattino, la mamma di questo amico entrò nella camera do- ve dormivo e mi toccò la fronte per sen- tire se avessi ancora la febbre. Quello era lo stesso gesto che mia mamma

faceva quando stavo male. Capii tut- to: quello era il punto bianco del cuore.

Da lì inizio il cammino che mi ha por- tato ad essere quello che sono. Dopo un attentato in patria in cui ho rischiato di morire, ho deciso di tornare in Italia, chiedendo asilo politico. Ho lasciato l’e- sercito e ho deciso che la mia vita può essere una testimonianza per gli altri.

LA LOTTA CON SE STESSI

Per cambiare, serve fatica. Devi lotta- re con te se stesso. Mi spiego. Io og- gi continuo ad essere musulmano, ma ho scoperto il vero Islam attraverso l’esempio del cristianesimo. Questo cosa vuol dire? Che la religione non è un ostacolo, ma un percorso di vita.

Quando la religione non è un percorso, diventa fondamentalismo. Per capirlo, ho combattuto una jihad, ma con me stesso. Lottare con se stessi è la fatica più grande. Per me ha significato sce- gliere di conoscere l’altro, il diverso co- me un bene. Devo ancora camminare, perché nessun uomo è perfetto, siamo tutti peccatori. Ma nel percorso della mia vita vorrei testimoniare al mondo che sono i piccoli gesti che ti cambiano e che il diverso non è un male. Immagi- nate un giardino pieno di alberi con gli stessi frutti. Che noia! Molto meglio un giardino pieno di alberi diversi. La bel- lezza è proprio in questa diversità!

2pagine a cura della redazione

È possibile... cambiare

Dal fondamentalismo alla pace: la testimonianza di Farhad Bitani, ospite dell’Università del Dialogo del Sermig.

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GOTICO / NP

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LA MIA SPERANZA

Con gli anni ho preso coscienza di ciò che nel passato non andava fatto e di questo mi sono pentito. Ma quando e- ro piccolo, non era colpa mia: vivevo in una società dove tutti facevano quel- le cose, quelle violenze. Io non augu- ro a nessuno di vivere il mio passato. È questo il motivo della mia sfida di oggi, di questa lotta che porto avanti. Voglio che nessuno cresca come sono cre- sciuto io. L’umanità che fa incontrare è l’unica strada…

GOTICO / NP

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di Edoardo Greppi*

Con la Carta dell’ONU, entrata in vi- gore il 24 ottobre 1945, gli Stati han- no accettato l’obbligo di astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza sia contro l’integrità territoriale o l’in- dipendenza politica di uno Stato sia

“in qualunque altra maniera incom- patibile con i fini delle Nazioni Uni- te”. Nel preambolo della Carta stes- sa si dichiaravano “decisi a salvare le future generazioni dal flagello del- la guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato in- dicibili afflizioni all’umanità”. Inoltre, gli Stati si obbligavano a dare “solu- zione pacifica” alle loro controversie, in modo da non mettere in pericolo quella pace e quella sicurezza inter- nazionali che dichiaravano di voler assicurare ai popoli.

Si trattava dell’assunzione – in un ac- cordo internazionale di ampio respiro – di un impegno solenne a sostitui- re la forza del diritto (fondata su trat- tati, che sono atti normativi vincolan- ti) al diritto della forza, che per secoli aveva condizionato le relazioni inter- nazionali. La guerra – fino a questo generale bando dell’uso della forza introdotto con l’istituzione dell’ONU e di un sistema di sicurezza colletti- va affidato al potere decisionale del Consiglio di sicurezza – era lecita nel diritto internazionale, e gli Stati po- tevano farvi ricorso senza limiti. Uno Stato poteva muovere guerra ad un altro senza la preoccupazione di do-

ver indicare su quali basi poggiasse la sua legittimazione. Da una guerra, poi, poteva scaturire un nuovo asset- to politico territoriale, del quale ci si limitava a prendere atto, alla luce del principio di effettività. Insomma, l’u- so della forza veniva considerato da- gli Stati una irrinunciabile prerogati- va della sovranità. Lo Stato sovrano aveva il diritto di ricorrere alla forza sia per tutelare un proprio diritto sia semplicemente per promuovere un proprio interesse, e il diritto interna- zionale non prevedeva limiti.

L’impegno a non usare la forza, nel- la Carta dell’ONU, è accompagnato dal riconoscimento di due eccezioni.

Lo Stato che abbia subito un attacco armato può reagire a titolo di legit- tima difesa, individuale o collettiva, che la Carta riconosce come “dirit- to naturale”. La forza, poi, è da con- siderarsi legittima se è il risultato di una decisione del Consiglio di sicu- rezza, nel quadro del sistema di si- curezza collettiva dell’ONU. Questa seconda eccezione è incentrata sulla volontà degli Stati, nel 1945, di dare vita a meccanismi che garantissero un uso legittimo della forza, affidato al potere decisionale di un organo (il Consiglio di sicurezza, appunto) che operasse come una sorta di direttorio della politica internazionale.

Purtroppo, l’abuso del diritto di veto da parte delle cinque potenze titolari di un seggio permanente in Consiglio

(Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Cina e Russia) ha impedito che l’or- gano di vertice funzionasse secondo le previsioni. Un direttorio funziona solo se i direttori sono d’accordo, e si dimostrano capaci di decidere insie- me (la Carta dell’ONU parla di “voto concorrente” dei cinque membri per- manenti).

Il conflitto armato in Siria offre una tragica prova dell’incapacità delle Nazioni Unite di gestire una cri- si drammatica. Da sei anni una si- tuazione che originariamente si pre- sentava come un problema di ordine pubblico, conseguente a rivolte po- polari e turbolenza interna, è pro- gressivamente degenerata in una guerra di tutti contro tutti, in un con- flitto che è al tempo stesso interno e internazionale. Diventata guerra ci- vile tra il feroce regime di Assad e

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L’ONU può ancora garantire la pace?

Gli operatori di pace non sono i pacifisti del “lasciar fare, lasciar andare”; non sono quelli che stanno alla finestra in attesa che altri, pagando di persona, risolvano le situazioni anche per loro. Lottare, per la causa giusta, al di sopra di ogni egoismo di individui e di gruppi. Ma lottare per amore e con amore. L’odio non è mai lecito all’uomo.

(padre Michele Pellegrino)

Il cuore del problema è l’ormai manifesta inca- pacità dell’ONU di ga- rantire la pace e la si- curezza internazionali, accompagnata dall’as- senza di alternative do- tate di adeguata legitti- mità.

Serve un diritto internazionale condiviso e rispettato da tutti.

un’opposizione fatta di una plurali- tà di milizie più o meno autonome, successivamente, a vario titolo e con diverse motivazioni e finalità, vede ormai coinvolti l’Iraq, la Russia, l’I- ran, la Turchia, l’Arabia Saudita e al- tri Paesi arabi, gli Stati Uniti, alcuni Paesi europei, in una escalation sen- za limiti. La guerra ha prodotto oltre 250.000 morti e milioni di profughi, alimentando la pressione migratoria sull’Africa e sull’Europa. Il cuore del problema è, dunque, l’ormai manife- sta incapacità dell’ONU di garantire la pace e la sicurezza internazionali, accompagnata dall’assenza di alter- native dotate di adeguata legittimità.

In altre parole, se l’unico soggetto le-

gittimato ad agire (il Consiglio di si- curezza) è paralizzato e non decide, l’ordinamento internazionale sem- bra incapace di offrire alternative. Gli Stati o le organizzazioni regionali, in- fatti, non possono legittimamente in- tervenire senza un mandato o alme- no un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Il Consiglio è un organo politico e, come tale, dotato di am- plissima discrezionalità.

Non ci sono, tuttavia, alternative a un ordine internazionale fondato sul di- ritto, nel quale la diplomazia pazien- temente persegua la ricerca dell’ac- cordo tra gli Stati. I mezzi diplomatici (negoziato, buoni uffici, mediazio- ne, conciliazione) e gli strumenti giu-

risdizionali (arbitrato e giurisdizioni internazionali) restano le uniche vie per comporre le controversie e risol- vere i conflitti.

La pace non sarà mai garantita se non da un diritto internazionale con- diviso e rispettato da tutti gli Stati.

*Università di Torino

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FOTO: MAX FERRERO - R.BUSETTINI / SYNC

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Nel nord-Africa dove si conserva- no le prime testimonianze di martiri per il Vangelo quali furono Cipriano, Felicita e Perpetua e molti altri so- no caduti, come seme nel solco della storia, i fratelli trappisti di Notre-Da- me de l’Atlas a Tibhirine. Sono ormai passati vent’anni. A Tibhirine si è ve- rificata la stessa cosa che avvenne a Charles de Foucauld esattamente un secolo fa. Si trattava di scegliere fra queste due soluzioni: essere pre- senti come un bastione occidentale che dura fino a quando le condizio- ni sono se non favorevoli almeno si- cure, oppure restare per assicurare una presenza di Vangelo che, in mo- do del tutto naturale, mette in conto non solo il rifiuto, ma pure il fatto di dover subire violenza. Il padre prio- re della comunità trappista dell’Atlas – p. Christian – aveva maturato la sua vocazione monastica proprio in Alge- ria come militare dove aveva vissuto una profonda amicizia con un musul- mano che rischiò la vita per salvare la sua. Quindi p. Christian era tornato in Algeria con questa semplice con- sapevolezza: “La mia vita la devo a questo musulmano, per cui come posso io mettere delle condizioni a dare la mia vita per questi fratel- li?”. Questa consapevolezza iniziale maturò e si amplificò fino alla deci- sione di restare nonostante tutto, co- sì come viene documentato dal suo testamento spirituale:

La mia vita non ha più valore di un’al- tra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’in- fanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sem- bra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quelli che potrebbero col- pirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fra- telli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi a- vesse colpito.

La comunità trappista di Tibhirine era una realtà normale di vita monastica con tutte le gioie e le fatiche di una qualsiasi comunità. Al cuore del com- battimento spirituale della esigente quotidianità monastica è maturata la disponibilità, condivisa infine da tutti i fratelli, di restare al proprio posto fi- no all’ultimo e di farlo insieme. L’ico- na monastica della preghiera corale che ritma la vita di ogni monastero, di giorno e di notte, è stata vissuta fe- delmente fino al rapimento e, ci piace pensare, fino alla morte. Si tratta cer- to di martirio, ma è un martirio senza

il consueto alone di eroismo. Il dono della vita fino al sangue è stato il frut- to della semplice stabilità nel mistero della vita scelta fino ad abbracciarne serenamente tutte le conseguenze.

Per i fratelli di Notre Dame de l’Atlas, la sfida è stata quella di accogliere la morte come l’ultimo sigillo di una vi- ta condivisa, in tutto e fino all’ultimo, nell’ordinarietà della vita dei propri vicini di casa. La loro è stata un’esi- stenza scelta e coltivata giorno dopo giorno, rifuggendo da ogni eroismo e da ogni sopravvalutazione di se stes- si e della propria testimonianza. Nel-

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RENATA BUSETTINI

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di MichaelDavide Semeraro*

Martiri senza carnefice

La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’inno- cenza dell’infanzia.

La testimonianza dei Trappisti di Tibhirine.

la morte dei monaci trappisti, se c’è il segno inconfondibile del dono totale di una vita fino alla morte, manca o- gni elemento di eroismo e, soprattut- to, di contrapposizione in particolare tra fedi ed etiche diverse.

Padre Christian e i suoi fratelli, dei quali ho avuto la gioia di conoscere frère Christophe e frère Paul perso- nalmente, sono stati vittime dell’in- granaggio di giochi di potere in cui l’aspetto religioso rischia di esse- re solo una comoda maschera die- tro alla quale si nascondono poteri e interessi talora insospettabili e in- sospettati. Eppure, proprio in questo modo, si è aperta la possibilità di un nuovo modello di martirio in cui l’ele- mento più forte non è quello dell’es- sere vittime, ma di essere testimoni capaci di seguire “l’Agnello dovunque va” (Ap 14, 4). Questo comporta la ca- pacità di accettare di contestualizza- re il proprio vissuto in ogni situazione particolare senza cedere a nessuna tentazione di straordinarietà. Entra-

re in un simile processo testimoniale significa accettare un coinvolgimen- to con la vita di tutti, rinunciando al crisma dell’eroismo elitario per sce- gliere quello della condivisione e del- la solidarietà.

Nell’intuizione di padre Christian, pri- ore di Tibhirine, così com’è attestato nel suo testamento troviamo una di- chiarazione di innocenza non per se stesso e i suoi fratelli, ma per la mano che lo avrebbe fatto morire, pensan- do di rendere onore a Dio. La via del martirio diventa così quella del- la disponibilità a dare la vita fino in fondo, accettando che l’altro non comprenda fino a calpestare il dono dell’amore unilaterale e assolutamen- te esposto persino all’incomprensio- ne. Alla luce di quello che viviamo ai nostri giorni, soprattutto nel confron- to talora così duro con alcune frange estremistiche, la testimonianza dei Trappisti di Tibhirine diventa profe- zia di un modo di vivere fino a mori- re senza fare troppo rumore e senza

guardarsi troppo allo specchio del- la storia. La loro esperienza diven- ta così anticipazione profetica di un modo di essere martiri nel post-cri- stianesimo e nel post-moderno più come spoliazione che come offerta da vittima che ha bisogno di dichia- rare qualcuno come carnefice. Tutti siamo interpellati e forse destabiliz- zati da questo modo nuovo di essere testimoni fino al sangue senza esse- re affatto sanguinolenti. La sfida è di essere amorevoli in ogni gesto e, per- sino, nel consenso ad una morte vio- lenta senza cedere a nessuna forma di aggressività, neppure quella di es- sere vittime da onorare.

*Monaco osb lavisitation.it

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“Nulla viene dalla violenza, e nulla mai verrà”. Una frase di Fragile, la canzo- ne con cui Sting ha aperto il concer- to del Bataclan a un anno dall’attacco terroristico “per ricordare le vittime e celebrare la vita e la musica”.

La violenza è in noi ed è esterna a noi. Genera a sua volta altra violen- za. Soffoca la pace, la speranza, l’in- contro per lasciare il passo all’odio, alla paura, alla sfiducia. La violenza estrema è uccidere. Ripercorrendo i primi anni della storia del Sermig tro- viamo un punto fermo: non bisogna più costruire le armi, perché “uccido- no cinque volte. La prima perché, per essere costruite, sottraggono cospi- cui investimenti destinati allo sviluppo, a edificare scuole, ospedali, case. La seconda perché, per essere proget- tate, sfruttano risorse intellettive gio- vanili che potrebbero essere investite per il bene, la vita, lo sviluppo. La ter- za perché, quando sparano, uccidono davvero. La quarta perché alimenta- no l’odio e preparano la vendetta. La quinta perché producono ferite, spes- so invisibili, che non si rimarginano più nei reduci”.

È di metà degli anni ‘70 il dossier del Sermig: Denunciamo la violenza per- ché vogliamo la pace. La pace è l’o- biettivo primario da perseguire. Tanti gli incontri, i dibattiti, i convegni orga- nizzati con quel titolo che hanno per- messo di raccogliere i contributi di persone del mondo politico, culturale, religioso a cui era stata chiesta una ri- flessione prendendo come spunto la parola di Isaia: “Spezzeranno la loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci” (Is 2,4), frase che era entrata con forza nella cultura del Sermig dopo che Giorgio La Pira l’a- veva suggerita a Ernesto Olivero co- me obiettivo necessario per costruire

la pace. Gli Arsenali del Sermig ne sono una traduzione e realizzazione pratica.

“Solo l’amore può sciogliere un cuo- re duro. Solo l’amore può rivoltare la violenza verso la non violenza. Solo l’amore può cambiare me stesso che sono la parte più dura da convertire in amore. L’amore fa tutto questo purché resti amore” (Ernesto Olivero).

“Radunate tutte le energie dell’amo- re per non essere vinti dall’odio, dal male… La non violenza potrà dun- que definirsi come le energie raccol- te dall’amore, nutrite dalla fede, dalla speranza, dalla carità… Soltanto un amore grande e umile che tutto spera, può sopportare la difficoltà, le oppo- sizioni, le diffamazioni senza ama- reggiarsi, senza rancore per il male”

(Bernard Haring, teologo, che aveva spe- rimentato la barbarie dei campi di concen- tramento).

A chi varca le soglie degli Arsenali del Sermig balza agli occhi un muro con la scritta: La bontà è disarmante, frase che ne richiama un’altra, caratteristi- ca del linguaggio del Sermig: “Essere buoni come un pezzo di pane che tutti possono mangiare”.

L’amore in atto che è nella vita quo- tidiana degli Arsenali diventa l’anti- doto alla violenza:

alla violenza della guerra e dei con- flitti: attraverso azioni di pace, che vanno dagli aiuti di emergenza a in- tavolare rapporti e relazioni che pos- sono svilupparsi in opere. Un esempio per tutti. L’aiuto in Giordania ai profu- ghi iracheni della Prima Guerra del Golfo è stata l’occasione che passo dopo passo ha portato a realizzare l’Arsenale dell’Incontro di Madaba;

alla violenza che provoca sottosvi- luppo in tante parti del mondo: la lotta alle cause e l’intervento pratico che si

traduce nella continua collaborazione per innescare e consolidare progetti di sviluppo e di formazione;

alla violenza che produce emargi- nazione, ghettizzazione, rifiuto: co- me noi, due parole che sintetizzano la risposta. Accoglienza, integrazio- ne, accompagnamento negli Arsenali si radicano nella convinzione che tutti gli uomini sono uguali, hanno gli stes- si diritti e doveri, devono essere mes- si nelle condizioni di poter esprimere il meglio di sé. Non buonismo ma il be- ne fatto bene;

alla violenza della miseria, della di- soccupazione, del bisogno: la resti- tuzione, il mettere a disposizione le proprie risorse materiali, spirituali, creative, intellettive per inventare oc- casioni che si evolvano in risposte che danno dignità. Basti pensare alle at- tività introdotte nel campo agricolo e nel riuso, di cui spesso scriviamo su queste pagine;

alla violenza della cultura dominante, del nichilismo: è possibile dire sì alla pace, alla vita… e no alla guerra, al- la droga… Il cammino per preparare gli appuntamenti dei mondiali dei gio- vani della pace, gli incontri dell’UDD, gli strumenti massmediali hanno l’o- biettivo di costruire tutti insieme un solo mondo nella pace per contribui- re a sconfiggere la fame, puntare sulla reciprocità, favorire il dialogo, non di- videre la società in compartimenti sta- gni, aprirsi ai problemi del mondo, farli propri, coinvolgersi in essi, perché la

di Guido Morganti

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Da Giorgio La Pira all’Arsenale della Pace

Solo l’amore può rivol- tare la violenza verso la non violenza... purché resti amore.

La non violenza come antidoto alla guerra, al sottosviluppo, all‘emarginazione.

pace non è divisibile: o tutti siamo in pace, o non ci sarà pace per il mon- do intero.

Nel volantino del quinto Appuntamen- to Mondiale dei Giovani della Pace a Padova il prossimo 13 maggio si leg- ge: “Un invito per te che hai capito che ogni rivoluzione violenta aggrava e non risolve il problema e che la vera rivoluzione è alzarti, scegliere, partire da te per iniziare a cambiare oggi le cose”. Questa è non violenza in atto!

Michele Pellegrino (arcivescovo di To-

rino nei primi anni di vita del Sermig) in una meditazione sulla non violenza ci aveva scritto: “Tutto ciò vi pare im- possibile? Vi pare assurdo? Allora di- te che è assurdo il vangelo quando vi racconta che, venti secoli or sono, a Betlemme, nell’umiltà e nella povertà è nato un Bambino, figlio di Maria e Figlio di Dio, per iniziare un cammino che doveva portarlo a finire su un pa- tibolo, E perché? Perché Dio-Amore fatto uomo amava, ha amato fino alla fine, mi ha amato e si è sacrificato per

me. Tutto questo vi pare assurdo? Ep- pure io ci credo perché Gesù l’ha det- to e l’ha fatto, sperando che ci crediate anche voi e vogliate prendere sul serio quello che credete”.

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A pochi giorni dall’inizio del nuovo Millennio, non più di 16 anni fa, mol- ti credettero effettivamente che per il Mondo sarebbe arrivato un lungo periodo di Pace per tutti gli uomini.

Dietro ci lasciavamo un secolo che seppur, come lo definì lo scrittore bri- tannico Eric Hobsbawn, era stato bre- ve, aveva lasciato una lunga scia di sangue innocente di milioni di civili ol- tre ad aver distrutto e raso al suolo città e paesi di molte parti del mondo.

Avevamo, ancora, la forza propulsiva dell’ottimismo nato dal dopoguerra, un sentimento che si infranse contro i vetri delle Torri Gemelle di New York in una assolata giornata di metà set- tembre.

Oggi negli occhi dei bambini imbian- cati dalla polvere delle macerie pro- vocate dalle bombe che ogni minuto, ora, giorno vengono lanciate sopra le città della Siria o sparate in Kurdistan, negli sguardi increduli di chi ha scam- pato la morte sopra le carrette che solcano il Mediterraneo, nelle lacrime delle donne e degli uomini che han- no vissuto il terrore dell’occupazione dell’ISIS va cercata la nostra anima, capace di compiere, come ci chiede- rà papa Francesco il primo giorno del nuovo anno, una scelta verso l’uma- nità: la non violenza come stile di una politica per la pace.

Una chiamata forte per tutti noi che apparteniamo al mondo del volonta- riato internazionale. Movimento che mosse i primi passi sicuri all’indo- mani del Concilio Vaticano II, e che volse il proprio sguardo verso quel mondo spesso all’epoca dimenticato, dopo l’epopea del colonialismo e del- le eroiche rivolte per l’indipendenza, dell’altro emisfero: il Sud del mondo.

Manifesto, se così può essere inteso, a cui si ispirarono e ancora oggi tro- vano le proprie ragioni, i tanti giovani

di età e di spirito e che li spinse a sce- gliere di scendere in campo recan- dosi nelle aree più remote del nostro pianeta, fu l’Enciclica di papa Paolo VI Populorum Progressio del 1967.

Un testo che offriva un’indicazione per delle prospettive di stabilità e di pace e, allo stesso tempo, segnava la speranza che si potessero risolve- re i problemi della povertà e della fa- me nel mondo a partire da un Sud del mondo ove, dopo il processo di deco- lonizzazione concluso, v’era un sen- so di delusione verso il miglioramento delle condizioni di vita mancato e la costatazione che il divario tra popola- zioni ricche e povere era aumentato e si allargava sempre di più.

Vi era in quei giovani la consapevo- lezza che per tutelare i deboli e i bisognosi non bastavano azioni di carità e benevolenza, ma occorre- vano interventi in grado di poter affer- mare i diritti dei più vulnerabili e dei progetti articolati capaci di innescare lo sviluppo e la crescita dei Paesi ad iniziare dalle persone e le comunità.

D’altro canto, le radici di questo mo- vimento trovavano origine nel pensie- ro della non violenza, nell’idea che il mondo necessitava non solo di limi- tare le armi proprie ed improprie, ma doveva essere capace di rifiutare l’o- dio, le derive xenofobe, il razzismo come sistema di classificazione uma- na poiché solo in tale maniera si pote- va ottenere una pace duratura.

Da allora migliaia di volontari sono partiti verso le periferie del mondo, con la certezza che si era i fanti di un esercito armato di professionalità e di cuore capace di costruire ponti tra i popoli grazie all’attuazione di azio- ni concrete volte allo sviluppo umano e di realizzare un ideale essere parte della costruzione di un mondo più giu- sto, più equo, più sostenibile per tutti.

La guerra, che coinvolge in questi ultimi anni milioni di esseri umani, è la causa principale della fame acuta e persistente. I Paesi con i più bas- si livelli di sicurezza alimentare so- no spesso coinvolti in conflitti armati o ne sono recentemente usciti, e rap- presentano una delle principali cause che spingono le popolazioni alla fuga.

Più in generale, le cause dei conflitti odierni vanno ricercati nell’egemonia del denaro e della finanza sulla politi- ca mondiale; nelle tensioni sociali che hanno assunto una dimensione pla- netaria; nel sistema economico che ha realizzato la crescita economica, ma non ha assicurato la ripartizione equa dei benefici; nel debito dei Paesi più poveri nei confronti di quelli ricchi.

Stando agli ultimi dati dell’UNHCR si è determinata una nuova nazione composta da 60 milioni di rifugiati e sfollati in cerca di una casa, un lavo- ro, un futuro certo, mentre sono in ba- lia delle scelte politiche dei Paesi che li dovrebbero accogliere. A questa si- tuazione, nonostante gli sforzi di tan- ti nel portare accoglienza, sostegno e solidarietà, non si trovano soluzioni che incidano sulle cause del fenome- no che, soprattutto, possano salva- guardare la dignità e l’umanità di chi ne è coinvolto.

È a questi uomini e donne che rivol- ge lo sguardo la campagna Humanity – Essere umani con gli esseri umani di FOCSIV – Volontari nel mondo, per

di Gianfranco Cattai*

Stando agli ultimi dati dell’UNHCR è nata una nuova nazione compo- sta da 60 milioni di rifu- giati e sfollati in cerca di casa, lavoro, futuro.

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Humanity

Essere umani con gli esseri umani.

Il FOCSIV – volontari nel mondo per il Medio Oriente.

sostenere le popolazioni del Medio O- riente che oggi sono protagonisti, loro malgrado, di una guerra senza esclu- sione di colpi oppure vivono sotto la pressione del continuo flusso di per- sone in cerca di un luogo dove poter vivere in modo dignitoso in attesa del- la Pace e di tornare a casa.

Humanity sta a segnalarci che stia- mo perdendo il senso dell’umanità, la nostra capacità di sentirci fratelli. Un sentimento che ha una connotazione non solo religiosa, ma è la naturale presa di coscienza che nessun uo- mo è sconnesso ed avulso dagli altri.

Tutti sono chiamati a soffermarsi sul- le condizioni ed il destino di chi inve- ce ha perso tutto, a comprendere che bisogna riscoprire l’accoglienza come valore che nessun muro può ferma- re, ad interrogarci su cosa proverem- mo se ci trovassimo con i nostri figli nelle medesime condizioni. Questa

disumanizzazione è frutto della vio- lenza, come ci indica papa Francesco e come ci dimostrerà nella Giornata Mondiale della Pace il prossimo gen- naio, che va combattuta con una po- litica volta alla non violenza altrimenti avremo gravissime e negative con- seguenze generate in quella che ha definito la “Terza guerra mondiale a pezzi”.

La questione dello sviluppo dei popoli, prioritaria ed urgente più che mai, deve trovare fondamento in un metodo politico fondato sul primato del diritto e l’uguale digni- tà di ogni essere umano senza di- scriminazioni e distinzioni. Questa è la strada realistica da intraprendere per superare e sradicare i conflitti ar- mati. Un cammino di speranza in gra- do di risolvere le controversie con il negoziato, di superare il concetto del- la superiorità di una cultura su un’al-

tra con il rispetto dell’identità e delle tradizioni dei popoli, di riconoscere la diplomazia come unico strumento per far cessare il fragore delle armi.

Papa Francesco troverà ancora al suo fianco l’esercito pacifico e non-vio- lento del volontariato internazionale, da sempre antidoto a individualismo, competizione, egoismo, isolamento e generatore dell’insieme di relazioni, valori, comportamenti, conoscenze e attività che possono portare ad un fu- turo sostenibile e possibile per tutti.

*Presidente FOCSIV

RENATA BUSETTINI

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La non violenza è stata ed è una linea socio-politica fondamentale che il no- stro mensile ha cercato di disegnare sin dai suoi inizi. Dizionario, note, per- sonaggi della non violenza sono sta- te rubriche di approfondimento oltre a tanti articoli a cui Giorgio Ceragioli ha dato un contributo determinante. Alcu- ne sue riflessioni ci aiutano a ripercor- rere un cammino che ha ancora molto da comunicare.

“La non violenza è la strada obbliga- ta per il mondo, per le nazioni, per le città, per le famiglie, per ogni persona umana. Se vogliamo vivere da uomini dobbiamo essere non violenti.

La sconfitta delle violenze passa attra- verso proposte di alternative costrutti- ve. La non violenza politica aveva dato nel 1948 la prima grande liberazione dal dominio coloniale (quella dell’In- dia), con meno morti di quelli che ci sono in una giornata sulle autostrade del mondo.

Il contributo di Gandhi più significativo è la socializzazione e la politicizzazio- ne della non violenza, a livello di mas- se e non solo di piccoli o grandi gruppi o di singoli individui. L’ha teorizzata e applicata in modo grandissimo come strumento di lotta politica, di liberazio- ne delle nazioni, delle persone.

È questo il fatto più entusiasmante della non violenza: di non essere in mano a pochi. Per sua natura chie- de il contributo e l’inventiva di tutti, e l’impegno che propone può essere at- tuato, come dice Gandhi, da storpi e zoppi, da scienziati e gente modesta, da poveri e ricchi, da donne e uomi- ni, da fanciulli, giovani, adulti, vecchi, senza distinzione.

Non violenza è decentramento, par-

tecipazione, semplicità, anti-consumi- smo, giustizia, egualitarismo, servizio agli altri e tutto quello che serve per costruire una società con strutture d’amore, che si fonda sulle persone e ne rispetta la libertà, le idee, le aspira- zioni. Non violenza è necessariamen- te utopia (come utopia è la meta della perfezione), perché l’uomo non vive e non costruisce senza utopia: al mas- simo vegeta o si distrugge. Ma è uto- pia costruttrice e vitale che modifica la società nel profondo delle persone e alla superficie delle strutture.

A fianco del pensiero di Gandhi il cri- stianesimo è una sorgente in cui si possono cercare il perché e i mezzi della non violenza. La non violenza gandhiana e quella cristiana si fon- dano sul credere nell’Amore come la sorgente e regola della società.

Gandhi ricorda come solo la gente che ha molto coraggio può essere veramente non violenta, ma dice an- che che la non violenza è lo strumento di liberazione dei poveri, è il loro stru- mento più efficace di lotta. Perché di lotta si parla se si parla di non violen- za: lotta contro lo sfruttamento per l’e- guaglianza, contro l’oppressione per strutture d’amore. Perché di amore si parla se si parla di non violenza.

La non violenza ci dice qualcosa an- che sulla violenza della natura. Per- ché la violenza è nella natura: è nei

suoi terremoti, nelle sue inondazioni;

nel pescecane e nel leone che sono costretti dalla loro natura a uccidere per sopravvivere; è nella limitazione propria di ogni essere umano che non raggiunge mai la perfezione per il so- lo fatto di essere creatura. Da questo punto di vista la non violenza è il ten- tare di guidare la natura che ci circon- da, il tentare di superarla affinché la sua violenza sia incanalata, usata, a volte sottomessa.

Ma perché sottomettere la violenza della natura? Per il rispetto dell’uomo;

perché egli possa svolgere il suo com- pito di continuatore dell’opera creatri- ce di Dio, di fonte di amore. La non violenza è, allora, favorevole al cam- biamento dell’equilibrio ecologico, per renderlo adatto a meglio rispettare l’uomo, come è favorevole alla con- servazione della parte di caratteristi- che di quell’equilibrio che siano utili a quel rispetto. Non violenza non è perciò ecologia statica ma dinamica, sempre confrontata con la realtà, con l’uomo, con il perché del mondo e del- la vita, con l’esigenza di vivere la pace e costruire con la pace.

La violenza delle armi può avere u- na risposta dalla non violenza? Nel- la prospettiva non violenta disarmo vuol dire rinuncia a difendere la pro- pria libertà, cultura, famiglia? Certa- mente no: vuol dire trovare strumenti che rispettino anche l’aggressore a partire dal suo diritto primario (vive- re), ma che siano altrettanto e più ef- ficaci degli strumenti violenti (le armi).

È questa un’utopia ingenua o anche pericolosa? L’impegno è centrato nel coinvolgere realmente le singole per- sone (e non nel giocare su margini politici o economici), nel creare una

a cura della redazione

L’uomo non vive e non costruisce senza uto- pia. Al massimo vegeta

o distrugge.

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19 18 La luce annulla il buio

Una speranza per tutti

cultura di non violenza (contro lo sfrut- tamento e la cupidigia, contro lo spre- co a favore della piena occupazione) in cui il disarmo sia la logica conse- guenza e la difesa popolare non vio- lenta lo strumento.

Per cercare di esemplificare, que- sto impegno potrà consistere in una condivisione dei beni economici; in una partecipazione attiva alla gestio- ne e all’orientamento politico della so- cietà; in gesti continuativi di rifiuto di consumismo, sprechi...; in una ricer- ca di evitare e superare la litigiosità quotidiana nei rapporti di famiglia, di lavoro...; in una cultura della disponibi- lità ai bisogni degli altri; in un recipro- co accettarsi malgrado le differenze;

nel condividere il potere, che co- munque deve essere servizio; nel- la ricerca di fatti non violenti precisi, come la partecipazione alla protezio- ne civile in occasione di calamità; nel cercare una vita a misura d’uomo do- ve si vive, muovendosi verso la reci- proca conoscenza, creando momenti di aggregazione, fornendo e accettan- do sostegni sociali in momenti difficili o famigliari.

In ogni caso è indispensabile l’impe- gno verso il Terzo mondo, perché pre- suppone il rispetto dell’uomo: rispetto della sua cultura, ma anche e ancor più delle sue potenzialità, del suo di- venire, del suo apporto alla società mondiale, dell’essere compartecipe

al grande disegno della creazione e dell’espansione cosciente e respon- sabile della vita cosciente. Il disegno e il progetto della non violenza è più grande anche del disegno e del pro- getto della pace: perché è il disegno dell’amore, in cui l’esperienza umana viene ricapitolata”.

RENATA BUSETTINI

La non violenza come scelta umana e politica nel pensiero di Giorgio Ceragioli.

A fianco del pensiero di Gandhi il cristianesimo è una sorgente in cui si possono cercare il per- ché e i mezzi della non

violenza.

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NPZOOM FOTO MAX FERRERO E RENATA BUSETTINI

LE CORDE DELLA SPERANZA

L’Arsenale della Speranza accoglie da vent’anni persone. Solo, si fa per dire, persone.

Uomini che arrivano ognuno da una storia difficile a cui ognuno ha risposto come ha potuto, secondo le corde che poteva suonare, per molti, molte poche corde, molti pochi suoni, pochi colori da giocarsi, pochi spazi comodi. Allora, quelli identificati la maggior parte delle volte come ladri, assassini, truffatori, “marginali” (quelli che vivono ai margini lambendo quelli che sono dentro) o semplicemente nullafacenti, varcata la porta dell’Arsenale, diventano persone, persone che non vogliono perdersi nessu- na corda, nessun colore, nessuno spazio per crescere, anche se soltanto per qualche giorno. Dare vuol dire amare, amare vuol dire riconoscere che ognuno merita il rispet- to. Per molti la felicità o la non felicità è sul confine dal dentro al fuori: fuori sono una persona senza, dentro sono una persona con. Cosa preferisco, cosa rispetto? In queste foto possiamo anche noi entrare virtualmente nella “casa” Arsenale, respirare l’aria che è offerta a chiunque e sentirci, allo stesso modo di chi vi è accolto, con più corde, con più colori, con più spazi da portare fuori, fuori di noi, fuori dalle nostre case.

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testo di Lorenzo Nacheli

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