• Non ci sono risultati.

I principi guida della riforma assistenziale e previdenziale operata dalla Legge n. 353 del 1992 di Gaetano Schiavone

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "I principi guida della riforma assistenziale e previdenziale operata dalla Legge n. 353 del 1992 di Gaetano Schiavone"

Copied!
7
0
0

Testo completo

(1)

I principi guida della riforma assistenziale e previdenziale operata dalla Legge n. 353 del 1992

di

Gaetano Schiavone*

La recente ed ormai famosa riforma delle pensioni (L. 8 ago. 1995, n. 335), non poteva non affiancare alla disciplina dei trattamenti pensionistici, conseguenti al raggiungimento da parte del lavoratore di una certa anzianità contributiva e/o età anagrafica, altresì quella destinata ai trattamenti previsti per l’ipotesi in cui una forma di insufficienza soggettiva (fisiopsichica) si traduca in inabilità od invalidità al lavoro.

Per vero, all’organicità e vastità della disciplina dettata sia per la riforma del trattamento obbligatorio che per l’introduzione della c.d. previdenza complementare non ha fatto riscontro un altrettanto puntuale ed analitica normativa in materia di invalidità ed inabilità.

Per meglio dire, però, il legislatore, in merito a quest’ultimo punto, ha preferito piuttosto la via della decretazione delegata che non quella della normazione diretta ed infatti, con la stessa L. n. 335 ha fissato i criteri direttivi, i termini temporali e finalità a cui il Governo dovrà attenersi nell’emanare di decreti delegati di attuazione.

Lo scopo ultimo della normativa, come si è avuto modo di apprendere dal vivace dibattito che ne ha accompagnato l’approvazione, è quello di omogeneizzare i trattamenti pensionistici sia pubblici che privati, ispirandoli tutti alla filosofia di fondo contributiva che viene a soppiantare quella precedente, di natura retributiva, sia pure gradatamente e dopo una fase transitoria, riservata a chi già avesse un rapporto assicurativo in corso. Anche il calcolo dell’assegno d’invalidità e della pensione d’inabilità, dunque, andrà commisurato al sistema contributivo secondo il meccanismo previsto dai commi 14 e 15 dell’art. 1, L. n. 335.

Entro il 26 ago. 1996 (un anno dall’entrata in vigore della L. n. 335/1995) il Governo dovrà emendare uno o più decreti delegati diretti a riordinare il sistema delle prestazioni previdenziali ed assistenziali di invalidità ed inabilità (art. 3, com. 3).

Ed in effetti, la principale preoccupazione sulla materia del legislatore delegante pare essere quella di riordinare la congerie di norme che è venuta a formarsi nel corso degli anni, spesso accatastandosi semplicemente, senza che, volta a volta, ci si sia preoccupati della coesistenza, a volte contrastante, di discipline dettate da contingenze, ovvero ispirate ad interessi disomogenei e, comunque, non rispondenti ad un più generale e chiaro programma previdenziale ed assistenziale. A dire il vero, tale mancanza di linearità non deve stupire più di tanto poiché su questo terreno si gioca la partita più aspra e, per alcuni versi, insidiosa che gli stati moderni sono oggi costretti ad affrontare: la nuova fisionomia del welfare state o, addirittura, della sua stessa ragione d’esistere.

La riforma, come detto, ha il pregio, quanto meno, di aver operato un’opzione di fondo per il sistema contributivo, in luogo di quello retributivo, sicché facilitata appare l’opera di razionalizzazione che il Governo si appresta a compiere. L’art. 3, com. 21, infatti, attribuisce al potere esecutivo la facoltà di emanare norme con le quali, anche nel campo dell’invalidità, si stabiliscano modifiche, correzioni, ampliamenti e, ove occorra, soppressioni di norme vigenti riordinandole, coordinandole e riunendole in un solo provvedimento legislativo.

E’ questa, sostanzialmente la tanto auspicata via del riordino per Testi Unici, raccogliendo in un corpus finalmente armonico disposizioni contraddittorie se non, addirittura, ignorate. Ed il descritto tentativo appare maggiormente munito di solidità, se si pensa che il legislatore ha altresì previsto la possibilità che il potere legislativo delegato, il Governo lo possa esercitare anche per intervenire sulle norme dal medesimo poste in attuazione della delega. E’ stabilito (art. 3, com. 21), infatti, che, entro

* Magistrato, Pisa

(2)

un anno dall’emanazione dei decreti delegati potranno essere dettate dal Governo ulteriori disposizioni correttive dei medesimi.

Sia pur sommessamente (“valutare l’opportunità di ...”), il legislatore non ha perso l’occasione di porre all’ordine del giorno della discussione sulla materia, l’annoso problema della molteplicità dei centri istituzionali deputati alla tutela del lavoratore nel momento del bisogno, armonizzandone il trattamento con quanto peraltro previsto per tutti i cittadini, lavoratori e non, sotto il profilo della sicurezza sociale.

Risulta essere, infatti, impegno del Governo verificare, dopo due anni dall’entrata in vigore dei decreti delegati, di cui all’art. 3, com. 3, l’opportunità di pervenire alla individuazione di un’unica istituzione competente per l’accertamento delle condizioni d’invalidità civile, di lavoro e di servizio (art. 3, com. 3, ult. parte).

Un mutamento profondo del sistema in materia di tutela delle invalidità è disegnato, però, nel terzo comma dell’art. 3 della legge n. 335.

In detto articolo, è previsto: il potenziamento del sistema di controlli, anche meglio definendo i rapporti fra le diverse competenze, un intervento graduale nel settore, tenendo presente la graduatoria degli interessi protetti, alla luce delle norme sulla cumulabilità ed incompatibilità delle prestazioni; l’armonizzazione delle procedure d’erogazione e revisione delle prestazioni, anche se - probabilmente in risposta ad un’esigenza di maggiore celerità, dettata dal rilievo pratico che gran parte del contenzioso si riduce a mera apparenza, una volta accertata l’esistenza dei requisiti medico/legali- è stato ribadito che in materia d’invalidità civile, cecità e sordomutismo, va tenuto distinto il momento dell’accertamento sanitario da quello della concessione dei benefici economici.

La vera rivoluzione copernicana del sistema è descritta, però, nella lett. ‘a’ del richiamato terzo comma dell’art. 3 ove si legge la necessaria armonizzazione dei requisiti medico/sanitari e dei relativi criteri di riconoscimento con riferimento alla definizione di persona handicappata introdotta dalla L.

5 feb. 1992 n. 104.

Pare di poter arguire, in sintesi, che il perno dell’accertamento delle cause e modalità di manifestazione delle invalidità ed inabilità deve costantemente porsi intorno ad un figura unitaria di soggetto, la cui menomazione rileva per la società in quanto tale e non perchè portata da un lavoratore e, quindi, incidente sia pure indirettamente, sul processo produttivo.

Sarà compito, indubbiamente arduo, del legislatore delegato fornire tali criteri di armonizzazione, quel che è certo, però, è che esso dovrà attenersi alle stesse finalità già esplicitate nella c.d. legge sull’handicap (L. n. 104/1992).

Detto in sintesi, armonizzare dei requisiti sanitari ed i relativi criteri di riconoscimento, sta a significare, quanto meno, la necessità, non solo d’eliminare le potenziali ragioni di contrasto, quanto prefigurarne la struttura in maniera tale che la loro applicazione si esplichi sull’unico oggetto che è la persona handicappata.

Vero è che armonizzazione è concetto diverso da assimilazione, poiché con quest’ultima attività si estendono criteri e metodi dettati per uno scopo ad un altro ma è pur vero che armonizzare richiama l’unicità, almeno tendenziale, degli scopi. Ed in effetti, è la stessa norma (art. 3, com. 3, parte I) che finalizza la descritta armonia al riordino del sistema delle prestazioni previdenziali ed assistenziali di invalidità e inabilità, prevedendo esplicitamente, come ulteriore passo, il pervenire all’individuazione di un’unica istituzione competente per l’accertamento delle condizioni d’invalidità civile, di lavoro o di servizio (art. 3, com. 3, ult. parte).

La decretazione delegata che consentirà la determinazione dei requisiti d’invalidità ed inabilità, dunque, dovrà avere costantemente di mira la definizione di persona handicappata, come coniata dalla L. n. 104/1992. E’ questa la prima legge con cui, superando le episodicità tipiche dell’intervento italiano nel settore dell’handicap, si tende a dare inquadramento globale alla persona portatrice di handicap e agli interventi predisposti in suo favore, allo scopo di attuare il disegno egalitario contenuto nella costituzione (art. 3 Cost.).

(3)

Partendo dalla innegabilmente vera constatazione che l’handicap - forse come nessuna altra forma di svantaggio - è fonte di limitazione se non d’esclusione di alcuni cittadini dalla vita aggregata, sia sociale che familiare, il legislatore ha previsto una serie di garanzie, di piani di recupero e la predisposizione d’interventi volti allo scopo di promuovere l’inserimento pieno del handicappato nella struttura d’appartenenza, preoccupandosi di procurargli quanta più autonomia funzionale e gestionale sia possibile.

Successivamente alla citata L. n. 104/1992 (art. 3 cit.), può definirsi persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale che sia causa di difficoltà di apprendere, di porsi in relazione con gli altri o anche d’inserimento nel mondo del lavoro. la minorazione non è considerata tale se presenta il carattere della transeuntività, dovendosi trattare di patologia stabilizzata o progressiva.

Appare, invece, disposizione tautologica quella -sempre prevista nel cit. art. 3, com. 1- che richiede che la detta minorazione, oltre alle ora viste caratteristiche, debba possedere, altresì, il requisito d’essere stata causa di un processo di svantaggio sociale o di emarginazione. Ed in effetti, accertata la presenza della minorazione e del fatto che sia stata causa delle viste difficoltà, pare implicito nel non superamento di quest’ultime la conseguenza che la persona sia stata vittima di un processo di svantaggio sociale e di emarginazione. Così come può considerarsi compreso nell’accertamento del detto processo e del suo nesso di causalità con la minorazione denunciata, altresì quello che alla base dell’emarginazione si collochi la difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa.

Disegno della legge in esame è certamente quello di porre al centro di tutte le valutazioni, funzionali alla predisposizione delle misure d’intervento pubblico, la capacità complessiva individuale residua, il cui sostegno è visto come strumento indispensabile per promuovere quanta più autonomia sia possibile nel soggetto, al fine di realizzarne l’integrazione sociale (art. 5).

Muta, dunque, anche la prospettiva con cui si guarda agli interventi in favore dell’handicap. Non più indiscriminati contributi di carattere finanziario, bensì servizi di aiuto e sostegno, personale e familiare (art. 5, lett. h), eventualmente integrati, per periodi limitati e nei casi strettamente necessari, dal sussidio economico. Viene operata, infine, una netta graduazione dell’handicap a seconda che la menomazione abbia o meno ridotto l’autonomia personale, in relazione all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente e continuativo, qualificando quest’ultime come situazioni connotate da gravità ed abbisognevoli, quindi, di priorità negli interventi (art. 3, com. 3, cit.).

L’accertamento della capacità residua è demandato alle Commissioni mediche attivate presso le USL (L. n. 295/1990), sia pure opportunamente integrate (art. 4 cit.).

Alquanto riduttivamente la legge parla di mero riordino del sistema previdenziale ed assistenziale riferendosi all’operazione di armonizzazione sopra descritta. In effetti, è consentito ritenere che si tratti di qualcosa di più, rispetto ad un semplice mettere ordine, poiché questa è operazione diretta a conferire sistematicità a dati e cognizioni già acquisite, mentre, nella fattispecie in esame, si tratta di una vera e propria riscrittura del sistema, la quale pone le basi della propria architettura sull’unitario concetto di persona handicappata, essendo quest’ultima ad essere posta al centro di un sistema verso il quale converge una raggiera fatta: dall’armonizzazione dei requisiti medico/sanitari e dei relativi criteri di riconoscimento; dalla previsione prospettica di un’unica autorità competente per l’accertamento delle condizioni d’invalidità civile, di lavoro o di servizio, nonché dal criterio di unicità di trattamento derivante dal medesimo evento lesivo.

A tale ultimo proposito, prevede il com. 43 dell’art. 1 L. n. 335 cit. la non cumulabilità fra la rendita vitalizia (liquidata dall’INAIL in conseguenza di un infortunio o malattia professionale) e la pensione d’inabilità - anche quando reversibile - o l’assegno d’invalidità (liquidati dall’INPS), qualora derivino da un unico evento invalidante. Il divieto di cumulo viene esteso fino al limite della rendita stessa, anche se vengono fatti salvi i trattamenti di maggior favore intanto in godimento all’entrata in vigore della legge in commento.

(4)

Indubbiamente una limitazione siffatta potrebbe indurre a ritenere che la riforma sia destinata a portare ad un impoverimento immediato delle fasce più deboli della società ma tale timore potrà risultare fondato solo se ed in quanto dovesse incepparsi il meccanismo di ausilio della persona handicappata, troppo fugacemente sopra accennato. In sintesi, la filosofia che regge l’intervento legislativo, sia pure nell’ottica generale del contenimento della spesa pubblica, si dirige nel segno della qualificazione della stessa, sostituendo l’erogazione di servizi, di cui si auspica la razionalizzazione, a quella finanziaria, dichiaratamente integrativa di un reddito riconosciuto implicitamente insoddisfacente.

Lo sforzo di tentare un approccio diverso al problema della persona inabile od invalida, del suo inserimento sociale, della valorizzazione delle sue residue capacità, è sufficientemente palese in una normativa, come quella in esame che viene ad inserirsi in un contesto legislativo totalmente differente e frutto di stratificazioni decennali, dettate a volta da impellenti contingenze finanziarie, molto più spesso, invece, dal malcelato scopo di costituire sacche di clientela sociale attraverso le quali mantenere il consenso, quanto meno verso una politica che, della concorrenza fra assistenze, discriminate per ceti e gruppi, ha fatto lo strumento della propria perpetuazione.

Andare alla ricerca di un disegno strategico di fondo che - al di là di quanto ora detto - tenti una lettura sistematica dell’enorme massa di normazione prodotta sulla materia è operazione improba, quando non inutile. Comunque, criterio di massima può essere considerato il riferimento alla sussistenza o meno di una relazione con le attività lavorative. Nell’ipotesi, infatti, in cui per cause connesse con il lavoro, ovvero che, sebbene estranee a quel nesso di causalità, siano venute egualmente ad incidere sulla capacità di fornire la prestazione lavorativa in atto, si avranno interventi assicurativi (effettuati dall’INAIL), nel primo caso e previdenziali (fornite dall’INPS), nel secondo.

Residua all’ipotesi di assenza totale di qualsiasi capacità lavorativa, invece, l’intervento di carattere assistenziale, attualmente erogato dal Ministero dell’Interno (ma previa l’accertamento di cui al d.p.r. n. 698/1994).

Secondo le grossissime linee necessarie allo scopo ora qui perseguito, si può dire che sul versante dell’assistenza -e prescindendo dalle categorie particolarmente protette (es. ciechi, muti, grandi invalidi di guerra)- si collocano prestazioni corrisposte a favore di soggetti in età lavorativa che, sul piano squisitamente medico/sanitario, presuppongono l’accertamento di una forte diminuzione (almeno del 74%, a tale percentuale recentemente elevata dall’originario 67%), ovvero una esclusione totale della capacità lavorativa, ovvero, ancora, ed allo scopo del riconoscimento del diritto all’indennità d’accompagnamento, l’incapacità di attendere agli atti quotidiani della vita. Tale accertamento avviene attraverso l’utilizzazione di un sistema tabellare che pone alla propria base la c.d. capacità lavorativa generica, la cui applicazione avviene oggettivamente, cioè sulla base della sola patologia valutata senza alcun nesso con l’eventuale precorsa individuale storia lavorativa.

Affidata alla cure dell’INPS risulta, invece, essere la previdenza, cioè quell’insieme di istituti disciplinati da norme che sopperiscono al momento del bisogno del lavoratore, di persona, quindi, che abbia instaurato un rapporto lavorativo per un minimo periodo di tempo stabilito dalla legge.

A decorrere dal 1 ago. 1984, la legge 12 giu. 1984, n. 222 prevede l’assegno d’invalidità e la pensione d’inabilità, quest’ultima reversibile, a differenza della prima provvidenza. Da questa data, dunque, si pone il confine fra due diversi modi di disciplinare la previdenza sociale: quello attuale e quello precedente, che si basava sulla vecchia pensione d’invalidità. Il discrimine fondamentale fra le due discipline è che quella abrogata faceva perno sul concetto di riduzione della capacità di guadagno, mentre quella attuale sulla diversa riduzione della capacità lavorativa. Qualora questa sia ridotta di oltre i due terzi, è previsto un assegno triennale rinnovabile (e definitivo alla terza conferma), compatibile con reddito da altra fonte lavorativa (art. 1 L. n. 222 cit.), se, invece, il lavoratore venga a trovarsi nell’assoluta e permanente impossibilità (art. 2) di svolgere qualsiasi attività lavorativa, viene accordata una pensione vitalizia (salvo il recupero delle capacità di lavoro).

Il mutamento di prospettiva prodotto dalla L. n. 222 è notevole, anche se la giurisprudenza si è incaricata di precisare che esso non ha i caratteri della radicalità, poiché, se è vero che non deve

(5)

aversi riguardo alle capacità di guadagno dell’assicurato, è pur vero che le attitudini soggettive non devono essere neglette. Insomma, nella valutazione della capacità di guadagno entravano non solo i criteri medico/legali, quanto le caratteristiche soggettive dell’assicurato (età, sesso, attitudini) ma anche i fattori economico/sociali ed ambientali in grado di incidere sulla residua capacità, sia positivamente che negativamente. La valutazione della capacità di lavoro, però, per poter avere riguardo alle occupazioni confacenti alle attitudini soggettive (art. 1 L. n. 222 cit.) esige ancora una valutazione specifica delle qualità e condizioni del soggetto, senza esclusione del rilievo di tutti gli altri fattori del precedente sistema, diversi da quelli socio/economici.

Proprio in ragione della globalità di una simile valutazione, la Suprema Corte di Cassazione (sent.

n. 5934/1994) ha stabilito l’inidoneità del riferimento ad un sistema di valutazione tabellare delle invalidità, poiché esso stabilisce l’automaticità del raffronto fra infermità e difetto (fisico o mentale) e la probabile conseguente riduzione della capacità di lavoro. Essi possono essere utilizzati solo come semplici punti di partenza di un’indagine diretta ad accertare l’effettiva riduzione della detta capacità, in relazione all’attività svolta dall’assicurato. L’oggetto della valutazione, in sintesi, dev’essere comparato fra l’incidenza che l’infermità ha avuto sulla precedente attività e su quella che potrebbe essere svolta, in ragione della residua capacità. Attività che dev’essere lavorativa, proficua ed idonea ad assicurare accettabili livelli esistenziali, cioè diretta ad un lavoro capace di procurare guadagno e non è rilevante l’idoneità a compiere mere manifestazioni di attività, comunque svolgibili in ambiente familiare e, in ogni caso, al di fuori delle limitazioni imposte dai ritmi della produzione. Agli stessi criteri, sebbene rapportata alla gravità del grado raggiunto dalla patologia, deve ispirarsi la valutazione ai fini dell’esclusione di ogni residua capacità lavorativa, per il conseguimento della pensione d’inabilità (fermi restando, per entrambe le ipotesi, i requisiti assicurativi e contributivi:

cinque anni di contributi, di cui tre nel quinquennio precedente la domanda di pensione).

Sempre sul versante della tutela assicurativa derivante dal rapporto di lavoro, troviamo le prestazioni fornite dall’INAIL, le quali competono a prescindere da qualsiasi durata del rapporto, anche se il loro ottenimento è soggetto a rigorosi limiti temporali di decadenza e prescrizione.

Gli eventi protetti e le conseguenti prestazioni (che qui fugacemente si segnalano, al solo fine di introdurre l’argomento della nostra analisi) sono essenzialmente: l’infortunio sul lavoro e la malattia professionale.

Con il primo fra essi si intende quello prodottosi per causa violenta, in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni (artt. 2 e 210 T.U. n.

1124/1965).

Non tutti gli infortuni sono indennizzabili e tali non sono sia quelli che abbiano cagionato una riduzione della capacità lavorativa fino al 10%, sia gli altri - anche se di entità superiore alla percentuale indicata - che non si siano comunque risolti in una riduzione della capacità lavorativa (attitudine al lavoro, dice l’art. 74 T.U. cit.). L’infortunio rilevante per le prestazioni INAIL, pertanto, è solo quello da cui derivi un particolare tipo di evento: la morte, ovvero l’inabilità e quest’ultima solo se ha l’incidenza ora riferita.

Al rigore legato alla prova, se non della causa lavorativa, che abbia dato luogo all’infortunio, quanto meno della dimostrazione dell’occasione lavorativa, fa riscontro, sul versante delle malattie professionali, il rigore del sistema tabellare, il cui carattere fondamentale consiste nella predeterminazione, mediante elenchi tassativi, di malattie sia tipiche che non, entrambe collegate ad un determinato agente patogeno, oltreché delle lavorazioni c.d. morbigene e nella prefissione di termini massimi entro cui la malattia deve manifestarsi.

Tale sistema, più volte ritenuto in passato costituzionalmente compatibile, è stato di fatto scardinato da ripetuti successivi interventi della Corte Costituzionale, la quale, in particolare con la nota sent. n. 179/1988 ha dichiarato non conformi a Costituzione, tanto le norme che non garantivano una copertura assicurativa alle malattie di cui sia provata, comunque, l’origine

(6)

lavorativa, quanto di quelle che prefissavano un termine massimo entro cui la malattia dovesse manifestarsi per poter essere ammessa all’indennizzo.

Dopo tale intervento, si può dire che nel nostro sistema, al monolitismo del sistema tabellare è venuto a sostituirsi un dualismo composto: dal sistema tabellare medesimo (che, anche di recente ha subito una revisione in ordine alle malattie inserite e ai tempi di manifestazione, vds.: d.p.r. 13 apr.

1994 n. 336), al quale si affianca, però, un sistema di completa apertura alle malattie non tabellate.

La differenza fondamentale è intuitiva, poiché per malattie comunque inquadrabili tabularmente vige la presunzione dell’origine professionale, mentre per le altre necessita l’acquisizione della prova in ordine al nesso di causa fra malattia ed attività lavorativa espletata, così come è soggetto all’onere della prova la dimostrazione del nesso con un rischio tabellato di una malattia manifestatasi successivamente al periodo indicato dalla tabella.

La protezione offerta dal sistema assicurativo obbligatorio predisposto dall’INAIL, non subisce, praticamente, più limitazione alcuna se non quella derivante dal tipo di rischio assicurato e dalla C.D.

franchigia, al di sotto della quale non viene riconosciuto indennizzo alcuno, nel senso, quindi, che gli eventi invalidanti che non abbiano influenza sull’attitudine al lavoro, ovvero che l’abbiano in misura inferiore al 10%, non ricevono tutela, nè assicurativa (art. 74 TU). Solo recentemente, poi, è stato aperto un nuovo fronte d’indagine circa l’effettiva portata dell’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile (art. 10 TU), specie con riguardo ai C.D. rischi non coperti (es.: danno biologico).

Pur riconoscendo i vecchi pregi di un sistema che, quanto meno, ha avuto il merito di fondarsi sullo strumento del TU, idoneo a fornire organicità all’intera materia, emerge vieppiù l’inadeguatezza di una simile prospettiva rispetto alle nuove problematiche derivanti da una valutazione globale dell’individuo, come imposta dal prorompere sulla scena delle enormi implicazioni connesse al c.d.

danno biologico derivante da una lesione incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si traduce nella sola attitudine a produrre ricchezza ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica (Cass. n. 6938/1988).

Successivamente al d.lgs. n. 29/1993 poco margine rimane per distinguere, almeno strutturalmente se non funzionalmente, l’impiego pubblico da quello privato e dell’abolizione di una simile differenza anche la L. n. 335/1995 si è data carico, disciplinando il trattamento pensionistico e previdenziale del pubblico impiego, con ottica mirante all’unificazione delle discipline. Ed in effetti, precedentemente a tale intervento legislativo, nel pubblico impiego era previsto l’istituto della dispensa dal servizio, per infermità non dipendenti da causa di servizio, con attribuzione del trattamento pensionistico esclusivamente nel caso in cui ricorresse una contribuzione minima di 14 anni, sei mesi ed un giorno. L’art. 2, com. 12 L. n. 335 cit. estende, dunque, ai pubblici dipendenti i requisiti minimi previsti dall’art. 2 della L. n. 222/1984 (cinque anni di contributi, di cui tre nel quinquennio precedente la domanda) e prevede che un successivo Decreto Interministeriale provvederà a determinare le modalità applicative dell’estensione del trattamento in linea con i principi di cui alla cit. L. n. 222. Anche per i pubblici dipendenti, la prima parte del comma 12 del cit.

art. 2 (L. n. 335) prevede che la cessazione dal servizio derivi per infermità per le quali gli interessati si trovino nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa.

Il parametro di riferimento è, quindi, ancora una volta la capacità lavorativa, per la cui definizione pare perfettamente calzante quella sopra vista, con riferimento all’invalidità ed inabilità protette dall’INPS.

Conclusivamente può dirsi, pur con la dovuta cautela derivante da una normativa di delega, quindi, ancora tutta da attuare, che la L. n. 335 ha in sé un notevole potenziale di influenza sulla tutela assistenziale e previdenziale, solo sommariamente delineata nei paragrafi precedenti.

La filosofia che è sottesa alla strategia di riforma si svolge, come detto, intorno al concetto di unità della persona umana, sia sotto il profilo psicofisico che sotto quello della sua valutazione in quanto portatrice del complessivo patrimonio insito nel suo diritto costituzionale ad una salute

(7)

integra, direttamente tutelabile mediante ogni forma di prevenzione o, indirettamente, con l’approntare strutture riabilitative o col prevedere forme d’intervento di sostegno economico- finanziario.

Stando così le cose, dunque, il legislatore delegato, previsto dalla L. n. 335 cit., ha in affidamento il non agevole ma affascinante compito di armonizzare, innanzitutto i limiti insiti nel sistema previdenziale ed assistenziale con le prospettive d’intervento garantite dalla L. n. 104/1992, vero com’è che a quest’ultima normativa è demandato il compito di valorizzare al massimo la capacità complessiva individuale residua (art. 5 L. n. 104 cit.), che è cosa totalmente diversa dalla capacità lavorativa, presa in considerazione dalla congerie di disposizioni esaminate. Primo fra tutti emerge il limite derivante dalla percentuale d’inabilità necessaria per dar luogo alla tutela assicurativa od anche all’assistenza prevista mediante il sistema facente capo al Ministero dell’Interno, laddove, invece, la L. n. 104/1992 esclude ogni riferimento a percentuali di sorta ed ad automatismi tabellari, poiché quel che rileva è l’accertamento individualizzato dell’esistenza di un processo, in atto, di svantaggio sociale o di emarginazione, che può, evidentemente, essere presente anche per patologie diverse o per percentuali al di sotto di quelle da cui deriva il diritto a determinate prestazioni pubbliche.

Riferimenti

Documenti correlati