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In politica estera il vantaggio di Obama

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Academic year: 2021

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In politica estera

il vantaggio di Obama

di Roberto Menotti

Coordinatore scientifico delle attività internazionali dell’Aspen institute Italia e di Aspenia

Sono almeno due i settori nei quali l’amministrazione in carica sarebbe realmente vulnerabile, se non fosse che i repubblicani lo sono ancora di più: i negoziati sulle misure contro i mutamenti climatici e i nuovi accordi sulla liberaliz- zazione del commercio. A questi punti deboli dell’amministrazione si potrebbero aggiungere l’assenza di progressi nei negoziati di pace israelo-palestinese e le pesanti incertezze che gravano sul disimpegno militare dall’Afghanistan.

Come in altri casi, tuttavia, l’opinione pubblica è prevalentemente con il presi- dente, se non altro per mancanza di opzioni alternative nell’ottica di un ragionevole contenimento dei danni Un indice affidabile delle probabili differen- ze in politica estera tra i due candidati alla presidenza americana è la scelta compiuta da Mitt Romney su come attaccare l’ammi- nistrazione Obama. Il dilemma per lo sfidan- te repubblicano è che il presidente in carica non è molto vulnerabile sul terreno della po- litica estera, e fare grandi promesse presenta dei rischi, visto che il vincitore finisce per pa- gare, presto o tardi, un eccesso di aspettative di novità create durante la campagna. Que- sto rischio sta già emergendo, come nel caso della Cina: Romney ha accusato Obama di un atteggiamento accondiscendente soprattut- to sulle questioni valutarie, impegnandosi a dichiarare il governo di Pechino un “cur- rency manipulator”. In effetti, pur mantenen- do toni pacati sulle divergenze economiche, l’amministrazione in carica ha preso misure di alto profilo sul piano della sicurezza per rispondere al crescente attivismo cinese nel Pacifico, affiancato a un vero riarmo navale e missilistico. Washington ha prestato mag-

giore attenzione all’equilibrio di potenza regionale, consolidando e ampliando la sua rete di alleanze a raggiera. Con l’avvicinar- si della scadenza di novembre, è probabile quindi che i consiglieri del candidato repub- blicano gli suggeriscano una linea più cauta sull’economia e magari più chiara sulla sicu- rezza, moderando così gli attacchi contro Ba- rack Obama. Questo vale, del resto, per altre questioni delicate.

Sul nucleare iraniano, Romney è sembrato aggressivo nella retorica ma vago nello spie- gare cosa farebbe se fosse eletto presidente.

Con il recente inasprimento delle sanzioni, l’amministrazione Obama ha compattato il fronte delle sanzioni, e nessuna opzione è preclusa. Nella stessa regione, le rivolte arabe hanno posto una sfida anche intellet- tuale a cui Obama ha reagito con una scelta di massima prudenza e di coinvolgimento quasi soltanto indiretto. L’eccezione parzia- le è stata l’operazione militare della Nato in Libia, ma il test più impegnativo è la gravis- sima crisi siriana, tuttora in corso: la Siria è un vero crocevia geopolitico e non si presta ad alcuna semplificazione da slogan eletto- rale. Tra l’altro, la vicenda siriana complica un quadro regionale che era già intricato quando si incentrava sull’Iran, coinvolgendo direttamente anche la Turchia, i Paesi ara- bi del Golfo, e in certa misura la Cina e la Russia, la cui cooperazione rimane cruciale ai fini di quel largo consenso internazionale che può fornire legittimità politica e legale a un’eventuale azione di forza contro l’Iran (come insegna l’Iraq).

Sul dossier Russia, Romney ha indicato ad- dirittura il Paese come il “nemico geopoliti- co n.1” dell’America – davvero un’iperbole, pur con tutte le legittime riserve sulla lunga vicenda politica di Vladimir Putin. In realtà, ESTERI

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55 formiche 73 — agosto/settembre 2012

non va dimenticata l’acquiescenza di Mosca sul voto all’Onu per la Libia (un mandato che la Nato interpretò in modo estensivo), che ha poi reso più difficile la collaborazione russa sulla vicenda siriana. Dopo l’accordo Start 2 sulle armi nucleari strategiche, non si intra- vedono ricette semplici per aumentare rapi- damente il grado di cooperazione bilaterale, soprattutto alla luce del persistente potere negoziale che la Russia deriva dalle rendite energetiche.

Sullo sfondo rimane infine la questione com- plessiva del contenimento delle spese per la difesa: qui Romney è schiacciato dalle divi- sioni nel suo partito tra “conservatori fiscali”

e fautori della priorità assoluta della sicurez- za nazionale. Sarebbe arduo, anche per una squadra presidenziale repubblicana, soste- nere che la difesa sia esentata da un’attenta valutazione di bilancio in una fase economi- camente delicata come quella che si prospet- ta nei prossimi quattro anni, tra il cosiddetto

“baratro fiscale” e un tasso di disoccupazio- ne sopra l’8%.

Sono almeno due i settori di policy nei qua- li l’amministrazione in carica sarebbe real- mente vulnerabile, se non fosse che i repub- blicani lo sono ancora di più: i negoziati sul- le misure contro i mutamenti climatici, e i nuovi accordi sulla liberalizzazione del com- mercio. Il primo è un tema sul quale Obama ha suscitato grandi aspettative, puntando alla trasformazione “verde” dell’economia americana: il problema è che qualunque misura efficace dipende dal consenso dei maggiori consumatori di energia come Cina e India. Il fallimento del vertice di Copenha- gen di fine 2009 e la crisi economica globale hanno inferto un colpo durissimo alle pro- spettive di un accordo multilaterale, e Oba- ma ha intanto ridimensionato le ambizioni

a livello nazionale. In ogni caso, i repubbli- cani non sono in grado di attaccare il pre- sidente per scarso impegno su un obiettivo che essi stessi non condividono, visto il loro radicato scetticismo su strategie dirette e co- stose per contrastare il degrado ambientale.

In secondo luogo, Obama ha deluso alcuni dei suoi stessi sostenitori per aver di fatto rinunciato a rilanciare il Doha Round sul commercio internazionale: anche questo settore, però, è politicamente “radioattivo”

per Mitt Romney, visto che la concorrenza delle economie a basso costo del lavoro è un tema ricorrente della politica economica conservatrice e preoccupa molti elettori. A questi punti deboli dell’amministrazione si potrebbe aggiungere l’assenza di progressi nei negoziati di pace israelo-palestinese (con un tentativo maldestro solo nel 2009-10) e le pesanti incertezze che gravano sul disimpe- gno militare dall’Afghanistan. Come in altri casi, tuttavia, l’opinione pubblica è prevalen- temente con il presidente, se non altro per mancanza di opzioni alternative nell’ottica di un ragionevole contenimenti dei danni.

In sostanza, Obama non è inattaccabile sul piano della politica estera, ma l’accusa di scarsa fermezza non basterà a spostare voti a favore di Romney: la sistematica cautela che ha caratterizzato l’azione internazionale dell’America negli ultimi quattro anni sem- bra essere apprezzata dagli elettori centristi.

Tranne che per qualche concessione retori- ca al multilateralismo e all’ambientalismo, Obama ha fatto scelte che possono essere condivise da un presidente repubblicano moderato. Ciò suggerisce, in ultima analisi, che le differenze tra i due candidati tende- ranno a ridursi a ridosso del 6 novembre, e che comunque saranno assai limitate alla prova dei fatti.

CASA DEM_I PAPABILI PER IL POST-HILLARy

Si sono incrociati nella campagna presidenziale del 2004, quando uno era il candidato alla Casa Bianca per i democratici e l’altra la sua consigliera di politica estera: nel 2013, in caso di vittoria di Obama, John F. Kerry, presidente della commissione Esteri del Senato, e Susan Rice, ambasciatrice Usa alle Nazioni unite, potrebbero contendersi il dipartimento di Stato (la Clinton ha infatti preannunciato il suo ritiro dopo le elezioni).

Entrambi espressione dell’area atlantica del Paese, da cui tradizionalmente emergono i maggiori esperti, strateghi ed interpreti della diplomazia americana

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