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La regola del Capriccio
Alle origini di una idea estetica
di Francesco Paolo Campione
Il Centro Internazionale Studi di Estetica
è un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con d . p . r . del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale, organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica © e pubblica il perio- dico Aesthetica Preprint © con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’Università degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.
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è la collana editoriale pubblicata dal Centro Internazionale Studi di Esteti-
ca a integrazione del periodico Aesthetica Preprint © . Viene inviata agli stu-
diosi im pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle
maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.
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27
Dicembre 2011
Centro Internazionale Studi di Estetica
Il presente volume viene pubblicato col contributo del M iur ( prin 2009, responsabile scien-
tifico prof. Luigi Russo) – Università degli Studi di Paler mo, Dipartimento Fieri Aglaia.
Francesco Paolo Campione
La regola del Capriccio
Alle origini di una idea estetica
Indice
Introduzione 7
I – Una grammatica del Capriccio 1. Il gregge e l’orrore 15
2. Una svolta di senso: la “scrittura” del capriccio 22
3. Il capriccio degli “italianizzatori” 35
II – Il colore della materia 1. Gli umori capricciosi 57
2. I doni del capriccio 67
3. La solitudine del capro 83
III – Tra medicina e magia 1. Capricci e secreti 115
2. Ingegno e Capriccio 123
3. La persona del Capriccio 137
4. Sorridere capriccioso 159
IV – La forma del Capriccio 1. Archeologia del mostruoso 189
2. Le pitture degl’inferi 205
3. Una forma “eretica” 231
4. La stanza del Capriccio 251
Bibliografia 319
Indice delle illustrazioni 353
Indice dei nomi 355
Introduzione
Se dovessimo figurare la storia del concetto di Arte, probabilmente dovremmo fare ricorso a un’immagine del genere: una città attraversata da una lunga strada principale, la “via della regola”, che incrocia molte traverse anche queste dedicate a nomi significativi della storia dell’E- stetica, “imitazione”, “bellezza”, “verosimiglianza”, “forma” e così via.
Di sotto a quella via ne corre un’altra esattamente parallela in molti punti, ma in verità non tanto profonda. Questa strada sotterranea, po- tremmo immaginare, rappresenta la resistenza alla norma codificata, un camminamento che non pochi artisti sono discesi a percorrere più o meno lungamente. La prima, la “strada maestra” di superficie, è quella classica che ha identificato l’arte come un sapere produttivo, un’atti- vità sovrintesa da regole che disattendere significava negare lo statuto medesimo dell’arte. Nessun’arte, fosse essa pratica o più astrattamente teoretica, poteva darsi senza il repertorio di norme che ne dirigeva l’agi- re. L’arte perciò, secondo una concezione di lunghissima data, non può nascere dal caso, e solo una volontà preventivamente e progettualmente indirizzata può dar luogo a prodotti “artistici” accettabili come tali. Di volta in volta la regola dell’arte si è configurata dunque come modus operandi, come necessità d’imitare la natura o come via per giungere alla bellezza. Ciò generava dunque il “singolare” paradosso della uni- formità, almeno a livello concettuale, fra l’astronomo e il vasaio, fra il pittore e il medico: tutti, sia pure sulla scorta di codici normativi diversi, praticavano arte nella misura in cui s’affidavano all’appiglio si- curo della regola. Quanto poi alla valutazione sociale dei loro prodotti, questo era ovviamente un altro discorso.
C’era però quell’altra strada, che sembrava un po’ un tunnel mi-
sterioso. Nascosta, ma non tanto “clandestina” e non tanto profonda,
che il suo piano non intersecasse – di tempo in tempo – quello su-
periore, dando luogo talora a palesi contraddizioni. In questa via si
dispiegava tutto ciò che sembrava resistere alla nozione di regola, e
per ciò stesso pareva contraddire il fondamento principale dell’idea
di Arte. Pensiamo, ad esempio, alla concezione platonica della poe-
sia. È noto come il filosofo ateniese stralciasse la “vera” poivhsi" dal
novero delle arti, per il suo carattere irrazionale: l’agire del poeta in
uno stato di delirio, l’essere egli stesso una specie di medium più o
meno inconsapevole fra trascendenza e immanenza, il procedere al di fuori degli schemi della mimesis, tutto questo insomma lo allontana- va dall’ambito concettuale dell’arte. Ovviamente, designare lo statuto della poesia nascente da manía nei termini di Capriccio è un abuso, o meno recisamente, un anacronismo. Solo a partire da una certa data, ben al di qua della modernità, la riluttanza alla regola, il rifiuto della verosimiglianza, l’esaltazione di una volontà sbrigliata e di una fantasia estrosa hanno avuto la loro specificazione nel dominio del Capriccio.
Solo allora questo lemma, dalla vicenda etimologica non a caso “ca- pricciosa”, prese a designare una pluralità di fenomeni – appartenenti all’ambito dell’arte, della poesia e della musica – nei quali il tratto distintivo emergeva come “libertà”. Libertà certo dalla cogenza della regola (anche se tale affermazione, come in seguito osserveremo, va per lo meno corretta), ma anche ricerca di nuove forme espressive al di fuori degli schemi stratificati nella tradizione. Nel xvi secolo quella strada, sempre meno sotterranea, prese a chiamarsi Capriccio.
Ci sono alcuni concetti estetici la cui storia, benché almeno in ap- parenza legata a un tempo esattamente delimitato, in realtà ne trascen- de i termini e sembra volgersi verso le due direzioni opposte dell’asse cronologico. Tra questi, probabilmente, l’idea di Capriccio è quella che meglio descrive questo fenomeno. La storia di questo concetto forse è antica quanto la storia stessa del concetto di Arte, ma in pochi casi come in questo è dato rilevare uno sfalsamento così netto tra il piano concettuale e quello più strettamente lessicale. Detto in altri termini:
se il livello del concetto potrebbe persino ascendere alle epoche più antiche della riflessione intorno allo statuto filosofico dell’arte, quello della parola che lo denota, in direzione inversa, s’avvicina a un’età re- lativamente recente, non più antica del basso Medioevo. “Capriccio”, di fatto, è un termine “nuovo” ignoto (almeno nella forma del signifi- cante) tanto al greco quanto al latino classico e volgare. Eppure, nono- stante la non corrispondenza cronologica tra idea e parola, raramente un concetto ha avuto una storia così profondamente congiunta al vo- cabolo che lo denota: ricostruire la genealogia del termine “capriccio”
significa, insomma, scrivere non solo di etimologia, ma forse ancor più di estetica. Nella storia del lessico dell’Estetica “capriccio” è uno dei pochi termini (forse l’unico) in cui è osservabile una sovrapposizione di livelli talmente interrelati da richiedere un’analisi straordinariamen- te complessa. Così il piano concettuale in questa parola è legato in modo indissolubile a quello semantico, e questo a sua volta a quello etimologico il quale, dal canto suo, richiama quello morfologico. L’idea di Capriccio, insomma, può essere intesa solo a patto di considerare la stratificazione linguistica della parola nella pluralità di dominî che reciprocamente si danno senso.
Una tale ricchezza di quote, con ogni probabilità, risponde proprio
alla vicenda (è il caso di dire) “bizzarra” di questo concetto. Occorre
però un avvertimento: l’incircoscrivibilità del Capriccio a una fase sto- rica conchiusa (ove, nel corso della storia dell’arte, si sia determinato un allontanamento dalla regola “ufficiale”, è in qualche modo presen- te una realizzazione del Capriccio), parrebbe contraddire un modello storiografico (quello che mostreremo nelle pagine a seguire) che fermi al xvi secolo l’analisi di questa nozione. In effetti, l’affermazione di
“capriccio” nell’ambito della lingua italiana risale solo al Duecento, con una funzione la cui valenza “tecnica” e il cui dominio d’uso cer- cheremo di evidenziare. Solo nel Cinquecento, però, la parola si veste di un significato tale da abbracciare un’area concettuale i cui contorni – per la natura stessa di questa idea – hanno i tratti fluttuanti di una forma riflessa nell’acqua. E così, sebbene il Capriccio attraversi in varie forme il Seicento, il Settecento, l’Ottocento e – in una visione retro- spettiva – possa estendersi a non pochi aspetti dell’arte medievale 1 e antica – è in quel tempo che esso delinea pressoché definitivamente il proprio corredo teorico.
In questo studio proponiamo un’analisi della genesi dell’idea di Ca- priccio, e della sua sistemazione teorica tra Rinascimento e Manierismo.
Avvertiamo che queste denominazioni sono piuttosto schematismi di comodo che reali separazioni tra modelli culturali, giacché proprio nel Capriccio sembra affiorare la sostanziale continuità tra questi due “mo- menti” della storia dell’arte e della produzione letteraria. Ce ne servia- mo come indicatori di un particolare periodo, sullo sfondo di alcune opere significative che del Capriccio sono l’esplicazione in una forma ora artistica e poetica, ora comportamentale e finanche antropologica.
A questo fine concorreranno quattro livelli di confronto: l’origine della parola e i suoi risvolti letterari; il rapporto fra Capriccio e melanconia;
il nesso che tiene insieme medicina e magia sotto la specie di questa nozione, e infine la materializzazione del capriccio in una forma artisti- ca. Bisognerà così avvertire che il Capriccio, a differenza di molte altre idee estetiche, non ha una storia (nel senso di “vicenda cronologica- mente determinata”) anche se diversi fattori storici (probabilmente il trauma dello Scisma protestante; il colpo non meno violento del Sacco di Roma, con la ampia diffusione in Italia di modelli formali d’oltral- pe 2 ; il controllo sempre più soffocante della cultura da parte della Chiesa) paiono contribuire alla sua affermazione concettuale e ai suoi riflessi artistici (ma non solo), in un momento nel quale l’imperativo di una legislazione certa pareva l’unico antidoto contro il dissolversi della regola stessa.
È probabile allora che la presa di coscienza da parte degli intellet-
tuali intorno ruolo ormai decisivo occupato in seno alla organizzazione
della cultura non meno che della politica (in ordine alla legittimazione
del potere sovrano), abbia portato con sé non solo la necessità di un
codice normativo entro il quale riconoscersi, ma anche la possibilità che
questo sistema potesse di volta in volta essere infranto. Pensiamo, ad
esempio, a Giorgio Vasari. È denso di significato il fatto che il biografo aretino faccia uso dell’aggettivo “capriccioso” non solo in riguardo degli artisti contemporanei (nell’ovvio utilizzo di un termine che giusto alla metà del Cinquecento trovava la sua compiuta definizione teorica), e non soltanto a definire l’opera di personaggi per definizione “bizzar- ri”; anzi, egli si serve di “capriccio” pure a proposito dell’opera di artefici del passato in un anacronismo critico grandemente rivelatore.
Così persino Cimabue, l’arché del meccanismo teorico delle Vite e l’i- niziatore della pittura secondo regola, inventa una «cosa capricciosa e nuova» con «il dar lume» e l’esplicare attraverso le parole (con un significativo uso del doppio canale visivo e verbale) il «concetto» della rappresentazione, aprendo così «la via all’invenzione» 3 . Di Giotto sono
«capricciose e belle» le invenzioni relative alle Storie di San Francesco ad Assisi 4 , e così di Nicola Pisano 5 , di Simone Martini (qualificato d’altronde come «molto capriccioso» 6 ) appaiono le opere raffinate. Di Andrea Mantegna «invenzione difficile e capricciosa» 7 sono gli scorci, così come di Leon Battista Alberti «bellissima, capricciosa e difficile»
è la concezione della tribuna della basilica dell’Annunziata de’ Servi a Firenze 8 . Paolo Uccello, annota il biografo, «sarebbe stato il più leg- giadro e capriccioso ingegno che avesse avuto da Giotto in qua l’arte della pittura» se – piuttosto che perseguire fino alle ultime conseguenze lo studio della prospettiva – si fosse invece dedicato a quello della fi- gura 9 . La rassegna potrebbe continuare in un vero e proprio asindeto (e per una campionatura di queste occorrenze si rimanda agli studi di Alice Rathé 10 e Roland Le Mollé 11 ), a riprova di come “capriccio”
sia probabilmente la chiave d’arco sulla quale si tiene l’intero impianto teorico delle Vite. L’utilizzo così intensivo da parte del biografo aretino si distende entro uno spettro di significazioni di grande latitudine, che dà conto della polisemia che “capriccio” – giusta la sua origine etimo- logicamente composita – a metà del Cinquecento ormai abbracciava.
Il Capriccio di Vasari è così allo stesso tempo l’ispirazione iniziale, il concetto intellettuale (nell’accezione, come vedremo, elaborata da Be- nedetto Varchi), una prorompente volontà d’agire. È l’ispirazione che si misura con le difficoltà e sfida le opposizioni della materia (come in Michelangelo), e – utilizziamo una felice formula di Alice Rathé – «non solo fertilizza lo spirito dell’artista su cui agisce, ma allo stesso tempo [come nel caso di Morto da Feltre, il prototipo nell’artista innovatore]
ispira la posterità» 12 . È d’altra parte indicativo che gli artefici poco sopra citati avessero, ciascuno per proprio conto, contribuito al conso- lidamento della regola nel corpo del meccanismo procedurale delle arti:
quasi che l’elaborazione di una norma valevole in assoluto recasse con sé la diversione da quel codice, un allontanamento accessibile solamente da coloro che quel protocollo avessero redatto.
Il Capriccio è una idea estetica eminentemente cinquecentesca, ep-
pure senza fare riferimento a questa nozione ben difficilmente forse
potremmo comprendere alcuni aspetti – finanche sconcertanti – dell’ar- te contemporanea. Nel xvi secolo gli artisti “capricciosi” avevano re- alizzato quella che sarebbe apparsa una conquista “originale” dei loro eredi del Novecento e del tempo attuale: liberarsi dal potere restrittivo della regola (sia essa il “saper fare”, ovvero l’armonia delle forme, il decorum, il sottostare a un codice “morale” riconosciuto), per elaborare un sistema di prescrizioni del tutto autonomo e soggettivo entro il quale sia l’artista a dominare l’azione, e non essa a rigidamente indirizzarne l’operato. Proprio su questa considerazione Gustav René Hocke ha fondato l’impianto teorico di Die Welt als Labyrinth 13 , un testo davve- ro esemplare per comprendere l’eredità del Cinquecento nella cultura occidentale. Se avessimo facoltà d’analizzare sotto la lente del Capriccio un ready-made di Duchamp, un’opera di Piero Manzoni, un dripping di Pollock o una installazione in formaldeide di Damien Hirst, o an- cora una “raccapricciante” plastination di von Hagens, probabilmente giungeremmo a conclusioni analoghe a quelle che potremmo formulare – pur con gli ovvi distinguo – intorno a un’opera di Pontormo, di Mar- cantonio Raimondi, di Anton Francesco Doni: in tutte, il divertimento dalla norma codificata dalla tradizione ha prodotto uno shock o uno scandalo, che poi sono i prodotti più tipici della poetica del Capriccio.
Quella di Anton Francesco Doni, un autore a cui faremo costante rife- rimento, è probabilmente la più tipica delle esemplificazioni cinquecen- tesche del capriccio nell’ambito della scrittura. Nello scrittore fiorentino, che peraltro costituisce un’interessante “doppia” identità geografica fra la Toscana e Venezia, la poesia è un’attività che è sì frutto di manía, di follia assunta a fattore propulsivo della creazione letteraria, ma che piuttosto che risalire a un iperuranio trascendente scava in una materia densa di simbologie più o meno criptate alla ricerca dell’ispirazione.
Un altro aspetto che converrà tenere presente è relativo alla plu- ralità categoriale che è consustanziale all’idea che cercheremo di rico- struire. Nel Capriccio, di fatto, tanto su un piano semantico, quanto su uno concettuale, convergono due linee genetiche apparentemente in- conciliabili: il piacere/desiderio da un lato, l’orrore/disgusto dall’altro.
In questa reductio ad unum, operata sullo sfondo di una totale abdica- zione alla ragione e di una relativa ricusazione della regola, il Capric- cio – che pure si configura spesso come una celebrazione del brutto, del deforme, del grottesco, fonde al bello l’orrore. Sotto le apparenze del Capriccio, allora, pare emergere una sorta di Sublime depotenziato nel quale il piacere del Brutto nasce dall’inconsueto che questo è in grado di esprimere, dall’assenza di una forma definita (spesso, come vedremo, tra gli scrittori del Cinquecento “capriccio” è associato alla formula “non so che”), e finanche dall’inclinazione al demoniaco e all’occulto, che conduce questa nozione alle regioni dell’eresia.
Il Capriccio è indubbiamente un’idea che richiama al Brutto, al de-
forme, al grottesco, a ciò che a fatica sta dentro i confini della rappre-
sentazione. Le lontane radici dell’estetica moderna, due secoli prima del varo da parte di Batteux e Baumgarten, in questa idea avevano insomma germogliato sotto un segno completamente diverso da quello che avrebbe connotato la nuova disciplina nel Settecento. Eppure nei molti testi che abbiamo preso in esame emerge con chiarezza il ruolo di quelle altre nozioni cui ci riferivamo, che concorrono a costituire il suo sostrato. La formula “bel capriccio”, una specie di ossimoro, sarà così un vero e proprio topos che – specie nell’ambito della teoria dell’arte – alcuni intellettuali cinquecenteschi utilizzeranno a designare il prodotto di un’ispirazione prorompente eppure contenuta entro le linee del decorum. Qui non si tratta certo di individuare nel Capriccio una specie di banale e indifferenziato ecumenismo estetico; si tratta invece di riconoscere in esso il segno di una complessità che è sì ca- ratteristica del secolo in cui questa idea ha trovato la sua sistemazione teorica, ma che ancor più è il risultato (e in proiezione, forse anche la causa) di molti fenomeni dell’estetica e dell’arte che in esso hanno trovato la loro sintesi. Un altro fattore, che una volta di più s’iscrive nel ruolo della molteplicità che costituisce la sostanza di questa idea, è quello relativo a chi in effetti competa il ruolo di “capriccioso”. L’arti- sta, in realtà, non è che uno degli interpreti (e nemmeno il principale), di questo atteggiamento: “capriccioso” è il poeta, l’esegeta di testi dal senso oscuro, il buffone, il politico, persino il santo. “Capriccioso”, ormai all’occaso del secolo, sarà per Huarte l’ingegno di chi s’inoltra al di là della norma. Ma il Capriccio (è opportuno porre in rilievo) non corrisponde affatto all’assenza di una regola (da qui il titolo vagamente ossimorico che abbiamo attribuito a questo studio, e che tra breve scioglieremo): coincide piuttosto con l’adesione a una legislazione del tutto autonoma grazie alla quale la volontà dell’artista è libera di spin- gersi oltre i territori canonizzati dalla tradizione. Quando, nel primo dei dialoghi degli Eroici furori (1585), Giordano Bruno per le parole di Luigi Tansillo afferma che «la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie» 14 non solo s’avvale del tramite di un poeta “capriccioso” (tra poco notere- mo in che termini) per esprimere un lontano retaggio della dottrina platonica (il furor come condizione germinatrice della poesia, e come privilegiata disposizione conoscitiva); ma soprattutto ratifica l’ormai compiuto passaggio della regola alla sfera della soggettività, in una con la sua subordinazione al processo creativo: ciò che, in effetti, rap- presenta l’ossatura concettuale sulla quale si tiene l’idea di Capriccio.
Il titolo di questo saggio sembrerà riecheggiare di un paragrafo
della Storia dell’Arte italiana di Giulio Carlo Argan: confessiamo che la
coincidenza è stata del tutto casuale, emersa dal fondo di una lontana
reminiscenza. In quella fattispecie, La regola e il capriccio 15 pareva-
no due entità separate, diremmo concorrenti: nella vacanza dell’una,
quella formula congiuntiva sembrava introdurre l’esercizio dell’altro,
quasi a descrivere l’impossibilità che la regola potesse coabitare al ca- priccio. Qui, piuttosto, cercheremo di dimostrare come il Capriccio non negando in assoluto il valore della norma, richiami piuttosto a una legislazione autonoma di volta in volta elaborata dall’artista (ma anche dallo scienziato, dal medico, dal collezionista, dal folle), che di quella direttiva è la diversione e insieme la strada parallela. Il Capric- cio presuppone insomma una regola eterodossa che al contempo è un inesauribile codice legislativo. Ciò esplicita dunque che questo saggio possa essere letto come una sorta di introduzione alla vicenda di gran lunga più ampia che questa idea distende entro la storia dell’Estetica, ma che già nel Seicento prenderà ad assumere connotati differenti e – come vedremo – darà luogo a una decisiva inversione del rapporto fra “regola” e “capriccio”, che d’altro canto corrisponde al passaggio di questo da categoria concettuale a forma ormai caratteristica, e “uffi- ciale”, della espressione artistica. Con il Barocco, insomma, il Capriccio da anti-regola si tramuterà nella regola canonica.
Dall’esame del testo, il lettore si troverà probabilmente disorientato dalla disomogeneità con la quale facciamo uso della parola “capriccio”, talora in corsivo, talaltra in tondo virgolettato, minuscolo o maiuscolo.
Affinché ciò non appaia – in accordo con l’oggetto della trattazione – un capriccio, cerchiamo qui di spiegare la ragione di tale varietà. La polisemia di questo termine ci costringe a ricorrere ad alcune format- tazioni del testo che – sebbene solo in parte – consentono di districarsi nella selva di significati della parola, permettendo di distinguerne di volta in volta la particolare accezione. Di seguito proponiamo le di- verse forme che utilizzeremo:
Capriccio: idea estetica e personificazione allegorica (ad es. in Ce- sare Ripa);
capriccio: forma artistica (nelle arti figurative e nella musica);
“capriccio”: forma linguistica e lemma di repertorio;
capriccio: movente dell’ispirazione.
Sul finire di questa “fatica”, preparando il lettore a condividerne un non
diverso travaglio, è per me doveroso procedere ad alcuni ringraziamenti. Ringra-
zio il professor Luigi Russo per avere atteso con pazienza la concretizzazione di
questo studio e averlo accolto nella prestigiosa collana del Centro Internazionale
Studi di Estetica da lui diretta, e la professoressa Lucia Pizzo Russo per alcuni
gentili consigli; un sentito ringraziamento al professor Salvatore Tedesco per
i preziosi suggerimenti fornitimi durante la redazione del testo; e al professor
Paolo D’Angelo per i non meno illuminanti pareri; sono grato al professor
Giovanni Lombardo per l’amichevole consulenza su alcuni loci classici; alla
professoressa Elisabetta Di Stefano, vera specialista di Estetica rinascimentale,
per l’attenta lettura dell’elaborato ancora nella sua fase di bozze; ringrazio an-
cora la professoressa Simonetta La Barbera e il professor Massimiliano Rossi nel
loro ruolo di fonti a cui ho attinto (direttamente, prim’ancora che ex libris) per l’elaborazione di questo lavoro; il professor Gianni Carlo Sciolla e il professor Franco Bernabei. Un ringraziamento, inoltre, alla dottoressa Irene Cordaro del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ringrazio gli amici e colleghi del
“Dipartimento Fieri-Aglaia” e del “Dipartimento di Studi Culturali Arti Storia Comunicazione” dell’Università degli Studi di Palermo. Un grazie, infine, ma non per ultimo, alla mia Vanessa cui (unitamente a Marco e Gioele) questo libro è dedicato.
1
Su questi aspetti, rinviamo agli studi di Jurgis Baltrušaitis ai quali ci riferiremo nel corso del cap. iv .
2
Cfr. su questo A. Chastel, The Sack of Rome, 1527, Princeton University Press, Prince- ton 1983; trad. it. a cura di M. Zini, Il Sacco di Roma. 1527, Einaudi, Torino 1983.
3
Vasari (ed. 1568, vol. ii , p. 41 dell’ed. Bettarini-Barocchi, su cui infra) allude a una perduta piccola Crocifissione a tempera, già nel chiostro del convento di San Francesco a Pisa, nel quale erano raffigurati degli angeli che “materialmente” trasportavano le parole scritte sulla tavola dal Cristo alla Madonna e a San Giovanni e viceversa.
4
Ivi, p. 101.
5
Ivi, p. 61: « Ma la più bella, la più ingegnosa e più capricciosa architettura che facesse mai Nicola fu il campanile di San Nicola di Pisa».
6
Ivi, p. 197: «Nella terza è dipinto da Simone quando, tornato dopo sette anni d’Oltra- mare, mostra aver fatto tre quarantane in Terrasanta, e che standosi in coro a udir i divini uffizii dove molti putti cantano, è tentato dal Demonio, il quale si vede scacciato da un fermo proponimento che si scorge in Ranieri di non voler offender Dio, aiutato da una figura – fatta da Simone per la Constanza – che fa partir l’antico Avversario non solo tutto confuso ma, con bella invenzione e capricciosa […] Le quali tutte cose di quest’opera, et altre che si tacciono, mostrano che Simone fu molto capriccioso et intese il buon modo di comporre leggiadramente le figure nella maniera di que’ tempi».
7
Ivi, vol. iii , pp. 555 e 556.
8
Ivi, p. 288.
9
Ivi, p. 61.
10
A. Rathé, Le Capriccio dans les écrits de Vasari, “Italica”, vol. lxvii , n. 4 (Winter 1980), pp. 239-54.
11
R. Le Mollé, Le Bizarre et le Capriceux ou: le vocabulaire de l’Insolite et de l’Extra- vagant, in Id., Georges Vasari et le vocabulaire de la critique d’art dans les «Vite», ELLUG, Grenoble 1997
2, cap. 7, pp. 153-208.
12
Ivi, p. 242.
13
G. R. Hocke, Die Welt als Labyrinth. Manier und Manie in der europäischen Kunst, Rowohlt Tashenbusch Verlag GmbH, Hamburg 1977; trad. it a cura di G. Ferro Milone, Il mondo come labirinto. Maniera e mania nell’arte europea. Dal 1520 al 1650 e nel mondo di oggi, Teoria, Roma-Napoli 1989.
14
G. Bruno, De gl’eroici furori, presso Antonio Baio, Parigi 1585; ed. a cura di M.
Ciliberto, S. Bassi, Laterza, Bari 1995, a p. 25: «Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti».
15