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Considerazioni conclusive
Le ricerche su questo argomento sono molto poche, e, in parte anche per questo motivo, molto spesso sono state tratte conclusioni, spesso parziali o premature, sul segno del fenomeno.
Da questa analisi è emerso che il fenomeno in esame è fortemente ambivalente.
Se ragioniamo a livello di paesi riceventi, l'impatto è negativo quando esistono o sono esistite industrie manifatturiere nel settore dell'abbigliamento a livello locale, oppure -estendendo il ragionamento- se esistono le condizioni affinché tali industrie possano essere create. È invece positivo quando capi confezionati vengono importati da paesi terzi, poiché gli indumenti usati, avendo un prezzo più basso, comportano una riduzione della spesa per importazioni ed un beneficio per i consumatori.
Se però si estende il discorso a livello mondiale, appare evidente questo commercio ha tanto aspetti positivi quanto negativi. Rappresenta uno svantaggio innanzitutto per le industrie tessili e i coltivatori di cotone, a prescindere dal paese in cui si trovano, e con essi per gli individui che potrebbero essere occupati in questo settore. Rappresenta un vantaggio, invece, per i paesi in cui gli abiti vengono raccolti, che assistono in contemporanea ad un aumento dell’impiego e per i consumatori che, come dimostrato anche dall’intervista condotta sul campo, sembrano apprezzare grandemente la disponibilità di indumenti di stile e qualità occidentali ad un prezzo accessibile.
Fare un bilancio di cosa pesa di più, se gli aspetti positivi o quelli negativi, mi sembra vada al di là di questo lavoro. A questo punto entrano in gioco, infatti, sistemi di valori, indispensabili per fare una comparazione tra fenomeni diversi: a seconda delle priorità su cui si sposta il focus, il segno del fenomeno cambia.
Dal punto di vista di un economista classico, il fenomeno è negativo, poiché indubbiamente riduce la produzione mondiale, e il PIL mondiale, così come i posti di lavoro globali, sono
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ridotti. Questo discorso viene abbracciato anche da organizzazioni in difesa dei lavoratori, com'è il caso dell’International Textiles, Garment and Leather Workers’ Federation.
Se si guarda all'interesse nazionale, l'opinione cambia a seconda della nazione in esame: i paesi occidentali che esportano indumenti usati ne ricavano senz'altro un impatto positivo sia in termini occupazionali che di bilancia dei pagamenti, per i paesi riceventi si è già detto, per i paesi terzi produttori di cotone e/o indumenti nuovi a basso costo l'impatto è quasi sempre negativo.
Se invece si sposta il focus sulla difesa dell'ambiente, come per i sostenitori della decrescita felice, l'impatto globale del fenomeno è senz'altro positivo.
A mio parere, sarebbe possibile, e forse anche auspicabile, un intervento che miri a trasformare l'intera catena, creando un legame diretto tra le organizzazioni di raccolta e i venditori a livello di mercato, in maniera simile a quanto realizzato ad esempio dall’organizzazione Humana-People to Humana-People. Questo avrebbe, è vero, ripercussioni negative in termini di posti di lavoro, poiché comporterebbe una parziale riduzione del numero di intermediari. Tuttavia, avrebbe un duplice impatto positivo: da un lato permetterebbe un maggior controllo delle condizioni di lavoro da parte di un'organizzazione con una forte base etica, dall’altra beneficierebbe i consumatori nei paesi riceventi portando ad una riduzione dei prezzi.
Per quanto riguarda nello specifico il caso italiano, nello specifico, ritengo che sarebbero auspicabili alcuni cambiamenti: dal punto di vista puramente commerciali, le varie sedi Caritas potrebbero massimizzare il profitto attraverso una gestione diretta su scala nazionale o, in alternativa un’azione concertata a livello nazionale volta da un lato a dotarsi di un codice etico, dall’altro a negoziare un prezzo migliore grazie all’accresciuto valore contrattuale.