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Crisi globale e nuovi realismi: dismissioni e spaesamenti nell Italia degli anni 2000

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35-36 | 2014

La letteratura italiana al tempo della globalizzazione

Crisi globale e nuovi realismi: dismissioni e spaesamenti nell’Italia degli anni 2000

Claudio Panella

Edizione digitale

URL: https://journals.openedition.org/narrativa/1203 DOI: 10.4000/narrativa.1203

ISSN: 2804-1224 Editore

Presses universitaires de Paris Nanterre Edizione cartacea

Data di pubblicazione: 1 septembre 2014 Paginazione: 241-251

ISBN: 978-2-84016-192-9 ISSN: 1166-3243

Notizia bibliografica digitale

Claudio Panella, «Crisi globale e nuovi realismi: dismissioni e spaesamenti nell’Italia degli anni 2000», Narrativa [Online], 35-36 | 2014, online dal 01 avril 2022, consultato il 20 avril 2022. URL: http://

journals.openedition.org/narrativa/1203 ; DOI: https://doi.org/10.4000/narrativa.1203

Narrativa est mise à disposition selon les termes de la Licence Creative Commons Attribution 4.0 International.

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I

n numerose opere italiane recenti, la globalizzazione è raccontata e denun- ciata come quella costruzione ideologica che, associata alla retorica della flessibilità, tende a legittimare la progressiva estensione a livello planetario del dominio del libero mercato tanto sul fronte della produzione quanto su quello dell’occupazione.

Da una parte, infatti, la ricerca di sempre maggiori profitti ha portato al dif- fondersi del fenomeno delle delocalizzazioni degli stabilimenti industriali e alle corrispondenti dismissioni di quelli attivi in origine. Fin dagli anni ’70 non è quindi solo l’automazione a ridisegnare il lavoro operaio ma anche un processo di abbassamento spasmodico dei costi di ogni anello della catena produttiva, il cui risultato sembra essere l’abbandono progressivo di vasti settori del com- parto industriale sviluppatosi nei paesi occidentali nel corso del XX secolo.

Dall’altra, la pretesa del “capitale” (un tempo si sarebbe detto i “padroni”, ma oggi le grandi aziende sono per lo più proprietà di corporation multinazionali o di fondi di investimento) di non considerare il lavoro come una variabile econo- mica, ma di imporne le condizioni ai salariati, ha portato alla pandemia del lavoro flessibile. Per citare un’estrema sintesi del pensiero “per analogia”

espresso da uno dei sociologi italiani più critici contro la globalizzazione, Luciano Gallino, “[l]a flessibilità è figlia primogenita della globalizzazione”1 al punto che i “‘figli della precarietà’ [...] potrebbero anche esser chiamati ‘figli della globalizzazione’”2, costretti (con l’avvallo dei governi nazionali) a ingag- giare una competizione planetaria per l’abbassamento del costo del loro lavoro e dei diritti a esso legati.

1. Gallino, Luciano, Il lavoro non è una merce, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 37.

2. Ibid., pp. 84-85.

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Ciò nonostante, il lavoro e i luoghi di lavoro conservano un ruolo insostitui- bile nei processi di costruzione dell’identità dell’individuo e delle sue relazioni, ossia della sua identità sociale. È però evidente come la delocalizzazione e la scomparsa materiale dei siti industriali che hanno caratterizzato l’economia nazionale del XX secolo e segnato l’esistenza di milioni di lavoratori abbiano generato uno smarrimento intergenerazionale, sommatosi a quello di chi non trova la prima occupazione. Questo fenomeno si è compiuto in modo tanto più brusco in un paese come l’Italia, che ha raggiunto un certo grado di industria- lizzazione soltanto con il così detto boom economico del secondo dopoguerra, e che in pochi decenni ha visto entrare in crisi questo modello fino all’attuale de-industrializzazione massiva.

In tale contesto di crisi globale del lavoro, che va ben oltre la crisi finanziaria conclamata degli ultimi anni, le delocalizzazioni, le dismissioni e la precarietà lavorativa sono state raccontate da molti scrittori italiani nel quadro di un più generale “spaesamento” identitario. Secondo il vocabolario Treccani online l’es- sere spaesato è la condizione di chi “si sente a disagio e privo di punti di riferi- mento, in quanto si trova fuori dal proprio ambiente abituale”3, ma è anche, per citare il Calvino de La nuvola di smog, lo stato di chi non sa riconoscersi “come prima” e non riesce “a decifrare l’avvenire”4. Tale spaesamento sembra essere la molla che ha spinto molti autori a rivolgersi al racconto del presente, “sondato”

nel libro di Giorgio Vasta che si intitola per l’appunto Spaesamento (2010), nato da un sentimento di estraneità verso la propria città natale, Palermo, dove l’au- tore decide di compiere un esercizio di “carotaggio del reale”5 per meglio com- prendere l’Italia dei nostri giorni; indagato in maniera diaristica nell’omonimo progetto narrativo di Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori e Vasta con- fluito nel volume einaudiano Presente (2012). Anche l’abbandono dei luoghi sim- bolo del lavoro nell’epoca della produzione è stato raccontato da sociologi, giornalisti e fotografi quale emblematico correlativo dello spaesamento identi- tario delle più e meno giovani “displaced persons” degli anni 2000. Si pensi al recente volume di Giancarlo Liviano D’Arcangelo che ha per titolo Invisibile è la tua vera patria e per sottotitolo Reportage dal declino. Luoghi e vite dell’industria italiana che non c’è più (2013), che percorre tutta la penisola de-industrializzata da Taranto

3. Spaesato (in http://www.treccani.it/vocabolario/spaesato/).

4. Calvino, Italo, “La nuvola di smog”, in id., I Racconti, vol. I, Torino, Einaudi, 1958, p. 523.

5. Cfr. il prologo senza titolo in vasta, Giorgio, Spaesamento, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 3-9. Il termine era già anticipato in id., Il tempo materiale, Roma, minimum fax, 2008, p. 293.

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a Ivrea. In letteratura, il rapporto residuale con luoghi a lungo centrali nella costruzione identitaria dei lavoratori, e non solo, arriva a configurarsi in molti casi come una vera e propria ossessione del “tempo perduto”, dove a essere smarrito è soprattutto il presente, soffocato da un’instabile coesistenza di modi di produzione diversi e contraddittori.

Per esempio, la scrittrice romana Sara Ventroni, prevalentemente ma non esclusivamente autrice di versi, ha dedicato più di dieci anni della sua vita allo studio, poetico, artistico, fotografico della “forma-Gasometro” che secondo Andrea Cortellessa è “emblema della nostra archeologia taylorista: del lavoro spietatamente duro, ma pieno di dignità, che ci è stato sottratto, nonché dei generosi ideali che tale condizione rappresentavano e intendevano riscattare […] e di altri miti di una modernità ormai fossile ma tuttora durevole. Ruggino- samente splendente”6. In Nel Gasometro (2006) Sara Ventroni esplora il simbolo enigmatico di un passato prossimo ma già “archeologico”, carico di quello che Aldo Nove ha definito un “valore totemico decaduto”, “icona pesante, pesan- tissima, di un futuro che (dismesso, convertitosi in passato), persiste come strato geologico nella corteccia cerebrale dell’immaginario comune e nella topo- grafia dei centri urbani”7. Si tratta in effetti di un’immagine inesauribile, anche perché vuota, come si legge nel poemetto omonimo: “sottoposto al tempo il Gasometro / non ha senso non ha verso non è spazio. / Non tiene la materia, / la espelle verso l’alto”8. E ancora: “Il corpo rarefatto liscio in ferro non ha moto / non ha verbo. / uno scopo è uno scopo ed è vuoto. // la testa si sposta verso l’alto. La storia va e non va, non c’è ma torna spesso / il cranio / all’età del ferro”9. Nel seguito, la poetessa immagina una coreografia di operai-operai e di attori-operai intorno alla macchina, “un quadro fisso, una scena di posa”:

“Esibire un lavoratore, fermarlo nel tempo. / Come fu fatto compararlo a come è adesso / il suo funzionamento”10.

Sara Ventroni scava quindi, come ha scritto ancora Aldo Nove, “[n]el cuore (di tenebra, e di ruggine, e di muschio) e nel sangue della storia coagulata in geografia (in geologia). Nella pietas per la massa (di gas, di acciaio, di corpi di operai) che non c’è più, ma c’è stata”11. Il suo lavoro è iniziato non casualmente

6. Dal risvolto di copertina di ventroni, Sara, Nel Gasometro, Firenze, Le Lettere, 2006.

7. Ibid., p. 130.

8. Ibid., p. 13.

9. Ibid., p. 14.

10. Ibid., p. 17.

11. Ibid., p. 130.

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con la lettura di T.S. Eliot e con un viaggio a Berlino nel 1999 in cui l’autrice, lo si legge nel brano Le premesse - conte philosophique. 1996-2006, andava “alla ricerca di tracce fossili di storia”, domandandosi che fine avesse fatto “la metropoli color ferro e fumo che odorava di vecchia Europa”12 e constatando che, “sul finire del millennio, la città sulla Sprea aveva l’aspetto di un’opera d’arte infor- male che gridava estetica, non storia” arrivando a rappresentare “la punta di diamante del neo-neo-capitalismo”13. Quasi inevitabile per Ventroni evocare l’Angelus Novus, il quadro di Klee interpretato da Benjamin, “un angelo che non riesce a dimenticare il passato di rovine”14 lasciate dal “progresso” e a tale pas- sato è quindi “inchiodato”15.

Altre imponenti rovine e un’altra enorme “ossessione” sono al centro di un romanzo molto importante della letteratura italiana degli anni 2000, firmato da un autore già maturo che all’inizio del nuovo millennio fu tra i primi a narrare la trasformazione del mondo produttivo che ha autorizzato la credenza falsa, benché sempre più fondata, che la classe operaia non esistesse più. Si tratta di Ermanno Rea con il romanzo La dismissione (2002), nato da una vera e propria inchiesta che lo scrittore napoletano ha portato avanti seguendo lo smantella- mento e la chiusura dello stabilimento siderurgico dell’Ilva di Bagnoli. Vale a dire la smaterializzazione di uno dei simboli principali dell’industria nel Sud- Italia, la “fumifera città rossa e nera” che i napoletani hanno chiamato per oltre un secolo “Ferropoli”16.

Il racconto è affidato da Rea all’ex operaio manutentore e poi tecnico Vin- cenzo Buonocore (persona reale il cui vero cognome è Buonavolontà17).

Assunto nell’agosto 1969, quando “si scioperava per un nonnulla”18, Vin- cenzo ha vissuto tutte le ristrutturazioni della sua fabbrica fino all’installa- zione delle nuove “colate” avviate nel 1984-1985, cui seguì il disimpegno della proprietà nel 1987 e la progressiva chiusura dell’impianto, spento nel

12. Ibid., p. 102.

13. Ibid., p. 103.

14. Ibid., p. 106.

15. Sara Ventroni ha compiuto anche altre esplorazioni di ruderi industriali, come quella di una zolfatara vicino a Roma per cui cfr. ibid., pp. 47-62, il racconto La buca del dollaro.

16. rea, Ermanno, La dismissione, Milano, Rizzoli, 2002, p. 12.

17. Cfr. “Io, operaio, finito nel libro dell’anno”, intervista di Enzo Golino a Vin- cenzo Buonavolontà, in il Venerdì, 746, supplemento de la Repubblica, 5 luglio 2002, pp.

106-107.

18. rea, Ermanno, La dismissione, cit., p. 23.

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199019. Quattro anni dopo, al protagonista non ancora cinquantenne è richiesto di seguire i lavori di smontaggio dell’altoforno in cui lavorava, venduto a un’industria cinese. Vincenzo Buonocore vi si impegna in maniera per l’appunto “ossessiva” consapevole che tale mansione va contro la sua stessa natura di manutentore (“La mia ossessione è questa: poter concludere la mia carriera in modo degno. Anch’io ho diritto al mio capolavoro”20) ma anche di trovarsi al centro di un evento epocale (“Temo che sia la sola nota memora- bile della mia grigia biografia […]: cos’altro avrò da raccontare ai miei nipoti se non la fatica di un colossale smontaggio che è stato nello stesso tempo un este- nuante e brutale addio al passato?”21).

Come ha illustrato Ugo Fracassa nel saggio “In luogo della fabbrica”, edito nel volume di Narrativa dedicato a Letteratura e azienda (2010)22, la parabola non edificante (letteralmente) di Vincenzo può essere vista come una forma di lud- dismo “sublimato” e “legalizzato”, anche se la sua missione è intrapresa come

“l’ultima occasione per mettere in mostra le [su]e doti di intelligenza e di attac- camento al lavoro”23. Quando alcuni sindacalisti contestano la sua dedizione al lavoro di smontaggio, lui commenta: “non reagii perché mi vergognavo di quell’ossessione che mi portavo dentro”24. Buonocore non può infatti che considerare la sua situazione come “una faccenda tutta privata”25 e argi- nare così lo spaesamento per la prospettiva di trovarsi disoccupato e privo dell’identità di operaio manutentore amante del lavoro ben fatto. Al punto che, quando il lavoro è quasi finito Vincenzo prova una sorta di sollievo per la defi- nitiva sparizione della fabbrica: “la sua presenza era diventata un incubo per tutti”, dice, dopo dieci anni passati ad assistere “al medesimo spettacolo: come si sgretola e scompare - ma piano, pianissimo, una scheggia per volta - una grande acciaieria pur condannata in blocco in maniera irrevocabile. Quando si

19. È opportuno ricordare che l’arresto della produzione avvenne quando la proprietà aveva sì molti debiti ma anche numerose commesse e fu motivato da malcelate mire spe- culative sui terreni in cui sorgeva la fabbrica: una vicenda ancora non finita come si è visto con l’incendio doloso appiccato nel marzo 2013 alla Città della Scienza poi sorta in una parte di quest’area; e a qualche speculazione analoga sembrano essere legate le fiamme divampate solamente due suettimane dopo nel polo industriale ex Olivetti di Scarmagno.

20. Ibid., p. 38.

21. Ibid., p. 34.

22. FraCassa, Ugo, “In luogo della fabbrica”, in Narrativa, n. 31-32, 2010, pp. 75-87.

23. rea, Ermanno, La dismissione, cit., p. 30.

24. Ibid., p. 269.

25. Ibid.

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dice un’agonia”26; dieci anni trascorsi a “guardare in modo ossessivo al di là dei finestroni”27 e “a riflettere sul modo migliore di smontare scientificamente, in un sovrumano sforzo di autocontrollo, il ‘mio’ impianto, le ‘mie’ colate continue:

bullone numero uno, bullone numero quattro, bullone numero trenta; farfalla numero centotrentadue...”28.

Quando i bagnolesi compresero che “la fabbrica stava per scomparire in modo materiale”29 e che tutto “si trasformava in raduna lunare”30 perdendo con i suoi riferimenti e i suoi simboli architettonici (torri e altiforni) una riconoscibilità condivisa dalla comunità, l’intera Bagnoli, scrive Rea, diventò

“un nulla, un non-luogo, un’assenza. Soprattutto un’assenza di futuro”31. Nel finale del libro, come già in una nota introduttiva, l’autore prende la parola e tratteggia il quadro sin troppo esplicito di un tramonto sull’area di Bagnoli, la cui fabbrica fa ormai parte del mondo delle “cose perdute”:

Un romanzo è di necessità la storia di una perdita, la storia di qualcosa che prima c’era e poi non c’è più: una speranza, un sentimento, una donna, un mes- tiere e perfino una fabbrica. O addirittura un mondo, una civiltà, un costume, un’epoca. I romanzi sono inventari di cose perdute32.

L’opera di Rea è alla base del film di Gianni Amelio La stella che non c’è (2006), che di fatto inizia “dove il libro finisce”33, come ha affermato il regista stesso. Se già nel romanzo veniva proposto a Vincenzo di andare in Cina, senza convin- cerlo, il protagonista della pellicola (che ha il cognome della persona alla quale si ispira, Buonavolontà, ed è interpretato da Sergio Castellitto) va invece a cer- care attraverso tutta la Cina l’impianto smontato in Italia, cui vuole sostituire un giunto realizzato di sua spontanea iniziativa e in grado di evitare che durante le colate di ghisa si verifichino incidenti. Nella sceneggiatura scritta dallo stesso Amelio con Umberto Contarello, in parte non rispettata dal regista, La stella che non c’è iniziava infatti con un grave incidente in fabbrica e la morte di un operaio

26. Ibid., p. 11.

27. Ibid.

28. Ibid., p. 28.

29. Ibid., p. 30.

30. Ibid., p. 344.

31. Ibid., p. 184.

32. Ibid., p. 367.

33. amelio, Gianni e Contarello, Umberto, La stella che non c’è, a cura di Codelli

Lorenzo, Venezia, Marsilio, 2006, p. 12. Peraltro, il libro si chiude con un tramonto, il film ha inizio con un’alba.

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molto amico del protagonista. Nel film finito non si fa riferimento a questa morte ma soltanto a un perno difettoso che Vincenzo realizza nei primi minuti dell’opera (gli unici ambientati a Bagnoli ma girati all’Ilva di Genova dato che a Bagnoli l’acciaieria non c’è più) mentre tute blu e tecnici cinesi smontano l’im- pianto a tempo di record, accolti da proteste e contestazioni operaie ai cancelli, dov’è appeso, tra gli altri, uno striscione con su scritto: “Fabbrica in saldo / al cinese col soldo”. In queste scene, come ha dichiarato lo stesso Amelio “si dà l’idea più che di una fabbrica, di quello che resta di una fabbrica” con il prota- gonista che “è come il guardiano di un cimitero”34. Quando il pezzo-capolavoro prodotto dall’operaio è pronto, Vincenzo corre all’altoforno, dove crede di tro- vare ancora il suo impianto, e scopre invece un grande “vuoto, nudo come una chiesa sconsacrata”35, “uno squarcio [con] dall’altra parte il cielo e la città intra- vista, una ferita dentro il corpo nel quale lui aveva vissuto per tanto tempo”36: un’immagine potente ed emblematica che fa da sfondo all’apparizione del titolo della pellicola, anch’esso dedicato a un’assenza (la stella che mancherebbe nella bandiera della Repubblica popolare cinese).

Il definitivo “spaesamento” di Vincenzo avviene quindi nel seguito del film, un anomalo road-movie, che mette in evidenza alcuni aspetti ulteriori, rispetto al libro, sia del fenomeno della globalizzazione sia del personaggio raccontato da Rea. Da un lato, allo spettatore è mostrata la durezza del capitalismo cinese, per esempio, quando presso la società di “intermediazioni commerciali” che ha prelevato l’impianto in Italia dicono a Vincenzo di aver già “dismesso” il diri- gente incaricato del trasloco e che perciò nessuno sa dove l’altoforno sia finito;

accanto a tali pratiche “occidentali” appare evidente la fragilità del “balzo in avanti” di quel gigante dai piedi d’argilla che è la Cina, dove rimangono endemi- che la miseria e, ha scritto Amelio, vere e proprie forme di “schiavitù”37: il futuro assomiglia molto a un passato che non suscita nostalgia… Dall’altro, assistiamo al progressivo incrinarsi della supponenza del protagonista, inizial- mente convinto che nessuno in Cina saprebbe fare un giunto girasiviere come il suo (al punto di affermare anche: “In fabbrica ci so stare meglio di tutti i cinesi messi insieme”38) e poi costretto ad accettare l’evidente marginalità dell’Italia

34. Dal commento di Amelio all’edizione dvd del film edita da 01Distribution nel 2006. Cfr. la sceneggiatura in amelio, Gianni e Contarello, Umberto, La stella che non c’è, cit., p. 44: “tutto è intatto e nello stesso tempo tutto è morto”.

35. Ibid., p. 53.

36. Dal commento di Amelio all’edizione dvd del film.

37. amelio, Gianni, Contarello, Umberto, La stella che non c’è, cit., p. 16.

38. Ibid., p. 72.

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nel nuovo contesto globale (i cinesi considerano l’italiano “lingua minore”, un ragazzo chiede al protagonista se l’Italia è uno stato “irakeno”, rivelando, nel suo non saper riferirsi al continente europeo, di vivere in un mondo centrato su altri assi, dove il termine “irakeno” è arrivato attraverso la televisione...).

Verso la fine della pellicola, quella che Amelio ha definito l’“impresa donchisciottesca”39 del protagonista si rivela in tutta la sua insensatezza, con il pezzo-feticcio affidato da Vincenzo a un operaio cinese perché lo sostituisca a quello fallato nell’impianto venuto dall’Italia, infine ritrovato: se nella sceneg- giatura si descrive l’italiano che fuori della fabbrica immagina il cinese sistemare il pezzo al posto giusto, nel film invece il giunto di acciaio tenace passa di mano in mano fino a quando un ragazzo lo butta tra altri simili ferri vecchi. Vincenzo capisce poco più avanti, con una crisi di pianto, che il vero scopo del suo viaggio è quello di trovare una nuova vita distaccandosi dalla precedente che non ha più senso dopo aver perso il lavoro a cinquanta anni. Il finale del film e l’incontro con la ragazza-madre cinese che gli ha fatto da traduttrice lasciano pensare che l’uomo rimarrà in Cina. Si potrebbe forse definire l’esito dello “spaesamento”

di Vincenzo come una autentica “atopia”, un termine proposto da Franco Rella rileggendo le nozioni di “sradicamento” e “spaesamento” nell’opera di Simone Weil per definire ogni “‘de-situazione’ dalle nostre abitudini cognitive ed etiche”40. Difatti, come ha scritto Aldo Bonomi, “[f]inite le appartenenze, nello spaesamento e nello sradicamento, ciò che resta sotto traccia per l’essere è la voglia di comunità, dell’essere in comune”41, che avvicina Vincenzo alla ragazza al di là dei loro percorsi di vita precedenti.

Registrata la rinascita cinematografica tutto sommato positiva del personag- gio che nel romanzo di Rea e nella realtà è rimasto disoccupato e pre-pensio- nato, bisogna dar conto di un’altra figura ricorrente nella nostra letteratura fin dagli anni ’60: accanto agli operai che perdono o soffrono il lavoro, nella narra- tiva italiana degli anni 2000 si contano infatti numerosi piccoli imprenditori che pagano l’alto prezzo della rincorsa al profitto e le leggi sempre più spietate della competizione globale. Rispetto al passato, ogni ambito della società appare dominato da una mentalità manageriale di cui le delocalizzazioni sono logica conseguenza dall’esito quasi mai felice. Tra gli esempi più emblematici delle conseguenze di un simile processo, c’è lo sfaccettato personaggio della madre

39. Ibid., p. 30.

40. rella, Franco, Miti e figure del moderno, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 232.

41. Bonomi, Aldo, BorGna, Eugenio, Elogio della depressione, Torino, Einaudi, 2011, p. 16.

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del narratore di Se consideri le colpe (2007) di Andrea Bajani, un romanzo a lungo meditato e scritto dall’autore tra “smarrimenti perenni”42 dopo molte settimane trascorse in Romania “a fare domande, registratore alla mano, agli imprenditori italiani, e poi ai loro dipendenti romeni e poi via via ad altre persone”43. Se con- sideri le colpe è infatti un’opera “dichiaratamente d’invenzione che occulta le tracce delle testimonianze reali nella rielaborazione romanzesca”44, per ripor- tare un’efficace sintesi del metodo di Bajani elaborata da Beatrice Manetti. Vi si racconta come la madre del protagonista, Lorenzo, “dismetta” la sua vita ita- liana e “delocalizzi” se stessa e la sua piccola azienda in Romania per produrre a minor costo un marchingegno a forma di uovo che in poche sedute fa perdere peso a chiunque lo desideri. Dal punto di vista di Lorenzo e della sua narra- zione, lei, partendo, abbandona non solo il figlio, il compagno e la casa ma in breve tempo anche ogni concretezza fisica, smaterializzandosi in una voce al telefono, nel mittente di qualche regalo che arriva via posta. Perennemente in viaggio già negli anni precedenti alla sua sparizione, la donna sembra praticare quella sorta di corsa all’abdicazione dello spazio per rincorrere il primato del tempo (dice al figlio di vivere “nel futuro”45 perché il fuso orario rumeno è un’ora avanti) e il primato del profitto che caratterizzano il lavoro “7x24” tipico della società globalizzata. Bajani dimostra così che tale retorica del lavoro sle- gato da ogni orario e luogo fisico descrive il continuum temporale sconfinato in cui pretende di muoversi il capitale ma non è sostenibile per gli esseri umani che non possono vivere abolendo ogni legame e radicamento territoriale.

In Se consideri le colpe, infatti, Lorenzo adulto è costretto a partire per la Roma- nia quando gli giunge la notizia della morte della madre, che non vedeva da anni. Evocando due categorie utilizzate da Aldo Bonomi a proposito dei lavo- ratori suicidi, si potrebbe dire che il personaggio di lei, dopo aver abbandonato l’Italia, passa da un’“infelicità desiderante” (alimentata dall’amore innescato dall’afrodisiaco degli affari46, ma presto deluso, per il socio-amante) a un’“infelicità senza desideri”47, un’espressione che Peter Handke usò in rela-

42. Bajani, Andrea, Se consideri le colpe, Torino, Einaudi, 2007, p. 169.

43. id., “I pionieri del Far East” (in http://www.nazioneindiana.com/2007/10/25/

i-pionieri-del-far-east/).

44. manetti, Beatrice, “Esperienze che non sono la mia. Vissuto dell’io e memoria dell’altro in Helena Janeczek e Andrea Bajani”, in CoSMo, n. 1, 2012, p. 139.

45. Bajani, Andrea, Se consideri le colpe, cit., p. 133.

46. Cfr. siti, Walter, Resistere non serve a niente, Milano, Rizzoli, 2012, p. 138: “L’a- drenalina degli affari […] ti porta in casa tonnellate di vita e di contraddizioni altrui, tragedie vere e geografia sanguinosa”.

47. Bonomi, Aldo, BorGna, Eugenio, Elogio della depressione, cit., p. 13.

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zione alla depressione e al suicidio di sua madre. Quando il socio le preferisce un’amante rumena più giovane, la corsa al successo della donna si arresta dram- maticamente e lei si ritrova sola a Bucarest, senza più il coraggio di ritornare a casa. La dilaniante nostalgia del radicamento perduto fa sì che l’ultimo suo gesto d’amore per il figlio sia quello di acquistare a suo nome un terreno poco fuori città. L’inerzia, il peso ineliminabile dello spazio, della distanza che ha scavato con la sua famiglia italiana, e quello del proprio corpo trascurato e ingrassato (nemesi della promessa dimagrante smerciata dalla sua azienda) la portano in breve tempo a una morte solitaria.

Scoprendo la Romania, Lorenzo cerca di vincere l’opacità dello spazio che l’ha separato dalla madre e di riconquistare se non lei, almeno il suo ricordo e un po’ della propria identità. Conosce così tutto un mondo di piccoli imprendi- tori italiani espatriati da un’Italia che non ha dato loro opportunità, o le ha date a industriali migliori. Sono i così detti “pionieri del Far Est”, come li ha chiamati Bajani, “pionieri” autodefinitisi tali48, la cui supponenza nei confronti dei rumeni, detti invece da Lorenzo “indiani di Romania”49, è ancora più marchiana di quella dell’operaio Vincenzo verso i cinesi. Le loro parole rivelano infatti un dispositivo d’infantilizzazione dei locali “rimasti indietro di più di cin- quant’anni”50, cui loro avrebbero insegnato a lavorare e “tolto il Medioevo dalla testa”51. Oltre a questi “cinquantenni imbolsiti”52 che hanno ricostruito fuori dell’Italia una piccola azienda identica a quella dismessa nel nostro paese, con tanto di bandiere tricolori o della Juventus sui capannoni, Lorenzo nota anche il transitare per l’aeroporto di Bucarest di una generazione più giovane di mana- ger globali che “la Romania la vedevano dall’alto, venendo giù con l’aereo […].

Lavoravano per multinazionali importanti, centinaia o migliaia di romeni che faticavano per loro giorno e notte”53. Le contraddizioni di uno sviluppo ine- guale già rilevate nella Cina raccontata in La stella che non c’è sono rappresentate da Bajani con immagini ricorrenti quali il contrasto tra l’enorme palazzo di

48. Cfr. Bajani, Andrea, Se consideri le colpe, cit., pp. 98-99, dove alcuni tra loro affer- mano: “Siamo tutti pionieri”, mentre il socio della madre commenta: “Qui si sono rifatti una vita. In Italia non valevano più un cazzo”, e Lorenzo crede di notare nei loro occhi “un’intensità dello sguardo, l’intensità di chi ricomincia qualcosa”.

49. Ibid., pp. 46 e 47.

50. Ibid., p. 45. Sono parole della madre di Lorenzo che dice anche: “li hanno tenuti fermi nel passato” e, a p. 46: “Ceausescu li ha tenuti proprio chiusi nella gabbia”.

51. Ibid., p. 10.

52. Ibid., p. 148.

53. Ibid., p. 149.

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Ceausescu e le strade polverose di Bucarest e delle sue periferie, attraversate da immancabili cani randagi.

Come per i precari e gli operai, anche i manager e gli imprenditori apparsi nella letteratura italiana del nuovo millennio sono rappresentati soprattutto come vittime delle ultime mutazioni del mondo del lavoro. Rientrano in questa serie il manager disoccupato protagonista de Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio (2009) di Massimo Lolli, che va anche in Cina a cercare lavoro, senza successo, o il Cavaliere Ivo Barrocciai raccontato da Edoardo Nesi in L’età dell’oro (2004) e poi ripreso in Le nostre vite senza ieri (2012), emblematico perché vive nello spazio di pochi decenni il boom del tessile pratese e la sua crisi. Nel primo romanzo, anche il Barrocciai soffre una serie di spaesamenti (acuiti dalla malattia che lo logora): prima è accecato dal sole, inciampa e cade per strada, poi incontra una madre africana col bambino nel vecchio centro di Prato e un pigmeo seminudo che lo aggredisce nell’ormai abbandonata e selvaggia zona industriale dove fece furore con la sua fabbrica di tessuti. La narrativa italiana più recente ci racconta come non sia necessario andare all’estero per provare smarrimento, estraneità: nel nostro stesso paese si muovono infatti molteplici figure di lavoratori che tentano di tenere insieme quei pochi fili ormai disfatti che legano un presente sfuggente e un futuro sempre più enigmatico a un pas- sato prossimo che ci sembra già lontanissimo.

Claudio Panella Università di Torino

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