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Pareri commissione consultiva CNF 2008 | Ordine degli Avvocati di Verona

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Parere 16 gennaio 2008, n. 1

Quesiti n. 45 del COA di Velletri e n. 59 del COA di Orvieto, rel. cons. Cardone

Il quesito del Consiglio di Velletri verte sull’ipotesi di un iscritto che intenda candidarsi alle elezioni forensi e che abbia svolto le funzioni di commissario d’esame, nell’ambito di un mandato che deve ancora terminare e con la prospettiva di termine dei lavori oltre la data delle elezioni.

Chiede il Consiglio di Orvieto:

- se possano candidarsi alle elezioni per il Consiglio dell’Ordine forense iscritti i quali siano stati nominati nella Commissione per gli esami di avvocato per la sessione in corso e che, quindi, non abbiano svolto l’intero mandato ma abbiano solo presieduto alle prove scritte;

- se possano candidarsi alle correnti elezioni coloro che abbiano svolto la funzione di commissario d’esame nell’anno della precedente tornata elettorale, terminando i lavori di commissione successivamente alle elezioni.

La Commissione delibera di trattare congiuntamente, a ragione della sostanziale contiguità delle questioni poste, i due quesiti pervenuti da diversi Ordini. Dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“L’art. 22, comma 6°, del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, come sostituito dall’art. 1 del D.L. 21 maggio 2003 n. 112, così come modificato dalla legge di conversione del 18 luglio 2003 n. 180, statuisce, tra l’altro, che gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni agli esami di avvocato non possono candidarsi ai rispettivi Consigli dell’ordine ed alla carica di rappresentante della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense alle elezioni immediatamente successive all’incarico ricoperto.

La riforma degli esami di abilitazione forense, infatti, aveva l’evidente intento di apportare una complessiva moralizzazione ed una maggior trasparenza nelle procedure di valutazione dei candidati all’abilitazione professionale.

A questo scopo sono rivolte tutte le disposizioni inserite nel provvedimento, dal nuovo sistema di correzione degli elaborati, alle limitazioni volte a contrastare il fittizio trasferimento del praticante volto a spostare la sede d’esame, fino – appunto – ad una più rigida disciplina delle incompatibilità per i membri delle Commissioni esaminatrici.

Proprio con riferimento a questo punto, si è introdotta una normativa volta a contrastare ogni possibilità, per i commissari d’esame, di tenere un contegno atto a raccogliere attorno alla propria persona un consenso diffuso, da utilizzare poi in sede di elezioni al Consiglio dell’Ordine ovvero alla Cassa nazionale di previdenza, e viceversa.

In considerazione della ratio legis e dell’espressione letterale, che riferisce all’intero incarico, non può che considerarsi tutto il periodo nel quale l’avvocato svolga la funzione di commissario d’esami per valutare la sua ineleggibilità a Consigliere dell’Ordine, rimanendo altrimenti la previsione priva di senso.

Quindi l’espressione «elezioni immediatamente successive all’incarico ricoperto» ricomprende tutte le tornate elettorali che si svolgano durante l’espletamento del mandato di commissario, con l’aggiunta delle votazioni immediatamente successive alla sua conclusione (sia essa per esaurimento dei lavori o per altra causa).

In relazione alle esposte considerazioni si deve ritenere che le delineate incompatibilità con la candidatura sussistano.”

Parere 16 gennaio 2008, n. 2

Quesito del COA di Ancona, rel. cons. Allorio

Il quesito riguarda la possibilità di ammettere al patrocinio un praticante che, ad un anno dall’iscrizione nel registro, abbia conseguito il diploma di una scuola di specializzazione per le

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professioni legali ma non avendo mai frequentato uno studio legale, né avendo presenziato ad udienze.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La soluzione della questione posta non può che darsi con riferimento a quanto precisato, a più riprese, da questa Commissione e dal Consiglio nazionale in genere (cfr. circolare C.N.F. n. 30- B/2003 e i pareri 27 aprile 2005, n. 27; 6 ottobre 2005, n. 72; 14 dicembre 2005, n. 96). In particolare si è evidenziato che il beneficio della sostituzione di un anno di pratica attraverso il conseguimento del diploma di una scuola di specializzazione per le professioni legali non esenta affatto il praticante dall’obbligo di svolgere il tirocinio forense che rappresenta ancora, all’evidenza, il nucleo fondamentale dell’attività formativa.

Perciò il legislatore, opportunamente, non ha sottratto coloro che intendono frequentare una delle scuole universitarie agli obblighi formativi comunque incombenti sul praticante. Il D.M. 11 dicembre 2001, n. 475, nel disporre, all’art. 1, che “Il diploma di specializzazione (…) è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l'accesso alle professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno” , precisa dunque inequivocabilmente la valenza del titolo, limitandola alla finalità dell’integrazione del compimento del periodo di pratica, con esclusione, dunque, di altre finalità astrattamente possibili, quali ad esempio quella di costituire elemento utile ai fini della concessione dell’abilitazione provvisoria al patrocinio.

Per altro si osserva che le norme relative alla concessione dell’abilitazione provvisoria al praticante, costituendo deroga al principio costituzionale dell’accesso alla professione mediante il superamento dell’esame di Stato, debbono necessariamente essere interpretate in senso tassativo, il che esclude che l’anno di tirocinio pratico necessario ai fini della concessione del beneficio possa essere integrato con modalità alternative a quelle previste dalla legge.

Il praticante, quindi, potrà chiedere l’abilitazione al patrocinio provvisorio solo avendo proficuamente concluso i precedenti due semestri di pratica, frequentando lo studio professionale e le aule di giustizia secondo la disciplina di legge e le modalità prescritte nell’ambito dei regolamenti degli ordini circondariali. Se così non è, ossia se l’Ordine di appartenenza non ha convalidato i precedenti semestri di pratica, la richiesta di abilitazione andrà senz’altro respinta; a nulla rilevando, al proposito, l’eventuale possesso di un diploma di specializzazione rilasciato da una scuola universitaria.”

Parere 16 gennaio 2008, n. 3

Quesito del COA di Ferrara, rel. cons. Florio

Si chiede parere circa la sussistenza di una situazione di incompatibilità con l’esercizio professionale in capo ad un iscritto che sia altresì socio accomandatario di una s.a.s. la quale, però, risulti “inattiva” all’esito della visura presso la Camera di commercio.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“Nella società in accomandita semplice il socio accomandatario risponde illimitatamente per le obbligazioni sociali (art. 2313 c.c.) e la società ha obbligo di iscrizione nel registro delle imprese.

L’attività commerciale è sempre consentita, sì come la permanenza nel predetto registro, fino al momento nel quale si conclude la fase liquidatoria della società stessa (art. 2312 in relazione all’art.

2315 c.c.).

Pertanto la qualificazione “società inattiva” non rileva ai fini della connotazione di soggetto esercente il commercio, poiché la società può compiere atti di carattere commerciale in ogni momento e la responsabilità dei socî si estende a tutte le obbligazioni presenti e passate.

La conclusione è, necessariamente, che il socio accomandatario di s.a.s. non può svolgere la professione d’avvocato, rientrando nella previsione di cui all’art. 3 l.p.f.

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Va da ultimo ricordato che il Consiglio nazionale forense in sede giurisdizionale ha ritenuto che l’assunzione della qualità di socio accomandatario in società commerciale, a prescindere dall’effettivo esercizio del commercio, rappresenti un contegno deontologicamente rilevante (cfr.

C.N.F., sent. 16 maggio 2001, n. 85)”.

Parere 16 gennaio 2008, n. 4

Quesito della dott.ssa Marta Mattiuzzi, rel. cons. Cardone.

Il quesito lamenta la mancata risposta da parte di un ordine ad un quesito proposto dall’istante e vertente in materia di incompatibilità. La mancata risposta deriverebbe dalla qualità dell’interessata, non ancora iscritta nell’albo.

“Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, mentre il regolamento del Consiglio nazionale forense prevede che possano essere esaminate solo questioni veicolate attraverso gli ordini circondariali.

Si segnala peraltro che, nella specifica materia, il Consiglio dell’Ordine ha competenza propria e l’eventuale provvedimento di rigetto è impugnabile dinanzi al C.N.F. in sede giurisdizionale. La Commissione non può dunque interferire con l’esercizio di tale ultima funzione.

L’interessata potrà produrre domanda di iscrizione all’albo a norma di legge e, in caso di rifiuto, far valere le proprie ragioni con il procedimento di impugnazione cui si è fatto riferimento.

Nell’intento di fornire un’indicazione di utilità, si allega comunque all’interessata copia del parere di questa Commissione 9 maggio 2007, n. 27, che si occupa del problema sollevato con il quesito”.

Parere 16 gennaio 2008, n. 5

Quesito del COA di Tortona, rel. cons. Allorio

Il quesito prefigura l’ipotesi di uno studio legale che, all’interno della carta intestata, indichi insieme al nome dei professionisti associati, anche quello della segretaria, la quale è stata in passato iscritta nel registro dei praticanti ma non ha portato a compimento la pratica.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La Commissione ritiene che il contegno degli iscritti, così come rappresentato dal Consiglio richiedente, dia luogo ad un effetto decettivo nei confronti della clientela, in quanto ingenera l’aspettativa che lo studio annoveri un’ulteriore professionista, ancorché nella realtà si tratti di persona che svolge attività diversa da quella forense.

La pratica in oggetto confligge, inoltre, con il disposto dell’art. 1 della legge 23 novembre 1939, n.

1815 che impone agli studî associati per l’esercizio di professioni regolamentate di «usare, nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario”, seguito dal nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati».

In conclusione nulla vieta di dare un riconoscimento anche alla professionalità della segretaria, ovvero di indicarne a terzi le generalità, menzionandola in un documento ufficiale dello studio o nella sua carta intestata, purché si dia chiaramente atto della diversa qualità dell’impiegata rispetto ai professionisti associati nelle studio legale.

Parere 16 gennaio 2008, n. 6

Quesito del COA di Bassano del Grappa, rel. cons. Cardone

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L’Ordine di Bassano del Grappa pone il quesito sulla possibilità di rilasciare ad un proprio iscritto copia integrale di una decisione disciplinare (con sanzione non sospensiva, né interdittiva) emessa nei confronti di altro iscritto, per il solo fatto che l’istante ne faccia richiesta in quanto esponente.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“L’art. 51 del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 dispone che la decisione disciplinare è pubblicata mediante deposito dell’originale negli uffici di Segreteria.

Ne deriva che la norma consente la conoscenza pubblica del documento.

Tuttavia, in tema di accesso agli atti amministrativi, l’art. 22 della legge 7 agosto 1990, n. 241, come sostituito dall’art. 15 comma 1 della legge 11 febbraio 2005 n. 15, non consente una conoscenza illimitata della documentazione in possesso della P.A., ma solamente quella connessa al procedimento, e che incide su una posizione giuridica rilevante, e che legittima, quindi, l’accesso nei confronti degli atti del procedimento disciplinare che da quell’esposto ha tratto origine (v., tra le altre, Consiglio di Stato, dec. 29 ottobre 2001 n. 5636, 20 aprile 2006 n. 2755 e 15 dicembre 2006, n. 7111).

Come si è già illustrato nel diffuso parere 9 maggio 2007, n. 14, ciò che la giurisprudenza amministrativa e forense concordemente indicano quale discrimine fondamentale per una valutazione delle richieste di accesso agli atti del procedimento disciplinare è la presenza di un interesse attuale, concreto e differenziato alla conoscenza di detti atti, non essendo nemmeno la qualità di esponente in sé sufficiente a dar prova della sussistenza di queste circostanze (sul punto l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, sent. 20 aprile 2006, n. 7).

Pertanto la valutazione della richiesta non può prescindere dalla valutazione in concreto degli elementi che l’istante produce a sostegno della sua richiesta, dovendo il Consiglio valutare (e motivare) la presenza di un siffatto interesse.”

Parere 16 gennaio 2008, n. 7

Quesito del dott. Luigi D’Angelo, rel. cons. Cardone

Il quesito è proposto da un ufficiale di P.G. appartenente all’Arma dei Carabinieri che chiede chiarimenti circa la sua possibilità di svolgere la pratica legale.

“Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo, mentre il regolamento istitutivo della Commissione prevede che possano essere esaminate solo questioni veicolate attraverso gli ordini circondariali.

L’interessato dovrà quindi rivolgersi all’ordine territorialmente competente, cui spetta la funzione di gestione dell’albo e dei registri nonché la responsabilità delle iscrizioni.”

Parere 16 gennaio 2008, n. 8

Quesito dell’avv. Antonello Bagnato, rel. cons. Cardone

“Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo, mentre il regolamento del Consiglio nazionale forense prevede che possano essere esaminate solo questioni veicolate attraverso gli ordini circondariali.

L’interessato dovrà quindi rivolgersi all’ordine territorialmente competente, cui spetta la funzione disciplinare di primo grado.”

Parere 20 febbraio 2008, n. 9

Quesiti riuniti dei COA di Modena, Acqui Terme e Pordenone, rel. cons. Cardone

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Quesito del C.O.A. di Modena del 22 marzo 2007: si chiedono chiarimenti sull’espressione “in ogni momento nel corso del secondo anno di pratica” contenuta nella circolare 5-C/2007 e riferita al periodo nel quale il praticante può chiedere l’abilitazione al patrocinio.

Quesito del C.O.A. di Acqui Terme del 25 luglio 2007: ritiene illogica la limitazione, della facoltà di chiedere l’abilitazione al patrocinio entro il biennio di pratica, e chiede se dev’essere concessa l’abilitazione anche in seguito, pur con decorrenza dal primo giorno del secondo anno di pratica.

Quesito del C.O.A. di Pordenone del 20 aprile 2007, sollecitato con lettera 18 luglio 2007:

riferisce di casi nei quali il C.N.F. in sede giurisdizionale avrebbe accolto ricorsi di praticanti cancellati dal registro per decorso del sessennio di abilitazione, e chiede pertanto chiarimenti su quale sia il termine ultimo per la richiesta di abilitazione al patrocinio nonché sulla possibilità di procedere o meno alla cancellazione dal registro dei praticanti, a prescindere dall’abilitazione.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“1. Alcuni Consigli dell’ordine hanno sollevato taluni quesiti circa la portata delle norme in tema di abilitazione al patrocinio del praticante nonché rispetto all’interpretazione dei pareri e delle decisioni del Consiglio nazionale adottate in materia.

Si ricorda che il Consiglio nazionale ha ritenuto di fare il punto delle questioni relative al sessennio di abilitazione provvisoria concesso al praticante avvocato con la circolare n. 5-C/2007 del 22 gennaio 2007, le cui valutazione di carattere generale, soprattutto quanto alla lacunosità delle norme di legge ed alla necessità di un contegno che faccia salva la ratio delle medesime, vanno senz’altro ribadite. È peraltro apparso opportuno procedere ad una ricognizione dei principi in materia e necessario fornire alcuni chiarimenti rispetto ad alcuni profili della circolare da ultimo citata, anche alla luce dei quesiti proposti da taluni Consigli dell’ordine che hanno rilevato problemi applicativi e sollevato delicate questioni interpretative.

2. Il fine dell’abilitazione provvisoria al patrocinio non è quello di permettere al praticante l’esercizio della libera professione forense, ancorché entro limiti prefissati, in deroga al principio della necessità del superamento dell’esame di Stato, principio -come noto- dotato di sicuro fondamento costituzionale (art. 33 Cost.), ma quello di consentire a coloro che intendono intraprendere la professione forense il raggiungimento di una più adeguata ed approfondita preparazione, e ciò entro ben precisi limiti temporali, di valore e materia (cfr. sul punto, ex multis, le sentenze C.N.F. n. 28/1995, 153/1999 e 5/2007).

Questa considerazione va senz’altro ribadita, sì come le sue immediate conseguenze in termini di individuazione del periodo nel quale l’abilitazione può essere richiesta dal praticante.

3. In tale ottica va dunque letta anche la norma di cui all’art. 8, comma secondo, della legge professionale, nella parte in cui prevede che l’ammissione al patrocinio possa avvenire «dopo un anno dall’iscrizione nel registro» dei praticanti: la decorrenza dell’abilitazione al patrocinio non è rimessa all’arbitrio del richiedente, ma è fissata dalla legge al primo giorno del secondo anno di pratica forense, a prescindere dal momento nel quale l’interessato si attivi per chiederla effettivamente.

In altri termini la legge impone che la richiesta di ammissione all’abilitazione al patrocinio si configuri come facoltà del praticante (che può anche non chiederla), da godersi – ove accolta, in presenza dei requisiti prescritti - entro un periodo temporale definito, collegato funzionalmente all’inizio del periodo formativo, non prorogabile né suscettibile di sospensioni recuperabili. Tale periodo è previsto in sei anni decorrenti dal primo giorno del secondo anno di iscrizione nel registro dei praticanti (cfr. sul punto, ex multis, le sentenze C.N.F. n. 28/1995, 86/1995, 3/1997 e 106/1997).

La delibera d’ammissione al patrocinio ha portata costitutiva e segna la decorrenza concreta del periodo abilitativo; ad essa segue il giuramento, che è configurato come condizione per l’esercizio del patrocinio in concreto (cfr. parere 24 maggio 2006, n. 22).

4. È senz’altro opportuno chiarire, ad ulteriore specificazione di quanto illustrato nella circolare n.

5-C/2007, che nella normalità dei casi il praticante chiederà l’abilitazione nel corso del biennio

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prescritto per il conseguimento del certificato di compiuta pratica. In assenza, peraltro, di una norma che imponga la cancellazione dal registro dei praticanti al trascorrere dei predetti due anni ed al conseguimento del predetto certificato, l’esercizio della facoltà di legge consistente in tale richiesta potrà avvenire anche in seguito, in ogni momento del periodo nell’ambito del quale la legge consente l’accesso al patrocinio provvisorio, ossia durante il descritto sessennio, fermi restando i termini, iniziale e finale, che ne determinano la massima durata potenziale.

La richiesta ritardata rispetto al termine iniziale provocherà pertanto una riduzione del periodo concretamente disponibile, restando immutabile la scadenza, sempre computata in un sessennio a partire dal primo giorno del secondo anno di pratica forense.

5. Non vi è dubbio, poi, che il carattere rigorosamente delimitato ratione temporis che la legge conferisce al patrocinio provvisorio determina per l’Ordine competente il dovere di procedere con rigore alla cancellazione del praticante dall’elenco degli abilitati immediatamente dopo il decorso del sessennio, ovviamente ove la cancellazione non debba essere disposta prima, ad altro titolo (si pensi, ad esempio, al praticante abilitato che abbia superato l’esame di abilitazione; in termini anche copiosa giurisprudenza del Consiglio nazionale forense: cfr., da ultimo, le sentenze 54/2005, 2/2007, 7/2007).

6. Diversa, e da considerarsi separatamente, è la questione della permanenza dell’iscrizione nel registro dei praticanti in quanto tale, a prescindere dal possesso o meno dell’abilitazione al patrocinio, che peraltro si configura -come detto- quale modalità integrativa del tirocinio forense.

Nulla vieta di mantenere l’iscrizione in detto registro anche successivamente all’ottenimento del certificato conclusivo della pratica, ferma restando l’unicità del certificato di compiuta pratica e il radicamento territoriale che esso determina ai fini dell’esame (v., da ultimo, il parere della Commissione consultiva n. 82/2006, i precedenti nn. 86/2002 e 180/2003, nonché le sentenze C.N.F. nn. 61/2001 e 2/2007).

La possibilità di mantenere l’iscrizione non è impedita dalla legge ed è avallata da recente copiosa giurisprudenza (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 26 maggio 2006, n.12543; Consiglio di Stato, sentenze 6692/2005, 2331/2006 e 5512/2006).

Tuttavia deve anche considerarsi che, conformemente a quanto già osservato dalla Commissione consultiva del C.N.F. con i pareri nn. 70-71/2002 e 42/2005, non appaiono censurabili le iniziative degli Ordini forensi volte a verificare che gli iscritti nei proprî registri continuino effettivamente la pratica professionale. L’Ordine che provveda a verificare l’interesse del praticante già in possesso di certificato di compiuta pratica a rimanere iscritto nel registro dei praticanti (ad esempio inviandogli comunicazione scritta o convocandolo presso la propria sede) e, in assenza di riscontro, ne disponga la cancellazione, pone in essere un contegno legittimo.

Non potrà comunque, in presenza dei prescritti requisiti di legge, essere negata la reiscrizione del praticante così cancellato, ove questi intenda riprendere e proseguire la pratica forense; avvalendosi altresì della facoltà di richiedere l’abilitazione al patrocinio successivamente alla cancellazione dal registro dei praticanti, purché nei limiti del sessennio e salvo il termine finale fisso di questo periodo.

In conclusione la risposta ai quesiti posti è nei seguenti termini sintetici:

a. il sessennio di abilitazione al patrocinio ha durata massima di sei anni, decorrenti in ogni caso dal primo giorno del secondo anno di pratica; l’abilitazione può essere richiesta in ogni momento del sessennio, ferma la sua durata massima; al termine del periodo sessennale andrà sempre disposta la cancellazione dall’elenco degli abilitati;

b. l’iscrizione nel registro dei praticanti è indipendente dal possesso dell’abilitazione e può protrarsi anche oltre il conseguimento del certificato di compiuta pratica, salvi gli effetti di quest’ultimo ai fini dell’esame di Stato, e salvo il potere dell’Ordine di provvedere alla cancellazione di coloro che – a seguito di opportuni accertamenti e verifiche inquadrabili nel generale dovere di vigilanza dell’Ordine sull’esercizio della pratica forense – risultino non svolgere più attività di praticantato legale;

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c. nel caso in cui l’Ordine abbia provveduto a cancellare il praticante dal registro una volta ottenuto il certificato di compiuta pratica, o a seguito dell’esercizio del potere di vigilanza di cui al punto che precede, dovrà comunque procedersi alla reiscrizione del praticante già cancellato, il quale potrà anche chiedere di essere ammesso al patrocinio provvisorio.

L’Ordine potrà conseguentemente continuare ad esercitare la propria vigilanza sul praticante così reiscritto. In ogni caso, il periodo massimo di ammissione al patrocinio non potrà superare i sei anni decorrenti dal primo giorno del secondo anno di tirocinio (cfr.

punto a); il che comporta che il periodo concreto nel quale l’interessato potrà avvalersi della facoltà in oggetto sarà tanto più breve quanto più tardi l’interessato dovesse esercitare la facoltà di richiedere l’ammissione”.

Parere 20 febbraio 2008, n. 10

Quesito del COA di Brescia, rel. cons. Florio

Il quesito concerne la sussistenza di cause di incompatibilità tra l’esercizio della professione di avvocato e l’attività di agente di calciatori.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“Benché sia oggi consentito, entro certi limiti, il patto di quota-lite (cfr. art. 45, c.d.f., riformato a seguito della cd. “Legge Bersani”), resta ferma, a parere di questa Commissione, l’incompatibilità dell’attività di avvocato con quella di agente di calciatori, in quanto l’art. 3, RDL 27 nov. 1933, n.

1578, prevede quale espressa causa di incompatibilità, sia “l’esercizio di commercio in nome proprio o in nome altrui”, che “la qualità di …mediatore” è comunque da rilevare che la normativa professionale della F.I.G.C. prevede che “ai calciatori e alle società sportive non è consentito avvalersi dell’opera di un agente non iscritto nell’Albo, salvo che si tratti di un avvocato iscritto nel relativo albo, e per attività conforme alla normativa professionale vigente” (art. 5, reg. F.I.G.C.). Ne consegue che l’avvocato potrà svolgere attività professionale sia nell’interesse dei calciatori che di società sportive, senza necessità di iscriversi nell’albo degli agenti di calciatori, con l anecessaria limitazione del rispetto della normativa professionale propria dell’avvocato.

Si conferma e si integra l’orientamento già espresso nel parere n. 16 del 27 aprile 2005, e nel parere n. 146 del 17 luglio 2003: pertanto il Consiglio dell’ordine degli avvocati dovrà negare l’iscrizione a colui che la richieda e non intenda rinunziare ad una precedente iscrizione nell’albo degli agenti di calciatori, ovvero coloro che già facciano parte di entrambi gli albi debbono optare per una delle due iscrizioni.”

Parere 20 febbraio 2008, n. 11

Quesito del COA di Ferrara, rel. cons. Florio

Il quesito verte sulla sussistenza di causa di incompatibilità tra lo svolgimento della professione di avvocato e l’iscrizione nella Camera di commercio quale unico socio accomandatario di una società commerciale “attualmente inattiva”.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“deve ritenersi che l'iscritto in argomento versi in situazione di incompatibilità e sia tenuto a rimuoverla, pena l'avvio del procedimento di cancellazione, a nulla rilevando la circostanza di fatto dell’attuale inattività della società; il Consiglio nazionale forense ha avuto modo di pronunziarsi su fattispecie analoga in sede giurisdizionale, statuendo che “L'avvocato che, in violazione dell'art. 3 r.d.l. n. 1578/33, assuma il ruolo di socio accomandatario in una società commerciale, indipendentemente dalla effettuazione di concrete operazioni imprenditoriali, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante in quanto lesivo del dovere di indipendenza a cui ciascun iscritto è tenuto (CNF, 16 maggio 2001 n. 85).”

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Parere 20 febbraio 2008, n. 12

Quesito del COA di Bari, rel. cons. Bianchi

Il quesito concerne la sussistenza o meno del diritto in capo al procuratore della parte vittoriosa di ottenere dal convenuto soccombente il riconoscimento delle spettanze relative alle attività ulteriori compiute per il soddisfacimento dei diritti dell’assistito, dopo sentenza che abbia disposto la compensazione totale delle relative spese processuali.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“Il quesito deve ritenersi inammissibile, poiché non attiene alla materia dell’ordinamento forense bensì a quella del diritto processuale. L’attività della Commissione consultiva mira a fornire un orientamento unitario agli Ordini circa questioni di competenza delle istituzioni dell’Avvocatura, mentre in campo strettamente processuale non sussiste, ai sensi di legge, una competenza specifica.”

Parere 20 febbraio 2008, n. 13

Quesito del COA di Trani, rel. cons. Allorio

Il COA di Trani inoltra quesito pervenuto da un’iscritta nell’albo.

Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, in contrasto con il regolamento istitutivo della Commissione e con la prassi costante. Pertanto il quesito va sottoposto al Consiglio dell’Ordine competente, il quale, ove intendesse raccogliere l’avviso del Consiglio nazionale ai fini di una uniforme interpretazione, provvederà a sottoporre la questione in forma astratta e senza riferimenti nominativi.

Parere 12 marzo 2008, n. 14

Quesito del COA di Roma, rel. cons. Cardone

L’Ordine di Roma pone il seguente quesito: «se l’assenza del Consigliere segretario, per come sostengono alcuni consiglieri, non consentirebbe lo svolgimento dell’adunanza, non potendo lo stesso essere sostituito da altro consigliere»

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La Commissione, dopo ampia discussione, ritiene che nel caso prospettato non possa ipotizzarsi alcuna invalidità delle sedute del Consiglio in assenza del segretario titolare, ben potendo la funzione di segretario della seduta essere espletata da un qualsiasi consigliere, designato volta per volta dal presidente dell’adunanza.

Infatti bisogna distinguere la funzione del segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, e cioè quella istituzionale, collegata alla formale elezione prevista dall’art. 2 del d.lgs.lgt. 23 novembre 1944 n. 382 – peraltro senza specifica indicazione di funzioni, al contrario del presidente – da quella di segretario delle adunanze, prevista dall’art. 42 del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37.

Questa ultima funzione viene attribuite, di volta in volta, dal presidente della adunanza, ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 42, che richiama la norma contenuta nell’art. 75 del R.D. n. 37 del 1934.

Mentre la presidenza delle adunanze appartiene al presidente eletto, la cui eventuale sostituzione è disciplinata dal quarto comma dell’art. 42 R.D. n. 37 del 1934 (così come sostituito dal secondo comma dell’art. 16 del d.lgs.lgt. n. 382 del 1944), per il segretario, appunto perché intercambiabile, non vi è alcuna previsione normativa.

Si aggiunga che la disciplina per la validità delle sedute, prevista dall’art. 43 del R.D. n. 37 del 1934, così come modificato dal primo comma dell’art. 16 del d. lgs. lgt. n. 382 del 1944, non

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statuisce che il segretario dell’adunanza debba essere quello titolare, prevedendo come unica causa di invalidità della seduta la non presenza della maggioranza dei componenti.

Del resto dal contenuto del quesito non si evince quale sia il fondamento giuridico della paventata insostituibilità del consigliere segretario e dell’invalidità della seduta in sua assenza, tesi che potrebbe comportare, contro ogni principio ed irragionevolmente, la paralisi dell’organo.

Conseguenzialmente deve essere ritenuta la piena validità della seduta alla quale non partecipi il Consigliere segretario nominato ai sensi dell’art. 2 del d. lgs. lgt. n. 382 del 1944: la funzione di segretario della seduta essendo rivestita dal componente del Consiglio, designato di volta in volta, anche verbalmente, dal presidente della seduta medesima.”

Parere 16 aprile 2008, n. 15

Quesito del COA di Taranto, rel. cons. Baffa

Il quesito concerne l’eventuale insussistenza di causa di incompatibilità tra l’esercizio della professione di avvocato e l’assunzione dell’incarico di difensore civico presso un ente pubblico territoriale.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La Commissione consultiva ritiene di confermare il proprio precedente consolidato orientamento (cfr. i pareri 6 ottobre 2005, n. 77 e il n. 52/1995, in I pareri del Consiglio nazionale forense (1994- 1997), a cura di V. PANUCCIO, Milano 1998, 51-52).

In tali circostanze si è esclusa la sussistenza di una causa di incompatibilità tra la professione forense e la funzione di difensore civico, costituendo quest’ultimo un incarico di natura onoraria e non professionale.

Nell’attuale quadro normativo è demandata allo statuto comunale o provinciale la disciplina delle modalità di elezione del difensore civico, l’impiego di risorse dell’ente per il suo ufficio nonché i suoi rapporti con l’organo consiliare (d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 11). Si tratta perciò di un incarico elettivo, al quale corrisponde un compenso di tipo indennitario e che non comporta un rapporto di subordinazione gerarchica verso l’Amministrazione.

Perciò la disposizione dell’art. 3, commi secondo e terzo, del R.D.L. 1578/1933 non si applica all’incarico di difensore civico, ivi prevedendosi lo “stipendio” pubblico ovvero un diverso

“impiego” quali elementi incompatibili con l’esercizio della professione.

Rimane integra, ovviamente, la competenza dell’Ordine a vigilare affinché gli incarichi conferiti a proprî iscritti da parte delle Pubbliche amministrazioni si svolgano in modo da preservare l’indipendenza degli stessi ed in forme compatibili con gli obblighi deontologici.”

Parere 16 aprile 2008, n. 16

Quesito del COA di Nola, rel. cons. Baffa

Il parere concerne la questione se sia valido, ai fini dell’iscrizione nell’elenco dei difensori d’ufficio avanti al Tribunale per i minorenni, la frequenza di un corso di aggiornamento nelle materie attinenti al diritto minorile e le problematiche dell’età evolutiva ancorché organizzato da un Ordine diverso da quello distrettuale ove ha sede detto Tribunale.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“Si ritiene che al quesito sottoposto vada data risposta negativa.

L’art. 11 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (recante “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”) stabilisce che «il consiglio dell’ordine forense predispone gli elenchi dei difensori con specifica preparazione nel diritto minorile». L’art. 15 del d.

lgs. 28 luglio 1989, n. 272, attuativo del precedente, dà precise indicazioni circa la formazione degli elenchi degli iscritti disponibili alle difese minorili, prevedendo che vi possa accedere, in quanto

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«in possesso di specifica preparazione», «chi abbia svolto non saltuariamente la professione forense davanti alle autorità giudiziarie minorili o abbia frequentato corsi di perfezionamento e aggiornamento per avvocati e procuratori legali nelle materie attinenti il diritto minorile e le problematiche dell'età evolutiva». L’ultimo comma della disposizione in esame affida l’organizzazione dei corsi al «consiglio dell’ordine forense dove ha sede il tribunale per i minorenni».

La chiarezza della norma nell’individuare soltanto i consiglî dell’ordine ove ha sede il Tribunale per i minorenni (ossia quelli cd. “distrettuali”) quali legittimati ad organizzare i corsi è tale da precludere l’adesione ad un’interpretazione estensiva.

Risponde ad una scelta del legislatore stabilire i criterî di individuazione dei soggetti legittimati ad organizzare i corsi de quibus con il valore previsto dalla stessa norma.

L’ampliamento prospettato dal COA interpellante, pertanto, è risultato non conseguibile per via interpretativa, ma necessita senz’altro di una modifica legislativa (che sarebbe, peraltro, opportuna alla luce del nuovo ruolo acquisito dagli Ordini in materia di formazione continua ed aggiornamento degli iscritti).

Parere 16 aprile 2008, n. 17

Quesito del COA di Como, rel. cons. Bianchi

Il quesito riguarda la compatibilità con l’iscrizione all’albo degli avvocati di soggetto che intenda svolgere attività di mediazione familiare in modo indipendente ed in totale autonomia rispetto alla professione forense.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“L’attività di mediazione familiare non si configura, allo stato, come attività regolamentata; sono note alcune libere associazioni di settore, una delle quali risulta iscritta al CNEL, secondo il V rapporto di monitoraggio sulle professioni non regolamentate (aprile 2005).

Dal sito web di una di esse (Società italiana di mediazione familiare) si ricava che «per mediazione familiare si intende quel percorso finalizzato alla riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio, in cui in un contesto strutturato, un terzo “neutrale”, cioè un professionista equidistante dalle parti, con una preparazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario favorisce la ricerca di soluzioni sufficientemente buone per la riorganizzazione delle relazioni familiari, a seguito di conflitti connessi con eventi critici quali la scissione della coppia sposata o non sposata».

A proposito della compatibilità col mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati va innanzitutto premesso il costante orientamento della Commissione, sicché va confermato che le ipotesi di incompatibilità devono essere di stretta interpretazione, posto che pongono sostanziali limitazioni ai diritti dei singoli.

Nel caso non si ravvisa motivo d’incompatibilità.

Dal punto di vista oggettivo, infatti, l’attività di mediazione familiare si configura come una generica prestazione di consulenza (di area psicologica, giuridica e sociale) autonomamente e liberamente richiesta dai committenti tendente a favorire il raggiungimento di accordi tra parti in conflitto. In tal senso essa appare compatibile ed anzi coerente con una tipologia caratteristica d’esercizio della professione legale. La mediazione familiare poi non è certamente inquadrabile tra le attività d’impresa ed è del tutto diversa dalla mediazione (art. 1754 e seguenti del codice civile) alla quale fa riferimento l’art. 3 della legge professionale, finalizzata alla conclusione di affari e non alla soluzione di conflitti personali.

Anche sotto il profilo disciplinare, dall’esame dei codici di autoregolamentazione adottati dalle varie associazioni che risultano costituite, non è dato rilevare situazioni di contrasto rispetto al codice deontologico forense quanto, in particolare, alla riservatezza ed ai diritti degli utenti (anche in relazione ai compensi). Una di tali associazioni (Associazione Nazionale Avvocati Mediatori

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Familiari - A.N.A.Me.F.), anzi, si caratterizza per la doppia formazione ed il codice di autoregolamentazione dalla stessa adottato prevede espressamente il rispetto anche del codice deontologico forense.

Pur non comprendendosi con precisione a quali modalità si faccia riferimento nel quesito relativamente all’esercizio indipendente ed in totale autonomia delle due attività (quella d’avvocato e di mediatore familiare), è evidente come la separazione degli interventi per l’uno e l’altro titolo sia da condividere in conformità all’orientamento etico della mediazione familiare che prevede autonomia dall’ambito giudiziario, apparendo di fatto non sovrapponibili, rispetto ai medesimi soggetti, i campi dell’attività prestata. Al proposito il codice di autoregolamentazione A.N.A.Me.F (art. 5) vieta esplicitamente al mediatore familiare di esercitare, con le stesse persone, una funzione diversa da quella di mediatore. Anche con riferimento all’attività di mediazione familiare, in particolare, la Commissione ritiene possa operare il divieto di cui all’art. 51, canone primo, del vigente codice deontologico forense”.

Parere 16 aprile 2008, n. 18

Quesito del COA di Terni, rel. cons. Florio

L’ordine trasmette una richiesta di parere in materia di liquidazione di onorarî maturati nell’ambito di difese d’ufficio.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La Commissione, vista la nota dell’Ordine di Terni, con la quale si trasmette alla Commissione copia della richiesta di parere pervenuta da un iscritto, prende atto che, pur essendo stato cancellato il nome dell’interessato nella nota di trasmissione, questi risulta identificato tramite il fax inviato. Si deve perciò ricordare che non sono evase richieste di parere nella quali l’Ordine territoriale svolga la funzione di mero inoltro; ove l’Ordine non si ritenga in grado di fornire risposta alle richieste degli iscritti dovrà chiaramente far proprio il quesito in termini generali, escludendo il rischio che il Consiglio nazionale intervenga in specifiche vicende di rilevanza giudiziaria o deontologica.

Per gli esposti motivi il quesito sottoposto va dichiarato inammissibile.”

Parere 16 aprile 2008, n. 19

Quesito del COA di Ferrara, rel. cons. Cardone

Il quesito verte sull’interpretazione della disposizione di cui all’art. 28 del codice deontologico forense, ed in particolare sulla necessità di includere nel divieto di produzione in giudizio di

“lettere qualificate riservate” anche le missive di cui è stato autore colui che intende esibirle in giudizio.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“È necessario premettere che la Commissione consultiva non può pronunciarsi allorquando tale intervento possa interferire con lo svolgimento della funzione disciplinare degli Ordini, ovvero anticipare la trattazione di fattispecie poi oggetto di cognizione del C.N.F. in sede giurisdizionale.

Tuttavia, in via del tutto astratta, si deve convenire che, essendo l’interesse tutelato dalla norma deontologica quello della lealtà e probità nei dei rapporti tra colleghi, si ritiene che il divieto di cui all’art. 28 c.d.f. faccia riferimento alla corrispondenza riservata nel suo complesso a prescindere dai latori dei singoli messaggî, in ispecie quando la sua produzione è in grado di danneggiare ingiustamente la controparte (come nel caso di lettera contenente proposta transattiva).

Perciò la risposta al quesito posto dall’ordine è di segno positivo, salva l’autonomia nella verifica delle circostanze di specie, oggettive e soggettive, che permane integra per ciascun giudizio deontologico.”

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Parere 16 aprile 2008, n. 20

Quesito dell’avv. Carmelo Giuseppe Torrisi, rel. cons. Cardone

La richiesta di parere riguarda l’interpretazione del D.M. 127/2004, recante la tariffa professionale forense.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La richiesta è inammissibile, in quanto il Consiglio può provvedere solo su quesiti provenienti dagli Ordini circondariali o da questi fatti proprî.

L’interessato dovrà rivolgersi all’ordine di appartenenza o di competenza.”

Parere 16 aprile 2008, n. 21

Quesito dell’avv. Silvio Bonea, rel. cons. Cardone

Un avvocato chiede parere circa la regolarità dei lavori di un Consiglio che provveda ad eleggere il solo Presidente, e che solo in seduta successiva provveda all’elezione delle restanti cariche.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La richiesta è inammissibile, in quanto il Consiglio nazionale forense è giudice dell’impugnazione sia in materia elettorale che in ambito disciplinare, sicché non è possibile fornire parere su fatti specifici e su segnalazione di singoli. Non è infatti ammissibile un’interferenza nell’attività dei singoli ordini circondariali né è possibile condizionare l’autonomia di giudizio del C.N.F. in sede giurisdizionale.”

Parere 16 aprile 2008, n. 22

Quesito dell’avv. Piero Antonio Peruzzi, rel. cons. Cardone

Un avvocato chiede un parere in materia di liquidazione di compensi professionali, segnalando che l’Ordine di appartenenza non si è pronunciato su una richiesta di congruità.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La richiesta è inammissibile, sia poiché proviene da singolo iscritto, mentre la Commissione consultiva può pronunciarsi solo su quesiti di ordini o da questi fatti proprî, sia perché la legge non prevede un potere sostitutivo del C.N.F. nei confronti di eventuali inadempienze degli Ordini circondariali.”

Parere 16 aprile 2008, n. 23

Quesito dell’avv. Daniela Marzano, rel. cons. Cardone

Un avvocato chiede se sia legittima la costituzione di una società di consulenza legale cui partecipino anche soggetti imprenditoriali, pur con ruoli estranei alla redazione di consulenze.

La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La richiesta è inammissibile, poiché proviene da singolo iscritto, mentre la Commissione consultiva può pronunciarsi solo su quesiti di ordini o da questi fatti proprî. L’interessata dovrà quindi rivolgersi all’Ordine di appartenenza, e solo in caso di dubbio quest’ultimo potrà far pervenire la questione alla Commissione.”

Parere 25 giugno 2008, n. 24

Quesito del COA di Salerno, rel. cons. Baffa

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Il quesito concerne le modalità di espressione del voto in occasione delle elezioni del Consiglio dell’ordine, e, in particolare, la possibilità di indicare validamente nella relativa scheda un numero di preferenze inferiore a quello dei consiglieri da eleggere.

La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“ Si premette che la normativa per l’elezione dei componenti dei Consigli degli ordini e collegi” di cui al d. lgs. lgt. 23 novembre 1944, n. 382 si applica, in forza del suo art. 18, anche ai Consigli dell’ordine degli avvocati.

L’art. 2, primo comma, del citato decreto dispone che “i componenti del Consiglio sono eletti dall’assemblea degli iscritti nell’albo a maggioranza assoluta di voti segreti per mezzo di schede contenenti un numero di nomi uguale a quello dei componenti da eleggersi”.

Il Consiglio dell’Ordine di Salerno chiede se, in forza della disposizione testè richiamata, sussista

“l’obbligo di indicare un numero di nomi esattamente eguale a quello dei componenti da eleggersi, pena la nullità della scheda”.

È nota al proposito la giurisprudenza della Corte di Cassazione (iniziata con la sentenza delle Sezioni Unite 19 dicembre 1991, n. 13714, confermata con la sentenza 10 dicembre 1993, n. 12161 e ribadita dalla terza sezione con sentenza 14 gennaio 2002, n. 358). Si tratta tuttavia di giurisprudenza dalla quale il Consiglio nazionale forense ha già ritenuto doversi discostare, offrendo ampia motivazione del proprio convincimento che la Commissione ritiene poter ribadire anche nella sede consultiva.

Pronunciandosi in veste giurisdizionale su reclamo ex art. 6 del decreto legislativo citato, il Consiglio ha risolto la questione nel senso della piena validità della scheda elettorale che contenga un numero di preferenze inferiori a quello dei consiglieri eligendi (decisioni n. 109 del 3 ottobre 1997 e n. 119 del 29 settembre 1998).

Con tali decisioni si è chiarito, in particolare, che la disposizione sopra richiamata, nella parte in cui prevede che la votazione avvenga per mezzo di scheda che contenga “un numero di nomi uguali a quello dei componenti da eleggersi”, non ha contenuto cogente (tant’è che la sua violazione non è presidiata da una espressa sanzione di nullità, non ricavabile neppure dal sistema, nel quale, anzi, vige il principio di conservazione della volontà espressa dall’elettore, in forza del quale non tutte le irregolarità implicano la nullità dell’espressione di voto, ma solo quelle che contraddicono alla sua segretezza ed impediscono la corretta ricostruibilità della volontà dell’elettore) e “non rispondendo ad un interesse pubblico generale, né a principi di ordine pubblico ovvero ad esigenze della collettività, non presenta carattere di inderogabilità” (che, invece, deve riconoscersi alle disposizioni relative all’elettorato attivo e passivo, alla segretezza del voto, ai quorum costitutivi e deliberativi).

A dispetto del dato letterale, perciò, deve ritenersi che all’avvocato/elettore debba riconoscersi “la piena libertà….nell’esprimere –nell’unico vincolo del tetto massimo della compagine da eleggere- il numero di preferenze che crede”, senza alcun obbligo di indicare nella scheda, con carattere di necessarietà, tante preferenze quanto sono i componenti da eleggere.

Nelle richiamate decisioni il C.N.F. ha osservato, altresì, come a sostegno dell’opposta soluzione non vale addurre che la lettura restrittiva della norma in esame discenda dalla necessità di conseguire, all’esito finale delle votazioni, la copertura di tutti i posti di consiglieri, che, in astratto, l’interpretazione accolta potrebbe non assicurare. Trattasi, invero, di argomento di scarsa pregnanza giuridica e –si direbbe- di puro effetto, posto che “l’esperienza pratica, da sempre vissuta in tutti i Consigli degli Ordini forensi” ha mostrato che, pur ritenendosi valida l’espressione di voto limitata ad un numero di preferenze inferiore a quello dei consiglieri da eleggere, mai si è pervenuto al risultato paventato. L’ipotesi che in un’assemblea elettorale –che, ormai, nella quasi totalità degli Ordini si compone di un numero rilevante di soggetti- tutti gli elettori limitino numericamente la loro espressione di voto e la esprimano tutti per gli stessi candidati, è di pura scuola e fuori da ogni realtà.

La Commissione ritiene le conclusioni cui è pervenuto il Consiglio nelle richiamate decisioni pienamente persuasive e convincenti e ad esse aderisce, richiamando la propria posizione

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consolidata, da tempo favorevole alla possibilità, per i singoli Consigli dell’ordine, di darsi un regolamento di dettaglio per lo svolgimento delle operazioni elettorali (sent. C.N.F. 3 ottobre 1997, n. 109 e pareri 30 gennaio 1998, n. 13; 27 aprile 2005, n. 34).”

Parere 25 giugno 2008, n. 25

Quesito del COA di Monza, rel. cons. Baffa

Il remittente chiede se sia legittimo che un Consiglio dell’Ordine fissi un calendario delle sedute con relativi procedimenti disciplinari anche per il periodo successivo alla scadenza del proprio mandato.

La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La programmazione dei lavori rientra senz’altro nell’ambito di autonomia proprio dell’organo consiliare.

È evidente che il Consiglio è sottoposto ad un ricambio continuo dei suoi membri a mezzo delle elezioni biennali, ma è altrettanto chiaro che l’ente mantiene la propria funzione e la propria facoltà organizzativa anche a prescindere dalle scadenze elettorali.

Non vi è quindi alcun ostacolo pregiudiziale a che il Consiglio, nella propria responsabile autonomia, valuti conveniente ed opportuno fissare un calendario delle sedute anche oltre la scadenza elettorale, salva evidentemente la corrispettiva facoltà del Consiglio subentrante di apportarvi le modifiche che reputi necessarie.

Quanto alla nomina di relatori per i procedimenti disciplinari, essa si configura come attribuzione propria del Presidente, ai sensi dell’art. 47, comma terzo, R.D. 22 gennaio 1934, n. 37. Pertanto si potranno designare i relatori di tutti i procedimenti disciplinari via via iniziati, salva la necessità del Presidente di sostituire il relatore allorquando – a seguito delle elezioni forensi e dell’insediamento del nuovo Consiglio – il consigliere precedentemente designato non faccia più parte dell’organo consiliare e salva la facoltà di nominarne altro anche per motivi di opportunità.”

Parere 25 giugno 2008, n. 26

Quesito del COA di Ancona, rel. cons. Baffa

L’ordine anconetano chiede come debbasi valutare un provvedimento di un giudice che revochi dal beneficio del patrocinio a spese dello Stato un cittadino argentino, così superando la contraria delibera del Consiglio dell’Ordine, nonostante l’accordo bilaterale del 1988 con il Paese sudamericano preveda la reciprocità nel gratuito patrocinio.

La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“Non può esservi dubbio circa l’eccezionalità dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato a favore del cittadino extracomunitario non regolarmente soggiornante in Italia (come richiesto dall’art. 119, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115), eccezione che riguarda in particolare la fattispecie relativa alla contestazione giudiziale del provvedimento di espulsione di cui all’art. 13 del d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

Altri procedimenti, come quello del riconoscimento del diritto d’asilo ovvero della contestazione del provvedimento che nega lo status di rifugiato, sono esclusi dal perimetro dell’estensione del diritto di cui si tratta, posto che non è ammessa interpretazione estensiva in presenza di norme derogatorie.

In questo senso vanno rammentate le decisioni dei giudici di primo grado (Trib. Trapani 13 marzo 2006 oppure Trib. Salerno 22 gennaio 2007).

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Tuttavia non si può trascurare il fatto che le decisioni, come quella del Tribunale di Trapani citata nel quesito, non riguardanti cittadini argentini bensì extracomunitarî di altra provenienza, non possono essere utilizzate acriticamente per la corretta soluzione della questione.

Infatti in materia vige un accordo bilaterale, la Convenzione relativa all'assistenza giudiziaria ed al riconoscimento ed esecuzione delle sentenze in materia civile tra la Repubblica italiana e la Repubblica argentina, firmata a Roma il 9 dicembre 1987, ratificata a mezzo della legge 22 novembre 1988, n. 532, prevalente in base al principio di specialità. Non si ha notizia di abrogazioni o dell’intervento di altri atti o fatti ostativi alla vigenza della norma in parola.

È bensì vero che lo strumento del gratuito patrocinio, descritto nella convenzione, è stato abolito in Italia dalla legge 30 luglio 1990, n. 217, sostituendolo con il patrocinio a spese dello Stato; tuttavia tra questi due strumenti di tutela sussiste una continuità pressoché completa e l’espressione

“gratuito patrocinio” permane addirittura in uso nel linguaggio legislativo (cfr., ad es., d. lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 16).

In conclusione, quindi, si ritiene che i cittadini argentini debbano beneficiare del medesimo trattamento riservato ai cittadini italiani per ciò che attiene all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in materia civile.”

Parere 25 giugno 2008, n. 27

Quesito del COA di Voghera, rel. cons. Bianchi

Il quesito concerne la possibilità di iscrivere nella Sezione speciale dell’albo degli avvocati riservata agli avvocati stabiliti un professionista che ha conseguito il titolo di “abogado” per essersi iscritto all’Ilustre Colegio de Abogados de Madrid.

La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La richiesta di parere è irricevibile, poiché essa include le generalità del professionista interessato e la questione potrebbe costituire oggetto di cognizione in sede di esercizio delle funzioni decisorie del Consiglio nazionale forense.

Ai sensi del regolamento istitutivo, la Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense può esprimersi solo su richieste di parere provenienti da Consigli dell’ordine degli avvocati, o da enti e associazioni, ma formulate in forma anonima, secondo criteri di generalità ed astrattezza, e in ogni caso non riferibili fattispecie concrete che possano costituire oggetto di cognizione del Consiglio nazionale in sede giurisdizionale.

A proposito del quesito possono solo essere richiamate la Direttiva 98/5/CE, la sua attuazione di cui al decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96 e la giurisprudenza della Corte di Giustizia (per la quale si segnalano gli atti della causa C-311/06 – Cavallera).”

Parere 25 giugno 2008, n. 28

Quesito del COA di Oristano, rel. cons. Cardone

Il Consiglio chiede se possa iscriversi nell’elenco di cui all’art. 17-bis della legge 30 luglio 1990, n. 217, un professionista (indicato) già inserito nella sezione speciale dell’albo riservata agli avvocati comunitarî stabiliti, fruendo del periodo di tempo trascorso nella detta sezione ai fini dell’iscrizione.

La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La richiesta di parere è irricevibile, poiché essa include le generalità del professionista interessato e la questione potrebbe costituire oggetto di cognizione in sede di esercizio delle funzioni decisorie del Consiglio nazionale forense.”

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Parere 25 giugno 2008, n. 29

Quesito dell’avv. Armin Schielein, rel. cons. Bianchi

Il richiedente, un singolo iscritto, chiede informazioni circa le modalità di iscrizione ad un “elenco degli avvocati specialisti”.

La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“La richiesta di parere è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, mentre la Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense è tenuta, a tenore di regolamento, a riscontrare le sole richieste astratte di parere provenienti dai Consigli dell’Ordine.

L’interessato dovrà rivolgere la propria domanda di chiarimenti al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, salvo il fatto che non esistono nell’ordinamento italiano attuale quegli “elenchi di avvocati specialisti” dei quali egli parla.

Parere 9 luglio 2008, n. 30

Quesito del COA di Lucca, rel. cons. Bianchi

Il quesito concerne il caso di cittadina comunitaria (rumena) residente in Italia, laureata in giurisprudenza secondo l’ordinamento di quel Paese, ove ha svolto attività di pratica legale e che chiede l’iscrizione nel registro dei praticanti in Italia.

La Commissione, dopo ampia discussione, fa propria la proposta del relatore e rende il seguente parere:

“Va confermato in proposito l’orientamento già espresso dalla Commissione, in particolare e da ultimo nei pareri 25 maggio 2005, n. 49 e 24 maggio 2006, n.28 (quest’ultimo con riguardo a cittadini extracomunitari).

Il titolo di studi è considerato dal diritto comunitario sotto un duplice profilo: innanzitutto come attestato di un percorso formativo in sé, e in secondo luogo come titolo abilitante all’esercizio di determinate attività professionali regolamentate.

Nel caso di specie il diploma di laurea in giurisprudenza acquisito all’estero può assumere rilievo accademico-formativo, e dunque essere riconosciuto ai fini della prosecuzione degli studi, a scopo concorsuale o ad altri fini, ovvero può essere considerato come il titolo presupposto per l’accesso (ed il successivo esercizio) alla professione forense.

Nel primo caso, ossia ai fini della piena equiparazione della laurea rumena a quella italiana, la normativa applicabile è quella internazionale pattizia. Infatti Italia e Romania hanno entrambe sottoscritto e ratificato la “Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella Regione europea”, fatta a Lisbona l’11 aprile 1997 (nel caso italiano la ratifica è avvenuta con la legge 11 luglio 2002, n. 148 e l’atto è divenuto operativo nel nostro ordinamento dal 26 luglio 2002; per la Romania la Convenzione è in vigore dal 1° marzo 1999).

La legge che ha autorizzato la ratifica della citata Convenzione ha disposto che siano, nell’ordinamento italiano, i singoli Atenei, nell’ambito della loro autonomia e in conformità ai rispettivi ordinamenti, a provvedere sulle domande di riconoscimento (art. 2, l. 148/2002).

La laureata in giurisprudenza potrà, ove intenda percorrere questa strada, presentare domanda di riconoscimento presso qualsiasi Università della Repubblica nella quale sia istituito il corso di laurea in giurisprudenza. L’Ateneo dovrà provvedere entro novanta giorni dalla richiesta.

Se, viceversa, la cittadina comunitaria intende valersi del proprio diploma di laurea al fine esclusivo e specifico di essere iscritta nel registro dei praticanti avvocati, in tal caso spettano al Consiglio dell’ordine competente per territorio le relative valutazioni.

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A tal proposito, la più recente giurisprudenza comunitaria - ed in particolare la sentenza 13 novembre 2003, nella causa C-313/01 - Morgenbesser, recepita dalla giurisprudenza interna (Cass.

Sezioni unite, 19 aprile 2004, n. 7373) - ha precisato che il rifiuto dell’iscrizione non può essere dovuto per il solo fatto che il titolo proviene da istituzione accademica straniera.

La sentenza ha posto il principio che “il diritto comunitario si oppone al rifiuto da parte delle autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un'università del primo Stato”. Così che “spetta all'autorità competente verificare, ..., se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato in un altro Stato membro e le qualifiche o l'esperienza professionale ottenute in quest'ultimo, nonché l'esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni richieste per accedere all'attività di cui trattasi”.

Più precisamente ed in dettaglio è precisato non trattarsi “di una semplice questione di riconoscimento di titoli accademici, ... per quanto pertinente e persino determinante per l’iscrizione” agli albi e registri professionali, poiché in casi siffatti non va verificata soltanto

“l’equivalenza accademica del diploma di cui si avvale l’interessato rispetto al diploma normalmente richiesto ai cittadini dello stato ospitante”, ma la presa in considerazione del titolo accademico dev’essere “effettuata nell’ambito della valutazione dell’insieme della formazione, accademica e professionale” che l’istante può far valere.

La procedura di valutazione, che l’autorità competente dello Stato membro ospitante (da identificarsi nel Consiglio dell’ordine che tiene il registro nel quale l’iscrizione è richiesta) ha il dovere di compiere, deve tendere ad “assicurarsi obiettivamente che il diploma straniero attesti, da parte del suo titolare, il possesso di conoscenze e di qualifiche, se non identiche, quanto meno equivalenti a quelle attestate dal diploma nazionale. Tale valutazione dell'equivalenza del diploma straniero deve effettuarsi esclusivamente in considerazione del livello delle conoscenze e delle qualifiche che questo diploma, tenuto conto della natura e della durata degli studi e della formazione pratica di cui attesta il compimento, consente di presumere in possesso del titolare”.

Nel contesto di questo esame l’autorità competente dello Stato membro “può tuttavia prendere in considerazione differenze obiettive relative tanto al contesto giuridico della professione considerata nello Stato membro di provenienza quanto al suo campo di attività. Nel caso della professione di avvocato, lo Stato membro ha pertanto il diritto di procedere ad un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze rilevate tra gli ordinamenti giudiziari nazionali interessati”. Se “a seguito di tale confronto emerge una corrispondenza solo parziale tra dette conoscenze e qualifiche, lo Stato membro ospitante ha il diritto di pretendere che l'interessato dimostri di aver maturato le conoscenze e le qualifiche mancanti”. Ed a questo proposito “spetta alle autorità nazionali competenti valutare se le conoscenze acquisite nello Stato membro ospitante nel contesto di un ciclo di studi ovvero anche di un'esperienza pratica siano valide ai fini dell'accertamento del possesso delle conoscenze mancanti”.

La giurisprudenza comunitaria risulta pienamente recepita dal Consiglio nazionale forense che in sede giurisdizionale ha condotto esame di merito dei requisiti per l’iscrizione, confermando in un caso (29 maggio 2006, n. 35) il diniego del Consiglio territoriale e riformandolo in altro caso (8 ottobre 2007, n. 141). Le sentenze citate sono consultabili per esteso all’indirizzo web:

http://cnf.ipsoa.it/comuni/home.jsp.

Sarà, in conclusione, il Consiglio dell’ordine che dovrà valutare la completezza del percorso formativo, non solo accademico, della richiedente ai fini del proficuo svolgimento del tirocinio professionale, considerando la documentazione da questa prodotta in relazione al sistema giudiziario ed accademico di provenienza, al corso degli studi scelto ed al complesso delle sue esperienze pratiche.”

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Parere 9 luglio 2008, n. 31

Quesito del COA di Massa-Carrara, rel. cons. Florio

L’Ordine richiedente domanda: “se possa un avvocato che ha partecipato ad un corso di perfezionamento e specializzazione organizzato da una Università e dall’Ordine degli Avvocati del luogo, indicare nella propria carta intestata la specializzazione così conseguita con la semplice dicitura «specializzato in...» ai sensi dell’art. 17 e 17-bis cod. deont.”.

La Commissione, dopo ampia discussione, fa propria la proposta del relatore e rende il seguente parere:

“L’art. 17-bis del codice deontologico dà all’avvocato la possibilità di indicare “i diplomi di specializzazione conseguiti presso gli istituti universitari”.

Deve quindi trattarsi di diplomi in senso stretto (che quindi presuppongono, tra l’altro, un esame finale), ai quali non sembra equiparabile un semplice corso di approfondimento, ancorché esso sia atecnicamente denominato con l’uso della parola “specializzazione”.

Se l’iscritto ha ottenuto il diploma nel senso sopra indicato, potrà definirsi specializzato, e dovrà indicare anche l’università che gli ha rilasciato il diploma.

In caso contrario, il riferimento alla specializzazione non è consentito nella carta intestata, ma può solo essere inserito, nell’eventuale curriculum, il riferimento al corso frequentato.

Nel diverso caso della nozione di “materia prevalente” è consentita la menzione nella carta intestata, purché però vi sia un effettivo esercizio in via prevalente della professione nel settore indicato, da confermare anche attraverso la formazione continua nel medesimo settore, ai senti del Regolamento del C.N.F. del 13 luglio 2007.”

Parere 9 luglio 2008, n. 32

Quesito del COA di Siracusa, rel. cons. Cardone

Si espone il caso di un Consiglio dell’Ordine di recente rinnovato, nel quale i precedenti consiglieri, cessati dalla carica, restituiscano i fascicoli dei procedimenti disciplinari già celebrati e in attesa di deposito della decisione, affermando di non avere più alcun dovere di redazione delle sentenze in seguito al venire meno della carica consiliare.

L’Ordine pertanto formula quesito nei seguenti termini: “se, a seguito della cessazione dalla funzione di Consigliere, questi, a suo tempo designato relatore, abbia l’obbligo di redigere e depositare la decisione con la relativa motivazione in relazione a un procedimento disciplinare che, dal verbale della seduta risulta essere andato in decisione”.

La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:

“Non può esservi dubbio che il consigliere relatore di un procedimento disciplinare abbia l’obbligo – ai sensi dell’art. 51, comma terzo, R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 - di redigere la decisione, curandone il deposito presso la segreteria dell’Ordine.

Tale onere non viene meno in caso di rinnovo delle cariche consiliari, trattandosi di attività legata al collegio che ha presenziato alle udienze e deliberato la decisione in camera di consiglio.

Bisogna, pertanto, concludere che è obbligo dell’avvocato, cui sia affidata la funzione di relatore di un procedimento disciplinare, curare la redazione ed il deposito della decisione completa di ogni suo elemento, senza che la cessazione dalla carica importi alcunché in merito all’obbligo medesimo.”

Parere 9 luglio 2008, n. 33

Quesito del COA di Genova, rel. cons. Florio

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