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TRIBUNALE DI MILANO. promosso da

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n. 43271/2018 R.G.A.C.

TRIBUNALE DI MILANO

Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea

Il Tribunale di Milano, in composizione collegiale, riunito in camera di consiglio nelle persone dei magistrati:

dott. Pietro Caccialanza Presidente dott.ssa Valentina Boroni Giudice

dott. Luca Perilli Giudice relatore ha pronunciato il seguente:

DECRETO

nel procedimento camerale ex artt. 35 bis D. Lgs. 25/08 e 737 e ss. c.p.c., promosso da

Sheraz ALI, nato a Dhuni (Pakistan) l’ 08.04.1978, codice CUI 05AFP01, rappresentato e difeso, in forza di procura allegata al ricorso introduttivo, dall'Avv. Francesca Varone del Foro di Milano con domicilio eletto presso il suo studio sito in Milano Viale Monte Nero n.

70;

-ricorrente- contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore - Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale di Milano;

-resistente - con l’intervento obbligatorio del

PUBBLICO MINISTERO

Oggetto: ricorso ex artt. 35 e segg. D. Lgs. 25/2008 per il riconoscimento della protezione internazionale.

FATTO

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§ Svolgimento del procedimento

Con ricorso ex art. 35 D.Lgs. 25/2008 depositato il 28/09/2018, come da timbro di deposito della cancelleria, e notificato, unitamente al decreto presidenziale di designazione del giudice relatore, al Ministero dell’Interno presso la competente Commissione territoriale nonché comunicato al Pubblico Ministero in sede, il signor Sheraz ALI ha adito il Tribunale di Milano - Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea - proponendo opposizione al provvedimento di diniego della domanda di protezione internazionale emesso dalla Commissione territoriale di Milano l’ 08/05/2019 e notificato al ricorrente il 29/08/2019.

Risulta dunque rispettato il termine di legge di trenta giorni per la proposizione del ricorso, previsto a pena di inammissibilità dell’opposizione dal comma 2 dell’art. 35 bis D.Lgs.

25/2008.

La Commissione territoriale si è costituita in giudizio in data 24/01/2019, ha messo a disposizione la documentazione utilizzata nella fase amministrativa (art. 35 bis commi 7 e 8) e ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Il Pubblico Ministero non ha presentato osservazioni né conclusioni.

Con decreto del 17/07/2020, in conformità al principio stabilito dalla sentenza n. 17717/2018 della Corte di cassazione, il giudice ha fissato udienza per il giorno 29/09/2020.

All’udienza è comparso il ricorrente accompagnato dal difensore. Il giudice ha quindi fissato udienza per il rinnovo dell’audizione personale al 18 novembre 2020.

All’udienza del 18 novembre il ricorrente ha risposto alle domande del giudice, parlando in lingua punjabi ed avvalendosi della traduzione di un mediatore culturale

Il giudice si è riservato di riferire al collegio.

La causa è stata discussa nella camera di consiglio del 10/02/2021.

§ I fatti di causa

Il ricorrente, cittadino pakistano, ha fatto ingresso in Italia il 16/06/2016, attraverso la frontiera terrestre provenendo dall’Austria.

La domanda di protezione internazionale è stata registrata con modello C3 in data 27/06/2016, presso la Questura di Milano; quanto ai motivi che lo indussero a espatriare e a chiedere la protezione internazionale, nulla ha dichiarato il ricorrente al momento della presentazione della domanda.

Il ricorrente ha svolto l’audizione davanti alla Commissione territoriale in data 02/05/2018 e, parlando in lingua punjabi, ha rettificato la propria data di nascita in 08/04/1978 (da 08/04/1983) e ha dichiarato quanto segue:

- di essere cittadino pakistano;

- di essere nato e cresciuto nella città di Dhuni vicino a Kharian in Punjab;

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- di essere di religione musulmana sunnita;

- di parlare la lingua punjabi e la lingua urdu;

- di aver frequentato la scuola primaria e di aver lavorato come contadino sul trattore per terze persone;

- di avere perso entrambi i genitori; di avere una moglie e 4 figlie femmine che vivono in Pakistan;

- di essere in contatto con i suoi familiari;

- di aver lasciato il Pakistan il 24 febbraio 2016;

- di essere giunto in Italia il 16 giugno 2016.

Quanto ai motivi che lo hanno indotto a espatriare, il ricorrente ha dichiarato quanto segue:

“Lavoravo preso una fornace del villaggio e ho litigato con loro per motivi di lavoro ero interessato a lavorare presso qualche altra persona e mi obbligavano a lavorare con loro e mi impedivano di andare da qualcun altro. Loro avevano 500 uomini che lavoravano per loro sia per i terreni che per la fornace; gli avevo detto di aumentare il mio stipendio e loro non volevano in più non volevano lasciarmi andare da altre persone. Quando ho detto che volevo andare via il nipote del proprietario della fornace ha alzato la voce e quando stavo lavorando mi ha colpito con l’ascia ho cercato di denunciare quelle persone ma la polizia non mi ha ascoltato. Mi davano molto fastidio non mi lasciavano andare altrove e mi creavano tanti problemi. Mi portavano via con la forza e mi obbligavano di lavorare. Ho anche la cicatrice visibile quando sono stato colpito sull’ascia. Se rifiutavo di lavorare mi minacciavano di denunciarmi e che mi avrebbero fatto portare via dalla polizia per farmi torturare da loro.

Quando rifiutavo di lavorare mi prendevano a calci e schiaffi e mi insultavano mentre andavo per la strada.” Mi accusavano ““di avere avuto una relazione con una ragazza per tre mesi e di averla “poi vista con un altro ragazzo”; di avere, pertanto, “detto alla famiglia che non la volevo più”; che, a causa di tale decisione, “i fratelli della ragazza volevano minacciarmi e mi picchiavano””.

Ha, dunque, dichiarato che, temendo di essere ucciso, fuggì in un’altra città presso uno zio, ma, avendo saputo dalla madre che i datori di lavoro lo stavano cercando per ammazzarlo, su consiglio e con l’aiuto economico della propria famiglia, partì per la Turchia, dopo avere ottenuto un visto, e vi rimase per venti giorni in cerca di lavoro; quindi raggiunse il fratello in Italia, passando attraverso Grecia, Macedonia, Serbia e Austria.

In risposta alle domande della Commissione ha dichiarato: di avere cominciato a lavorare per questi datori di lavoro coltivando verdure, peperoni e melanzane e poi di avere imparato a guidare il trattore per “il lavoro nei campi”; che la “fornace è il loro punto di riconoscimento”;

che lui stesso lavorava per trasportare con il trattore materiale da e alla fornace, dopo che aveva finito la giornata lavorativa nei campi per gli stessi datori di lavoro; che non aveva orari di lavoro e che non poteva tornare a casa lasciando “lavori incompiuti”; che se avesse lasciato il lavoro incompiuto sarebbe stato preso a schiaffi e picchiato; che ha lavorato per la stessa famiglia di datori di lavoro, Azar Shaha, dal 1997 al 2015; che lui e gli altri lavoratori erano

“terrorizzati” dal trattamento che avevano ricevuto alcuni dipendenti: per esempio un dipendente che aveva avuto delle questioni sui pagamenti dello stipendio fu denunciare dai

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datori di lavoro con la falsa accusa “che stava rubando a casa loro facendolo arrestare dalla polizia”; un'altra persona che aveva cercato di raccogliere “tutti i dipendenti come un unione”

fu ucciso; che lui stesso, quando chiese un aumento di stipendio, fu picchiato “con l’ascia” e gli fu impedito di cercare un’occupazione presso altri datori di lavoro; che i proprietari terrieri “creavano gli stessi problemi” a chiunque chiedesse un aumento di stipendio o chiedesse di andare a lavorare altrove; che egli chiese un aumento di stipendio nel 2014 per le

“spese per il mantenimento dei figli” perché, prima, pur avendo “problemi di pagamento”

andava “avanti per la mia famiglia e mia moglie allevava una piccola unità di polli e vendeva le uova e mi aiutava in questo modo avevamo anche una bufala per il latte da vendere”; che, quando disse che voleva un aumento di stipendio, ricevette dai datori di lavoro la minaccia che gli “avrebbero fatto scrivere in una denuncia falsa da Afzal che era un contabile per i signori proprietari era stato denunciato e mi avevano detto che avrei fatto la stessa fine”; che non volevano lasciarle andare sia perché sarebbe stato di esempio per altri lavoratori che avrebbero chiesto un aumento del salario sia perché non avrebbero trovato un’altra persona che lavorasse solo per 8000 rupie al mese guidando il trattore; che non avrebbe potuto scappare in un’altra città perché “hanno una piattaforma grande e sono potenti potevo nascondermi per 6 mesi ma mi avrebbero cercato ovunque avevo anche paura di una falsa denuncia in quel caso la polizia poteva prendermi ed arrestarmi”; che egli non poteva rivolgersi alla polizia perché “noi quando andiamo a fare denuncia contro i potenti la polizia non ci ascolta se ci ascolta chiede tanti soldi e fanno parte della funzione del Governo pakistano e hanno tanti rapporti con MPA MNA e lui il proprietario era proprio il capo villaggio”; che dopo la sua partenza, la sua famiglia si è dovuta trasferire in un’altra città” e che ora sta bene.

Chiesto dall’intervistatore di riferire a quali rischi andrebbe incontro in caso di rimpatrio, il ricorrente ha dichiarato di temere il proprietario della fornace de teme di essere obbligato “a lavorare per loro senza lasciarmi lavorare per altre persone”.

§ Il diniego della Commissione territoriale

La Commissione territoriale ha affermato che la vicenda è “astrattamente riconducibile all’art. 1 della Convenzione di Ginevra” ma che “tuttavia non emerge, dal narrato, un reale vissuto di riduzione in schiavitù ma piuttosto uno sfruttamento lavorativo derivato delle sue condizioni socio economiche”; la Commissione ha dunque considerato “poco coerenti e credibili i seguenti aspetti: - inizia a lavorare presso la famiglia all’età di vent’anni, quindi con una scelta consapevole, e per ben diciassette anni lavora presso di loro senza alcun problema o rivendicazione. Solo nel 2014 decide di chiedere l’aumento dello stipendio che non viene concesso; - dichiara di essere in stato di libertà, infatti poteva rientrare a casa alla sera dopo il lavoro; - dichiara di non aver un numero di ore al giorno di lavoro obbligato ma che le consegne erano di finire il lavoro assegnato; - la Polizia non accetta la denuncia solo per il fatto che il datore di lavoro apparteneva ad una famiglia potente; - presso questa famiglia lavorano altre 500 persone”.

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La Commissione ha quindi ritenuto che le dichiarazioni rese dal ricorrente non possano

“essere prese in considerazione per alcuna forma di protezione” e che “al di là di esse non si rinvengono elementi o argomenti per ritenere che l’interessato sia portatore di un timore fondato di persecuzione, nel caso di ritorno nel suo Stato, nel senso di cui all’art. 1.A 2) della Convenzione di Ginevra”; ha quindi ritenuto che “non emergano sufficienti elementi che provino la presenza di un rischio effettivo di “grave danno” nel senso indicato dall’art.14, lett.

(a) e (b) del D. Lgs. 251/2007, in quanto non sembra sussistere il rischio che il richiedente sia sottoposto a condanna a morte, tortura o altra forma di pena o trattamenti inumani o degradanti in caso di rientro nel Paese d’origine; · nel senso indicato dall’art. 14 lett. ( c) del D. Lgs. 251/2007”, per mancanza di una situazione di violenza indiscriminata quale conseguenza di conflitto armato nella zona di provenienza; ha poi affermato che “il richiedente non risulta affetto da stati patologici di rilievo, è di età adulta e non appare possedere profili di vulnerabilità tali da far concludere che un rientro nel Paese di origine lo esporrebbe a situazioni umanitarie di particolare complessità e gravità, tali da giustificare l’applicazione della residuale misura di cui all’art. 5, co 6, D. lgs. 286/1998”.

§ I motivi del ricorso

Nel ricorso, la difesa ha ricostruito la storia personale del richiedente nei termini esposti dal ricorrente alla Commissione territoriale; ha posto in evidenza lo stato di salute del ricorrente affetto da “psoriasi volgare acute”, come da documentazione medica; ha affermato che egli “si è subito integrato, lavorando -dapprima- distribuendo materiale pubblicitario e successivamente come facchino operaio comune”.

Quindi ha censurato affermati vizi procedurali del procedimento amministrativo e ha domandato tutte le forme di protezione internazionale e, in subordine, la protezione umanitaria e il riconoscimento del diritto di asilo costituzionale.

§ La difesa della Commissione territoriale

La Commissione territoriale, nel costituirsi in giudizio, si è limitata a richiamare il contenuto del provvedimento di diniego, chiedendo il rigetto del ricorso e ha prodotto i documenti relativi alla fase procedimentale svolta innanzi a sé.

§ All’udienza del 18 novembre 2020 il richiedente è comparso e ha risposto ad alcune domande del giudice in lingua punjabi, a mezzo di mediatore, pur dichiarando di comprendere e parlare un po’ la lingua italiana. Sulla sua situazione di vita in Pakistan prima della partenza ha dichiarato quanto segue: “In Pakistan ho vissuto con la mia famiglia in un villaggio chiamato Dhuni, vicino a Gujarat. Questo è accaduto fino all’ottobre 2015.

Nell’ottobre 2015 sono andato a vivere con un amico in una città che si chiama Khushab a circa 200 km. da Dhuni. La mia famiglia è rimasta a vivere a Dhuni e da circa tre anni si è

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trasferita in Kashmir, a causa dei conflitti con il mio datore di lavoro; i miei figli hanno anche smesso di studiare. A Dhuni vivevo in una casa singola di mia proprietà. L’avevo ricevuta in eredità da mio padre. Ho un fratello maggiore. Mio fratello vive in un’altra città e ha una casa propria. La casa per il momento è abbandonata. La mia famiglia in Kashmir vive presso l’abitazione di un caro amico nella città di Kotli”. A domanda sull’azienda presso la quale ha lavorato, ha dichiarato quanto segue: “Il mio titolare si occupa di tanti settori: agricoltura, marmo, mattoni e anche di auto a noleggio e trasporti. Il mio titolare gestisce questi settori con la famiglia. Non so se lo faccia tramite società.(..) In Pakistan non abbiamo contratti di lavoro per gli operai”. A domanda su come siano state concordate le condizioni di lavoro, ha dichiarato: “Avevo parlato con un supervisore che si occupava di assumere il personale e disse che avrei ricevuto il compenso dopo avere dimostrato le abilità lavorative. Ma non fu stabilito nessun compenso. (..) Il supervisore, alla fine del periodo di prova, stabilì 8000 rupie pakistane. Non mi pagavano regolarmente ma dovevo chiedere di volta in volta. Con questi pagamenti parziali riuscivo a mettere insieme 4000-5000 rupie pakistane al mese. Così è stato finchè ho lavorato”. Alla domanda del giudice su dove abbia negoziato il lavoro ha risposto:

“Sono andato a contrattare nel mio paese, dove si raccoglievano le persone che cercavano lavoro. Questo signore era di Dhuni ed era un parente del titolare (…). A Dhuni vivevano circa 2400 persone quando sono partito dal Pakistan ed il titolare vive lì ma non ha ufficio.

Lui ha una villa grandissima a Dhuni. (…) Il titolare si occupa di queste attività non solo a Dhuni ma ha anche terreni nei villaggi vicini ed in molte città ha auto uffici di auto noleggio e trasporti”. A domanda sul numero dei dipendenti, ha risposto: “Non sono sicuro che siano 500 o 400 ma, parlando con altri operai, ho fatto un calcolo. Solo a Dhuni lavorano per lui cinquanta famiglie. Molte di queste famiglie si sono trasferite a Dhuni provenendo da altre parti del Pakistan. Lui compra le persone, facendo un patto economico e poi non pagandole.” A domanda su da chi ricevesse le istruzioni per il lavoro, ha risposto: “Ricevevo istruzioni dal nipote del titolare. Anche lui vive a Dhuni. Il nipote vive nella sua villa non in quella dello zio.” A domanda su chi si occupi delle istruzioni ai lavoratori, ha risposto: “Si occupa tutta la famiglia delle attività imprenditoriali. Saranno 50-60 persone. E’ una famiglia molto numerosa. Alcuni vivono a Dhuni, altri a distanza di alcuni chilometri. Il titolare ha un fratello poi ha dei cugini con figli. (..) A quello che so i familiari è come se fossero tutti titolari;

non sono trattai come i dipendenti”. A domanda sulle minacce ricevute, ha risposto: “Chi mi ha minacciato è il nipote del mio titolare; si chiama Zulgarnain. Mi ha colpito con l’ascia” A domanda sulla famiglia, ha risposto: “I miei figli andavano alla scuola statale. Ho quattro figlie femmine. (…) Siccome i proprietari bloccavano sia mia moglie che le mie figlie, pretendendo il mio ritorno in Pakistam la mia famiglia ha dovuto trasferirsi. La mia famiglia è andata a Kotli perché ho conosciuto in Italia un amico di Kotli e mi sono fidato lui. Lui sta in Italia. La famiglia del mio amico ha trovato una casa in affitto per la mia famiglia. Ogni tanto mando io un po’ di soldi”. A domanda del giudice sull’accanimento del datore di lavoro verso di lui:

“Per loro siamo degli schiavi e non possiamo decidere in autonomia. Loro vanno dalla mia famiglia perché sono stato uno dei pochi che ha avuto il coraggio di uscire da questa situazione”. A domanda sulla sua situazione in Italia, ha risposto: “In Italia faccio lavoretti in nero, non avendo documenti per lavorare in regola. Ho impiegato circa un anno e mezzo a correggere la data di nascita sul permesso di soggiorno e non ho potuto lavorare. In

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precedenza, avevo lavorato due mesi come operaio nel carico e scarico, nel 2017. Adesso a causa del Covid-19 il mio permesso di soggiorno, scaduto circa un anno fa, non è stato rinnovato. Sono arrivato in Italia nel giugno 2016 e sono partito il 24 gennaio 2016. Non vivo in accoglienza ma da un amico e mi mantengo con i lavori in nero. Ho deciso io di lasciare l’accoglienza; mi sono spostato perchè nel centro di accoglienza non trovavo lavoro. Mi sono spostato per lavorare. Vivo a Vaprio D’Adda. Attualmente lavoro in una legatoria a Vaprio.

Lavoro 60-70 ore mensili e guadagno sei euro e mezzo all’ora ”

Il ricorrente è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato con delibera dd. 18/10/2018 (N. 2018/6728) del Consiglio dell’Ordine di Milano.

MOTIVIDELLADECISIONE

Va premesso che l’opposizione al provvedimento di diniego della Commissione territoriale non è, tecnicamente, un’impugnazione, perché l’autorità giudiziaria non è vincolata ai motivi di opposizione ma è chiamata a un completo riesame nel merito della domanda di protezione internazionale avanzata ed esaminata in sede amministrativa.

L’opposizione verte sul diritto del ricorrente di vedersi riconoscere lo status di rifugiato politico o la protezione sussidiaria a norma del D.Lgs. n. 251 del 19/11/2007, ovvero ancora il diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie ex art. 5 co. 6 T.U.I.

§ Sull’attività istruttoria

Il collegio, alla luce delle dichiarazioni rese dal ricorrente innanzi alla Commissione territoriale ed integrate nel corso del colloquio personale disposto dal giudice, ritiene di avere raccolto tutti gli elementi necessari ai fini della decisione.

§ Sul diritto a ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato

Per il riconoscimento dello status di rifugiato è necessario, secondo il D.lgs. n. 251/2007 che sia adeguatamente dimostrato “un fondato timore” del ricorrente di subire:

- atti persecutori come definiti dall’art.71; - da parte dei soggetti indicatidall’art. 52;

- per motiviriconducibili alle ampie definizioni di cui all’art. 83.

1 Come definiti dall’art. 7: si deve trattare di atti sufficientemente gravi, per natura e frequenza, tali da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, ovvero costituire la somma di diverse misure, il cui impatto si deve risolvere in una grave violazione dei medesimi diritti.

2 Stato, partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o gran parte del suo territorio, soggetti non statuali se i responsabili dello Stato o degli altri soggetti indicati dalla norma non possano o non vogliano fornire protezione.

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Il ricorrente pone a fondamento della domanda di protezione il timore, in caso di rimpatrio, di essere ricondotto ad una situazione di schiavitù lavorativa, cui ha dovuto soggiacere per quasi vent’anni.

La Commissione territoriale ha ritenuto la storia sostanzialmente credibile ma ha qualificato la situazione del ricorrente quale “sfruttamento lavorativo derivato delle sue condizioni socio economiche” e non di schiavitù

Essa ha poi ritenuto “poco coerenti e credibili i seguenti aspetti: inizia a lavorare presso la famiglia all’età di vent’anni, quindi con una scelta consapevole, e per ben diciassette anni lavora presso di loro senza alcun problema o rivendicazione, solo nel 2014 decide di chiedere l’aumento dello stipendio che non viene concesso; dichiara di essere in stato di libertà, infatti poteva rientrare a casa alla sera dopo il lavoro; dichiara di non aver un numero di ore al giorno di lavoro obbligato ma che le consegne erano di finire il lavoro assegnato; la Polizia non accetta la denuncia solo per il fatto che il datore di lavoro apparteneva ad una famiglia potente; presso questa famiglia lavorano altre 500 persone”.

La motivazione della Commissione è piuttosto oscura, non essendo comprensibile quali siano gli aspetti “poco credibili” e quali gli aspetti “poco coerenti” del racconto. Ad ogni buon conto, si comprende che essa esprime una valutazione è di credibilità sia pure in termini di

“poca credibilità” , qualificando appunto la situazione del ricorrente quale “sfruttamento lavorativo”.

La Commissione poi non chiarisce perché, avendo essa accertato una situazione di sfruttamento lavorativo, non abbia riconosciuto nessuna forma di protezione e perché lo sfruttamento lavorativo non possa essere qualificato quantomeno come trattamento inumano e degradante.

Dissentendo dalle conclusioni della Commissione, il collegio ritiene che il ricorrente abbia diritto al riconoscimento dello stato di rifugiato.

Innanzitutto, il Collegio ritiene, così come la Commissione territoriale, credibile il racconto del ricorrente e non ravvisa in esso, a differenza della Commissione, aspetti di incoerenza;

anzi il racconto è non solo coerente ma confermato da significativi riscontri esterni offerti dalle CoI.

Il ricorrente ha narrato alla Commissione territoriale e poi confermato al giudice, con alcuni chiarimenti, una storia di totale sottomissione lavorativa ad un gruppo di proprietari terrieri nonché imprenditori locali. Egli, pur essendo persona di limitata scolarizzazione, avendo appunto passato gran parte della propria vita a svolgere lavori pesanti sotto gli ordini altrui, ha raccontato una storia ricca di dettagli, a partire dal reclutamento lavorativo, passando poi alla

3 Gli atti di persecuzione devono essere riconducibili a motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinioni politica.

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descrizione del contesto lavorativo e delle modalità di svolgimento del lavoro, fino ai mezzi utilizzati dai datori di lavoro per soggiogare lui e gli atri lavoratori all’interesse della proprietà, senza godimento di diritto alcuno ed senza possibilità di svincolarsi dalla situazione di schiavitù, se non con la fuga.

Sugli “elementi di poca credibilità e coerenza” identificati dalla Commissione territoriale ci si soffermerà in seguito così come sulla valutazione di credibilità del racconto.

Preliminarmente, ci si sofferma sugli elementi della fattispecie astratta del “rifugio” e sugli elementi di riscontro esterno del racconto derivati dalla ricerche CoI (Country of origin information),

La protezione deve essere concessa per appartenenza ad un “particolare gruppo sociale”.

A tale riguardo, l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d) della Direttiva Qualifiche (Direttiva 2011/95/UE) definisce particolare gruppo sociale quello i cui membri “condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, e tale gruppo possiede un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante”.

Tale formulazione è stata integralmente recepita dalla legge italiana all’articolo 8 lettera d) del D. Lgs. 251 del 2007.

Il particolare gruppo sociale è, dunque, definito da due elementi:

- una caratteristica innata condivisa o una storia comune che non può essere mutata (…);

- un’identità distinta basata sulla percezione di una diversità da parte della società circostante.

Nell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d) della Direttiva entrambe le condizioni sembrano essere necessarie: ciò è stato confermato, sia pure in via incidentale, dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea4.

L’UNHCR osserva, invece, che le decisioni in materia di protezione internazionale appaiono dominate da due approcci, ossia l’approccio delle «caratteristiche protette» e l’approccio della

«percezione sociale» e sostiene l’opportunità di combinare i due approcci per far sì che la Convenzione sui rifugiati offra una protezione completa e fondata sui principi5 Il criterio proposto dall’UNHCR per combinare i due approcci può essere sintetizzato come segue: è da considerarsi come un determinato gruppo sociale un gruppo di persone che condividono una caratteristica comune diversa dal rischio di essere perseguitati, o che sono percepite come un gruppo dalla società. Frequentemente la caratteristica in questione sarà una caratteristica innata, immutabile, o altrimenti d’importanza fondamentale per l’identità, la coscienza o

4 CGUE, sentenza del 7 novembre 2013, cause riunite da C-199/12 a C-201/12, Minister voor Immigratie en Asiel c. X e Y, e Z c. Minister voor Immigratie en Asiel, punto 45..

5 UNHCR, Linee guida in materia di protezione internazionale n. 2: «Appartenenza ad un determinato gruppo sociale»

ai sensi dell’art. 1(A)2 della convenzione del 1951 e/o al relativo Protocollo del 1967 sullo status dei rifugiati, 7 maggio 2002, doc. UN HCR/GIP/02/.

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l’esercizio dei diritti umani di una persona (UNHCR, Linee guida in materia di protezione internazionale n. 2, cit. alla nota 266, punto 11.).

Rispetto a una caratteristica innata o storia condivisa o a una storia comune, l’identità distinta del gruppo sociale si riferisce alla diversità con cui un simile gruppo è percepito dalla società circostante. Questo accade ad esempio nel caso delle vittime della tratta di esseri umani.

È importante notare che la mera persecuzione non può essere l’unico elemento che dà contenuto ai membri di un gruppo.

Orbene, nel caso del ricorrente, egli appartiene ad un ben identificabile gruppo sociale, ossia un gruppo, molto numeroso ed anche geograficamente localizzato, di persone soggette a schiavitù lavorativa.

La schiavitù lavorativa, o lo sfruttamento lavorativo, come lo definisce la Commissione nel proprio provvedimento è una “storia comune” a milioni di persone in Pakistan; si tratta di persone la cui storia è “immutabile”, nel senso che esse, per ragioni di grave vulnerabilità, non sono in grado di uscire dalla situazione di schiavitù per propria decisione o propria scelta, perché non possono ricevere protezione dallo Stato pachistano che, secondo le fonti, non è in grado di governare ed eradicare il fenomeno.

Si tratta di una situazione non dissimile da quella delle persone soggette allo sfruttamento sessuale o lavorativo ai fini di tratta: ossia l’appartenenza ad un gruppo che condivide una storia comune che non può essere mutata, accompagnata dalla percezione di tale situazione da parte della società circostante.

Le caratteristiche identificative della storia comune che non può essere mutata sono, come detto, chiaramente individuate dalle fonti che identificano gli appartenenti al gruppo delle persone soggette a forme di schiavitù in Pakistan, quale un gruppo ben riconoscibile dalla società circostante.

Passando dunque alle fonti, va innanzitutto citato The Global Slavery Index, un rapporto elaborato da un’accreditata organizzazione internazionale australiana dedita alla protezione dei diritti umani ed in particolare allo studio, alla prevenzione e al contrasto delle forme moderne di schiavitù.

L’organizzazione pubblica, tra l’altro, un rapporto periodico che classifica tutti i Paesi del mondo secondo indici di rilevazione di forme di moderna schiavitù e individua forme di schiavitù paese per paese, considerando particolari situazioni di vulnerabilità e la capacità di reazione dei governi di riferimento. L’ultimo rapporto è stato pubblicato nel 20186 e riporta dati relativi ai due anni precedenti e quindi ad un periodo prossimo a quello della partenza del richiedente dal Pakistan.

L’indice colloca, dunque, il Pakistan all’ottavo posto nel mondo per moderne forme di schiavitù, dopo Corea del nord, Eritrea, Burundi, Repubblica Centrafricana, Afghanistan, Mauritania e sud Sudan (pagina 29).

6 Global Slavery Index

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Il Pakistan, inoltre, si colloca -insieme a Repubblica Centrafricana, Afghanistan , sud Sudan- ad un livello superiore al 90% nel modello di vulnerabilità, che misura rischi sistemici, individuali ed ambientali in 167 Paesi.

Il numero di persone soggette a moderne forme di schiavitù in Pakistan è stimato in 3.186.000: si tratta del secondo numero assoluto più alto al mondo, dopo l’India (che però ha una popolazione di circa sette volte superiore, 189.381.000 abitanti nel Pakistan contro 1.309.054.000 abitanti dell’India, collocata infatti al 53 posto al mondo per livello di diffusione di forme di schiavitù contro l’ottavo del Pakistan - tavola 4 a pagina 178-) .

Il Pakistan si segnala inoltre per uno tra i più bassi livelli di capacità di reazione del Governo nel contrasto delle forme di schiavitù (pagina 45); inoltre è il secondo Paese dell’Asia dopo l’Afghanistan esposto per ragioni di vulnerabilità a moderne forme di schiavitù (pagina 101 del rapporto). Fattori che incidono significativamente su questa posizione sono le ineguaglianze, oltre alla già citata incapacità di reazione da parte del Governo.

Tra i settori maggiormente colpiti dalla schiavitù lavorativa in Pakistan vi sono quello dei mattoni (pagina 103 e 220 ) ma anche il settore dell’agricoltura e della coltivazione del cotone (pagina 220) e della canna da zucchero (pag. 222)

In questo contesto si colloca dunque la storia del ricorrente, impiegato appunto nel settore dell’agricoltura e dei mattoni (egli racconta che l’elemento di riconoscimento dell’attività della famiglia dei suoi padroni è una fornace e che lui stesso dopo l’attività nei campi trasportava materiale da e alla fornace), la cui posizione di schiavitù, quale appartenente a un gruppo sociale, è ben definita guardando ad un più recente rapporto, dell’agosto 2019, segnalato dal Governo del Regno Unito7 e intitolato Modern Slavery in Pakistan Final Report (redatto da DAI -Development Alternatives Inc.)

Il rapporto offre innanzitutto una definizione delle forme di moderna schiavitù (pagina 38), spiegando che essa copre la schiavitù (slavery e servitude), il lavoro forzato (forced and compulsory labour) e il traffico di esseri umani.

Le caratteristiche della moderna schiavitù sono, secondo il rapporto, le seguenti.

7 DFID_Modern_Slavery_in_Pakistan_.pdf (publishing.service.gov.uk)

8 Modern slavery has been adopted as an umbrella term to cover slavery, servitude, forced and compulsory labour and human trafficking. DFID outlines Modern Slavery as:

» Exploitive gain - the intent to exploit victims for personal gain by compelling them to provide some form of work or service.

» Involuntariness - the victim has not offered himself or herself voluntarily or has removed consent.

» (Threat of) Penalty - the victim is unable to leave due to force or physical threats, psychological coercion, abuse of the legal process, lack of finances, deception or other coercive means.

» In certain cases, modern slavery may also apply where the victim is deprived of choice of alternatives compelling him/her to adopt one particular course of action.

» A person does not need to be aware that they are in a state of modern slavery to be considered a Victim.

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L’obbiettivo di sfruttamento: ossia l’intento dello sfruttatore di sfruttare le vittime per benefici personali costringendole a fornire lavori o servizi.

Il carattere involontario: nel senso che la vittima non ha offerto il proprio lavoro o, se lo ha fatto, ha revocato il proprio consenso.

La minaccia: perchè la vittima non è in condizione di sottrarsi alla schiavitù a causa della violenza oppure della minaccia fisica, della coercizione psicologica, dell’abuso di mezzi legali, della mancanza di risorse finanziarie, dell’inganno o di altri mezzi di coercizione.

Una persona, inoltre, non deve essere necessariamente consapevole di trovarsi in una situazione di moderna schiavitù per essere considerata una vittima.

Il rapporto elenca, poi, alla pagina 6, degli indicatori di schiavitù lavorativa che inquadrano esattamente, per caratteristiche della situazione sociale e lavorativa e per provenienza, la situazione del ricorrente,

Le caratteristiche sono dunque le seguenti.

Forme di controllo: la mancanza di alternative di sostentamento Settore di lavoro: agricoltura con assenza di mobilità.

Forme di sfruttamento: paghe fisse ed immutabili; controllo fisico e psicologico.

Vittime: Famiglie povere e prive di terra Autori: proprietari terrieri

Zona di sfruttamento: Punjab

Le fonti riscontrano dunque, con piena aderenza, il gruppo sociale degli schiavi lavorativi nel settore dell’agricoltura nella zona del Punjab, cui appartiene il ricorrente, uomo povero, dedito alla agricoltura e immobilizzato nel lavoro presso la proprietà, privo di altri mezzo di sostentamento oltre le 8000 rupie mensili concesse (ma talvolta erogate in misura inferiore) dalla proprietà e mai modificate nell’entità in diciotto anni di lavoro; soggetto a controllo fisico e psicologico, per quanto si tornerà a specificare in seguito, dai proprietari terrieri ed imprenditori.

La definizione di schiavitù sopra riportata priva, inoltre, di forza le considerazioni utilizzate dalla Commissione territoriale per “degradare” la schiavitù del ricorrente a sfruttamento lavorativo.

Come sopra detto, la Commissione territoriale, che crede alla storia del ricorrente, evidenzia alcuni elementi di “poca credibilità o coerenza”, per affermare che si tratterebbe di un soggetto sfruttato lavorativamente e poi negare, senza una chiara motivazione, ogni forma di protezione.

Gli elementi evidenziati alla Commissione sono esaminati di seguito, tenendo in considerazione i criteri stabiliti dalla legge e dalla giurisprudenza in materia di valutazione di credibilità del racconto, ossia i parametri stabiliti dall’articolo 3 comma 5 del D. Lgs.

251/2007, come interpretato dalla Corte di cassazione, secondo cui “La valutazione di credibilità o affidabilità del richiedente la protezione non è frutto di soggettivistiche opinioni del giudice di merito, ma il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, la

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quale dev'essere svolta non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri stabiliti nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5: verifica dell'effettuazione di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; deduzione di un'idonea motivazione sull'assenza di riscontri oggettivi; non contraddittorietà delle dichiarazioni rispetto alla situazione del paese; presentazione tempestiva della domanda;

attendibilità intrinseca. Inoltre, il giudice deve tenere conto "della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente", con riguardo alla sua condizione sociale e all'età (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 3, lett. c), e acquisire le informazioni sul contesto sociopolitico del paese di rientro, in correlazione con i motivi di persecuzione o i pericoli dedotti, sulla base delle fonti di informazione indicate nel D.Lgs. n. 25 del 2008, ed in mancanza, o ad integrazione di esse, mediante l'acquisizione di altri canali informativi” (Cass.

n. 16202/2012).

Innanzitutto, il fatto “poco credibile o poco coerente”, citato dalla Commissione, per il quale il ricorrente, all’età di vent’anni, avrebbe accettato liberamente il lavoro non muta la sostanza della schiavitù che ricorre, secondo la definizione sopra citata, anche nel caso in cui la persona sia mantenuta nella situazione di sfruttamento o di schiavitù contro la sua volontà (requisito della involontarietà).

Il ricorrente è stato molto chiaro su questo punto (lettera a dell’articolo 3 comma 5 del D.Lgs.

251/2007), spiegando fin da subito, nella parte libera del racconto davanti alla Commissione, che i datori di lavoro “non mi lasciavano andare altrove e mi creavano tanti problemi. Mi portavano via con la forza e mi obbligavano di lavorare. Ho anche la cicatrice visibile quando sono stato colpito con l’ascia. Se rifiutavo di lavorare mi minacciavano di denunciarmi e che mi avrebbero fatto portare via dalla polizia per farmi torturare da loro. Quando rifiutavo di lavorare mi prendevano a calci e schiaffi e mi insultavano mentre andavo per la strada.” Mi accusavano ““di avere avuto una relazione con una ragazza per tre mesi e di averla “poi vista con un altro ragazzo”; di avere, pertanto, “detto alla famiglia che non la volevo più”; che, a causa di tale decisione, “i fratelli della ragazza volevano minacciarmi e mi picchiavano””.

Così come è irrilevante, quando ulteriormente rimarcato dalla Commissione, e cioè che il ricorrente potesse tornare la sera nella propria abitazione, perché ciò che caratterizza la schiavitù non è la privazione della libertà personale ma l’impossibilità di sottrarsi alla schiavitù a causa della violenza oppure della minaccia fisica, della coercizione psicologica, dell’abuso di mezzi legali, della mancanza di risorse finanziarie, dell’inganno o di atri mezzi di coercizione.

Nel nostro caso, il ricorrente ha spiegato con molta chiarezza (lettera a dell’articolo 3 comma 5 del D.Lgs. 251/2007), la violenza inflitta dai padroni a chiunque si ribellasse oppure l’abuso die mezzi legali con l’obbiettivo di spaventare (“eravamo terrorizzati”) e quindi esercitare la coercizione psicologica su tutti gli altri lavoratori: egli ha citato il caso del lavoratore che aveva cercato di creare un’unione di lavoratori per rivendicare dei diritti e fu ucciso o di un altro lavoratore che entrò in discussione con i datori di lavoro per questioni relative alla paga e fu denunciato dai datori di lavoro con la falsa accusa “che stava rubando a casa loro facendolo arrestare dalla polizia”.

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Lo stesso ricorrente ha raccontato di essere stato vittima di violenza, quando chiese un aumento di stipendio, perché fu picchiato “con l’ascia” da uno dei nipoti del datore di lavoro, tale Zulgarnain, e ha raccontato le violenze e le minacce subite, sopra riportate, quando si rifiutava di lavorare. Ha anche spiegato che la resistenza violenta dei datori dei lavori era un sistema volto a mantenere il rapporto di schiavitù con tutti i lavoratori, perché un aumento di stipendio o l’autorizzazione a cambiare lavoro sarebbero stati segni di debolezza che avrebbero potuto incoraggiare altri lavoratori/schiavi a ribellarsi.

Il terzo argomento utilizzato dalla Commissione contro il ricorrente, e cioè il fatto che egli non avesse orari di lavoro, è invece un ulteriore dimostrazione della situazione di suo sfruttamento, perché l’orario di lavoro è uno degli oggetti tipici del diritto dei lavoratori; il ricorrente ha riferito che, invece, egli era costretto a lavorare fino a che lo decidevano i datori lavori e, spesso, quando finiva i lavori nei campi, doveva utilizzare il trattore anche per effettuare i trasporto dalla fornace e che, se si fermava, era “preso a schiaffi e picchiato”.

Il Collegio non condivide neppure l’argomento della Commissione territoriale, per il quale “è poco credibile” o “poco coerente” che il ricorrente abbia chiesto un aumento di stipendio dopo

18 anni di lavoro. Egli ha spiegato, con chiarezza e coerenza (lettera c dell’articolo 3 comma 5 del D.Lgs. 251/2007), che ciò accadde quando egli non era più in grado di mantenere la famiglia; fu dunque un gesto di disperazione; ha infatti chiarito che prima, pur avendo

“problemi di pagamento” andava “avanti per la mia famiglia e mia moglie allevava una piccola unità di polli e vendeva le uova e mi aiutava in questo modo avevamo anche una bufala per il latte da vendere”.

Non è infine chiaro cosa intenda la Commissione quando individua un elemento di debolezza nel racconto del ricorrente nel fatto da egli riferito che “presso questa famiglia lavorano altre 500 persone”. Non si comprende cioè se la Commissione lo consideri un elemento di “poca credibilità” o di “poca coerenza” e per quali ragioni.

Ad ogni buon conto, il ricorrente ha ampiamente spiegato il senso di questa affermazione al giudice e ha descritto la dimensione delle attività imprenditoriali facenti capo al proprio datore di lavoro (lettera a e c dell’articolo 3 comma 5 del D.Lgs. 251/2007). Egli ha raccontato di vivere in un piccolo Paese, Dhuni, di circa 2400 abitanti e che il suo padrone

“vive lì ma non ha ufficio. Lui ha una villa grandissima a Dhuni. (…) Il titolare si occupa di queste attività non solo a Dhuni ma ha anche terreni nei villaggi vicini ed in molte città ha auto uffici di auto noleggio e trasporti”; ha affermato che il suo “titolare si occupa di tanti settori: agricoltura, marmo, mattoni e anche di auto a noleggio e trasporti”. Ha quindi chiarito di non essere sicuro se i dipendenti “siano 500 o 400 ma, parlando con altri operai” di avere fatto un “un calcolo”, perché solo Dhuni lavorano per lui cinquanta famiglie”. Ha chiarito che: “Lui compra le persone, facendo un patto economico e poi non pagandole.”, con ciò riferendo un fatto tipico della riduzione in schiavitù lavorativa secondo la definizione sopra riportata. Alla domanda su chi si occupi delle istruzioni ai lavoratori, ha risposto: “Si occupa

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tutta la famiglia delle attività imprenditoriali. Saranno 50-60 persone. E’ una famiglia molto numerosa. Alcuni vivono a Dhuni, altri a distanza di alcuni chilometri. Il titolare ha un fratello poi ha dei cugini con figli. (..) A quello che so i familiari è come se fossero tutti titolari; non sono trattati come i dipendenti”.

Egli ha quindi descritto, con parole semplici ma chiare (lettera a dell’articolo 3 comma 5 del D.Lgs. 251/2007), l’esistenza di una articolata organizzazione imprenditoriale e di controllo della schiavitù, facente capo ad una ampia, potente e ricca rete familiare che, con l’uso della violenza e della soggezione finanziaria, tiene sotto il gioco dello sfruttamento lavorativo centinaia di famiglie, evidentemente al di fuori del controllo dello Stato.

L’assenza dello Stato (articolo 5 del D.lgs. 251/2007) che non può e non vuole intervenire è resa evidente dalla stessa situazione descritta dal ricorrente che ha provato anche a spiegarla con parole proprie “noi quando andiamo a fare denuncia contro i potenti la polizia non ci ascolta se ci ascolta chiede tanti soldi e fanno parte della funzione del Governo pakistano e hanno tanti rapporti con MPA MNA e lui il proprietario era proprio il capo villaggio”.

L’assenza dello Stato è inoltre ampiamente riscontrata dal rapporto “The global slavery index” sopra citato che colloca il Pakistan agli ultimi posti al mondo per capacità del Governo di controllo il fenomeno.

Oltre agli elementi di credibilità sopra riportati, va inoltre osservato che il ricorrente ha presentato la domanda di protezione internazionale subito dopo il suo ingresso in Italia ((lettera d dell’articolo 3 comma 5 del D.Lgs. 251/2007).

Il ricorrente ha dunque reso un racconto credibile nei dettagli e complessivamente (lettera e dell’articolo 3 comma 5 del D.Lgs. 251/2007). La complessiva credibilità del racconto era stata peraltro ritenuta, sa pure tra dubbi, dalla stessa Commissione territoriale.

Quanto, infine, al timore di ricadere nella schiavitù lavorativa, esso è fondato sulla base del racconto credibile. Il ricorrente ha infatti l’unico proprio bene di proprietà, la casa, nella zona in cui ha vissuto e non ha altri mezzi di sostentamento. La famiglia vive provvisoriamente a Kotli per sfuggire al controllo dei proprietari terrieri, grazie alle rimesse del ricorrente dall’Italia. Non è, però, ipotizzabile una sua ricollocazione in una zona diversa da quella di origine, dove egli ha la casa, perché a Kotli o altrove la famiglia, senza le rimesse del ricorrente, non avrebbe le risorse per reperire un’abitazione e sopravvivere. A Dhuni, come sopra ampiamente spiegato, l’organizzazione facente capo ai proprietari terrieri esercita lo sfruttamento della schiavitù con l’uso della forza e dalla minaccia, non risparmiando a maggior ragione coloro che alla schiavitù hanno cercato di sottrarsi. E’ dunque fondato il rischio che il ricorrente sia nuovamente ridotto in schiavitù in caso di rimpatrio.

Per tali ragioni, va riconosciuto lo stato di rifugiato.

§ Le spese di lite

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Considerato che il ricorrente è ammesso al patrocinio a spese dello Stato e che, dunque, l’amministrazione statale convenuta andrebbe condannata a rifondere a se stessa le spese ex art. 133 D.P.R. 115/2002, nulla va disposto sulle spese di lite.

Il collegio provvede con separata istanza alla liquidazione del patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

Il Tribunale di Milano

• in accoglimento del ricorso, riconosce a Sheraz ALI, nato a Dhuni (Pakistan) l’

08.04.1978, codice CUI 05AFP01 lo status di rifugiato;

• nulla sulle spese.

Manda alla cancelleria per la comunicazione alle parti.

Così deciso in Milano, nella camera di consiglio del 10/02/2021.

Il Presidente

Dott.ssa Pietro Caccialanza

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