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Giudizio di fatto e sindacato della corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5 c.p.c. - Judicium

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MAURO BOVE

Giudizio di fatto e sindacato della corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5 c.p.c.

SOMMARIO: 1. Un ritorno al passato. – 2. Le ragioni di fondo. – 3. Gli equivoci di fondo. – 4.

Prospettive applicative. – 5. Conclusioni.

1. Come è noto, tradizionalmente la Corte di cassazione è l’organo di vertice che, dato il suo compito primario di nomofilachia, per mezzo del ricorso in cassazione si occupa solo di motivi d’impugnazione con i quali si lamenta la violazione o la falsa applicazione di una norma di diritto1, potendo essa occuparsi della soluzione data dal giudice inferiore alla quaestio facti solo indirettamente, ossia per mezzo del controllo in ordine al difetto di motivazione o vizio logico2. A quest’ultimo fine la chiave di accesso alla C.S. è stato, in buona sostanza dall’entrata in vigore del codice di procedura civile del 1942, il motivo formulato nel numero 5) dell’art. 360, che, nella sua ultima versione prima del recente decreto “sviluppo” del 2012, suonava: «per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio».

Il citato decreto “sviluppo” ha ora apportato alla possibilità di ottenere un simile sindacato indiretto due importanti limitazioni.

In primo luogo si è modificato il citato numero 5) dell’art. 360 c.p.c., prevedendo la nuova formulazione che il ricorso in cassazione possa lamentare l’omesso «esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».

In secondo luogo si è esclusa la possibilità di utilizzare detto motivo di ricorso ove in grado di appello si sia confermato il giudizio di fatto formulato in primo grado, sia che ciò emerga dalla dichiarazione d’inammissibilità dell’appello, a causa del rilievo che questo non aveva alcuna ragionevole probabilità di essere accolto, rilievo a sua volta fondato sulle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata3, sia che ciò emerga dal rigetto dell’appello che in ogni caso conferma la decisione di primo grado sempre in riferimento alle stesse ragioni in fatto4. Residuando, comunque, in queste situazioni pur sempre la possibilità di impugnare la sentenza, di primo grado nel primo caso5 e di secondo grado nel secondo caso, per violazione di

1 Ai fini del ricorso in cassazione è norma di diritto, non solo o semplicemente la norma di legge, ma più precisamente ogni criterio di qualificazione necessario per il giudice, cioè per esso vincolante, in quanto tratto dal sistema delle fonti del diritto o comunque dalle regole da questo riconosciute, purché abbia una sufficiente portata sociale. Sulla base di questo concetto, il legislatore, ancorché solo nel 2006, ha riconosciuto esplicitamente che il ricorso in cassazione possa fondarsi anche sulla violazione di contratti o accordi collettivi nazionali, ai quali io aggiungerei pure la violazione di clausole contrattuali tipiche destinate ad operare in un numero indefinito di rapporti contrattuali. Sul punto vedi, se vuoi, BOVE, Il sindacato della corte di cassazione. Contenuto e limiti, Milano 1993, 176 ss.. Per l’individuazione del concetto di “norma di diritto”, nell’ambito della teoria della cassazione, secondo il criterio teleologico vedi SCHWINGE, Grundlagen des Revisionsrecht, 2^ed., Bonn 1960, 58 ss.; KUCHINKE, Grenzen der Nachprüfbarkeit tatrichterlicher Würdigung und Festellungen in der Revisionsinstanz. Ein Beitrag zum Problem von Rechts- und Tatfrage, Bielefeld 1964, 57. Per un’impostazione più tradizionale, di stampo logico-concettuale, vedi per tutti l’impareggiabile monografia di CALAMANDREI, La cassazione civile, II, Milano Torino Roma, 1920, 280 ss., il cui pensiero è stato poi seguito praticamente da tutta la dottrina italiana successiva.

2 Anche per una storia del problema sia concesso il rinvio a BOVE, op. cit., 193 ss.

3 Siamo qui in presenza di un’altra importante novità del decreto in parola, il quale inserisce nel codice di rito gli articoli 348-bis e 348-ter, in cui si disciplina appunto il filtro di ammissibilità nel giudizio di appello che è sinteticamente menzionato nel testo.

4 Insomma, detto in termini più semplici, se sulla quaestio facti si ha una doppia conforme, nel senso che il giudizio di primo grado è confermato dal giudizio di secondo grado, non è possibile fondare il ricorso per cassazione sull’art. 360 n.

5) c.p.c.

5 Qui emerge un principio più ampio contenuto nel decreto “sviluppo”: se il giudice di secondo grado dichiara inammissibile l’appello perché esso non ha una ragionevole probabilità di essere accolto, avverso la sentenza di primo

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legge, possibilità che evidentemente non potrebbe mai essere esclusa dal legislatore ordinario, visto l’art. 111, 7° comma, Cost.

Soffermando ora la nostra attenzione sulla prima delle riforme enunciate, è singolare come con la formulazione del 2012 il legislatore sia tornato alla formulazione del codice di rito del 1942.

Ed altrettanto singolare è notare come l’ansia di ridurre il sindacato della Corte di cassazione in ordine alla quaestio facti sia rimasta del tutto immutata, come, evidentemente, immutati sono rimasti i modi, direi le prospettive concettuali, per mezzo delle quali affrontare il problema, in un incessante e ripetitivo moto di corsi e ricorsi storici.

Ecco, allora, che il dibattito che si era agitato prima del codice del 1942 e poi immediatamente dopo la sua entrata in vigore appare oggi acquistare un rinnovato interesse.

2. Il c.d. sindacato indiretto della quaestio facti si è sviluppato attraverso l’elaborazione del vizio logico, avvenuta essenzialmente nella giurisprudenza della C.S. sotto il vigore del codice processuale del 1865, nel quale non era previsto un apposito motivo a questo fine. In quel codice si prevedeva solo la possibilità di lamentare la nullità della sentenza, considerando tra le ipotesi di nullità anche la mancanza della motivazione. Ma da questa stretta via gli avvocati tentavano comunque di andare oltre la lamentela di un errore di mera attività, ossia appunto la mancanza di una spiegazione dei fondamenti della decisione6, cercando di rimettere in discussione, in qualche modo, la giustizia della soluzione della quaestio facti, insomma di lamentare, non tanto la mancanza della motivazione, quanto la sua insufficienza, cercando di ampliare nella maniera più ampia possibile, alla luce delle infinite potenzialità logico-argomentative della classe forense, i confini di quel concetto di “insufficienza”.

A fronte di questi tentativi la C.S rispondeva certamente sempre ripetendo il seguente principio: «E’ incensurabile in cassazione l’apprezzamento del giudice del merito che incide su circostanze di fatto»7. Ma, pur mantenendosi ancorata a quel principio, la C.S. cominciò anche ad elaborare il c.d. vizio logico o insufficienza della motivazione8, aprendo così la via ad un sindacato della quaestio facti che andava oltre la formale mancanza della motivazione e cominciò ad elaborare una serie di regole di metodo sul giudizio di fatto, del cui rispetto essa chiedeva conto ai

grado è possibile il ricorso in cassazione, ancorché «nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello», all’esito del quale, se positivo, la causa potrà tornare al giudice che avrebbe dovuto pronunciare sull’appello.

6 Sul detto motivo CALAMANDREI diceva: «Questo error in procedendo ha carattere meramente formale: la sua stessa collocazione negli artt. 360-361 c.p.c., accanto ad altri vizi di attività che non hanno nessuna attinenza col contenuto del giudicato, dimostra che originariamente il legislatore aveva inteso rendere annullabile per questo motivo solamente la sentenza che fosse incompleta come atto scritto, ossia quella sentenza nella quale il giudice avesse tralasciato di riferire in iscritto le premesse logiche dalle quali era partito per giungere a concludere nel dispositivo; il vizio di omessa motivazione non consisteva dunque, in origine, nel non aver ragionato o nell’aver scorrettamente ragionato, ma nel non aver espresso nel tenore della sentenza le fasi di questo ragionamento, buono o cattivo che fosse»

(op. cit., II, 371).

7 Cass. 11 giugno 1934 n. 2036; Cass. 11 dicembre 1934 n. 3513; Cass. 14 luglio 1934 n. 2612; Cass. 19 febbraio 1929 n. 619; Cass. 8 febbraio 1928 n. 592.

8 Limitandoci a sentenze (pubblicate) successive al 1923, anno in cui furono eliminate le cinque corti di cassazione e fu istituita un’unica corte di cassazione con sede in Roma, cfr.: Cass. 12 aprile-12 giugno 1924, in La Corte di cassazione, I, 1924, 1539 (nella cui massima troviamo già il limite, poi divenuto tradizionale, all’insindacabilità del giudizio di fatto, dicendosi in essa: «Il convincimento dei giudici di merito sfugge al sindacato del supremo collegio, se costituisce il risultato di un processo logico, dominato da criteri giuridici esatti»); Cass. 1 febbraio-27 febbraio 1924, in La Corte di cassazione, I, 1924, 266 (in cui si dice che il magistrato deve dimostrare il “fondamento razionale” della propria decisione); Cass. 15 gennaio-6 marzo 1924, in La Corte di cassazione, I, 1924, 321 (in cui, ancor più genericamente, la C.S. ravvisa che nella decisione impugnata vi fossero “ragioni convincenti”); Cass. 14 marzo-15 aprile 1924, in La Corte di cassazione, I, 1924, 729; Cass. 26 aprile-12 giugno 1924, in La Corte di cassazione, I, 1924, 1060 (in cui si respinge il ricorso perché si riconosce il ragionamento del giudice di merito “giustificato da logica e sufficiente motivazione”); Cass. 18 marzo-25 aprile 1925, in La Corte di cassazione, II, 1925, 1699; Cass. 20 maggio 1931, in Monitore dei Tribunali 1931, 603;

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giudici di merito. Insomma, prima del codice del 1942 e nella vigenza di un codice che dava ben scarsi appigli normativi espliciti, la giurisprudenza della Corte delinea ed utilizza un sindacato indiretto, che, pur non portandola alla possibilità di esprimere il suo giudizio sulla questio facti, la porta tuttavia a scovare sintomi di ingiustizia, errori metodologici, di cui chiedere conto ai giudici del merito.

A fronte di questa situazione, direi di questo “diritto vivente”, che era fortemente criticato e stigmatizzato come frutto di un abuso dal principale studioso della Cassazione di quel tempo9, ma che era, però, anche approvato da altra parte della dottrina10, irrompe sulla scena il codice del 1942, che nell’art. 360 n. 5) prevede la possibilità di ricorrere in cassazione, non esplicitamente per vizio di motivazione, bensì «per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».

Le ragioni di una simile formulazione erano esplicitate nella relazione al Re con le seguenti parole: «Durante i lavori preparatori si era manifestata un’autorevole tendenza a eliminare del tutto dal giudizio di cassazione quel motivo di difetto di motivazione, al quale la pratica giudiziaria aveva dato, com’è noto, una estensione così esorbitante e così lontana dalle sue origini testuali. Ma piuttosto che sopprimerlo, si è preferito conservarlo ristretto e precisato nella nuova formula, che lo ammette non nella quasi illimitata ampiezza alla quale la pratica era arrivata nell’adattamento delle norme del codice del 1865, ma nei limiti precisi di un omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio del quale le parti avevano discusso»11.

Insomma, con parole che potrebbero essere ripetute anche dal legislatore del 2012, il ministro Grandi sposava completamente la denuncia di Calamandrei e col nuovo codice di procedura civile egli enunciava la necessità di avviarsi verso un obiettivo di “purificazione” della Cassazione, superando quegli abusi di cui, a detta di simili critici, si sarebbe macchiata la suprema Corte.

Questa formulazione dell’art. 360 n. 5) c.p.c. non ebbe lunga vita: essa fu modificata con la legge 14 luglio 1950 n. 581, che la mutò con la formula, in buona sostanza arrivata fino a noi, in

«omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio»12.

Ma, se essa aveva l’obiettivo di eliminare presunti abusi, le domande che sorgono sono due.

La prima: aveva quella formulazione la capacità di limitare, nel senso auspicato dai sui sostenitori, il sindacato della C.S.? La seconda: era, ed è, realmente fondata quella accusa di abuso?

Dal primo punto di vista non è irrilevante dare uno sguardo alla giurisprudenza degli anni ’40 del secolo scorso, anche se, avendo avuto la formulazione originaria del codice del 1942 una vita assai breve, quella giurisprudenza non ebbe il tempo di stabilizzarsi.

In primo luogo si riscontra come in quegli anni emerga la riscoperta di una distinzione che in precedenza si era perduta, ossia la distinzione tra omessa motivazione e vizio logico. Ciò è evidente nella seguente massima: «Il difetto di motivazione di una sentenza inteso come vizio di illogicità o

9 CALAMANDREI, op. cit., II, 371 ss., il quale, rilevando come il vizio di omessa motivazione si fosse trasformato in vizio di difettosa motivazione, affermava che «molte volte i giudici di cassazione, messi dinanzi ad una decisione di merito che sia corretta nella risoluzione della questione di diritto, ma che appare evidentemente ingiusta nella risoluzione del fatto, usano annullare per vizio di motivazione quella sentenza che non hanno potere di disapprovare o di riformare come ingiusta», per poi denunciare che «l’abuso dei ricorsi e dei conseguenti annullamenti per vizio di motivazione allontana in misura sempre più impressionante la Cassazione dal suo scopo istituzionale».

10 Cfr., anche se sulla base di ragionamenti diversi, CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli 1912, 1032; BETTI, Diritto processuale civile italiano, Roma 1936, 696-697; CARNELUTTI, Limiti del rilievo dell’error in iudicando in corte di cassazione, in Studi di diritto processuale, Padova 1925, 365 ss., in partic. 371 ss., il quale si scagliava anche contro le proposte di abolire il vizio di motivazione tra i possibili motivi di ricorso per cassazione (in Sistema del diritto processuale civile, Padova 1938, II, 652-653).

11 Relazione al Re del ministro Grandi, in Ministero di Grazia e Giustizia, codice di procedura civile, Roma 1940, 26.

12 L’ultima formulazione che parlava di “fatto controverso e decisivo per il giudizio” non cambiava la sostanza delle cose.

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contraddittorietà dei motivi non può essere dedotto come mezzo di impugnazione per cassazione contro sentenza emessa vigente il nuovo codice di procedura civile»13. Precisandosi, quindi, che fra

«i motivi di cassazione di una sentenza non è più ammesso oggi il difetto di motivazione: salvo che esso si restringa al caso dell’omesso esame di un fatto decisivo, già discusso dalle parti»14.

Ma, quello che era stato il motivo di omessa motivazione sotto il vigore del codice del 1865 non era certo espunto dal sistema. Invero, al di là della formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., restava ( e resta) sempre la possibilità di chiedere alla C.S. l’annullamento della sentenza per una sua nullità ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., via che inevitabilmente, attraverso il combinato disposto degli articoli 132 e 156 c.p.c., manteneva (e mantiene) in vita appunto quel “vecchio” motivo di ricorso15. Ed, allora, la domanda diventava un’altra: a parte la formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., in quali limiti il n. 4 del medesimo art. 360 poteva permettere un ritorno al vecchio vizio di motivazione, ossia alla sindacabilità dell’insufficiente o illogica motivazione?

La giurisprudenza del tempo dava, in apparenza, una risposta sostanzialmente negativa, affermandosi in diverse massime il principio per cui, in base dal combinato disposto degli articoli 132 e 156 c.p.c., si poteva lamentare in cassazione, per mezzo dell’art. 360 n. 4 c.p.c., solo l’omessa motivazione e non anche la sua insufficienza, illogicità o incongruenza16.

Tuttavia, nonostante queste precisazioni, per un verso riferite al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. e, per altro verso, riferite al n. 4 del medesimo articolo, in combinato disposto con gli articoli 132 e 156 c.p.c., il classico e tradizionale vizio logico restava nella giurisprudenza della C.S. Può sembrare assurdo e contraddittorio, ma un simile assunto è evidente se solo si legge la seguente massima:

«Non sono censurabili in sede di cassazione gli accertamenti di fatto del giudice del merito, giustificati da ampia motivazione, condotta con criterio logico e senza errori giuridici, in base all’esame coordinato di tutto il materiale probatorio»17. Massima questa non certo isolata, ma anzi alla quale se ne possono accostare altre di simile tenore18.

Insomma, in quegli anni, di fronte al detto quadro normativo, la C.S., se da un lato cerca di limitare l’ipotesi di motivazione insufficiente o incongrua, dall’altro lato non può fare a meno di riconoscere, anche al di là dell’ipotesi in cui sia omesso l’esame di un fatto decisivo, la rilevanza della motivazione insufficiente.

13 Cass. 12 aprile 1946 n. 434. Analogamente: Cass. 9 luglio 1943 n. 1759; Cass. 17 dicembre 1947 n. 1695.

14 Cass. 29 marzo 1944 n. 205. Analogamente: Cass. 23 febbraio 1945 n. 117; Cass. 8 maggio 1945 n. 337; Cass. 2 dicembre 1948 n. 1855.

15 Di un simile assunto si rendeva perfettamente conto la dottrina dell’epoca: cfr. CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma 1941, 463; SATTA, Guida pratica per il nuovo processo civile italiano, Padova 1941, 122; SECHI, Il ricorso per cassazione nel nuovo c.p.c., in Monitore dei Tribunali 1942, 145; VOCINO, Prime riflessioni sull’«omesso esame di fatto decisivo», in Giur. Cass. civ. 1946, I, 169; ZANZUCCHI, Il nuovo diritto processuale civile, Milano 1941, II, 225.

16 Cass. 11 febbraio 1947 n. 167; Cass. 29 marzo 1945 n. 204; Cass. 26 marzo 1943 n. 103

17 Cass. 28 giugno 1946 n. 764

18 Si legge in Cass. 26 marzo 1943 n. 686: «Sotto l’impero del nuovo codice di procedura civile non è ammesso come motivo di ricorso per cassazione il difetto di motivazione della sentenza impugnata, ma è ammesso il mancato esame di un fatto determinato, che risponda alla duplice condizione di essere veramente decisivo per il giudizio e di essere stato oggetto discussione fra le parti. Questa ipotesi non si verifica allorché il giudice di merito, nell’apprezzare con rigore logico le prove dedotte dalle parti, abbia imperniata la decisione sul complesso degli elementi raccolti, trascurando qualche circostanza particolare in senso contrario». Si legge in Cass. 1 novembre 1944 n. 93: «Quando risulta che sono stati esaminati fatti decisivi per il giudizio discusso fra le parti, non è consentito insorgere con il ricorso per cassazione, fondato sull’art. 360 n. 5 codice di proc. civile contro le deduzioni e le argomentazioni del giudice di merito che, sorrette da valide ragioni e da adeguata motivazione abbiano portato a determinate risoluzioni, anche se siano stati trascurati documenti prodotti in giudizio perché ritenuti non influenti nella decisione della lite». Si legge in Cass. 17 luglio 1947 n. 1144: «Non incorre nel vizio di omesso esame di fatti decisivi il giudice che, con esauriente ragionamento, in relazione ai principali e decisivi elementi acquisiti al processo, giustifichi il proprio convincimento, non essendo tenuto a seguire le parti in tutte le loro argomentazioni, anche se basate su atti, non però decisivi, e che non possono indurre in avviso contrario».

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In definitiva, il vizio logico, cacciato dalla porta, rientrava dalla finestra, come se fosse una presenza ineluttabile, di cui, nonostante gli sforzi del legislatore, la prassi e direi il sistema non poteva fare a meno.

3. Il punto vero è che l’accusa fatta alla Corte di cassazione di abusare, per mezzo della denuncia del vizio di motivazione, del suo ruolo, ossia di andare oltre i limiti “naturali” del giudizio di cassazione era e resta ancora oggi assolutamente infondata.

Lo è nella pratica. Lo è sul piano teorico.

Quando si osserva la prassi dei giudizi di cassazione bisogna stare molto attenti a distinguere i comportamenti degli avvocati da quelli dei giudici.

I primi, se si vuole usare una brutta espressione, certamente abusano del ricorso per cassazione quando ad ogni costo vogliono trovare un modo per ribaltare la soccombenza patita dai propri clienti. Il c.d. vizio logico o vizio di motivazione, anche inteso in senso non formale, non rappresenta affatto una via per ribaltare quella soccombenza, ove essa affondi il proprio fondamento nella soluzione che il giudice del merito abbia dato alla questione di fatto, nel senso che con esso non si può certo aprire alla C.S. la possibilità di sindacare l’ingiustizia in fatto della decisione impugnata. Altro è che gli avvocati, se così possiamo dire, ci provino!

Ma a fronte di questi tentativi non sembra proprio che la Corte risponda in modo adesivo.

Basta scorrere un qualsiasi repertorio di giurisprudenza, anche limitandosi agli ultimi anni, per scoprire come la gran parte dei ricorsi per cassazione sia rigettata proprio lamentando la C.S. che il ricorrente abbia preteso, irritualmente, un sindacato del giudizio di fatto che essa non può e non deve fare.

Negli ultimi anni la C.S. ha a volte abusato dei suoi poteri, approfittando del fatto che nessun altro giudice può sindacare le sue pronunce. Emblematica, per fare un esempio, è la vicenda interpretativa dell’art. 37 c.p.c., in riferimento al quale la Corte ha tracciato dei limiti al rilievo dell’eccezione di difetto di giurisdizione che sono palesemente contra legem. Ma tra i suoi abusi non le si può in alcun modo contestare quello di essersi trasformata in un giudice del fatto, perché, si ripete, a fronte degli assalti della classe forense, essa è stata sempre assai ferma nel tracciare i dovuti limiti tra sindacato sulla quaestio iuris e sindacato sulla quaestio facti.

Il punto è che la dottrina italiana maggioritaria non ha ancora fatto i conti con il “famigerato”

vizio logico e, ancora irretita dalla sistematica calamandreiana, a cui molta acqua ha portato la tesi di Guido Calogero di cui tra breve ci occuperemo, non ha ancora compreso che in quella espressione confluisce una seria di violazioni di legge, in sé del tutto lamentabili nel giudizio di cassazione.

Delle critiche di Calamendrei all’affermarsi nella prassi di un vizio di motivazione che andava oltre il profilo formale abbiano già detto. Resta da fare ora un accenno alla citata costruzione di Calogero, il quale, prima di occuparsi del problema giuridico del sindacato della Cassazione, si occupa del problema logico-filosofico del ragionamento del giudice.

Partendo dal presupposto logico secondo il quale il ragionamento del giudice non si spiega per mezzo del sillogismo, per cui la comprensione di esso esige un richiamo alla logica delle cose più che ad una logica formale19, Calogero giungeva ad affermare che il sindacato della Corte di

19 CALOGERO, La logica del giudice e il suo controllo in cassazione, 2^ed., Padova 1964, 58, in cui si legge: «Il primo punto da precisare è l’eliminazione della logicità di carattere propriamente deduttivo, argomentativo, conclusionale per una logicità puramente positiva, determinativa, definitoria (se si concede l’uso di questi termini in senso piuttosto generale e tecnico). (…) al dedurre la conclusione dalle premesse si sostituisce il semplice porre le premesse. Ma è ovvio che, così stando le cose, nemmeno più si tratta di premesse, ma di una sola (la quale, poi, a sua volta, non è più una “premessa” nel senso che sia il presupposto di una conclusione, ma una “proposizione”, se si vuole adoperare quest’altro corrispondente latino-medievale della greca “protasi”, cioè un giudizio autonomo e per se stante).

Non resta infatti che un’unica asseverazione, in cui il soggetto, esprimente l’azione che si è realizzata, vien sussunto

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cassazione sul vizio di motivazione o vizio logico non poteva che rappresentare una rivedibilità dell’intero giudizio di fatto. Tralasciando ogni approfondimento, qui impossibile, sulla sua ricostruzione, basti sottolineare la conclusione del suo ragionamento in riferimento al piano che a noi più interessa, conclusione che così suonava: «appare evidente come il sindacato del giudizio di fatto, che la Cassazione compie di fronte alla sua logicità, non sia affatto il controllo di una pura struttura logica, di cui si possa accertare o negare la legittimità prescindendo dal suo contenuto, giacché, come è ovvio, se la Suprema Corte non tenesse conto di tutti i concreti elementi che sostanziano quel giudizio, non potrebbe sindacare assolutamente nulla. Cosicché, non solo può dirsi che essa, quando, accorgendosi del “vizio logico”, interviene nel giudizio di fatto, controlla poi tale giudizio non solo nella sua forma logica ma nel suo totale contenuto; ma si deve addirittura dire che, per potersi accorgere di tale “vizio logico”, essa è di necessità costretta a compiere tale riesame completo, perché senza di esso non potrebbe neppure aver luogo quel rilievo. La constatazione del vizio logico è dunque tanto poco una condizione per la legittimità del riesame in fatto, che ne è piuttosto un risultato: con la conseguenza che se la Cassazione deve sindacare i soli giudizi di fatto in cui c’è vizio logico, deve perciò sindacare tutti i giudizi di fatto, per vedere quali sono quelli in cui c’è vizio logico!»20.

Questa tesi, formulata per la prima volta nel 193721, ebbe e continuare ad avere un vasto credito in dottrina. Essa, partendo da un giusto presupposto logico, ossia dalla critica al sillogismo come strumento di comprensione del giudizio22, giungeva, però, ad un’errata applicazione nell’ambito del sindacato della Cassazione sul giudizio di fatto per mezzo del vizio di motivazione.

Calogero non aveva compreso che il concetto di insindacabilità della questio facti non implica una generica non rivedibilità di esso, bensì significa che il convincimento in fatto espresso dal giudice del merito non può essere rimesso in discussione dalla Corte di cassazione, non può essere valutato come ingiusto, allo stesso modo in cui essa può qualificare ingiusta la soluzione data alla questio iuris.

Altro, però, è il difetto di motivazione o vizio logico, assumendo questa espressione un significato preciso nella teoria della Cassazione. Con essa la prassi vuole sintetizzare la possibilità che la C.S. ha di sindacare, non il giudizio di fatto nel suo risultato, quanto la sua base legale, ossia il fondamento della conclusione del giudice. È qui che bisogna intendere i concetti di “ragione sufficiente” o di “correttezza metodologica”, concetti che vanno assunti in questo limitato ambito di studi secondo una prospettiva squisitamente giuridica, sulla base del diritto positivo.

Ebbene, se si assume questa prospettiva, si comprende come il risultato del giudizio di fatto, ossia l’affermazione o la negazione di un “dato”, sia il frutto di un ragionamento che giuridicamente deve seguire un metodo, ossia dei criteri che è la legge a fornire al giudicante. Così, se è vero che è una questione di fatto stabilire quale sia stata la volontà contrattualmente espressa dalle parti, è anche vero che l’interpretazione che il giudice fa del contratto deve seguire un metodo che è fornito da regole contenute nel codice civile agli articoli 1362 ss. Se è vero che è una questione di fatto la

sotto il predicato, esprimente la norma di legge che, come si dice, la “prevede” (cioè nella quale si ritiene appunto

“prevista”, nei suoi tratti più generali, quell’azione e situazione umana che si è “vista” specificata nel fatto».

20 Op. cit., 188-189.

21 La prima edizione del saggio di Calogero fu pubblicata dalla Cedam nella Collana “Studi di diritto processuale”, diretti da P. Calamandrei.

22 Critica che si ritrova in moltissimi autori del XX secolo. Cfr., fra gli altri, oltre a Calogero, DANZ, Die Auslegung der Rechtsgeschäfte. Zugleich ein Beitrag zur Rechts-und Tatfrage, 3^ed., Iena 1911, 100-104; OERTMANN, Rechtsordnung und Verkehrssitte, Lipsia 1914, 1-2; VOCINO, Sulla c.d. «attuazione della legge» nel processo di cognizione, in Studi in onore di E. Redenti, II, Milano 1951, 587 ss., spec. 592 ss., 610 ss.; DE MARINI, Il giudizio di equità nel processo civile, Padova 1959, 176 ss.; TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Padova 1975, 143, 150 ss., 203; ROSELLI, Il controllo della cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli 1983, 23, 33-49, 89, 117, 121-122.

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valutazione dei mezzi di prova o l’applicazione di un concetto giuridico indeterminato23, è anche vero che rappresentano regole metodologiche il necessario rispetto delle massime di comune esperienza ovvero il rispetto del canone di completezza nella considerazione delle circostanze risultanti dagli atti del processo24, regole assunte dall’ordinamento attraverso il concetto di

“prudente apprezzamento” di cui all’art. 116 c.p.c. Come ancor più evidentemente rappresentano regole di metodo quelle che sono propriamente esplicite regole legali, come le norme sulle prove appunto c.d. legali o la norma che impone al giudice di assumere a fondamento della sua decisione i fatti notori ed i fatti non specificamente contestati (art. 115 c.p.c.).

Questo complesso di norme rappresenta la trama legale nel cui quadro deve muoversi il giudice ed avvalersi del suo spazio di valutazione (Beurteilungsspielraum). Esse non sono norme la cui violazione emerge come un errore di attività né norme la cui violazione emerge come errore di giudizio.

La denuncia dell’errore nel metodo del giudizio di fatto, ossia la denuncia in ordine alla violazione di una regola che presiede alla formazione della base legale di quel giudizio, non si riferisce ad un error in procedendo, perché evidentemente il vizio in parola non risponde ad un vizio di attività, in quanto esso incide direttamente nella formazione del giudizio. Ma esso non si presenta neanche come un error in iudicando, per la duplice ragione che, per un verso, con esso non si lamenta la violazione di una norma di giudizio e, per altro verso, al suo riscontro si collega una valutazione di causalità solo virtuale, nel senso che il giudice, se riscontra come esistente la violazione delle dette norme di metodo, non afferma l’ingiustizia del giudizio di fatto, cosa impedita alla C.S., bensì si limita a rilevare un sintomo d’ingiustizia, che potrebbe poi, anche rivelarsi improduttivo di effetti ove, applicata correttamente la regola sul metodo del giudizio di fatto, il giudice del rinvio dovesse arrivare alla stessa conclusione a cui era arrivato il giudice che aveva pronunciato la sentenza cassata25.

Se si assume questa prospettiva, che peraltro è assunta in buona sostanza, non solo dalla nostra Corte di cassazione, ma anche da quella francese e da quella tedesca26, risulta evidente l’equivoco in cui da tempo cade la dottrina italiana ed oggi il legislatore. Invero, a fronte del difetto di motivazione come motivo di ricorso in cassazione non si devono avere timori, perché con esso si è solo voluto utilizzare un’espressione sintetica per raggruppare la possibile denuncia della violazione di una serie di regole e principi, tutti direttamente o indirettamente giuridicizzati.

Insomma, in altri e definitivi termini quella denuncia si risolve sempre e comunque nella censura di una violazione di legge.

4. Ma allora sorge spontanea la domanda: cosa potrà accadere nella prassi se si stabilizzerà la norma che ora leggiamo nel decreto “sviluppo” in ordine alla nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c.?

Io credo assolutamente nulla di nuovo!

Certo assisteremmo alla produzione di massime nelle quali si direbbe che la censura del difetto di motivazione è espunta dal sistema della Cassazione o almeno che essa è espunta nel

23 Almeno secondo la prassi della C.S., che sposa in pieno la c.d. teoria teleologica. Sulla complessa questione sia permesso il rinvio a BOVE, op. cit., 65 ss.

24 È alla violazione di questa regola metodologica che dovrebbe esplicitamente riferirsi il caso dell’omesso esame di un fatto decisivo, di cui parlava nel 1942 e parla oggi il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. Invero, non si deve confondere questa ipotesi con quella di violazione dell’art. 112 c.p.c., la quale riguarda la vulnerazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, violazione che si ha, ad esempio, ove il giudice non abbia pronunciato su un’eccezione rilevata da una delle parti. Una simile violazione, che rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360 n. 4 c.p.c., nulla ha a che fare col metodo della soluzione della questio facti.

25 Per maggiori approfondimenti su queste tematiche vedi BOVE, op. cit., 219 ss.

26 Sul fatto che anche la Revisione tedesca sia riportabile al sistema della Cassazione vedi già CALAMANDREI, op.

cit., II, 644 ss. Per la dottrina tedesca vedi, per tutti, SCHWINGE, op. cit., 39 ss.

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significato in precedenza immaginato, limitandosi ormai al solo caso dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma, poi, nella realtà accadrebbe ciò che è già accaduta negli anni ’40 del secolo scorso, quando questa stessa formula era legge dello Stato, ossia quel vizio logico cacciato dalla porta delle apparenze rientrerebbe dalla finestra della sostanza delle cose.

E ciò perché esso non è espungibile dal sistema della Cassazione, per il semplice fatto che, si ripete, con esso non si fa altro che lamentare una violazione di legge.

Si potrebbe forse impedire al soccombente di lamentare la violazione delle norme legali sull’interpretazione dei contratti? O ancora si potrebbe impedire di lamentare che il giudice non ha posto a base della decisione un fatto che era notorio o un fatto che non era contestato? Si potrebbe impedire di censurare in cassazione la violazione di una massima di esperienza nella valutazione probatoria o nell’applicazione di un concetto giuridico indeterminato?

Io non credo. Residuerebbe solo il problema di stabilire per mezzo di quale via si potrebbero far valere queste censure. Con la conseguenza che l’unico frutto di una tale riforma, ove dovesse essere confermata in sede di conversione del decreto “sviluppo”, sarebbe quello di far litigare gli interpreti in ordine all’individuazione del numero dell’art. 360 c.p.c. in cui far rientrare le dette censure. Così alcuni si richiamerebbero al n. 4, altri al n. 3 e altri ancora, magari, cercherebbero di allargare le maglie dello stesso n. 5.

5. Siano concesse, a questo punto, una riflessione di carattere generale ed una riflessione specifica con riguardo ai problemi della Cassazione.

Dal primo punto di vista è evidente come il nostro legislatore, ormai da qualche anno, appaia spesso superficiale se non addirittura sprovveduto. In moltissimi convegni fra gli studiosi del processo civile si è detto e si continua a dire che non è utile approntare incessantemente riforme del codice di procedura civile in sue piccole o grandi parti. Un simile modo di legiferare, non solo non è utile, ma porta anche dei grandi problemi nella prassi, sicuramente più problemi di quanti non ne risolva. Forse si potrebbe pensare ad un nuovo impianto del codice. Ma vista la barbarie dei tempi, è forse più prudente evitare una simile avventura che non si sa dove porterebbe. Oltretutto, se il vero ed urgente problema del nostro Paese è quello di fornire un servizio giustizia lento e quindi inefficiente, sempre sottoposto a critica in sede comunitaria, non ci stancheremo mai di dire che questo è un problema di carattere gestionale, poco rilevando le formule del codice di procedura civile.

Dal secondo punto di vista, se proprio i nostri governanti, anche quelli (che dovrebbero essere) tecnici, vogliono toccare il sistema della Cassazione, mi permetto di dare due suggerimenti.

Il primo sul codice di procedura civile: che si cambi la formulazione dell’art. 360 c.p.c., prevedendo semplicemente che il ricorso è possibile per violazione o falsa applicazione di norme di diritto27. Ciò avrebbe un effetto di semplificazione e chiarificazione, lasciandosi poi alla Corte di cassazione il compito di “fare giurisprudenza”, compito nel cui assolvimento la C.S., si ripete, non ha mai abusato quando si è trattato di delimitare i confini del suo sindacato tra quaestio facti e quaestio iuris.

Il secondo in riferimento all’organizzazione della professione forense: che si istituisca un vero albo dei cassazionisti! Patrocinare di fronte alla Corte di cassazione è cosa ben diversa dal patrocinare di fronte ai giudici del merito. Direi che sono quasi mestieri diversi, perché le tecniche

27 Nel grande dibattito che precedette la formulazione del codice del 1942 il progetto Carnelutti andava, in buona sostanza, in questa direzione, prevedendo all’art. 368: «Una sentenza pronunziata in grado di appello deve essere cassata quando sia viziata da incompetenza, da eccesso di potere, da violazione o falsa applicazione della legge». Io non userei la parola “legge”, ma l’espressione “norme di diritto”, che comprende, secondo una prospettiva teleologica, anche norme negoziali di particolare rilevanza sociale.

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dell’attacco e della difesa cambiano radicalmente in virtù della peculiare posizione e funzione della C.S. nel sistema e, quindi, della struttura del giudizio di fronte ad essa.

Se questo è vero, l’avvocato cassazionista dovrebbe avere una professionalità specifica e dovrebbe in ciò essere specializzato. Ed, allora, per iscriversi ad un simile albo, evidentemente a numero limitato, sarebbe necessario un serio esame di accesso. Inoltre, una tale iscrizione dovrebbe comportare l’impossibilità di patrocinare di fronte alle corti di merito.

Una simile riforma, in fondo semplice, ma dirompente, risolverebbe molti, se non tutti, dei mali del giudizio di cassazione, perché è evidente come i ricorsi alla C.S. finirebbero per essere in numero assai più limitato rispetto all’attuale ed essi sarebbero anche “tarati” sullo scopo e le tecniche peculiari di quel giudizio.

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