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Alle origini di una idea estetica

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Academic year: 2021

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Aesthetica Preprint

Supplementa

La regola del Capriccio

Alle origini di una idea estetica

di Francesco Paolo Campione

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Il Centro Internazionale Studi di Estetica

è un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con d . p . r . del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale, organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica © e pubblica il perio- dico Aesthetica Preprint © con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’Università degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.

Aesthetica Preprint

©

Supplementa

è la collana editoriale pubblicata dal Centro Internazionale Studi di Esteti-

ca a integrazione del periodico Aesthetica Preprint © . Viene inviata agli stu-

diosi im pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle

maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.

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Aesthetica Preprint

Supplementa

27

Dicembre 2011

Centro Internazionale Studi di Estetica

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Il presente volume viene pubblicato col contributo del M iur ( prin 2009, responsabile scien-

tifico prof. Luigi Russo) – Università degli Studi di Paler mo, Dipartimento Fieri Aglaia.

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Francesco Paolo Campione

La regola del Capriccio

Alle origini di una idea estetica

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Indice

Introduzione 7

I – Una grammatica del Capriccio 1. Il gregge e l’orrore 15

2. Una svolta di senso: la “scrittura” del capriccio 22

3. Il capriccio degli “italianizzatori” 35

II – Il colore della materia 1. Gli umori capricciosi 57

2. I doni del capriccio 67

3. La solitudine del capro 83

III – Tra medicina e magia 1. Capricci e secreti 115

2. Ingegno e Capriccio 123

3. La persona del Capriccio 137

4. Sorridere capriccioso 159

IV – La forma del Capriccio 1. Archeologia del mostruoso 189

2. Le pitture degl’inferi 205

3. Una forma “eretica” 231

4. La stanza del Capriccio 251

Bibliografia 319

Indice delle illustrazioni 353

Indice dei nomi 355

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Introduzione

Se dovessimo figurare la storia del concetto di Arte, probabilmente dovremmo fare ricorso a un’immagine del genere: una città attraversata da una lunga strada principale, la “via della regola”, che incrocia molte traverse anche queste dedicate a nomi significativi della storia dell’E- stetica, “imitazione”, “bellezza”, “verosimiglianza”, “forma” e così via.

Di sotto a quella via ne corre un’altra esattamente parallela in molti punti, ma in verità non tanto profonda. Questa strada sotterranea, po- tremmo immaginare, rappresenta la resistenza alla norma codificata, un camminamento che non pochi artisti sono discesi a percorrere più o meno lungamente. La prima, la “strada maestra” di superficie, è quella classica che ha identificato l’arte come un sapere produttivo, un’atti- vità sovrintesa da regole che disattendere significava negare lo statuto medesimo dell’arte. Nessun’arte, fosse essa pratica o più astrattamente teoretica, poteva darsi senza il repertorio di norme che ne dirigeva l’agi- re. L’arte perciò, secondo una concezione di lunghissima data, non può nascere dal caso, e solo una volontà preventivamente e progettualmente indirizzata può dar luogo a prodotti “artistici” accettabili come tali. Di volta in volta la regola dell’arte si è configurata dunque come modus operandi, come necessità d’imitare la natura o come via per giungere alla bellezza. Ciò generava dunque il “singolare” paradosso della uni- formità, almeno a livello concettuale, fra l’astronomo e il vasaio, fra il pittore e il medico: tutti, sia pure sulla scorta di codici normativi diversi, praticavano arte nella misura in cui s’affidavano all’appiglio si- curo della regola. Quanto poi alla valutazione sociale dei loro prodotti, questo era ovviamente un altro discorso.

C’era però quell’altra strada, che sembrava un po’ un tunnel mi-

sterioso. Nascosta, ma non tanto “clandestina” e non tanto profonda,

che il suo piano non intersecasse – di tempo in tempo – quello su-

periore, dando luogo talora a palesi contraddizioni. In questa via si

dispiegava tutto ciò che sembrava resistere alla nozione di regola, e

per ciò stesso pareva contraddire il fondamento principale dell’idea

di Arte. Pensiamo, ad esempio, alla concezione platonica della poe-

sia. È noto come il filosofo ateniese stralciasse la “vera” poivhsi" dal

novero delle arti, per il suo carattere irrazionale: l’agire del poeta in

uno stato di delirio, l’essere egli stesso una specie di medium più o

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meno inconsapevole fra trascendenza e immanenza, il procedere al di fuori degli schemi della mimesis, tutto questo insomma lo allontana- va dall’ambito concettuale dell’arte. Ovviamente, designare lo statuto della poesia nascente da manía nei termini di Capriccio è un abuso, o meno recisamente, un anacronismo. Solo a partire da una certa data, ben al di qua della modernità, la riluttanza alla regola, il rifiuto della verosimiglianza, l’esaltazione di una volontà sbrigliata e di una fantasia estrosa hanno avuto la loro specificazione nel dominio del Capriccio.

Solo allora questo lemma, dalla vicenda etimologica non a caso “ca- pricciosa”, prese a designare una pluralità di fenomeni – appartenenti all’ambito dell’arte, della poesia e della musica – nei quali il tratto distintivo emergeva come “libertà”. Libertà certo dalla cogenza della regola (anche se tale affermazione, come in seguito osserveremo, va per lo meno corretta), ma anche ricerca di nuove forme espressive al di fuori degli schemi stratificati nella tradizione. Nel xvi secolo quella strada, sempre meno sotterranea, prese a chiamarsi Capriccio.

Ci sono alcuni concetti estetici la cui storia, benché almeno in ap- parenza legata a un tempo esattamente delimitato, in realtà ne trascen- de i termini e sembra volgersi verso le due direzioni opposte dell’asse cronologico. Tra questi, probabilmente, l’idea di Capriccio è quella che meglio descrive questo fenomeno. La storia di questo concetto forse è antica quanto la storia stessa del concetto di Arte, ma in pochi casi come in questo è dato rilevare uno sfalsamento così netto tra il piano concettuale e quello più strettamente lessicale. Detto in altri termini:

se il livello del concetto potrebbe persino ascendere alle epoche più antiche della riflessione intorno allo statuto filosofico dell’arte, quello della parola che lo denota, in direzione inversa, s’avvicina a un’età re- lativamente recente, non più antica del basso Medioevo. “Capriccio”, di fatto, è un termine “nuovo” ignoto (almeno nella forma del signifi- cante) tanto al greco quanto al latino classico e volgare. Eppure, nono- stante la non corrispondenza cronologica tra idea e parola, raramente un concetto ha avuto una storia così profondamente congiunta al vo- cabolo che lo denota: ricostruire la genealogia del termine “capriccio”

significa, insomma, scrivere non solo di etimologia, ma forse ancor più di estetica. Nella storia del lessico dell’Estetica “capriccio” è uno dei pochi termini (forse l’unico) in cui è osservabile una sovrapposizione di livelli talmente interrelati da richiedere un’analisi straordinariamen- te complessa. Così il piano concettuale in questa parola è legato in modo indissolubile a quello semantico, e questo a sua volta a quello etimologico il quale, dal canto suo, richiama quello morfologico. L’idea di Capriccio, insomma, può essere intesa solo a patto di considerare la stratificazione linguistica della parola nella pluralità di dominî che reciprocamente si danno senso.

Una tale ricchezza di quote, con ogni probabilità, risponde proprio

alla vicenda (è il caso di dire) “bizzarra” di questo concetto. Occorre

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però un avvertimento: l’incircoscrivibilità del Capriccio a una fase sto- rica conchiusa (ove, nel corso della storia dell’arte, si sia determinato un allontanamento dalla regola “ufficiale”, è in qualche modo presen- te una realizzazione del Capriccio), parrebbe contraddire un modello storiografico (quello che mostreremo nelle pagine a seguire) che fermi al xvi secolo l’analisi di questa nozione. In effetti, l’affermazione di

“capriccio” nell’ambito della lingua italiana risale solo al Duecento, con una funzione la cui valenza “tecnica” e il cui dominio d’uso cer- cheremo di evidenziare. Solo nel Cinquecento, però, la parola si veste di un significato tale da abbracciare un’area concettuale i cui contorni – per la natura stessa di questa idea – hanno i tratti fluttuanti di una forma riflessa nell’acqua. E così, sebbene il Capriccio attraversi in varie forme il Seicento, il Settecento, l’Ottocento e – in una visione retro- spettiva – possa estendersi a non pochi aspetti dell’arte medievale 1 e antica – è in quel tempo che esso delinea pressoché definitivamente il proprio corredo teorico.

In questo studio proponiamo un’analisi della genesi dell’idea di Ca- priccio, e della sua sistemazione teorica tra Rinascimento e Manierismo.

Avvertiamo che queste denominazioni sono piuttosto schematismi di comodo che reali separazioni tra modelli culturali, giacché proprio nel Capriccio sembra affiorare la sostanziale continuità tra questi due “mo- menti” della storia dell’arte e della produzione letteraria. Ce ne servia- mo come indicatori di un particolare periodo, sullo sfondo di alcune opere significative che del Capriccio sono l’esplicazione in una forma ora artistica e poetica, ora comportamentale e finanche antropologica.

A questo fine concorreranno quattro livelli di confronto: l’origine della parola e i suoi risvolti letterari; il rapporto fra Capriccio e melanconia;

il nesso che tiene insieme medicina e magia sotto la specie di questa nozione, e infine la materializzazione del capriccio in una forma artisti- ca. Bisognerà così avvertire che il Capriccio, a differenza di molte altre idee estetiche, non ha una storia (nel senso di “vicenda cronologica- mente determinata”) anche se diversi fattori storici (probabilmente il trauma dello Scisma protestante; il colpo non meno violento del Sacco di Roma, con la ampia diffusione in Italia di modelli formali d’oltral- pe 2 ; il controllo sempre più soffocante della cultura da parte della Chiesa) paiono contribuire alla sua affermazione concettuale e ai suoi riflessi artistici (ma non solo), in un momento nel quale l’imperativo di una legislazione certa pareva l’unico antidoto contro il dissolversi della regola stessa.

È probabile allora che la presa di coscienza da parte degli intellet-

tuali intorno ruolo ormai decisivo occupato in seno alla organizzazione

della cultura non meno che della politica (in ordine alla legittimazione

del potere sovrano), abbia portato con sé non solo la necessità di un

codice normativo entro il quale riconoscersi, ma anche la possibilità che

questo sistema potesse di volta in volta essere infranto. Pensiamo, ad

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esempio, a Giorgio Vasari. È denso di significato il fatto che il biografo aretino faccia uso dell’aggettivo “capriccioso” non solo in riguardo degli artisti contemporanei (nell’ovvio utilizzo di un termine che giusto alla metà del Cinquecento trovava la sua compiuta definizione teorica), e non soltanto a definire l’opera di personaggi per definizione “bizzar- ri”; anzi, egli si serve di “capriccio” pure a proposito dell’opera di artefici del passato in un anacronismo critico grandemente rivelatore.

Così persino Cimabue, l’arché del meccanismo teorico delle Vite e l’i- niziatore della pittura secondo regola, inventa una «cosa capricciosa e nuova» con «il dar lume» e l’esplicare attraverso le parole (con un significativo uso del doppio canale visivo e verbale) il «concetto» della rappresentazione, aprendo così «la via all’invenzione» 3 . Di Giotto sono

«capricciose e belle» le invenzioni relative alle Storie di San Francesco ad Assisi 4 , e così di Nicola Pisano 5 , di Simone Martini (qualificato d’altronde come «molto capriccioso» 6 ) appaiono le opere raffinate. Di Andrea Mantegna «invenzione difficile e capricciosa» 7 sono gli scorci, così come di Leon Battista Alberti «bellissima, capricciosa e difficile»

è la concezione della tribuna della basilica dell’Annunziata de’ Servi a Firenze 8 . Paolo Uccello, annota il biografo, «sarebbe stato il più leg- giadro e capriccioso ingegno che avesse avuto da Giotto in qua l’arte della pittura» se – piuttosto che perseguire fino alle ultime conseguenze lo studio della prospettiva – si fosse invece dedicato a quello della fi- gura 9 . La rassegna potrebbe continuare in un vero e proprio asindeto (e per una campionatura di queste occorrenze si rimanda agli studi di Alice Rathé 10 e Roland Le Mollé 11 ), a riprova di come “capriccio”

sia probabilmente la chiave d’arco sulla quale si tiene l’intero impianto teorico delle Vite. L’utilizzo così intensivo da parte del biografo aretino si distende entro uno spettro di significazioni di grande latitudine, che dà conto della polisemia che “capriccio” – giusta la sua origine etimo- logicamente composita – a metà del Cinquecento ormai abbracciava.

Il Capriccio di Vasari è così allo stesso tempo l’ispirazione iniziale, il concetto intellettuale (nell’accezione, come vedremo, elaborata da Be- nedetto Varchi), una prorompente volontà d’agire. È l’ispirazione che si misura con le difficoltà e sfida le opposizioni della materia (come in Michelangelo), e – utilizziamo una felice formula di Alice Rathé – «non solo fertilizza lo spirito dell’artista su cui agisce, ma allo stesso tempo [come nel caso di Morto da Feltre, il prototipo nell’artista innovatore]

ispira la posterità» 12 . È d’altra parte indicativo che gli artefici poco sopra citati avessero, ciascuno per proprio conto, contribuito al conso- lidamento della regola nel corpo del meccanismo procedurale delle arti:

quasi che l’elaborazione di una norma valevole in assoluto recasse con sé la diversione da quel codice, un allontanamento accessibile solamente da coloro che quel protocollo avessero redatto.

Il Capriccio è una idea estetica eminentemente cinquecentesca, ep-

pure senza fare riferimento a questa nozione ben difficilmente forse

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potremmo comprendere alcuni aspetti – finanche sconcertanti – dell’ar- te contemporanea. Nel xvi secolo gli artisti “capricciosi” avevano re- alizzato quella che sarebbe apparsa una conquista “originale” dei loro eredi del Novecento e del tempo attuale: liberarsi dal potere restrittivo della regola (sia essa il “saper fare”, ovvero l’armonia delle forme, il decorum, il sottostare a un codice “morale” riconosciuto), per elaborare un sistema di prescrizioni del tutto autonomo e soggettivo entro il quale sia l’artista a dominare l’azione, e non essa a rigidamente indirizzarne l’operato. Proprio su questa considerazione Gustav René Hocke ha fondato l’impianto teorico di Die Welt als Labyrinth 13 , un testo davve- ro esemplare per comprendere l’eredità del Cinquecento nella cultura occidentale. Se avessimo facoltà d’analizzare sotto la lente del Capriccio un ready-made di Duchamp, un’opera di Piero Manzoni, un dripping di Pollock o una installazione in formaldeide di Damien Hirst, o an- cora una “raccapricciante” plastination di von Hagens, probabilmente giungeremmo a conclusioni analoghe a quelle che potremmo formulare – pur con gli ovvi distinguo – intorno a un’opera di Pontormo, di Mar- cantonio Raimondi, di Anton Francesco Doni: in tutte, il divertimento dalla norma codificata dalla tradizione ha prodotto uno shock o uno scandalo, che poi sono i prodotti più tipici della poetica del Capriccio.

Quella di Anton Francesco Doni, un autore a cui faremo costante rife- rimento, è probabilmente la più tipica delle esemplificazioni cinquecen- tesche del capriccio nell’ambito della scrittura. Nello scrittore fiorentino, che peraltro costituisce un’interessante “doppia” identità geografica fra la Toscana e Venezia, la poesia è un’attività che è sì frutto di manía, di follia assunta a fattore propulsivo della creazione letteraria, ma che piuttosto che risalire a un iperuranio trascendente scava in una materia densa di simbologie più o meno criptate alla ricerca dell’ispirazione.

Un altro aspetto che converrà tenere presente è relativo alla plu- ralità categoriale che è consustanziale all’idea che cercheremo di rico- struire. Nel Capriccio, di fatto, tanto su un piano semantico, quanto su uno concettuale, convergono due linee genetiche apparentemente in- conciliabili: il piacere/desiderio da un lato, l’orrore/disgusto dall’altro.

In questa reductio ad unum, operata sullo sfondo di una totale abdica- zione alla ragione e di una relativa ricusazione della regola, il Capric- cio – che pure si configura spesso come una celebrazione del brutto, del deforme, del grottesco, fonde al bello l’orrore. Sotto le apparenze del Capriccio, allora, pare emergere una sorta di Sublime depotenziato nel quale il piacere del Brutto nasce dall’inconsueto che questo è in grado di esprimere, dall’assenza di una forma definita (spesso, come vedremo, tra gli scrittori del Cinquecento “capriccio” è associato alla formula “non so che”), e finanche dall’inclinazione al demoniaco e all’occulto, che conduce questa nozione alle regioni dell’eresia.

Il Capriccio è indubbiamente un’idea che richiama al Brutto, al de-

forme, al grottesco, a ciò che a fatica sta dentro i confini della rappre-

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sentazione. Le lontane radici dell’estetica moderna, due secoli prima del varo da parte di Batteux e Baumgarten, in questa idea avevano insomma germogliato sotto un segno completamente diverso da quello che avrebbe connotato la nuova disciplina nel Settecento. Eppure nei molti testi che abbiamo preso in esame emerge con chiarezza il ruolo di quelle altre nozioni cui ci riferivamo, che concorrono a costituire il suo sostrato. La formula “bel capriccio”, una specie di ossimoro, sarà così un vero e proprio topos che – specie nell’ambito della teoria dell’arte – alcuni intellettuali cinquecenteschi utilizzeranno a designare il prodotto di un’ispirazione prorompente eppure contenuta entro le linee del decorum. Qui non si tratta certo di individuare nel Capriccio una specie di banale e indifferenziato ecumenismo estetico; si tratta invece di riconoscere in esso il segno di una complessità che è sì ca- ratteristica del secolo in cui questa idea ha trovato la sua sistemazione teorica, ma che ancor più è il risultato (e in proiezione, forse anche la causa) di molti fenomeni dell’estetica e dell’arte che in esso hanno trovato la loro sintesi. Un altro fattore, che una volta di più s’iscrive nel ruolo della molteplicità che costituisce la sostanza di questa idea, è quello relativo a chi in effetti competa il ruolo di “capriccioso”. L’arti- sta, in realtà, non è che uno degli interpreti (e nemmeno il principale), di questo atteggiamento: “capriccioso” è il poeta, l’esegeta di testi dal senso oscuro, il buffone, il politico, persino il santo. “Capriccioso”, ormai all’occaso del secolo, sarà per Huarte l’ingegno di chi s’inoltra al di là della norma. Ma il Capriccio (è opportuno porre in rilievo) non corrisponde affatto all’assenza di una regola (da qui il titolo vagamente ossimorico che abbiamo attribuito a questo studio, e che tra breve scioglieremo): coincide piuttosto con l’adesione a una legislazione del tutto autonoma grazie alla quale la volontà dell’artista è libera di spin- gersi oltre i territori canonizzati dalla tradizione. Quando, nel primo dei dialoghi degli Eroici furori (1585), Giordano Bruno per le parole di Luigi Tansillo afferma che «la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie» 14 non solo s’avvale del tramite di un poeta “capriccioso” (tra poco notere- mo in che termini) per esprimere un lontano retaggio della dottrina platonica (il furor come condizione germinatrice della poesia, e come privilegiata disposizione conoscitiva); ma soprattutto ratifica l’ormai compiuto passaggio della regola alla sfera della soggettività, in una con la sua subordinazione al processo creativo: ciò che, in effetti, rap- presenta l’ossatura concettuale sulla quale si tiene l’idea di Capriccio.

Il titolo di questo saggio sembrerà riecheggiare di un paragrafo

della Storia dell’Arte italiana di Giulio Carlo Argan: confessiamo che la

coincidenza è stata del tutto casuale, emersa dal fondo di una lontana

reminiscenza. In quella fattispecie, La regola e il capriccio 15 pareva-

no due entità separate, diremmo concorrenti: nella vacanza dell’una,

quella formula congiuntiva sembrava introdurre l’esercizio dell’altro,

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quasi a descrivere l’impossibilità che la regola potesse coabitare al ca- priccio. Qui, piuttosto, cercheremo di dimostrare come il Capriccio non negando in assoluto il valore della norma, richiami piuttosto a una legislazione autonoma di volta in volta elaborata dall’artista (ma anche dallo scienziato, dal medico, dal collezionista, dal folle), che di quella direttiva è la diversione e insieme la strada parallela. Il Capric- cio presuppone insomma una regola eterodossa che al contempo è un inesauribile codice legislativo. Ciò esplicita dunque che questo saggio possa essere letto come una sorta di introduzione alla vicenda di gran lunga più ampia che questa idea distende entro la storia dell’Estetica, ma che già nel Seicento prenderà ad assumere connotati differenti e – come vedremo – darà luogo a una decisiva inversione del rapporto fra “regola” e “capriccio”, che d’altro canto corrisponde al passaggio di questo da categoria concettuale a forma ormai caratteristica, e “uffi- ciale”, della espressione artistica. Con il Barocco, insomma, il Capriccio da anti-regola si tramuterà nella regola canonica.

Dall’esame del testo, il lettore si troverà probabilmente disorientato dalla disomogeneità con la quale facciamo uso della parola “capriccio”, talora in corsivo, talaltra in tondo virgolettato, minuscolo o maiuscolo.

Affinché ciò non appaia – in accordo con l’oggetto della trattazione – un capriccio, cerchiamo qui di spiegare la ragione di tale varietà. La polisemia di questo termine ci costringe a ricorrere ad alcune format- tazioni del testo che – sebbene solo in parte – consentono di districarsi nella selva di significati della parola, permettendo di distinguerne di volta in volta la particolare accezione. Di seguito proponiamo le di- verse forme che utilizzeremo:

Capriccio: idea estetica e personificazione allegorica (ad es. in Ce- sare Ripa);

capriccio: forma artistica (nelle arti figurative e nella musica);

“capriccio”: forma linguistica e lemma di repertorio;

capriccio: movente dell’ispirazione.

Sul finire di questa “fatica”, preparando il lettore a condividerne un non

diverso travaglio, è per me doveroso procedere ad alcuni ringraziamenti. Ringra-

zio il professor Luigi Russo per avere atteso con pazienza la concretizzazione di

questo studio e averlo accolto nella prestigiosa collana del Centro Internazionale

Studi di Estetica da lui diretta, e la professoressa Lucia Pizzo Russo per alcuni

gentili consigli; un sentito ringraziamento al professor Salvatore Tedesco per

i preziosi suggerimenti fornitimi durante la redazione del testo; e al professor

Paolo D’Angelo per i non meno illuminanti pareri; sono grato al professor

Giovanni Lombardo per l’amichevole consulenza su alcuni loci classici; alla

professoressa Elisabetta Di Stefano, vera specialista di Estetica rinascimentale,

per l’attenta lettura dell’elaborato ancora nella sua fase di bozze; ringrazio an-

cora la professoressa Simonetta La Barbera e il professor Massimiliano Rossi nel

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loro ruolo di fonti a cui ho attinto (direttamente, prim’ancora che ex libris) per l’elaborazione di questo lavoro; il professor Gianni Carlo Sciolla e il professor Franco Bernabei. Un ringraziamento, inoltre, alla dottoressa Irene Cordaro del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ringrazio gli amici e colleghi del

“Dipartimento Fieri-Aglaia” e del “Dipartimento di Studi Culturali Arti Storia Comunicazione” dell’Università degli Studi di Palermo. Un grazie, infine, ma non per ultimo, alla mia Vanessa cui (unitamente a Marco e Gioele) questo libro è dedicato.

1

Su questi aspetti, rinviamo agli studi di Jurgis Baltrušaitis ai quali ci riferiremo nel corso del cap. iv .

2

Cfr. su questo A. Chastel, The Sack of Rome, 1527, Princeton University Press, Prince- ton 1983; trad. it. a cura di M. Zini, Il Sacco di Roma. 1527, Einaudi, Torino 1983.

3

Vasari (ed. 1568, vol. ii , p. 41 dell’ed. Bettarini-Barocchi, su cui infra) allude a una perduta piccola Crocifissione a tempera, già nel chiostro del convento di San Francesco a Pisa, nel quale erano raffigurati degli angeli che “materialmente” trasportavano le parole scritte sulla tavola dal Cristo alla Madonna e a San Giovanni e viceversa.

4

Ivi, p. 101.

5

Ivi, p. 61: « Ma la più bella, la più ingegnosa e più capricciosa architettura che facesse mai Nicola fu il campanile di San Nicola di Pisa».

6

Ivi, p. 197: «Nella terza è dipinto da Simone quando, tornato dopo sette anni d’Oltra- mare, mostra aver fatto tre quarantane in Terrasanta, e che standosi in coro a udir i divini uffizii dove molti putti cantano, è tentato dal Demonio, il quale si vede scacciato da un fermo proponimento che si scorge in Ranieri di non voler offender Dio, aiutato da una figura – fatta da Simone per la Constanza – che fa partir l’antico Avversario non solo tutto confuso ma, con bella invenzione e capricciosa […] Le quali tutte cose di quest’opera, et altre che si tacciono, mostrano che Simone fu molto capriccioso et intese il buon modo di comporre leggiadramente le figure nella maniera di que’ tempi».

7

Ivi, vol. iii , pp. 555 e 556.

8

Ivi, p. 288.

9

Ivi, p. 61.

10

A. Rathé, Le Capriccio dans les écrits de Vasari, “Italica”, vol. lxvii , n. 4 (Winter 1980), pp. 239-54.

11

R. Le Mollé, Le Bizarre et le Capriceux ou: le vocabulaire de l’Insolite et de l’Extra- vagant, in Id., Georges Vasari et le vocabulaire de la critique d’art dans les «Vite», ELLUG, Grenoble 1997

2

, cap. 7, pp. 153-208.

12

Ivi, p. 242.

13

G. R. Hocke, Die Welt als Labyrinth. Manier und Manie in der europäischen Kunst, Rowohlt Tashenbusch Verlag GmbH, Hamburg 1977; trad. it a cura di G. Ferro Milone, Il mondo come labirinto. Maniera e mania nell’arte europea. Dal 1520 al 1650 e nel mondo di oggi, Teoria, Roma-Napoli 1989.

14

G. Bruno, De gl’eroici furori, presso Antonio Baio, Parigi 1585; ed. a cura di M.

Ciliberto, S. Bassi, Laterza, Bari 1995, a p. 25: «Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti».

15

G. C. Argan, La regola e il capriccio, in Id., Storia dell’arte italiana, vol. iii , Sansoni,

Firenze 1992 (1

a

ed. 1968), pp. 193-94.

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I – Una grammatica del Capriccio

1. Il gregge e l’orrore

“Capriccio” è, probabilmente, uno dei lemmi più densi di signi- ficato della lingua italiana. Davvero pochi sono, infatti, i termini che abbracciano una così ampia gamma di sensi e un altrettanto esteso ventaglio di definizioni. Qualche esempio. Il Grande Dizionario della Lingua Italiana curato da Salvatore Battaglia 1 , alla voce relativa, regi- stra: “Voglia improvvisa e bizzarra”, “idea balzana, fantastica, pensiero irragionevole”, “istintività imprevedibile”, “ghiribizzo”, “fantasia ecci- tata e bizzarra”, “varietà strana e incontrollabile di comportamento”,

“stranezza”, “arbitrio”, “invenzione piena di fantasia libera e un po’

bizzarra, ricca di originalità (nella letteratura e nelle arti figurative)”.

Peraltro, quelli appena citati non sono che alcuni dei sensi sottesi all’e- sponente, che conta almeno altri due significati non meno rivelatori,

“amore leggero e incostante”, “ribrezzo, brivido (di paura, di orro- re)”, “raccapriccio”. Forse, solo la parola “forma” – lo ha mostrato con esemplare chiarezza Tatarkiewicz 2 – può vantare una pluralità di accezioni ugualmente larga. Ora, un repertorio così “prodigioso” di sinonimi induce a interrogarsi sul perché un termine – d’altra parte relativamente ‘recente’ nella storia della lingua italiana – possa essersi caricato nel corso del tempo di tale bagaglio semantico.

Se dovessimo rappresentare in un diagramma la vicenda etimolo- gica del termine “capriccio”, dovremmo probabilmente fare ricorso a uno schema ‘bifido’, una sorta di “Y” che potrebbe con una certa efficacia esemplificarne la storia. Notavamo più sopra che “capriccio”

è una parola eminentemente italiana, un conio linguistico bassome-

dievale ovviamente assente nel latino 3 . Ancora più recente, poi, è la

sua introduzione nelle altre lingue romanze: in francese, ad esempio,

essa compare solo nel xvi secolo, negli stessi anni in cui si afferma

nella lingua spagnola. In effetti, le prime attestazioni della parola nella

compagine linguistica italiana presentano una doppia forma, caporiccio

e “capriccio”, che costituisce una coppia sostanzialmente sinonimi-

ca. Entrambe sarebbero in seguito confluite fondendosi in un unico

significante, “capriccio” appunto, che avrebbe coperto l’intera area

funzionale delle due parole. Di fatto, tanto caporiccio quanto “capric-

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cio” sono un calco semantico del latino horror, ed è significativo che il secondo dei due termini compaia per la prima volta proprio in due traduzioni italiane di opere latine. Per la variante “capriccio”, attestata pressoché contemporaneamente rispetto a caporiccio, è possibile indi- care un terminus ante quem nel 1292, anno di morte dell’autore della prima traduzione italiana delle Historiae adversum Paganos di Paolo Orosio, il fiorentino Bono Giamboni 4 . La versione di Giamboni, nota con il titolo Delle Storie contra i Pagani, fu pubblicata nel 1849 a cura di Francesco Tassi 5 , sulla base del codice segnato Gaddi 22 custodito presso la Biblioteca Medicea-Laurenziana di Firenze. In particolare, il locus dell’opera di Orosio in cui compare il nostro termine è contenuto al par. 18 del libro v . Orosio, rievocando alcune vicende della guerra in Macedonia condotta da Claudio, si sofferma su alcune spaventose usanze belliche degli Scordisci, una popolazione stanziata sulla Rodo- pe, una catena montuosa della Tracia. Così scrive Orosio:

Interea Macedonicum bellum Claudius sortitus varias gentes, quae Rhodopaeis montibus circumfusae sunt ac tunc Macedoniam crudelissime populabantur – nam inter cetera dictu audituque horrida quae in captivos agebant, raptis, cum poculo opus esset, humanorum capitum ossibus cruentis capillatisque adhuc ac per interiores cavernas male effosso cerebro oblitis avide ac sine horrore tamquam veris poculis utebantur: quarum cruentissimi atque immanissimi Scor- disci erant – has itaque, ut dixi, Claudius pellere Macedoniae finibus bello adtemptavit magnisque se malorum molibus obiecit: unde cum animo aeger et curis circumsaeptus, morbo insuper correptus esset, interiit 6 .

Questa è invece la versione approntata da Giamboni, relativamente al passo di Orosio:

In questo mezzo tempo la battaglia di Macedonia datola a Claudio, isvariate genti che sono isparte per le montagne Rodopee, e allotta crudelemente Ma- cedonia guastavano; (perché tra l’altre crudeli e spaventevoli cose che negli uomini per loro presi faciano, quando facea loro bisogno di bere, prese l’ossa delle capita degli uomini, essendo ancora piene di capegli e sanguinose, trattone fuori il cervello, con disiderio e sanza riprezzo, ovvero capriccio, come fossero veragi vaselli da bere, usavano; i quali erano ancora sanguinosi e crudeli a vede- re): le dette genti, com’io ti dissi, attentò Claudio delle contrade di Macedonia discacciare, e a grandissimi pericoli di male si ne mise 7 .

Nella versione di Giamboni, in effetti, la traduzione del comple- mento di modo sine horrore è resa con una ridondanza: il corrispet- tivo volgare sanza riprezzo, che evidentemente ne è la prima uscita, è ulteriormente chiarificato dall’intromissione di un sinonimo che già da tempo doveva essere entrato nell’uso dell’italiano, con il medesimo significato. È interessante, però, un’altra analisi della coppia riprezzo- capriccio soprattutto da un punto di vista morfologico. La forma ar- caizzante del primo termine, ampiamente attestata in Toscana (tra gli altri in Dante 8 ) come già rilevato da Cortellazzo e Zolli 9 nel senso di

“senso di repulsione, di schifo e di orrore”, e derivante nel suo assetto

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“normalizzato” da brezza 10 , è pressoché omofona rispetto alla variante caprezzo che compare in Fazio degli Uberti. In un passo di quel curioso poema allegorico-geografico che è Il Dittamondo (1345-67), lo scrittore pisano – a proposito dei due poli settentrionale e meridionale – annota:

Le due [zone del mondo] da lato stan tra ’l sole e ’l rezzo abitabili sono e temperate;

l’altre, mortal dal ghiaccio e dal caprezzo 11 .

Riprezzo e caprezzo, varianti regionali rispettivamente di “ribrezzo”

e “capriccio” probabilmente conformate secondo un processo analo- gico, sono chiaramente due sinonimi. Eppure, a ben guardare, una sfumatura di significato pare differenziarle con nettezza. Riprezzo, di fatto, sembrerebbe descrivere il moto di orrore di fronte a uno spet- tacolo particolarmente cruento o rivoltante, connotandosi dunque di un’accezione psicologica. Caprezzo, nell’utilizzo più tardo da parte di Fazio degli Uberti, esprime invece la reazione fisica del corpo a causa del freddo, fra il brivido e il tremore.

In effetti, nell’altro volgarizzamento cui facevamo cenno la forma standard capriccio è usata proprio in questo senso. Si tratta di un pas- so della lettera lxxiv del libro viii delle Epistulae ad Lucilium, che conviene riportare:

Quemadmodum in corporibus infirmis languorem signa praecurrunt – quae- dam enim segnitia enervis est et sine labore ullo lassitudo et oscitatio et horror membra percurrens – sic infirmus animus multo ante quam opprimatur malis quatitur 12 .

Nella traduzione italiana, il locus è restituito in questi termini:

Alcuni segni vengono principalmente ne’ corpi, che significano la ’nfermità, che de’ venire, siccome sono una pigrizia, ch’assalisce i nerbi, e una stanchezza sanza fatica, e uno sbadigliare, e un capriccio, che trascorre per le membra, facendole tremare. Così l’animo infermo assai, innanzi che ’l male gli vegna, è percosso, e cade, pigliando la sua disavventura innanzi tempo 13 .

La parafrasi in questione, nota con il titolo di Pistole di Seneca volgarizzate e pubblicata in editio princeps solo nel 1717, risale a un periodo compreso tra il 1312 e il 1325 ed è contenuta nel codice mi- scellaneo segnato Pluteo 76.58 della Biblioteca Medicea-Laurenziana di Firenze, tra le carte 11rA e 95vB. La versione, sin dalla sua risco- perta settecentesca, ha presentato non pochi problemi interpretativi.

Già il curatore della prima stampa, Giovanni Bottari, ipotizzava che

la trasposizione in volgare delle Epistulae senecane fosse avvenuta at-

traverso un intermediario provenzale (o antico francese) andato per-

duto 14 . Congettura sostanzialmente confermata da Mario Eusebi 15

che, nel ripercorrere la vicenda testuale delle traduzioni dell’opera di

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Seneca, ha identificato questo primo passaggio nel volgarizzamento commissionato tra il 1308 e il 1310 da Bartolomeo Siginulfo di Napoli, conte di Caserta e Gran Ciambellano del Regno di Sicilia. A questo, ma anche all’originale latino, avrebbe attinto la traduzione – databile a suo giudizio al 1325 circa – promossa dal mercante e banchiere fio- rentino Riccardo Petri e conosciuta attraverso tre testimoni, dei quali il terzo è il Laurenziano 76.58. Nel 1769 l’erudito Lorenzo Mehus 16 aveva indicato nel notaio fiorentino Andrea Lancia, celebre tradutto- re di molti classici latini 17 , l’autore del volgarizzamento delle Pistole sulla base di una “firma” che compare in un altro manoscritto (già presso la Biblioteca Magliabechiana, e ora alla Bibliothèque National Central de France), testimone della versione dell’opera di Seneca. Al di là dell’attendibilità di questa supposizione, è certo che il termine

“capriccio” nel primo quarto del xiv secolo vantasse ormai una sua completa legittimazione letteraria. In effetti, il verbo derivato dalla nostra parola, accapricciare, già allora era entrato nel lessico poetico con una funzione particolarmente espressiva. Vi ricorre, ad esempio, Dante nel canto xxii dell’Inferno:

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia, uno aspettar così, com’elli ’ncontra ch’una rana rimane e l’altra spiccia… 18 .

All’interno della Commedia il verbo appena evidenziato costituisce una sorta di hapax, anche se già nel canto xiv il poeta aveva fatto uso della forma più modernamente composta raccapriccia 19 , rievocando il ruscello di sangue bollente che attraversa la landa infuocata nel terzo girone del settimo cerchio infernale: in entrambe le varianti, esso è utilizzato a descrivere la reazione a posteriori del fisico a un ricordo capace ancora di atterrire. Peraltro, gli antichi commentatori dell’ope- ra dantesca, chiosando il locus appena citato, avevano appuntato più volte la loro attenzione sul verbo accapricciare, ritenendolo meritevole d’ulteriore indagine. Guglielmo Maramauro 20 , alla fine degli anni ’60 del Trecento, parafrasava «acapricia idest tremola» 21 l’azione “psicofi- sica” descritta da Dante; più articolata la spiegazione di Francesco da Buti il quale, in una tra le più celebri esegesi dell’Inferno, annotava

«accapriccia, cioè la memoria me ne spaventa: lo cuore si piglia qui per la memoria; capriccio significa paura, e però capricciare o vuogli raccapricciare, cioè spaurire…» 22 . Il ricorso alla glossa esplicativa, per sciogliere l’“oscurità” del verso dantesco, testimonia d’altra parte come la parola “capriccio” (e il verbo da essa derivato) – che pure ormai vantavano una significativa casistica d’utilizzo poetico 23 – necessitas- sero ancora di spiegazione all’indirizzo del pubblico.

In un altro volgarizzamento, posteriore d’una quindicina d’anni

rispetto alla redazione della Commedia, il verbo è ancora una volta uti-

lizzato, diremmo, con una funzione psicologica “retroattiva”: si tratta

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di un passo delle Metamorfosi di Ovidio nel quale il poeta, immaginan- do che Alcmena rievocasse le vicende della nascita di Ercole, scriveva:

Nec iam tolerare labores

ulterius poteram. Quin nunc quoque frigidus artus, dum loquor, horror habet, parsque est meminisse doloris 24 .

La traduzione italiana dell’opera di Ovidio fu approntata, intorno al 1333, dal pratese Arrigo Simintendi 25 che restituì i versi appena citati in questi termini:

E io non potea già più sostenere

la fatica; e ora ch’io me ne racordo, tutte le mia membra mi s’accapricciano; e racordarmene è parte del dolore 26 .

La trasposizione del verbo latino horrere attraverso accapricciare (e di horror con “capriccio”) permetteva dunque di rendere icasticamente l’effetto, “epidermico” e doloroso a un tempo, della paura e del gelo nonché – lo notavamo più sopra – lo sbigottimento al cospetto di una memoria che ritorna tormentosa.

Peraltro, horre˘o (letteralmente “essere irto”, “rizzarsi”, “arricciar- si”, “essere rigido [per il freddo]”) è riconducibile all’avestico zaršaya- (“rizzare le penne”), a sua volta ascendente alla radice ie. *ĝher-, “essere irto”, che in latino avrebbe poi prodotto termini come hircus, hirsu¯tus, hispidus 27 . Consideriamo per un attimo hircus: derivante da una forma ie. *gher-k w o-, esso significava com’è noto “capro”, forma alternativa rispetto a caper e caprum per indicare “becco”, e corrispondente al greco travgo" , un’altra parola che converrà tenere in vista. È dunque sorprendente osservare come capriccio abbia iscritta davvero, nel suo

“codice genetico”, una duplice natura semantica: da un lato lo spa- vento, dall’altro la capra.

A questo punto siamo davvero di fronte a un bivio, alla biforcazio- ne di quella immaginaria “Y” che – come dicevamo – pare descrivere la vicenda etimologica del nostro termine. Notavamo infatti che nell’i- taliano antico “capriccio” concorresse alla forma caporiccio, della quale è generalmente considerata una contrazione: il composto di “capo”

+ “riccio”, descrive appunto il rizzarsi dei capelli in capo per opera

di uno shock violento. Anche questo termine, d’utilizzo minoritario

rispetto all’assetto che poi avrebbe avuto fortuna, contava su una tra-

dizione letteraria notevole, sia pure confinata all’ambito della poesia

comico-realistica. Nel sonetto L’altrier sì mi ferio una ticca, variamente

attribuito a Cecco Angiolieri 28 o (più verosimilmente) al senese Meo

dei Tolomei 29 , il poeta descrivendo in toni tutt’altro che stilnovistici

la sua donna, scrive:

(22)

Mostrav’aspra 30 come cuoio di riccio:

e’ le feci una mostra di moneta;

quella mi disse: – Avesti caporiccio? – 31 .

L’utilizzo del termine da parte di Meo dei Tolomei, un poeta dagli accenti spesso espressionisticamente caricati e apertamente debitori nei confronti di Angiolieri, parrebbe suggerire uno statuto “popolaresco”

di caporiccio, un po’ come “capogiro” (forma d’altro canto similmente strutturata) modernamente si oppone al registro alto “vertigine”. Pe- raltro, il contesto d’uso della parola da parte del poeta senese sembre- rebbe flettere il suo significato piuttosto nella direzione di “desiderio”,

“fregola”, che in quella del tutto opposta di “paura”. Più tardi, verso la fine del secolo, Francesco da Buti nel già citato Commento all’opera dantesca parafrasava il v. 78 del canto xiv dell’Inferno con «Capricciare è levare li capelli ritti, come addiviene per paura, cioè caporicciare; e però si dice: io ebbi uno capo riccio; cioè uno arricciamento de’ capelli del capo, che significa la paura» 32 : è probabile dunque che caporiccio risultasse di più semplice accesso o meglio, più facilmente esplicabile rispetto a “capriccio” e al corrispondente verbo raccapricciare.

Il problema della genealogia del termine resta dunque aperto: per risalire alla sua origine, sembrerebbe che ciascuna delle due ramifica- zioni della “Y” – una conducente a “capra”, l’altra al composto “capo”

+ “riccio” – sia una strada legittimamente percorribile. Ottorino Pia- nigiani all’inizio del Novecento, muovendo da uno dei significati della parola, “voglia o idea che ha del fantastico e dell’irragionevole”, am- metteva l’ipotesi che “capro” fosse il nucleo lessicale dal quale avrebbe avuto sviluppo capriccio, nella considerazione che quell’ovino è «animale di bizzarra natura, di corto cervello» 33 ; la subitaneità del capriccio, idea che balza inattesa simile al salto di una capra e corrispondente al francese verve, era dal linguista ricondotta al latino vervex, “castrone”

ma anche “sciocco”. Sotto questa specie, perciò, all’orizzonte del nostro concetto sta quella componente di follia e di irrazionalità che – soprat- tutto a partire dalle teorizzazioni cinquecentesche – avrebbe costituito la marca più evidente del capriccio agli occhi della critica. Pianigiani, nel tentativo di ricostruire le diverse fasi linguistiche attraverso le quali la nostra parola avrebbe raggiunto il suo assetto definitivo, richiama una forma verbale latina caprizare, “saltellare” (da cui il participio caprizans, utilizzato nella locuzione caprizans pulsus per descrivere il polso irrego- lare 34 ), che in effetti avrebbe facilmente potuto volgersi in *capriciare, da cui *capricciare, nel suo passaggio all’italiano antico.

Diversi indizi, d’altra parte, documentano una sopravvivenza di

questo verbo nel latino medievale, anche al di fuori dell’area lingui-

stica italica. Compare ad esempio, flesso nella forma participiale, in

un verso dell’Alda di Guglielmo da Blois, licenziosa commedia d’i-

spirazione menandrea del xii secolo 35 . Descrivendo i tratti fauneschi

del servo Spurio, l’autore scrive: «gli deformano gli occhi, affossati

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nella cavità sotto la fronte, una selva di sopracciglia e una continua sonnolenza. Un naso caprino, come rotto in passato da un pugno e spianato sulle gote, affonda [nel viso] senza alcuna protuberanza» 36 . In questo caso l’espressione nasus caprizans, genericamente traducibi- le con “naso caprino”, parrebbe tuttavia – almeno dall’ambito d’uso entro cui compare – indicare una sorta di mostruoso naso camuso, e

“tremolante a modo di quello d’un caprone”, peraltro perfettamente adeguato all’aspetto animalesco di Spurio. Più tardi, ma siamo ormai alla fine della media latinità, è dato incontrare caprizare in un’altra occorrenza davvero interessante. Si tratta di un passo posto quasi a conclusione dei Theorica Musice (1492) di Franchino Gaffurio 37 nel quale il musicologo lodigiano discute delle differenti usanze “canore”

presso alcuni popoli europei, avvertendo: «e non paia che un unico e medesimo tipo d’armonia sia in uso presso tutte le genti nelle cele- brazioni solenni. Gli inglesi, infatti, cantando in coro lanciano grida di gioia. I francesi cantano semplicemente. Gli spagnoli emettono sospiri, i tedeschi ululati. Alcuni italiani, come i genovesi e quelli che risiedono presso le loro coste, preferiscono saltellare» 38 . Anche in questa fatti- specie, tuttavia, rendere caprizare (con buona probabilità un tecnici- smo) con “saltellare” è verosimilmente inefficace. È probabile, infatti, che il verbo in esame – nell’utilizzo fattone da Gaffurio – identifichi piuttosto il “gorgheggiare” o il misurarsi in quei virtuosismi vocalici peraltro tipici del canto corale del Quattrocento. Che, in effetti, lo spazio d’impiego di questo latinismo s’estendesse entro quello della musica e del canto, è ancora confermato da un verso (d’una trentina d’anni posteriore) della Macaronea (1521) di Giovan Giorgio Alione 39 , nel quale il verbo caprizare 40 – giusta la proposta di Zannoni 41 – è assunto col significato di “cantare capricciosamente a squarciagola” 42 .

Torniamo, però, ancora a Pianigiani. Nell’evidente impasse cui era pervenuto il suo sforzo di ricostruire una etimologia credibile alla pa- rola, lo studioso ipotizzava una strada alternativa ascendente a capera- re, “corrugare la fronte (a modo delle capre)” attraverso un’ipotetica forma *caperiticus: anche in questo caso, tuttavia, la derivazione da

“capro” non pare messa in discussione. In effetti, dal punto di vista strettamente morfologico, capriccio si apparenta a un gruppo lessicale italiano abbastanza ristretto, che comprende una serie di lemmi acco- munati dalla terminazione nel morfema -iccio: “bisticcio”, “carniccio”,

“feticcio”, “graticcio”, “pagliericcio”, “pasticcio”, “traliccio”, nonché altri ormai scomparsi dall’uso come carpiccio, “grande quantità (di percosse)”. Il suffisso, peraltro, concorre all’alterazione di diversi ag- gettivi, dando luogo a diminutivi in senso marcatamente dispregiativo:

pensiamo, ad esempio, ad “attaccaticcio”, “malaticcio”, “posticcio”,

“umidiccio” e a molti altri ancora, connotati tutti da un senso d’inde-

terminatezza. Nel caso dei nomi poco più sopra citati, l’identità mor-

fologica pare ricondurre a una velata contiguità concettuale, cosicché

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a tutti pare connaturale l’idea di una giustapposizione, di una mesco- lanza più o meno disordinata, di un intreccio. È lecito allora avanzare l’ipotesi che l’etimo prossimo di capriccio sia da ricercare proprio in

“capro”, e che caporiccio (stante d’altra parte l’attestazione pressoché contemporanea) sia in realtà una sorta di forma paretimologica: è ve- rosimile, dunque, che questo composto fosse foggiato per fornire una spiegazione “normalizzata” a “capriccio”. La sovrapposizione del co- strutto alla forma originaria, senza determinare l’eclisse di quest’ultima, diede luogo a una nuova parola che in verità andò a ricoprire solo una porzione della sua area semantica. Né, d’altra parte, caporiccio avrebbe avuto vita durevole: nel Cinquecento, di fatto, capriccio ne avrebbe riassorbito completamente il settore d’uso, assimilandone il corredo se- mantico. Nel pieno delle discussioni della “Questione della lingua”, il termine avrebbe trovato il suo definitivo assestamento tanto sul piano semantico e lessicale, quanto su quello più strettamente concettuale.

Vediamo a partire da quale campo.

2. Una svolta di senso: la “scrittura” del capriccio

In uno dei primi dizionari comparsi proprio a margine del dibattito

sulla lingua letteraria italiana (siamo all’inizio degli anni ’40 del xvi se-

colo), Francesco Alunno 43 passando in rassegna il repertorio linguistico

di Boccaccio, testimonia come se da un lato “capriccio” aveva ormai

soppiantato la forma composta, dall’altro avesse ancora allargato il suo

ventaglio di significati: «Et C apriCCio si chiama un appetito subito et

senza rasone, tale, qual pare che venga alle capre, che se una salta tutte

l’altre saltano. Item C apriCCi si chiamano quei ribrezzi, ò griccioli 44

del gielo, che vengono nel principio della febre ancora incerta. Onde

viene questo verbo raccapriciare» 45 . La derivazione dal passo della epi-

stola senecana che citavamo all’inizio, per spiegare la seconda accezione

della parola, non sembra dubitabile 46 . Piuttosto, è evidente come a

quella data l’area semantica di “capriccio” comprendesse ormai anche il

senso di “desiderio improvviso e irragionevole” che, da quel momento

in poi, avrebbe segnato profondamente anche l’indirizzo teorico e la

connotazione “tecnica” che avrebbe assunto il termine. Inoltre, come

in una sorta di etimologia “di ritorno”, parallelamente alla scompar-

sa dall’uso di caporiccio i linguisti recuperavano l’originaria – seppure

occulta – derivazione da “capra”, quasi a descrivere la gradazione di

pazzia che ora caratterizzava l’idea sottesa alla parola 47 . Detto diver-

samente, adesso “capriccio” cominciava ad abbracciare un diametro

di significati che partendo da “repulsione” 48 giungeva a toccare il suo

esatto opposto. La letteratura, peraltro, già da tempo aveva registrato

questa traslazione di senso fino a farne – in alcuni casi – la denomina-

zione di un vero e proprio genere sostanzialmente eslege sia dal punto

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di vista formale, sia da quello morale. Così avviene ad esempio in uno scrittore come Pietro Aretino le cui Sei giornate, pubblicate per la pri- ma volta a Parigi (in realtà Venezia) nel 1534 e a Torino (ma proba- bilmente ancora a Venezia) nel 1536 49 , vedono protagoniste cortigiane impegnate a discettare sugli argomenti più lascivi con una libertà di linguaggio che certo era l’antipode estremo della misurata prosa “uffi- ciale” teorizzata da Bembo. È d’altra parte interessante notare come, già nel titolo dei Dialoghi che compongono le due opere, Aretino utilizzi

“capriccio” come variante di Ragionamento 50 , ovviamente nel senso di

“conversazione” 51 . La stessa valenza ‘speciale’ assumerà il termine, una decina d’anni dopo, nell’utilizzo da parte di Giovan Battista Gelli che ne I Capricci del bottaio (Firenze, 1548) 52 raccoglie una serie di dieci Ragionamenti tra Giusto e la sua anima (“registrati” nella finzione dal nipote Bindo) su questioni filosofiche relative soprattutto al problema della vera saggezza. Nel presentare l’opera «a i desiderosi di udire gli altrui capricci», lo scrittore toscano precisa che i ragionamenti di Giusto

«non sono altro che alcuni ghiribizzi che faceva seco stesso» 53 il prota- gonista, uomo del tutto digiuno di lettere. Significativamente, peraltro, il sinonimo per “capriccio” di cui si avvale Gelli, ghiribizzo 54 , ha esso stesso una radice etimologica riconducibile a un animale, risalendo – nota ancora Pianigiani 55 – all’antico tedesco chrepiz “granchio” (eviden- te peraltro l’assonanza di questo alloglotto rispetto al nostro termine), nel senso non solo di “sbaglio”, ma anche di “pensiero fantastico”, e perciò associato a “grillo”. Viene da pensare che, tanto per Aretino quanto per Gelli, utilizzare “capriccio” a denotare un tipo di dialogo che – sotto l’apparente svincolo dalla norma del decorum – assume in- vece una forte valenza gnomica, serva agli autori a “giustificare” i loro personaggi, liberi per il loro status sociale e culturale da qualunque costrizione tematica e stilistica. Il nodo della questione stava proprio in questi termini, nello scardinamento della gabbia formale entro cui i neopetrarcheschi avevano imprigionato la scrittura. Aretino stesso, in una lettera a Nicolò Franco (poi però in sede di stampa indirizzata a Lodovico Dolce) datata 25 giugno 1537, satireggiando contro la tur- ba dei pedanti imitatori di Petrarca e Boccaccio, scriveva: «io dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura ne le sue allegrezze, il qual sta nel furor proprio, e mancandone il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanil senza campane» 56 . Nel mo- mento medesimo in cui il Manierismo letterario teorizzava la soluzione

“trecentesca”, la pulitezza formale condotta sino allo svuotamento del

contenuto, ghiribizzo (e dunque anche “capriccio”) sembrava riportare

la poesia alla sua essenza platonica, un po’ come sarebbe poi avvenuto

– in seguito lo noteremo – con il revival burchiellesco di metà Cinque-

cento. È significativo, poi, che la risposta di Aretino alla reviviscenza

di Petrarca in seno alla poesia del suo tempo sia rappresentata dalla

composizione dei Sonetti lussuriosi (1525-27) 57 , una sorta di ekphrasis

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scandalosa 58 nella quale il modello petrarchesco – sotto la specie di un erotismo più che mai esplicito – viene liquidato in favore di una lontana ispirazione catulliana, e di un totale sovvertimento della regola morale. Nella costruzione del capriccio come forma letteraria l’osceno gioca allora una partita decisiva. E in questo agone è il Brutto a imporsi nel ruolo di categoria preminente, con un valore estetico e edonistico del tutto nuovo.

Negli stessi anni in cui Aretino compone i Sonetti lussuriosi la Caz- zaria di Antonio Vignali 59 , scritta sotto lo pseudonimo di Arsiccio In- tronato 60 , non solo conduce l’indicibile all’imo di un registro in cui la nominazione non arretra di fronte alla crudezza dello scurrile, ma di più ne fa l’apologo di una realtà storica nella quale gli organi sessuali impersonano le storture di una società corrotta. Così al fondo della Caz- zaria sta sì la celebrazione dell’eccellenza dell’amore sodomitico, in una con un atteggiamento misogino indissimulato e un corrosivo attacco anti-fratesco, ma soprattutto l’idea di un naturalismo che dissacra ogni legge, vuoi morale religiosa o politica, per affermare il primato degli istinti. I canoni estetici, nel prendere vita di cazzi, potte e culi come veri moventi dell’agire umano, subiscono dunque un completo rovescia- mento: il sedere ad esempio, l’oggetto di un desiderio costantemente acceso, diviene il paradigma della perfetta proporzione, in quanto cosa

«molto dolce e perfetta […], di rotondità e capacità simile al cielo» 61 . Non diversamente, la concorrente preferenza sessuale rivolta alla donna disegna un oggetto ripugnante non meno che attrattivo: la sentenza di Arsiccio secondo il quale «il vero fottere è a una donna lorda, sucida, lorcia e quanto possibil sia sporca; e tanto è meglio quanto ella più puzza di tanfo» 62 , una singolare anticipazione degli assunti di Sade, sta davvero al frontespizio dell’estetica del Capriccio, e d’altro canto dà conto di un altro volto del Rinascimento del tutto alieno dal mito tirannico della bellezza. In questo versante, capriccio, sessualità e follia s’allacciano in una triade ormai profondamente solidale: accade dunque che in un altro autore di quel tempo o di qualche anno successivo, Gio- van Francesco Straparola, “capriccio” si colori di quella connotazione irrazionaleggiante che notavamo poco più sopra; né d’altro canto sor- prende il suo contesto d’uso, nell’ambito di quell’erotismo che ovunque soffonde l’atmosfera de Le piacevoli notti 63 e ne fa uno degli incunaboli della letteratura libertina 64 .

L’apparente intento parodistico che caratterizza il capriccio in quan-

to genere letterario, nella declinazione operatane da Aretino, Gelli e

Straparola nella sfera di una specie di antimanierismo, va valutato con

una certa cautela. È vero che le prostitute immaginate da Aretino, che

in un modesto orto romano all’ombra di un fico, albero dagli scoper-

ti rimandi lascivi delineano le tre condizioni della donna (monaca,

maritata, puttana) e i principî dell’arte del meretricio, appaiono la

degradazione estrema dei personaggi del Cortegiano o degli Asolani,

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immersi invece in una dimensione di rarefatta perfezione fisica e com- portamentale. Tuttavia, piuttosto che una volontà “distruttiva” della norma stilistica e morale, il capriccio in quegli autori sembra veicolare l’idea di un allargamento potenzialmente illimitato delle qualità espres- sive della lingua, e dell’apparato tematico cui attingere.

D’altro canto già agli inizi del Cinquecento la parola, anche nella forma spesso occorrente caprecio (alternativa o comunque analoga a caprezio, attestata in Boccaccio 65 ), aveva preso a designare, entro lo spettro amplissimo di sensi che ormai la parola abbracciava, una sfera di comportamenti che – nel totale abbandono della convenienza e del decorum – parevano digradare nel buffonesco e nel mostruoso. E una testimonianza, sebbene indiretta, di questo ulteriore significato è fornita da un documento veramente curioso degli usi di corte nel xvi secolo, abitudini certo lontane dalla olimpica compitezza cui si sarebbe portati a credere pensando a uno dei più grandi mecenati del Rinascimento. Si tratta di una lettera, datata 8 marzo 1519, che il diplomatico Alfonso Paolucci spediva da Roma al duca Alfonso i d’Este per informarlo di alcuni fatti occorsigli presso la corte papale 66 . Nel descrivere una rap- presentazione de I Suppositi di Ludovico Ariosto, tenuta qualche giorno prima al cospetto di Leone x e di numerosa folla, Paolucci scriveva:

Fui alla comedia domenica sera, et feceme intrare Monsig(nor) de’ Ragoni […].

Et seduto il populo, che dovea esser in numero de dui milla homini, sonandosi li pifari, si lassò cascare la tela dove era pincto Fra Mariano con alcuni diavoli che giugavano 67 con esso da ogni lato de la tela, et poi a mezzo de la tela vi era un breve che dicea: Questi sono li capreci 68 di Fra Mariano. Et sonandosi tutavia et il Papa mirando con el suo occhiale la sena che era molto bela, di mano de Rafaele 69 , et representava bene per mia fe forme 70 de prospective, che forno molto laudate 71 .

Paolucci ricordava che lo stesso pontefice, poco curandosi in verità della dignità papale, s’era posto a regolare l’afflusso del pubblico in sala. Nel breve stralcio che abbiamo estrapolato dalla missiva emergo- no però alcuni particolari di un certo interesse. Innanzi tutto il pro- tagonista dell’immagine nella tela dipinta, un velario che era calato a ogni cambio di scena: costui doveva essere un personaggio notissimo anche al di fuori della corte papale, a tal segno conosciuto che i suoi capreci erano divenuti un’antonomasia della bizzarria e dell’eccesso.

Baldassarre Castiglione lo rammemora per ben due volte nel Corte- giano 72 , quale autore di scherzi memorabili e di una dottrina ugual- mente balzana. Una dismisura che non a caso lo faceva assomigliare ai demonî suoi compagni in effige. Sorprende peraltro che Fra’ Mariano Fetti 73 , tale il nome del buffone raffigurato nel sipario, fosse succe- duto nell’incarico di piombatore pontificio a Bramante e che alla sua morte ne avesse rilevato la carica Sebastiano del Piombo. Come dire:

un giullare tra due grandi dell’arte. E di costoro non meno insigne,

a quanto sembra. Sul finire del xix secolo Arturo Graf aveva tentato

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di ricostruire la figura di questo singolare personaggio, interrogandosi soprattutto su quali fossero i capreci per i quali andava celebre. Leg- gendo un passo delle Lettere di Pietro Aretino, lo studioso ricavava che Fra’ Mariano – prima di ascendere al beneficio dell’ufficio papale – aveva esercitato la carica di barbiere di Lorenzo de’ Medici 74 e che già nel 1512 «li soi caprizi» rappresentavano una delle attrazioni più stravaganti che fosse dato osservare a corte 75 . Tuttavia, due aspetti fra tutti si stagliavano a definire con una certa chiarezza il tenore dei capricci di cui il funzionario apostolico era divenuto eponimo: da un lato la voracità gargantuesca (sembra che con spaventosa ingordigia divorasse in un sol pasto decine di pietanze e che – a guisa di struz- zo – fosse capace d’ingerire i materiali più disparati 76 ); dall’altro, in singolare contraddizione a questa apparente bestialità, il gusto raffinato per le arti quantunque declinato secondo un’attitudine stravagante.

Non diversamente che un principe, Fra’ Mariano possedeva a Monte Cavallo sul colle del Quirinale (probabilmente nei pressi della chiesa di San Silvestro, entro la quale verso il 1526 aveva commesso a Bal- dassarre Peruzzi e Polidoro da Caravaggio la realizzazione di alcune opere per la sua cappella patronale 77 ), una villa che pareva l’esatta trasposizione architettonica della sua follia. In una lettera a Federico

ii Gonzaga lo stesso buffone scriveva:

Non desidererei altra grazia in questo mondo se non potervi convitare un dì all’orto qui di monte Cavalli nel laberinto, dove vedresti boschetti ed ornamen- ti silvestri nel domestico cento, 100 varietà e 1000 capricci; una chiesina poi di avorio lavorata di traforo, ed atorno profumata ed abellita con molte cose divote; una sagrestia con paramenti profumati papali di broccato d’oro in oro, dove in fra tanti paramenti è uno dorsale con una pianeta di velluto rosso, le quali dicono furono già un palio 78 .

A metà fra il giardino incantato di Bomarzo e una Wunderkam- mer en plein air, la residenza di Fra’ Mariano esibiva – nel groviglio intricato di viali – attrazioni degne delle più eccentriche collezioni di mirabilia. Già il «domestico cento» (da intendere probabilmente nel senso latino di cento¯, “panno composto da pezze di vari tessuti”) doveva dare l’idea di una accozzaglia architettonica, di un bailamme di stili e corpi di fabbrica da far stordire chi vi s’avventurasse: quasi un’anticipazione, insomma, di quella villa del Principe di Palagonia che oltre due secoli dopo avrebbe attirato tra le sue “mostruosità”

una sequela di viaggiatori. E poi, fra tutte, quella chiesina realizzata interamente in avorio, preziosa nel magistero della sua realizzazione quanto insensata. Un tempio alla solitudine, diremmo. I capreci di Fra’

Mariano incarnano così una vera e propria antiestetica del comporta-

mento, la messa in crisi di quelle regole del decorum che di lì a qual-

che decennio, faticosamente, Giovanni Della Casa avrebbe tentato di

circoscrivere entro il codice deontologico del Galateo. Il Capriccio di

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cui il buffone è l’emblema grottesco va sempre nella direzione dell’e- marginazione sconsolata, laddove la condotta sociale manovrata dai fili di una aristocratica e contegnosa sprezzatura rappresenta l’esecuzione della norma. Eppure il capriccio di Fra’ Mariano non è contro, è den- tro il Rinascimento; è l’aspetto irrefutabile che ne attraversa tutto il corso e costituisce la vena della sua crisi. Del Rinascimento il buffone è insomma la metà in ombra, non meno attrattiva; quell’emisfero che all’olimpico splendore di Raffaello oppone il riso sardonico della follia, l’irrisione al dogma della bellezza nel nome dello scherzo crudele.

Torniamo però, ancora, al campo più strettamente letterario. Alcu- ne “sperimentazioni” condotte negli stessi anni in cui il frate-buffone ascendeva alle altitudini della fama, in effetti, paiono avvalorare l’i- potesi che la via per l’abilitazione concettuale del Capriccio passasse, attraverso la disarticolazione (o meglio, la ricodificazione) della regola, proprio dall’ambito della scrittura. Pensiamo al maccheronico folen- ghiano, magistralmente esemplificato dal Baldus (1517), che con ogni probabilità rappresenta un autentico archetipo del capriccio letterario;

o ancora – in una direzione idealmente speculare – ai più tardi Cantici di Fidenzio Glottocrisio (1562) 79 di Camillo Scroffa 80 , che ereditavano la tendenza al pastiche linguistico inaugurata già allo scadere del secolo precedente dalla enigmatica Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna 81 , nei quali il cosiddetto linguaggio pedantesco (o fidenziano) risulta dall’ibridazione tra struttura sintattica del volgare e repertorio lessicale pseudolatino. Non a caso, lo notava già Enrico Crispolti 82 , nel Seicento – nel territorio più strettamente letterario – l’identifica- zione tra capriccio e maccheronico sarà un dato pienamente acquisito, testimoniato peraltro già nel titolo dai Capriccia macaronica di Cesare Orsini 83 pubblicati per la prima volta a Padova nel 1636 84 . E sarà certo da osservare, come vedremo in seguito, che proprio agli inizi del xvii secolo la pittura di Hieronymus Bosch – indubitabilmente una delle declinazioni di maggiore evidenza del Capriccio nell’ambito delle arti figurative – in Spagna sarà comparata alla poesia di Teofilo Folengo, in virtù dello sconvolgimento della forma che il pittore e il poeta introducevano nelle loro creazioni.

È però, con ogni evidenza, nella poesia di Francesco Berni 85 lo snodo cruciale dell’assunzione del capriccio a genere letterario, e non solo nella direzione di una eversiva torsione stilistica del petrarchismo bembiano o della decostruzione della ormai cristallizzata lingua “pura”

del Trecento. La critica degli ultimi decenni, da Rathé 86 fino a Kanz 87 , ha opportunamente evidenziato come l’explicit del suo celebre Capi- tolo in Laude d’Aristotele (Verona, 1532) rappresenti, nell’esaltazione del paradosso assurto a norma, una specie di manifesto letterario del capriccio:

Io che soglio cercar materia breve,

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