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Lombroso romanziere Scopo di questa ricerca è analizzare da una prospettiva inedita le indagini di Cesare Lombroso e della sua scuola intorno all’uomo di genio

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Introduzione

1. Lombroso romanziere

Scopo di questa ricerca è analizzare da una prospettiva inedita le indagini di Cesare Lombroso e della sua scuola intorno all’uomo di genio. L’attenzione sarà infatti incentrata sul contributo fornito da un genere, quello della patografia, che conobbe nel tardo ‘800 una notevole fioritura. Le patografie erano indagini biografiche volte a dimostrare il ruolo giocato da patologie di diverso tipo (molto spesso malattie mentali) nella vita e nell’opera dei grandi uomini del passato. La valenza dissacrante di un simile approccio è evidente. Il genere biografico aveva infatti all’epoca una natura prettamente agiografica, volta a fare dei personaggi descritti di volta in volta modelli edificanti per i lettori. Non stupisce quindi l’entusiasmo con cui questa nuova prospettiva venne fatta propria da Lombroso, sempre pronto (almeno in apparenza) a combattere i secolari pregiudizi del senso comune1. E’ legittimo però domandarsi cosa sucitò l’improvvisa esigenza di stimolare il diffondersi di simili studi in seno alla propria scuola. A monte di tale fenomeno stavano le critiche mosse da più parti all’alienista veronese. Lo si accusava infatti di limitarsi nelle sue opere intorno al genio ad accumulare gli aneddoti più disparati, assemblati senza un vero criterio, con la pretesa di dimostrare in tal modo la natura anomala degli intelletti superiori. Perché omettere il rimando ad alcuni casi emblematici, finalmente analizzati a fondo, e capaci di dimostrare una volta per tutte la validità delle tesi lombrosiane? Ecco allora il capomastro della scuola antropologica commissionare nell’ultimo decennio del XIX secolo ai propri allievi indagini di tal sorta, i cui esiti confluiranno poi nei nuovi saggi sul genio da lui pubblicati. Presenterò in questo studio solo i più significativi dei casi analizzati dalla scuola lombrosiana: Alfieri, Tasso, Leopardi, Zola e Manzoni sono nomi intorno ai quali si scatenarono all’epoca dibattiti molto accesi. Il fenomeno conobbe però un’estensione molto più ampia, come testimoniano lo spazio sempre concesso a tali ricerche sulle pagine dell’<<Archivio di psichiatria>> (la rivista fondata e diretta da Lombroso) e il fatto che l’editore Bocca finì per dedicare loro un’apposita collana. Quella delle patografie divenne insomma una vera e propria moda, un fenomeno di costume in cui si rifletteva la curiosità della borghesia ottocentesca per i dettagli inediti relativi alla quotidianità dei grandi uomini.

La rilevanza storica del genere patografico non si limita però al semplice fenomeno di costume. Ritengo infatti che siano riconducibili a tale filone due ulteriori motivi di interesse. In primo luogo le patografie rendono possibile

1 L’interesse lombrosiano per questo tipo di approccio al tema del genio è del resto ben testimoniato da uno dei suoi primi scritti, dedicato non a caso alla figura di Gerolamo Cardano, figura emblematica del rapporto tra superiorità intellettuale e disturbi della mente (cfr. C.

Lombroso, Sulla pazzia di Gerolamo Cardano, in <<Gazzetta medica italiana – Lombardia>>, VI (1855), pp. 341-345.

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cogliere la tarda (e definitiva) elaborazione lombrosiana del tema del genio nel suo farsi. Come già riscontrato da diversi critici in merito alle sue teorie intorno all’uomo delinquente, le tesi lombrosiane si sviluppavano attraverso un costante confronto dialettico con le idee proposte dai suoi allievi, che finivano spesso per essere inglobate nel sempre più articolato edificio teorico proposto dal maestro2. Nel caso delle indagini intorno all’uomo di genio, ciò è reso ancor più evidente dal ruolo di regista giocato da Lombroso nell’assegnare ai propri allievi le indagini patografiche, i cui esiti poi si schierava spesso a difendere in prima persona. Tale processo finiva per conferire un aspetto peculiare al panorama teorico che veniva a delinearsi. La follia dell’uomo di genio non assumerà mai infatti una fisionomia univoca, essendo le diagnosi che emergevano dall’esame dei diversi personaggi storici spesso divergenti tra loro. A mutare non era solo la natura della patologia chiamata in causa di volta in volta, ma anche la relazione causale che intercorreva tra tale disturbo e le doti intellettuali del personaggio preso in esame. Lombroso, per nulla turbato da tali discordanze, si limitava a far propri gli esiti cui i suoi allievi erano pervenuti. L’alienista veronese, come giustamente sottolineato da Renzo Villa, si limitava ad accumulare di volta in volta nuovi dati, senza che vi fosse logica alcuna a sottendere tale processo3. Tutto ciò non può non risultare paradossale, se si pensa a come la scuola positiva si proponesse, tanto in ambito giuridico quanto in quello estetico, di porre l’individuo, colto nella sua materiale concretezza, al centro delle proprie indagini. E invece quella che andava persa, in questo processo di mera accumulazione, era proprio la specificità individuale dei casi di volta in volta presi in esame4. Questo colpisce soprattutto nel caso dell’uomo di genio, nel caso cioè di un individuo le cui doti superiori erano il frutto di un processo unico e irripetibile, che chiamava in causa

2 Per la comprensione di questa ed altre dinamiche proprie del modo di fare scienza lombrosiano, rimane un punto di riferimento imprescindibile L. Bulferetti, Cesare Lombroso, Torino, UTET, 1971.

3 Cfr. R. Villa, Il deviante e i suoi segni, Angeli, Milano, 1985, in part. pp. 87-131. Stando invece a Daniele Velo Dalbrenta, a caratterizzare l’indagine lombrosiana è lo iato tra la pretesa natura definitiva delle sue teorie e la loro costante tensione verso la “parzialità” del reale. Nell’alienista veronese non venne mai meno l’interesse per i nuovi casi che l’esperienza gli sottoponeva, e <<fu la pertinacia “metafisica” di Lombroso, nel non volersi far sfuggire nulla del reale (per quel che egli aveva potuto attingervi), che gli fece conglobare, per strati, i diversi momenti del farsi della sua dottrina, confidando nel loro “magico” riordinarsi>> (cfr. D. Velo Dalbrenta, La scienza inquieta. Saggio sull’antropologia criminale di Cesare Lombroso, Padova, Cedam, 2004, p. 260).

4 Interessante la riflessione sull’argomento operata da Mariacarla Gadebusch Bondio, che sottolinea come “autonomia” e “diritti del singolo individuo” fossero concetti estranei all’antropologia criminale e alla psichiatria dell’800. Entrambe le discipline ritenevano infatti prioritaria la nozione di “difesa sociale”. Non stupisce quindi che anche in Lombroso lo spazio effettivamente concesso alla dimensione individuale risulti alquanto marginale. Con questo atteggiamento di fondo convive però, nello psichiatra veronese, un gusto per l’aneddoto, per le storie individuali, di cui sono piene le sue opere. I suoi lavori ci tramandano così le tracce personali di individui altrimenti destinati a scomparire nell’anonimato delle tipologie (cfr. Il caso Lombroso. Tavola rotonda con Neil Davie, Mariacarla, Gadaebusch Bondio, Patrizia Guarnieri, Daniel Pick, Daniele Velo Dalbrenta, in S. Montaldo (a cura di), Lombroso e la degenerazione, in S.

Montaldo (a cura di), Cesare Lombroso: gli scienziati e la nuova Italia, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 235-282.

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sia fattori di natura biologica sia le vicende esistenziali dell’individuo. Con Lombroso, la vita di ognuno di questi individui finiva per diventare un nuovo paragrafo nell’immane casistica prodotta dallo psichiatra a supporto delle proprie tesi.

In seconda istanza le patografie contribuiscono a definire in maniera più netta il rapporto di Lombroso e della sua scuola con la cultura letteraria dell’epoca. Ci si accorge in tal modo che il divario tra scienza e letteratura non era poi così ampio come certe schematizzazioni storiche indurrebbero a pensare. Non solo è infatti evidente il modo in cui gli ideali romantici contribuirono a plasmare le idee lombrosiane intorno alla genialità, ma nello psichiatra veronese si ha anche modo di constatare il frequente ricorso a tecniche espositive di natura più letteraria che rigorosamente scientifica. Come giustamente sottolineato da Delia Frigessi, con Lombroso la scienza si avvale dell’arte del romanzo per superare i suoi limiti tecnici e deporre un linguaggio troppo specialistico. Una scienza dunque fatta più per persuadere che per convincere, per essere oggetto più di una conversazione salottiera che di una discussione accademica5.

Sarebbe facile a questo punto liquidare le tesi intorno all’uomo di genio come la controparte “positiva” di quelle emesse intorno all’uomo delinquente, accomunate da un’identica avversione di matrice borghese nei confronti di tutto ciò che esula dalla media. E’ questa ad esempio l’ipotesi sostenuta da Ferruccio Giacanelli, secondo cui il genio era per Lombroso l’eredità di un passato intriso di spiritualismo e metafisica, del tutto inconciliabile con la razionalità moderna.

Ecco dunque che dissacrando l’uomo di genio si finiva per dimostrarne la superfluità6. Non è mia intenzione negare che questo sia uno degli esiti cui le indagini lombrosiane finiscono per pervenire. Ritengo però che non sia possibile ricondurre l’indagine lombrosiana intorno al genio entro un’univoca cornice esplicativa. Come suggerito da Villa, con Lombroso si finisce ogni volta per avere l’impressione di trovarsi dinanzi a tanti romanzi appena abbozzati, ancora da scrivere7. Un’opera narrativa, prima ancora che scientifica, che come sempre accade si presta a molteplici interpretazioni. Mio intento è quello di estrapolare alcuni di questi romanzi, elaborando per loro tramite un percorso che racconti nella maniera più fedele possibile la complessità e l’intima contraddittorietà della teoria lombrosiana intorno all’uomo di genio.

5 Cfr. D. Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, pp. 327-352.

6 Cfr. F. Giacanelli, Introduzione, in G. Colombo, La scienza infelice. Il museo di antropologia criminale di Cesare Lombroso, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 7-32.

7 Cfr. R. Villa, Il <<metodo sperimentale clinico>>: Cesare Lombroso scienziato e romanziere, in S.

Montaldo, P. Tappero (a cura di), Cesare Lombroso cento anni dopo, Torino, UTET, 2009, pp. 127- 139.

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2. Un itinerario tortuoso

I casi che analizzerò di capitolo in capitolo non seguono un ordine cronologico.

L’ordine in cui li ho disposti non si basa quindi né sulla data di pubblicazione della patografia concernente l’autore trattato, né sull’epoca in cui visse. Ho tentato piuttosto di elaborare un percorso tematico, tale da fornire una visione sufficientemente articolata dell’argomento.

Il punto di partenza non poteva che essere rappresentato dalle Confessioni di Rousseau. E’ questo il testo con cui, infatti, prende avvio sul finire del ‘700 la grande moda delle moderne indagini biografiche, che avrà un enorme successo editoriale nel secolo successivo. L’uomo di genio si mette per la prima volta letteralmente a nudo, consentendo al lettore di sbirciare negli angoli più reconditi della sua esistenza, nell’intimo segreto di ricordi lontani. Nel caso di Rousseau si aveva a che fare per di più con un individuo afflitto da evidenti problemi di salute mentale. L’indole paranoica dei suoi disturbi aveva condotto il filosofo ginevrino a cadere vittima di un vero e proprio delirio di persecuzione, che spingerà molti medici a interrogarsi sul legame tra la sua opera e le condizioni della sua psiche. L’imporsi della vita del genio come oggetto di curiosità e di indagine coincide dunque col riproporsi di un antico topos, quello relativo al legame tra la genialità e la follia. Il sodalizio tra questi due ambiti di indagine conoscerà anche nel nostro paese una notevole fortuna. Difficile a tal proposito non ricordare come proprio da un’autobiografia prenderà spunto anche una delle più celebri indagini condotte dalla scuola lombrosiana sul finire del XIX secolo. Mi riferisco alla Vita di Vittorio Alfieri, che si ispirava in maniera evidente all’opera dell’autore della Nouvelle Héloïse. La patografia dedicata all’astigiano, cui lavorarono Giuseppe Antonini e Luigi Cognetti De Martiis, rappresenta una perfetta introduzione al ruolo che svolsero questo tipo di indagini nella produzione lombrosiana8. Nell’opera, fortemente voluta e personalmente coordinata in fase di stesura dall’alienista veronese, si ritrovano infatti presenti tutte le grandi aporie che accompagneranno sempre le sue indagini intorno all’uomo di genio. Già il fatto che si facesse rientrare Alfieri nella categoria suscitava non poche perplessità, inducendo molti a domandarsi quali fossero i criteri che orientavano le scelte di Lombroso. La presunta natura epilettoide del suo estro creativo era poi desunta per mezzo di procedimenti di natura analogica, che a ben veder di scientifico avevano davvero poco. Non si riusciva infine a evincere in maniera chiara dal testo quale fosse la relazione tra genio e follia di cui la scuola lombrosiana intendeva farsi portavoce. Insomma, pur non trattandosi certo della più eccelsa delle indagini patografiche edite in quegli anni, basta da sola a delineare un primo quadro d’insieme piuttosto efficace.

8 Cfr. G. Antonini, L. Cognetti De Martiis, Vittorio Alfieri. Studi psicopatologici, Torino, Bocca, 1898.

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Il secondo capitolo è incentrato invece su Torquato Tasso, da sempre una figura emblematica per quel che concerne il rapporto tra genio e follia. A risultare controversa in questo frangente è l’identità stessa del soggetto in esame. La vicenda tassiana è divenuta infatti nel corso dei secoli oggetto delle fantasie, delle leggende e delle supposizioni più disparate, al punto che i critici si trovano ancora oggi in imbarazzo quando si tratta di stabilire quale fosse il vero volto del celebre poeta. L’Ottocento non mancò di dare il proprio contributo alla vicenda, facendo emergere un’immagine del Tasso intrisa di istanze romantiche. Ecco allora l’autore della Gerusalemme Liberata diventare l’icona del poeta martire di un amore impossibile e delle angherie dei potenti, l’anima fragile condotta alla follia dagli inganni di un mondo incapace di comprenderlo. Nemmeno la psichiatria si astenne dal dare un proprio contributo, come dimostrano gli studi di Stefano Giacomazzi9 e di Andrea Verga10. L’immagine malinconica del Tasso che veniva a delinearsi in queste ricerche, pur con i dovuti distinguo, sembrava non distaccarsi poi molto da quella imposta dalla cultura letteraria dell’epoca, e si riallacciava al contempo a un altro topos, quello relativo alla natura atrabiliare della genialità, che non aveva mancato di conoscere nella psichiatria ottocentesca interessanti sviluppi. Sarà proprio l’evolversi delle conoscenze psichiatriche a rendere obsolete determinate definizioni, aprendo le porte a un nuovo modo di concepire i disturbi della mente e la loro relazione con la creatività artistica. Diedero una prima testimonianza di questi cambiamenti gli studi dedicati da Alfonso Corradi11 alla vicenda tassiana, esempio poco noto e mai celebrato a dovere di adesione agli studi d’Oltralpe sul tema della pazzia circolare. Ne darà un’ulteriore testimonianza Luigi Roncoroni12, studioso lombrosiano che nella sua patografia definirà il Tasso un paranoico. Ricollegare la genialità a una forma costituzionale di follia significava farne un difetto congenito di chiara origine degenerativa. Se negli studi citati in precedenza la grande poesia tassiana non mancava di essere celebrata, qui finiva per ridursi al parto bizzarro di una mente malata, a un vaneggiamento privo di autentica originalità e valore.

Lombroso non prenderà mai le distanze da simili giudizi, che sembrano avallare le idee di chi vede nelle sue ricerche intorno al genio l’ennesimo espediente per patologizzare tutto ciò che devia dalla norma e rischia di minare l’ordine esistente. Oltre a farci conoscere uno degli esiti più significativi cui la scuola lombrosiana pervenne, il “caso” Torquato Tasso consente di contestualizzare

9 Cfr. S. Giacomazzi - Dialoghi sopra gli amori, la prigionia, le malattie ed il genio di Torquato Tasso, Brescia, Cavalieri, 1827.

10 Cfr. A. Verga, Sulla lipemania del Tasso. Frammento di un lavoro sulle allucinazioni, in Studi anatomici sul cranio e sull’encefalo, psicologici e freniatrici. Volume terzo – Parte psicologica e frenopatologica, Milano, Manini – Wiget, 1896, pp. 188-197.

11 Cfr. A. Corradi, Le infermità di Torquato Tasso, in <<Memorie del Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere. Classe di scienze matematiche e naturali>>, XIV (1881), pp. 301-373.

12 Cfr. L. Roncoroni, Genio e pazzia in Torquato Tasso, Torino, Bocca, 1896.

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meglio le patografie redatte dagli allievi dell’alienista veronese, mettendole in relazione con quelle scritte da altri nomi eccellenti della medicina dell’epoca.

Le categorie nosografiche chiamate in causa nel corso di questo capitolo diventano inoltre lo spunto per scoprire come la psichiatria finì per rendere possibile un modo nuovo di guardare alla storia. Dietro le gesta di coloro che in passato hanno deciso le sorti di intere nazioni, si finì per svelare sempre più spesso l’influsso di una psiche anomala, sino ad allora celata col ricorso a spiegazioni mistiche o ultraterrene. Fornisce una prima testimonianza di ciò la diagnosi di lipemania elaborata da Esquirol per Théroigne de Méricourt, celebre protagonista di vicende legate alla Rivoluzione Francese13. Alla diagnosi di paranoia saranno invece ricondotte in Italia, da Giuseppe Portigliotti14 ed Enrico Rivari15, le gesta di Savonarola e Lutero, menti inquiete rese inclini al delirio mistico da una psiche tarata. Esiti che ricordavano quelli cui Roncoroni era pervenuto sul piano letterario. Di certo a studi come questi pensava Delia Frigessi, quando asseriva che in Lombroso e nelle sua scuola si assiste a un onnipresente patologizzazione della storia, volta a celebrare come “sana” solo la mesta e rassegnata accettazione dei rapporti di potere vigenti16.

Il terzo capitolo ha lo scopo di dimostrare perché, come ho già avuto modo di affermare, ritengo simili spiegazioni non del tutto adeguate. Paradossalmente, fornisce lo spunto una nozione, quella di “degenerazione”, che sembrerebbe dover rendere ancor più cupo lo scenario venutosi a delineare. Al tema del moderno declino della specie umana si richiamò infatti Max Nordau, per stigmatizzare la società parigina dell’epoca e gli artisti cui gli abitanti della capitale francese e non solo tributavano un’adorazione assoluta17. Ecco allora il critico ungherese ridurre al rango di “arte degenerata” tutto ciò che a suo avviso altro non era che il parto di menti malate: dal simbolismo, alla musica wagneriana, fino al naturalismo, non si salvava nessuna delle mode culturali del momento. Il saggio di Nordau suscitò feroci discussioni e polemiche, e finì a sorpresa per essere ripudiato proprio da quel Lombroso cui era dedicato. Dal confronto tra l’alienista veronese e l’autore di Entartung si evince come la natura degenerata non rendesse per il primo l’opera dell’uomo di genio meno degna di ammirazione, anzi. Era questo uno dei temi su cui Lombroso e i suoi allievi ritornavano con maggiore frequenza. Certo, non si perdeva occasione per ribadire con orgoglio come la scienza positiva avesse aperto le porte a una reale comprensione dell’uomo di genio, sin lì oggetto di interpretazioni

13 Cfr. J.-E. D. Esquirol - Des maladies mentales considérées sous les rapports médical, hygiénique et médico-légal, Paris, Baillière, 1838.

14 Cfr. G. Portigliotti, Un grande monomane: Fra Girolamo Savonarola, Torino, Bocca, 1902.

15 Cfr. E. Rivari, La mente e il carattere di Lutero, Bologna, Beltrami, 1914.

16 Cfr. D. Frigessi, La scienza della devianza, in C. Lombroso, Delitto, genio, follia. Scritti scelti, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 333- 373.

17 Cfr. M. Nordau, Dégénérescence, Paris, Alcan, 1896.

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metafisicheggianti e di indagini meramente agiografiche. La grandezza del suo operato, però, per quanto resa spesso possibile da disturbi di natura fisica e mentale, non veniva affatto sminuita. Anzi, le sofferenze cui questi individui si erano trovati a dover far fronte dovevano commuovere il lettore, e ispirare in lui un senso di gratitudine18.

Nessuno meglio di Giacomo Leopardi avrebbe potuto esemplificare questo aspetto della concezione lombrosiana del genio. E non è un caso che a lui sia dedicata quella che è senza dubbio la migliore delle patografie uscite in quegli anni in Italia, di cui fu autore Mariano Luigi Patrizi19. Più ancora dei dibattiti che sorsero intorno a tale pubblicazione (non certo privi di interesse), colpisce riscontrare come vi si trovino delineati spunti di ricerca destinati a non ricevere mai nel nostro paese la dovuta attenzione. Studiare l’uomo, preso nel suo complesso, poteva secondo il fisiologo lombrosiano aprire la porta a un’inedita e più profonda comprensione dell’autore. Perché ad esempio non ipotizzare che dietro la predilezione leopardiana per i paesaggi notturni vi fosse la sua eccessiva fotosensibilità? Il primo a ignorare questi possibili sviluppi fu proprio Lombroso, che si limitò a vedere nel saggio di Patrizi (pur lodato a più riprese) una semplice prova a supporto della sua tesi intorno alla natura degenerativa del genio. E col tramonto della stagione lombrosiana, nessuno avrebbe tentato di dar credito alle ipotesi formulate nella patografia dedicata a Leopardi e alla sua famiglia. Fu dunque proprio lo psichiatra veronese, coi propri eccessi, a condannare all’oblio anche quanto di buono era pur possibile rinvenire nelle indagini da lui commissionate ai propri allievi.

Resta comunque vero che attraverso Leopardi si perveniva a una concezione della genialità tutt’altro che negativa. Anche sul piano storico, l’uomo di genio diveniva colui che, proprio in virtù della sua natura degenerata e della conseguente inadeguatezza all’ambiente sociale in cui viveva, era capace di ribellarsi ai costumi vigenti, rendendo possibile il progresso dell’umanità. Un quadro che stride con quello delineato nel capitolo precedente, e che dimostra una volta di più l’intima discordanza della teoria lombrosiana.

Ben diversa da quella descritta per il nostro paese era invece la situazione della Francia. Qui infatti, grazie all’impulso dato dalla moderna psichiatria, una nuova stagione era iniziata, tanto per la storia quanto per la critica letteraria. Ne danno

18 Come sottolineato da Antonello La Vergata, si può ben affermare, più in generale, che Lombroso (il quale mai giunse a distinguere in maniera chiara il concetto di “degenerazione” da quello di “atavismo”) non condivise affatto il pessimismo proprio di molti esponenti della corrente degenerazionista dell’epoca (cfr. A. La Vergata, Lombroso e la degenerazione, in S.

Montaldo (a cura di), Cesare Lombroso: gli scienziati e la nuova Italia, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 55-93).

19 Cfr. M. L. Patrizi, Saggio psico antropologico su Giacomo Leopardi e la sua famiglia (con documenti inediti), Torino, Bocca, 1896.

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un esempio studiosi come Paul Jacoby20, Auguste Brachet21 e Victor Galippe22, che riallacciandosi agli studi medici del tempo indagarono il darsi di fenomeni di natura degenerativa in seno alle grandi casate regnanti della storia. A tali ricerche dedicherò parte del terzo capitolo, mentre è nel quarto che avrò modo di soffermarmi sulla critica letteraria d’Oltralpe. Da Taine e Sainte-Beuve fino a Hennequin, è lunga la lista di coloro che testimoniano quanto il tema della critica scientifica fosse sentito in Francia. Proust e Sartre sono poi l’esempio di come l’argomento avrebbe seguitato a suscitare accese discussioni anche dopo che la stagione positivista si era consumata. Un ambiente culturale ben diverso dunque da quello nostrano, ma che esercitò su Lombroso e sulla sua scuola una notevole influenza.

Le indagini lombrosiane sul genio devono infatti molto alle ricerche condotte sul tema da Franҫois Lelut23 e da Jacques-Joseph Moreau de Tours24, a cui sempre lo scienziato italiano si richiamerà nei propri saggi. In Francia però Lombroso avrà modo di trovare anche i suoi più fieri oppositori. Tra costoro spicca senz’altro Edouard Toulouse, autore di una celebre indagine volta a smentire la tesi concernente la natura degenerativa della genialità25. L’inchiesta del medico francese, condotta su Emile Zola, fu la prima patografia redatta su un autore vivente. Si trattò di un grande lavoro d’equipe, che coinvolse molti dei più illustri uomini di scienza dell’epoca. A tal proposito, colpisce trovare nello stesso saggio il contributo di Alphonse Bertillon (che stilò in prima persona la “fiche signalétique” del celebre romanziere) e il rimando alla recente scoperta di Francis Galton relativa alle impronte digitali. Si trattava di un parametro antropologico il cui significato era ancora tutto da interpretare, ma che era destinato a rivoluzionare il processo di identificazione dei criminali, portando al tramonto della procedura messa a punto dal criminologo francese. La metodologia adottata nell’inchiesta di Toulouse fece risaltare in maniera quasi imbarazzante le lacune insite nell’approccio lombrosiano, che finiva per essere destituito di ogni plausibilità scientifica. Se nel contesto transalpino è stato dunque possibile rinvenire molti elementi che giocarono un ruolo decisivo nella genesi delle tesi lombrosiane, è sempre in Francia che le sue idee hanno conosciuto la più netta smentita.

20 Cfr. P. Jacoby, Études sur la selection chez l’homme, Paris, Alcan, 1881.

21 Cfr. A. Brachet, Pathologie mentale des rois de France. Louis XI et ses ascendants. Une vie humaine étudiée a travers six siècles d’hérédité, Paris, Hachette, 1896.

22 Cfr. V. Galippe, L’hérédité des stigmates de dégénérescence et les familles souveraines, Paris, Masson, 1905.

23 Cfr. F. Lelut, L’amulette de Pascal: pour servir à l’histoire des hallucinations, Paris, Baillière, 1846.

24 Cfr. J.-J. Moreau de Tours, La psychologie morbide dans ses rapports avec la philosophie de l’histoire, ou De l’influence des névropathies sur le dynamisme intellectuel, Paris, Masson, 1859.

25 Cfr. E. Toulouse, nquête médico-psychologique sur les rapports de la supériorité intellectuelle avec le névropathie, Paris, Société d’éditions scientifiques, 1896.

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A sancire però il definitivo crepuscolo delle tesi dell’alienista veronese sarà la diatriba col critico letterario Paolo Bellezza, autore di una celebre parodia incentrata sulla figura di Alessandro Manzoni26, a cui dedicherò il quinto ed ultimo capitolo della mia indagine. Il fatto che Lombroso scambiasse una burla per un’opera scientifica degna di lode la dice lunga sui criteri con cui lo psichiatra era solito condurre le proprie indagini. Lombroso ammalia, persuade, affascina, ma non convince mai fino in fondo il lettore. La sua è l’opera scientifica di un uomo che sognava di diventare poeta, e che al proprio sogno decise di non rinunciare mai del tutto. Le sue ricerche raccontano del tentativo da parte della scienza dell’epoca di quantificare tutto, di ricondurre ogni aspetto del mondo alle rigide leggi della scienza. Ciò cui si finisce per assistere è però il procedimento inverso, con l’espediente letterario che prende il posto del rigido protocollo scientifico. Gli studi di Lombroso e della sua scuola intorno al genio artistico come anticipatore delle future scoperte scientifiche (cui dedicherò la prima parte del quinto capitolo) avevano del resto già dimostrato l’evidente matrice romanzesca di molte delle intuizioni fondamentali dello psichiatra veronese. Si delinea così uno scenario nel quale la scienza sembra essersi ridotta alla parodia di sé stessa, rendendo labili confini ritenuti invalicabili. Un finale dal sapore decadente, che sarebbe forse piaciuto ai poeti tanto stigmatizzati dagli psichiatri dell’epoca.

Ciò che resta, in conclusione, è una matassa impossibile da sbrogliare, un groviglio caotico di intuizioni da cui si può desumere tutto e il contrario di tutto.

Nel raccontare ciò, mia intenzione non è mai stata quella di portare ordine laddove non ve ne è mai stato. Piuttosto, ho cercato di rendere comprensibili gli aspetti essenziali di tale disordine, in uno sguardo d’insieme che ne restituisse la complessità nella maniera più fedele possibile. Spero che questo possa contribuire a un modo nuovo di guardare all’opera di Lombroso, nonché al modo di fare scienza suo e della sua epoca.

3. Allargando l’orizzonte

Prima di chiudere questa introduzione, è mia intenzione fare cenno a possibili spunti di ulteriore approfondimento, che potrebbero condurre a un quadro d’insieme ancor più articolato. Si tratta di linee di ricerca che ho escluso dalla mia indagine per motivi di tempo e per non alterare la coesione del percorso da me descritto.

In Germania il tema del rapporto tra genio e follia non mancò di stimolare numerose indagini27. Si tratta però di ricerche alle quali sono già stati dedicati

26 Cfr. P. Bellezza, Genio e follia di Alessandro Manzoni, Milano, Cogliati, 1898.

27 Si vedano ad esempio le indagini patografiche di Paul Julius Möbius, le cui diagnosi finivano talora per collimare con quelle descritte da Lombroso nei suoi studi (cfr. ad esempio P. J. Möbius, Ueber das Pathologische bei Goethe, Leipzig, Barth, 1898.

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molti studi interessanti. E’ infatti naturale che si sia voluta rinvenire nelle indagini dell’epoca la radice di molte delle concezioni pseudo-scientifiche sviluppatesi poi in seno all’ideologia nazista28. Merita comunque di essere menzionato un autore, William Hirsch, le cui opinioni si distaccavano nettamente da quelle adottate da molti dei suoi colleghi29. A venire da lui confutata era anzitutto la natura peculiare del genio: i tratti caratteristici di quest’ultimo erano infatti gli stessi riscontrabili in qualunque individuo, sia pure in molti casi con differenze di grado.

Ciò che secondo il medico tedesco mancava nelle indagini di Lombroso era un’autentica descrizione della psicologia dell’individuo geniale. Le opere dello psichiatra italiano altro non erano a suo avviso che raccolte di aneddoti prive di rilevanza scientifica. Nordau era invece ritenuto più un umorista che un autentico uomo di scienza: non solo le sue diagnosi erano del tutto infondate, ma pretendevano di avere anche una rilevanza sul piano estetico.

Molto meno esplorato è invece il contesto inglese, dal cui studio si potrebbero ricavare a mio avviso spunti davvero interessanti. Se è vero infatti che le tesi elaborate sul continente da Moreau e da Lombroso vennero accolte spesso con un diffuso scetticismo, va sottolineato del pari come intorno al rapporto tra genio e follia si sviluppò in Inghilterra una tradizione alternativa davvero notevole30. Ciò è ben testimoniato dalle parole spese sull’argomento da Henry Maudsley31. Ad attirare l’attenzione dello psichiatra inglese era una particolare categoria di individui, quella dei cosiddetti “originali”, posti al confine tra ragione e follia. Era infatti sua opinione che la peculiare conformazione psichica di costoro li rendesse particolarmente idonei a svolgere il ruolo di innovatori all’interno della società:

An inherent disposition of nervous constitution , rendering a man dissatisfied with the existing state of things, and impelling him to novel strivings, is really an essential condition of originality:

to suffer greatly and to react with corresponding force, is a means of dragging the world at cost of individual comfort.32

Se è ben noto il modo in cui le opinioni del medico d’Oltremanica influenzarono e non poco lo sviluppo dell’antropologia criminale nel nostro Paese, colpisce riscontrare attraverso queste parole come si possa cogliere anche nelle sue ricerche intorno al genio intuizioni che saranno poi fatte proprie da Lombroso.

28 Si veda a tal proposito G. Pelloni, Tra razza, medicina ed estetica. Il concetto di degenerazione nella critica culturale della fin de siècle, Padova, Unipress, 2008.

29 Cfr. W. Hirsch, Genie und Entartung: Eine psychologische Studie, Berlin, Coblentz, 1894.

30 Che il tema della genialità esercitasse un certo fascino in terra britannica lo dimostravano del resto i celebri studi di Thomas Carlyle. Per quanto non sempre esplicitamente citate, infatti, le sue idee circa la storia universale concepita come storia di quanto compiuto nei secoli dai grandi uomini influenzarono non poco la cultura europea dell’epoca (Cfr. T. Carlyle, On Heroes, Hero- Worship and the Heroic in History, London, Fraser, 1841).

31 Cfr. H. Maudsley, The Physiology and Pathology of Mind, London, Macvmillan, 1868, in part.

Pp. 335-341.

32 Cfr. H. Maudsley, op. cit., p. 337.

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Credo che l’assonanza con quanto sostenuto dall’alienista veronese circa il ruolo del degenerato nella storia risulti infatti piuttosto evidente33. Occorre comunque precisare come tutto ciò non inducesse affatto Maudsley a ritenere la genialità una forma di follia. La frequente compresenza nel medesimo lignaggio ereditario del genio e dell’epilettico (noto cavallo di battaglia dei sostenitori della natura degenerativa della genialità) non provava a suo dire alcunché. Si trattava soltanto di individui in cui un’analoga sensibilità nervosa aveva finito per manifestarsi in maniera diversa, per fattori sia esterni che interni. Era poi secondo lo psichiatra inglese alquanto limitante voler far coincidere la superiorità intellettuale con questa estrema suscettibilità nervosa. Quest’ultima poteva certo condurre individui come Poe e De Quincey a cogliere aspetti inediti della realtà. Mancava però a costoro il completo sviluppo intellettuale che caratterizzava il genio autentico, nonché la calma necessaria per una completa rielaborazione delle loro intuizioni. Era la mancata comprensione di questa distinzione di fondo a stare alla base della tesi di Moreau sull’equivalenza tra genio e follia, definita da Maudsley <<the extravagant assertion of a French author>>34.

Alle tesi prodotte in Francia e nel resto d’Europa seguiterà a guardare con scarso entusiasmo anche John Ferguson Nisbet35. Tale dissenso si fondava non tanto sui contenuti delle indagini prese in esame, quanto sul metodo adottato. Era infatti opinione del medico inglese che genio e follia altro non fossero che anomalie nervose affini per natura ed origine. Per dimostrarlo, però, occorreva un approccio più analitico alla questione, che suddividesse gli uomini di genio in categorie e indagasse con ordine all’interno di ciascuna. Era questo a distinguere da Lombroso il collega d’Oltremanica, il cui modo di studiare l’uomo di genio ricordava molto quello dell’alienista veronese:

My method of inquiry is not unlike that of the family doctor who is called to examine a patient.

With the help of the biographer I ask the great man, figuratively speaking, to stand up; I look at his tongue, feel his pulse, and inquire into his family history. By this means a wholly different view of genius is obtained from that generally current.36

E non si discostava poi molto dagli esiti cui era pervenuto lo psichiatra italiano nemmeno la tesi di fondo sostenuta da Nisbet, secondo il quale a caratterizzare il genio era l’attività automatica delle cellule nervose, una condizione patologica analoga a quella riscontrabile in molte forme di alienazione mentale. Stando allo

33 Lo stesso si può dire per un’altra opinione espressa da Maudsley, in base alla quale avrebbe caratterizzato il vero genio il suo operare in funzione del progresso del consesso sociale in cui si trovava inserito. Nel caso dei semplici eccentrici, invece, si assisteva a effimeri gesti di ribellione fini a sé stessi.

34 Cfr. H. Maudsley, op. cit., p. 338.

35 Cfr. J. F. Nisbet, The Insanity of Genius and the General Inequality of Human Faculty, Physiologically Considered, London, Ward e Downey, 1891.

36 Cfr. J. F. Nisbet, op. cit., p. 16.

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psichiatra inglese, le fibre del cervello dell’uomo di genio avrebbero prodotto un flusso continuo di nuove associazioni sensoriali e mnemoniche, un ininterrotto processo creativo di cui l’artista stesso finiva per essere vittima, “condannato”

dalla propria mente inquieta ad abbandonarsi all’ispirazione.

A segnare una vera cesura, ed aprire le porte di una nuova era per le indagini patografiche, sarà ai primi del ‘900 Havelock Ellis37. Nel suo saggio viene infatti meno la pretesa di trarre conclusioni di natura generale intorno al genio.

Quest’ultimo è piuttosto indagato di volta in volta in relazione a diverse patologie specifiche. Una di queste era la tisi: richiamandosi alle ricerche condotte in Francia da Maurice Letulle, Ellis sottolineava come nel tisico fosse possibile riscontrare spesso una marcata esaltazione mentale, una forte iper- eccitabilità e la tendenza a elaborare vasti piani, alla cui realizzazione poi si dedicava in maniera febbrile. Simili caratteristiche potevano spiegare la genialità inquieta, quasi femminea, di molti tisici. Analoghe considerazioni potevano essere fatte poi per altri disturbi molto frequenti tra gli uomini di genio, come la gotta, l’asma o i reumatismi38. La malattia segna infatti in ogni caso un ridefinirsi del panorama esistenziale dell’individuo, che non di rado può condurre alla genesi di un punto di vista inedito e originale sul mondo. Come detto, a essere invece destituito di rilevanza era invece il legame tra genio e follia. Certo, l’incidenza statistica degli individui geniali affetti da un qualche disturbo mentale era tale da non poter essere trascurata. Nemmeno si voleva negare il fatto che l’instabilità nervosa giocasse spesso un ruolo decisivo nella genesi del genio. Non aveva però alcun fondamento la pretesa di voler assimilare tra loro genialità e malattia mentale39.

Si prefigura con Ellis una nuova stagione per le indagini patografiche, nella quale come detto la ricerca di una spiegazione generale lascia il posto a indagini più circoscritte, volte a indagare il rapporto tra la genialità e specifici disturbi di natura fisica e nervosa. Scenari che esulano da quello che è l’ambito storico di mia competenza, e che faranno capo a un modo completamente diverso di concepire il contributo della scienza. Si tratta però di scorci che, come quelli da

37 Cfr. H. Ellis, A Study of British Genius, London, Hurst and Blackett, 1904.

38 Merita di essere menzionata un’altra delle intuizioni di Ellis, che nel suo saggio fa notare come in molti casi gli individui di genio risultassero essere persone goffe, poco portate per l’attività manuale e fisica. A questa scarsa propensione verso la dimensione pratica dell’esistenza si accompagnavano poi spesso difetti della voce più o meno evidenti. Sembrava quasi che tale inibizione organica per le attività ordinarie finisse per favorire lo sviluppo delle abilità straordinarie presenti a livello latente.

39 Va sottolineato come Ellis non prendesse le distanze solo dall’ipotesi sostenuta da Moreau e Lombroso circa la natura patologica del genio. Il suo scetticismo si volgeva infatti in maniera analoga anche contro Galton, per il quale il genio rappresentava una normale variazione salutare della specie. Era questa un’ipotesi che il celebre scienziato inglese aveva sviluppato nella sua indagine intorno alla natura ereditaria della genialità, nella quale si dimostrava la frequenza con cui illustri esponenti delle più diverse professioni avevano parenti altrettanto eminenti (Cfr. F.

Galton, Hereditary Genius. An inquiry into its laws and consequences, London, Macmillan, 1869).

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me descritti nel resto di questo paragrafo, testimoniano della vitalità del genere patografico, che lungi dall’essere una moda effimera si rivela una presenza importante all’interno della nostra cultura.

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