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Discrimen » Declino e caduta del diritto penale liberale

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Academic year: 2022

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Declino e caduta

del diritto penale liberale

Edizioni ETS

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© Copyright 2019 Edizioni ETS

Palazzo Roncioni - Lungarno Mediceo, 16, I-56127 Pisa [email protected]

www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA

Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI) Promozione

PDE PROMOZIONE SRL via Zago 2/2 - 40128 Bologna

ISBN 978-884675599-5

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Comincio dal titolo.

Spero che nessuno pensi all’intento mio di paragonare que- sto scrittarello alla grandiosa opera di Edward Gibbon.

Avevo quel titolo e quel libro nella testa quando pensai di raccogliere alcuni scritti – o parti di essi – che presentavano un filo conduttore nello svolgersi degli avvenimenti in un certo lasso di tempo (2014-2018): in prevalenza si tratta di interven- ti a convegni.

I post scripta, in qualche caso, ci portano al momento di chiusura di questo libretto (Maggio 2019).

È una sorta di diario di avvenimenti occorsi ad un viag- giatore: e il viaggiatore di cui si vuole raccontare è il Diritto penale.

E qui bisogna dire che cosa intenda per Diritto penale chi ha deciso, con incoscienza temeraria, di scriverne la cronaca.

Più pertinente, forse parlare, di Sistema penale.

A questo proposito immagino un oggetto sfaccettato e da osservare in sequenze diverse. Muove da disposizioni nor- mative, regole, precetti che pongono divieti e obblighi la cui trasgressione condiziona l’inflizione di pene (sofferenze pro- grammate e dosate); ancora regole processuali che governano la ricostruzione dei fatti e l’accertamento di responsabilità;

ancora regole sui modi e i limiti dell’espiazione delle pene.

Attorno a questo nucleo definitorio operano altri fattori.

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A valle dei testi sta infatti il potere di chi applica le regole.

Il sistema giudiziario: questa sequenza pone questioni non più circoscrivibili al tema, eterno, dei limiti della interpreta- zione del testo, nel quale recintare il passaggio dalla regola al giudizio, dalla disposizione normativa alla norma reale.

Il Potere giudiziario, volto del potere spesso rifiutato con eccessiva umiltà da molti suoi appartenenti, va decifrato nella sua concreta microfisica, a sua volta basata su fonti e regole variamente graduate e da ideologie.

Se poi facciamo un passo indietro, retrocediamo alle fonti:

la virtuosa supremazia della Costituzione impone la riserva di Legge per decidere cosa e quanto punire, come si deve de- cidere di farlo e con quali limiti. Un privilegio del solo Par- lamento: e questo stringe il nodo tra sistema penale e sistema politico.

Ma, ancora la Costituzione, prevede di ricevere fonti so- vranazionali: e si è posta la questione dei limiti, in penale, del loro recepimento.

Non si può dimenticare come prima delle sequenze ri- chiamate, che danno volto al Sistema penale, stia il rapporto tra volontà legiferante e società. Un altro nodo, all’origine di tutto: quello della legittimazione dell’autorità che decide cosa e come punire. Ancora regole, procedure: la loro epifania nell’aggettivo che accompagna il sostentativo “democrazia”, altrimenti scialbo e ingannevole.

Ogni racconto di viaggio comincia dalla descrizione e dalla storia dei luoghi che si lasciano. Si arresta con quella della tappa raggiunta.

Ancora Gibbon: anche il suo racconto si conclude con la

“caduta” di un mondo e del suo ordine. Sappiamo però che quegli avvenimenti non costituirono la fine della storia, ma l’affermarsi di altri mondi e altri ordini.

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Così al pessimismo che il momento presente induce, quanto al sistema penale e alle nostre libertà, non deve corrispondere certo una resa: il penalista – per come l’intendo – ha un’unica e precisa deontologia: la difesa dell’individuo e dei suoi diritti inviolabili – si tratti anche dell’incarnazione del diavolo – di fronte alla più potente macchina punitiva inventata dalla mo- dernità. Una affermazione che può sembrare iperbolica solo se si trascura l’enorme influenza assunta dalla rivoluzione in- formatica: basti riflettere anche solo su due aspetti. Da un lato strumentazioni investigative che hanno travolto qualsiasi sfe- ra di riservatezza di chi dovrebbe essere presunto non colpevo- le; dall’altro i nuovi media, con la loro capacità di costruire il colpevole fin dalle prime battute delle indagini.

Sono storie ormai note. Ma torniamo alla deontologia del penalista che non può non riconoscersi nei principi di un di- ritto penale liberale.

Così ho provato a raccontare l’erosione progressiva dei suoi corollari, principi che mi affascinarono quando mi avvicinai ad essi con la lettura del manuale di Giuseppe Bettiol – a proposito di chi, giovane penalista, non esitò a difendere quei principi, in pieno periodo di massimo consenso al regime – e mi spinsero, fino ad allora svagato studente di giurispruden- za, verso le disciplina penalistiche, praticate, come forse si do- vrebbe fare, nell’Università e nel foro.

Parliamo del viaggio in questi ultimi cinque anni.

I lettori, posto che ve ne siano, non troveranno progettua- lità costruttive: spero risulti chiaro come la dimensione poli- tica del diritto penale non possa travestirsi da braccio tecnico, indifferente alla fisionomia delle istituzioni della Repubblica.

Se si mantengono i piedi fermi nella difesa dei principi di un diritto (sistema) penale liberale, sarà la constatazione del loro tradimento a dirci della qualità della nostra democrazia.

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Questo impegno si rafforza a causa della evidente incompa- tibilità delle attuali manifestazioni di populismo penale con l’ethos del nostro Stato costituzionale di diritto.

Ringrazio Giorgio Abbadessa per la postfazione.

Quando, nel 2004, ritornai nella mia università, lo tro- vai studente del mio corso. Mi colpì, non solo per l’eccellente capacità di apprendimento. Già allora manifestava la pro- pensione per il dialogo critico fino all’eterodossia. Per me, nell’Università sono questi talenti preziosi: antidoto efficace al veleno dell’albagia professorale e al servilismo. Il dialogo con Abbadessa proseguì ininterrotto durante il suo corso di dottorato a Milano e successivamente, fino alla scelta dei testi di questa raccolta.

Il taglio del suo pensiero non è cambiato, ma si è arricchito in profondità ed esperienza.

Ringrazio anche Tommaso Guerini per i dialoghi proficui e la collaborazione nelle riflessioni sul tema di mafia, antima- fia e antipolitica.

Un ringraziamento a Emanuela Fronza, lettrice preziosa per dare forma a questo diario di viaggio del Diritto penale, a Carlo Guarnieri, per i consigli ricevuti, e a Luigi Cameriero per l’amichevole confronto sull’idea di questa pubblicazione.

Un grazie speciale, infine, a colui che è il prezioso maestro di tutti i penalisti, a Marcello Gallo. Per il dialogo continuo di cui mi fa dono.

Maestro vero e indiscusso nella costruzione dei fondamen- tali istituti di una dogmatica razionale e coerente con la Legge fondamentale, ma, soprattutto, per un ininterrotto impegno civile e politico per un sistema penale con al centro i diritti di libertà di tutti.

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sembra la più vasta, la più sconfinata, la più promettente; e certamente la più affascinan- te. Ma non è quella che è stata percorsa già?

Non è quella del romanticismo, della “volon- tà generale”, della parte maggiore del tutto, degli “ismi” più micidiali? Cerchiamo di fare bene i conti. E anche se di Voltaire non ci re- sta molto, anche se soltanto ci restano i rac- conti, le pagine sul caso Calas, un mucchietto di lettere, questo poco teniamocelo, a questo poco afferriamoci. O andremo a fondo, con Le confessioni e L’Emilio di Rousseau appesi al collo»

Leonardo Sciascia, Nero su nero, Torino, 1979, 201

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all’ideologia giudiziaria:

dagli anni ’60 all’emergenza mafiosa

*

L’occhio e l’orecchio, solo successivamente i documenti:

all’origine della storiografia greca, quindi della storiogra- fia1. Nel nostro caso la stretta contemporaneità e l’esperien- za di vita di chi scrive vedono mischiate le cose e i sensi.

Storia e memoria privata interferiscono, sono inestricabili nel produrre narrazione e interpretazione.

La periodizzazione può essere solo convenzionale, con funzione organizzativa del discorso. Il racconto di un ven- tennio non può prescindere da quanto lo ha preceduto e qualsiasi sua interpretazione muove dagli avvenimenti suc- cessivi: l’impasto di memoria privata e storia non consente di sfuggire.

Un impasto fatto di interferenze: una storia che guarda alle vicende politico-sociali. Ai materiali mutamenti nelle istituzioni e quindi nei rapporti tra i poteri: sia pure a fatica, e solo tra alcuni, oggi si va fortunatamente affermando la

* È qui ripresa, in larga parte, la relazione tenuta al Convegno “Il diritto penale fra scienza e politica. Nel ricordo di Franco Bricola, vent’anni dopo”. Organizzato da Associazione Franco Bricola-Università di Bologna.

Bologna, 7-8 marzo 2014. Il testo è pubblicato in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2014, 1165 ss. con il titolo L’evoluzione della politica criminale tra garantismo ed emerganze. Dagli anni ’60 all’emergenza mafiosa.

1 Riprendo il titolo del primo capitolo della Prima lezione di storia greca di L. Canfora, Bari, 2007, 3.

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consapevolezza che la riflessione non può prescindere dalla materiale definizione di coloro che esercitano i poteri, e, tra essi, quello giudiziario, del luogo nel quale si esprime di fatto la coercizione [all’esito del processo o nella fase di polizia e delle indagini?]. Così, in penale, ma non solo, si rileggono gli equilibri tra legge e interpretazione, tra potere esecutivo e “potere penale” della magistratura requirente.

Infine, il ruolo della “scienza penale”.

Una ventina di anni fa si individuavano le caratteristi- che di un continuum tra politica, sistema legale e dogmatica giuridica basato sulla ripartizione di poteri e responsabili- tà2. Cosa resta di quell’idea? Cercherò di corrispondere ad una ricostruzione storica.

La politica e la società. I primi venti anni del dopoguer- ra nella nostra realtà sono all’insegna di un diffuso pessi- mismo nei confronti dell’irruzione delle masse sulla scena politica. È la “massa fusa”3 ad aver innescato le tragedie del primo cinquantennio del secolo. Nonostante le rinnovate fortune di Ortega y Gasset4, non appariva tuttavia realisti- co un ritorno alla società e alle forme del liberalismo otto- centesco.

Quello che si crea è un equilibrio nuovo tra quest’ulti- mo e le rinate istituzioni democratiche: un equilibrio che si cristallizza nel nuovo costituzionalismo.

2 D. Pulitanò, Quale scienza del diritto penale?, in Riv. It. Dir. Proc.

Pen., 1993, 1209 ss.

3 Riprendo l’espressione da J.W. Mueller, Contesting Democracy: Po- litical Ideas in Twentieth-Century Europe, Yale University; trad. it. di Luigi Giacone, L’enigma democrazia, Torino, 2012. Farò ancora riferimento ad alcune chiavi interpretative proposte dall’autore.

4 La rebelion de las masas esce a Madrid nel 1930 (Ediciones de la Re- vista de Occidente). Si veda la traduzione di S. Battaglia, La ribellione delle masse, Bologna, 1962.

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A prevalere, tuttavia, non furono affatto le socialdemo- crazie, che restarono confinate nell’area nordica, in cui era- no tradizionalmente radicate.

Fu invece il momento dei cristiano-democratici. Nel cli- ma di rigida contrapposizione della guerra fredda, se il per- sonalismo di Maritain o i “professorini” in Italia, diedero una base ideologica [ben espressa dal II comma dell’art. 3 Cost.], a fornire sostegno al successo elettorale dei partiti di ispirazione democratico-cristiana fu la solida alleanza sociale tra ceti medi e contadini5.

Il primo ventennio del dopoguerra è stato definito di

“eutanasia della politica” nella conduzione economica: da intendersi come abbandono delle variegate ideologie di de- mocrazia sindacale e autogestione della prima parte del ’900.

Nella ricostruzione, a dominare, in campo sociale ed economico, è l’idea di stabilità. Essa si coniugava costan- temente con l’obiettivo della sicurezza: interna, contro di- namiche che riproducessero gli antefatti che avevano ali- mentato i totalitarismi; esterna, nella difesa del limes delle democrazie occidentali6.

Fino agli anni ’70 gli interventi sul sistema di giustizia penale sono assai limitati, lasciando campo ad un assetto venato di autoritarismo, ma non illiberale, depurato dei soli aspetti più direttamente riconducibili alla dittatura. Fallite le istanze di riforma dei codici, timidi anche gli esordi della Corte costituzionale7.

5 J.W. Mueller, op. cit., 180 ss.

6 Ivi, 201 ss.

7 Èopinione chiaramente espressa da G. Vassalli, quanto meno con riferimento al diritto penale sostanziale, Giurisprudenza costituzionale e diritto penale sostanziale. Una rassegna, ora in Ultimi scritti, Milano, 2007, 175-177.

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È invece negli anni successivi che affiora un “arcipela- go normativo”8 che da un lato rispecchia necessità di ri- forma non rinviabili ad una improbabile ricodificazione, dalla novella del 1974 alla riforma dei reati contro la PA del 1990 (ma anche, Legge Gozzini, provvedimenti di de- penalizzazione, Legge stupefacenti) in alcuni casi frutto dell’impegno politico diretto di penalisti (penso a M. Gal- lo e Vassalli). Ad esso si affianca il rafforzarsi della Corte costituzionale e dei suoi interventi (anche a questo propo- sito basti ricordare le sentenze di Dell’Andro). Altre isole sono tuttavia occupate della c.d. legislazione dell’emergen- za contro terrorismo e crimine organizzato: con un profilo, tuttavia, che non ci conduce ad un carattere originario del sistema (risposta penale differenziata e propensione alle leggi di eccezione). Se per la penalistica classica essa valeva a conservare indenne il nucleo del diritto penale del codi- ce, l’esperienza recente dell’emergenza ha condotto ad una sua emarginazione e ad una espansione delle logiche della eccezione9.

Il quadro di stabilità politica subisce una rapida trasfor- mazione proprio in coincidenza con il periodo di cui mi occupo. Già prima del ’68 (riferimento evidentemente con- venzionale) si manifestano sul piano internazionale e inter- no elementi di crisi degli equilibri del dopoguerra.

Alcune affermazioni funzionali al mio discorso: sul piano strettamente politico-istituzionale “il ’68” non pro- duce nulla [ciò non vale per l’Europa orientale che, con la fine del comunismo, vedrà affermarsi parlamentarismo

8 M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema pe- nale italiano (1860-1990), in Storia d’Italia, Annali 14, a cura di L. Violante, Torino, 1998, 538.

9 Ivi, 539 ss.

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e costituzionalismo]. Molto invece ha significato sul piano culturale, del pensiero e della pratica politica in termini an- tagonisti rispetto all’assetto costituzionale del dopoguerra.

Le idee di autonomia, autogestione, di rifiuto della delega, costituiranno un’onda lunga che trascinerà fino ai giorni nostri l’antiparlamentarismo e il rifiuto della democrazia rappresentativa.

Al momento della Costituente il ruolo del giudice viene inteso come quello di tecnico applicatore della legge. La preoccupazione comune a tutte le forze politiche uscite dal fascismo è rivolta alle prevaricazioni dell’esecutivo e, quin- di, al rafforzamento delle prerogative del Parlamento. Il centro destra confida in un assetto burocratico e gerarchico della Magistratura, rimasto sostanzialmente indenne, che garantisca stabilità e conservazione. I partiti marxisti non mostrano particolare interesse per i temi della giustizia: a prevalere è il mito giacobino che pone al centro la vitto- ria politica. Resta in generale assente il riferimento al tema dell’indipendenza interna [carriera e gerarchie].

Nel processo di trasformazione di questo stato iniziale, fino agli anni ’60, il conflitto fra i vari gruppi di magistra- ti, fino alla scissione dell’UMI (la corrente conservatrice) e tra questi e l’ambiente politico, esula da tematiche diretta- mente politiche: si concentra invece su questioni attinenti a carriere, assetto gerarchico e retributivo10.

È alla fine degli anni ’60 che si precisa invece, soprattut- to nelle elaborazioni e nei programmi della corrente di sini- stra, Magistratura democratica, il ruolo politico del giudice.

10 C. Guarnieri, Giustizia e politica. I nodi della seconda Repubblica, Bologna, 2003, 97 ss.; G. Freddi, Tensioni e conflitto nella magistratura, Bari, 1977, 127 ss.

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Il collegamento con forze sociali e politiche per condurre insieme a queste la lotta per la trasformazione sociale. Si inaugura così la stagione del “collateralismo” ed un dibatti- to sempre più acceso sul ruolo del giudice e sulla politicità della sua funzione. Esso favorisce il fenomeno della “sup- plenza” giudiziaria propiziata dalle difficoltà del sistema politico di fronte ai conflitti e a nuove emergenze sociali ed economiche, con l’abbandono della tradizionale dimensio- ne esecutoria del potere giudiziario. Negli anni ’70 e ’80, ai sempre più ampi margini di “supplenza”, corrisponde una generalizzata acquiescenza nei confronti della, nel frattem- po ricompattatasi, magistratura associata: “il fatto è che di fronte ad una magistratura unita – almeno sui temi più cor- porativi – sta una classe politica divisa e in competizione per ottenerne i favori”11. Va infine osservato come, a questa rapida crescita della “politicizzazione” della magistratura, non corrisponda una parallela riflessione sulla compatibi- lità “della presenza di giudici indipendenti e politicamente attivi con i principi di un regime democratico”. Sui requi- siti di legittimazione di una organizzazione giudiziaria che resta immutata nel reclutamento burocratico di pubblici funzionari12. In sintesi estrema è questo il quadro che ci consegna agli anni ’90.

Anche la cultura penalistica, che, per altro, già nel ven- tennio del dopoguerra, si era aperta in alcuni casi alle pro- blematiche poste dalla realtà nuova della Costituzione, è

11 C. Guarnieri, op. cit., 113 ss. Anche su questi aspetti l’importante ricerca condotta da G. Freddi, op. cit., 136 ss.

12 È questa una peculiarità assai importante del “caso italiano”, messa in evidenza da C. Guarnieri, op. cit., 220 ss., anche attraverso le critiche mosse alle posizioni di G. Maranini (per esse vedi, Storia del potere in Italia, Milano, 1995, 451 ss.).

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coinvolta dalle trasformazioni che intervengono nella fase successiva. Si è parlato in proposito di “un ritorno all’antica penalistica civile quale critica del diritto penale vigente e delle sue funzioni di controllo sociale”13. Di un confluire degli storici approcci liberali, positivisti e socialisti in una comune apertura e sensibilità alla dimensione politica, at- titudine critica e progettuale che aprì un colloquio con il legislatore14. Un’esperienza che resta importantissima, della quale è stato protagonista Franco Bricola15. In una rivisita- zione tra storia e memoria bisogna considerare come quella esperienza si sia consolidata in un contesto nel quale non viene posta in discussione la centralità dell’assetto costi- tuzionale dei poteri. Se non mancarono proiezioni speri- mentali o reminiscenze del socialismo giuridico – penso all’uso alternativo del diritto o alla politica criminale del movimento operaio – il dialogo vide come interlocutore costante il potere politico, i partiti di una democrazia rap- presentativa.

Gli anni ’70 e ’80 sono anche anni della legislazione dell’emergenza.

Una situazione nella quale i discorsi critici nei suoi con- fronti provengono quasi esclusivamente dalla letteratura penalistica.

Si definisce infatti una speciale versione di “democra- zia militante”– da intendersi come ricorso a strumentazio- ni repressive e preventive illiberali in presenza di nemici del sistema democratico – che vede in prima linea anche il PCI. La posizione assunta nel momento cruciale del seque-

13 L. Ferrajoli, Scienze giuridiche, in La cultura italiana del Novecento, a cura di C. Stajano, Roma-Bari, 1996, 591.

14 M. Sbriccoli, op. cit., 543.

15 Ivi, 545 ss.

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stro Moro, da un lato è coerente con l’ortodossia comuni- sta che esclude qualsiasi forza politica collocata a sinistra.

Dall’altro, soprattutto, cementa un’intesa che terrà fino alla seconda Repubblica, tra potere legislativo e giudiziario.

Si realizza però un deciso rafforzamento di quest’ultimo, a cui è assicurato uno strumentario che sarà progressiva- mente allargato a sempre nuove emergenze, rafforzamento accompagnato da una narrativa che ne fa il vero (o l’unico?) protagonista del salvataggio della Repubblica.

Gli ideali del garantismo penale. La conciliabilità tra garantismo penale e democrazia resta tema sul quale con- tinua a persistere quella irrisolta ombra problematica che investe il rapporto tra le istituzioni basate sulla partecipa- zione popolare e l’ideologia liberale. Un terreno nebuloso che, sul piano teorico, e non certo da oggi, si può prestare ad inganni e mistificazioni.

Meglio restare alle cose, ai fatti, agli attori che ho indi- viduato.

Siamo ai confini del periodo: la fase della prima Repub- blica si chiude con il lascito forse più significativo della cul- tura giuridica garantista di quel periodo.

Il codice di procedura accusatorio. Certo perfettibile, ingenuo e farraginoso in alcune parti, in altre già conteneva i presupposti del suo fallimento16.

Al fallimento contribuì in modo decisivo il maggiorita- rio schieramento della Magistratura: al diluvio di questioni di incostituzionalità contribuì il suo rifiuto di percorrere la via di un’interpretazione coerente con i principi che ne avevano ispirato l’impianto. La Corte, d’altra parte, giocò

16 Sempre istruttiva la lettura di M. Nobili, La nuova procedura penale, Bologna, 1989, in particolare 349 ss.

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“di sponda” producendo le famigerate sentenze del 199217 e proseguendo, in quel decennio, nella demolizione del prin- cipio fondamentale di separatezza delle fasi. Da non sotto- valutare poi, al suo interno, quelle posizioni lungimiranti che avevano colto nelle ambiguità del nuovo sistema pro- cessuale ottime possibilità di incrementare le potenzialità e gli spazi operativi delle Procure18.

E già a partire dagli anni ’80 la Magistratura si era schierata compatta contro qualsiasi ipotesi di riforma dell’ordinamento giudiziario volta a marcare la distinzio- ne tra funzione giudicante e requirente: assistemmo così al paradosso della gelosa conservazione di un ordinamen- to pensato per un processo che contemporaneamente si voleva cambiato radicalmente quanto alle garanzie del cittadino. Queste ultime, per altro, non riuscirono ad af- fermarsi, nonostante un referendum, neppure sul terreno della responsabilità civile degli appartenenti all’ordine giudiziario.

Un tabu restò quella del reclutamento, della formazio- ne e, in definitiva, della legittimazione dei giudici: nono- stante l’adozione dell’accusatorio, il modello burocratico di reclutamento indifferenziato quanto alle funzioni, trovò difensori che vi colsero, quasi con orgoglio nazionalistico rispetto al mondo anglosassone, la migliore garanzia da una

“contaminazione” della politica. Quanto alla responsabili- tà, sufficiente la sottoposizione dei provvedimenti alla criti- ca della opinione pubblica19.

17 Allora, P. Ferrua, Studi sul processo penale. II. Anamorfosi del pro- cesso accusatorio, Torino, 1992, 157 ss.

18 G. Colombo, L’acquisizione degli elementi di prova nelle indagini pre- liminari, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 1992, 1298 ss.

19 L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Bari, 1998: sulla irrimediabile e ine-

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È stato, questo, un racconto idealistico, che si rafforzerà sempre più negli anni a seguire, salvo qualche recentissimo ripensamento: sarà l’involucro teorico (il più presentabile?), dello spostamento verso il giudiziario di poteri effettivi (e irresponsabili), via via sottratti al processo decisionale de- mocratico descritto dalla Costituzione vigente.

Che dire infine degli ideali del garantismo penale?

Mi viene in mente un’indimenticabile canzone di Charles Trenet: “que reste-t-il de nos amours…une photo, vieille photo de ma jeunesse”. La foto, questa sì di una penalistica civile, che aveva ben chiara la distinzione tra i poteri, che concepi- va un principio di legalità dominato dalla supremazia della legge (e della subordinazione ad essa del potere giudiziario) e dalla sua procedura di formazione democratica. Una foto che negli anni successivi a quelli esaminati, tenderà sempre più a sbiadirsi: a comparire le immagini di sempre nuovi attori, fonti e linguaggi che legittimerebbero il potere giudiziario.

In relazione al collegamento tra ideali del garantismo e “sinistra politica”, è opportuno soffermarsi sui due con- cetti. Un sistema penale garantista, ed è quello che qui ci interessa, rimanda necessariamente al liberalismo politico:

una ideologia che pone al centro l’individuo e la difesa dei suoi diritti di libertà contro l’esercizio monopolistico della violenza punitiva dello Stato e dei suoi poteri. «In politica, e iniziando dai fondamenti, il problema delle libertà è il problema delle coercizioni, di essere protetti dalla coerci- zione. E quindi la libertà cresce a mano a mano che la co- ercizione diminuisce, e viceversa»20. Garantismo, quindi,

vitabile carenza di legittimazione della funzione giudiziaria, 556-557. Su responsabilità e rapporto con la politica, 607 ss.

20 G. Sartori, The Theory of Democracyrivisited, Chatham, Chatham Hause, 1987, 318.

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come sistema negativo di limiti.

Al declino della accezione classica, e necessariamente classista21, del liberalismo politico, corrisponde, l’affermar- si, con articolazioni variegate, di una nozione di garanti- smo sostanziale, che assume una valenza propositiva: quale assicurazione dell’impegno da parte dello Stato nel perse- guimento di obbiettivi solidaristici, di perequazione socio- economica, di ristoro nei confronti di storiche ingiustizie. È la cruciale esperienza del Novecento.

Ma essa ci mostra come i problemi insorgano quando questo concetto di garantismo “propositivo” si rivolga alla risorsa penale.

Ritengo irrinunciabile questa funzione sociale dello Sta- to, sulla quale si è costruita una faticosa mediazione nella Costituzione e che è costantemente insidiata dalla ripropo- sizione, e, talvolta, dal successo, del neoliberismo (le idee della Mont Pèlerin Society di von Hayek22). A contatto con il diritto penale queste garanzie possono esprimersi, ad esempio ricorrendo anche a quella risorsa, in presenza di gravi aggressioni, a tutela di interessi collettivi scarsamente protetti o trascurati in base alla tradizionale ideologia del laissez faire [ambiente, mercato finanziario, diritto societa- rio etc.]; riducendo l’area del penale quando essa corrispon- da a logiche selettive, discriminatorie in base alle condi- zioni sociali ed economiche [recenti esperienze in tema di diritto dell’immigrazione o di effetti della recidiva].

Ben diverso discorso quando il penale divenga nuo- va pedagogia sociale, strumento per realizzare l’obiettivo

21 Sul tema, di recente, G. Galasso, Liberalismo e democrazia, Roma, 2013.

22 J.W. Mueller, op. cit., 215 ss.

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dell’eguaglianza sostanziale. Si può anzitutto dubitare del successo dell’operazione: è infatti ragionevole prevedere che essa porti solo ad una espansione della penalità che, tutta- via, continuerà a colpire anche i suoi tradizionali destinatari.

Ma, soprattutto, deve restare intatto lo statuto di limite negativo del garantismo penale. Breve: gli obiettivi sociali, economici, solidaristici assunti dallo Stato sono una cosa, i diritti del cittadino di fronte alla sua pretesa punitiva non possono essere influenzati e limitati dalla bontà dello scopo o, peggio, attribuendo loro una funzione perequatrice. Il discorso ci riporta al secondo termine della relazione – alla sinistra politica – e al periodo che ci interessa.

Mi servo della condivisibile tassonomia che conclude un noto pamphlet di Bobbio: in definitiva, è il rapporto con l’e- guaglianza ad individuare il confine tra destra e sinistra23.

All’estrema sinistra sono ricondotti movimenti insie- me autoritari ed egualitari, mentre le posizioni di centro- sinistra (di socialismo liberale) esprimerebbero movimenti insieme egualitari e libertari.

Ebbene, come orientarsi nel nostro periodo?

Le stagioni dell’emergenza che percorrono gli anni ’70 e ’80 non mi sembrano ascrivibili al primo modello, auto- ritario: come già detto, vedono la sinistra coinvolta in una forma particolare di “democrazia militante”, “pronta a ri- spondere al fuoco con il fuoco”, che dal dopoguerra era stata sperimentata soprattutto nella Germania federale24. Non certo trascurabili poi le distinzioni tra la componente socialista e quella comunista, particolarmente evidenti nel caso Moro.

23 N. Bobbio, Destra e sinistra, Roma, 1994, 81.

24 J.-W. Mueller, op. cit., 207.

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In conclusione, attribuire la difesa del garantismo pena- le, genericamente, alla sinistra politica mi sembra sbagliato:

nella nostra vicenda storica la sua componente autoritaria non solo non si è mai dissolta, ma, a differenza di quanto avvenuto altrove, non ha mai fatto i conti fino in fondo con il proprio passato.

A ben vedere i partiti di massa della prima Repubbli- ca erano eredi di culture politiche non, o poco, garantiste – specie il PCI, ma anche la DC e il PSI – il progressivo coinvolgimento nelle istituzioni, specie parlamentari, dove erano presenti illustri esponenti del liberalismo politico (al- cuni dei quali poi assorbiti in quei partiti, ad esempio nella DC) ha un effetto “socializzante”. In altre parole, spinge anche i poco garantisti ad adottare progressivamente alme- no un linguaggio garantista.

Questa situazione verrà meno nella seconda Repubbli- ca. Al drastico rinnovamento della classe politica corri- spose un suo “impoverimento” culturale e una presenza ricorrente di magistrati, soprattutto del Pubblico ministe- ro. La pressione esercitata dai media, connotati dall’utiliz- zo di schemi semplificati e dall’esaltazione delle vittime.

Anche questi fattori hanno contribuito al declino del ga- rantismo.

La successiva vicenda inaugurata da “Mani pulite” vede quindi un progressivo, ulteriore, affievolirsi dello statuto del garantismo penale, con lo stabilizzarsi di emergenze perenni che verranno giocate, da destra e da sinistra, nell’a- cuirsi del conflitto politico.

Uno scenario senza decisiva soluzione di continuità:

come visto il tratto saliente è costituito piuttosto dall’affer- mazione della supremazia del potere giudiziario e dei nuovi attori sulla scena penale [media, associazioni delle vittime

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etc.], sull’onda lunga dell’antiparlamentarismo e dell’eterna utopia della democrazia diretta, del “populismo penale”, insomma.

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Un luogo ricorrente nel discorso pubblico sulla mafia – proveniente dai partiti politici, dalle più disparate as- sociazioni o da singoli opinion maker, da arruffa popolo dell’“antipolitica” etc. – è costituito dall’affermazione del- la inadeguatezza della vigente strumentazione repressiva, della sua mollezza. Ma è un motivo ricorrente anche nella elaborazione delle commissioni istituite in vista di ulteriori interventi legislativi.

Ricco di spunti in tal senso l’elaborato della cd. Com- missione Garofoli1 istituita dal precedente Presidente del consiglio. Senza che mi soffermi sulle molte proposte, nella parte dedicata al “Rafforzamento del sistema di repressione personale”, mi limito ad un aspetto che mi ha particolar- mente colpito.

Si propone un ulteriore incremento sanzionatorio per il reato previsto dall’art. 416bis basato su un affermato difetto punitivo riscontrabile rispetto al delitto associativo in ma- teria di stupefacenti, ma, soprattutto, l’argomento è speso

* Il testo prende spunto dalla relazione al convegno, Ripensare l’an- timafia. Nuovi contenuti per le sfide del futuro. Palermo 4-5 aprile 2014 or- ganizzato da Università di Palermo-Dipartimento di studi europei e della integrazione internazionale. È pubblicato in Indice Penale, 2014, 361 ss. con il titolo Antimafia: ieri, oggi, domani.

1 Rintracciabile in www.penalecontemporaneo.it, 24 febbraio 2014.

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considerando come, quando capi e organizzatori non ri- spondano dei reati fine, possa accadere che, espiata la pena [e aggiungiamo, la misura di sicurezza], possano riprendere l’attività criminosa. Non sono in grado di verificare la fon- datezza empirica dell’ipotesi: è evidente tuttavia che essa non può che orientare verso la previsione di pene perpetue, per tipo di autore.

Ma ora, occupandomi del discorso pubblico sull’inade- guatezza del sistema repressivo, mi soffermerei su un altro aspetto. Quello dei dati a supporto della permanente emer- genza mafiosa.

Mi riferisco anzitutto a quelli di natura economica [inci- denza sul Pil, sviluppo differenziato tra Nord e Sud etc.], ri- presi nella relazione della commissione che ho richiamato, ma che accompagnano continuamente la narrativa di cui ci occupiamo. Ebbene se quelli pertinenti alla entità delle con- fische di prevenzione e di quelle “allargate” ex art. 12sexies D.L. 306/19922, possono costituire un dato numerico preci- so e, mi sembra, rilevante nella direzione della effettività di quegli strumenti, non altrettanto può dirsi a proposito dei criteri adottati nella formulazione di proiezioni a supporto della permanente necessità di “alzare la guardia”.

A proposito di dati, voglio sottolineare come costante- mente rimosso sia quello corrispondente ad un assai con- vincente modello criminologico basato sui rapporti tra situazione economica, incarcerazioni, omicidi e allarme sociale3.

2 1.152.668.541 di euro quanto alle prime, 34.847.234 di euro dalle seconde nel 2012.

3 “Un aumento del tasso di omicidi in un dato periodo, oltre ad essere causa dell’allarme sociale in sé, viene comunque iscritto all’interno di un fra- me, cioè di una cornice, che ne dà in qualche modo ragione, costruendo una

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Nel 2012 in Italia si sono registrati 526 omicidi dolosi. Il numero più basso dall’Unità. Dal 1980 il numero degli omi- cidi è sceso del 67,8%, l’indice è di 1 omicidio ogni 100.000 abitanti. Quello medio europeo è quasi il doppio: 1,9. Di questi 526 omicidi, 159 vedono come vittime le donne e 175 si consumano tra le mura domestiche. Omicidi ascrivibili alla criminalità mafiosa [mafia, camorra, n’drangheta, sacra corona unita] sono 84 [dati del rapporto luglio 2013 Eures- Ansa]. Sulla base delle stime dei primi otto mesi del 2013, quell’anno dovrebbe chiudersi con un’ulteriore diminuzio- ne [480].

In definitiva: la mafia non può certamente dirsi sconfit- ta, con linguaggio bellico, ma non ha neppure vinto4.

Anche in questo caso bisogna provare a guardare le cose dall’alto: muovere lo sguardo critico sul panorama che si siamo lasciati alle spalle, giunti, dopo una lunga cammi- nata, sul crinale affacciato su di un territorio nel quale si vorrebbero collocare sempre nuove leggi penali antimafia.

Questo il paesaggio: dopo la legge Rognoni-La Torre vi è stato un ininterrotto fluire di interventi normativi volti a potenziare l’apparato repressivo e preventivo nei confronti della criminalità mafiosa. Come è noto, la scelta di fondo che ha caratterizzato la strategia politico-criminale di con-

situazione di emergenza, una causa di allarme sociale…al quale le autorità politiche e giudiziarie non possono fare a meno di rispondere se non con un intensificarsi della repressione penale”, D. Melossi, Andamento economico, incarcerazione, omicidi e allarme sociale in Italia: 1863-1994, in Storia d’Ita- lia, Annali 12, La Criminalità, a cura di L. Violante, Torino, 1997, 57.

4 In questo senso S. Lupo, L’evoluzione di cosa nostra: famiglia, terri- torio, mercati, alleanze, in Quest. Giustizia, 2002, 499 ss.; si veda anche, sulla efficacia e i risultati ottenuti dalle politiche di contrasto antimafia, A. La Spina, Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Bologna, 2005, e, di recente, S. Lupo-G. Fiandaca, La mafia non ha vinto, Bari, 2014.

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trasto si è basata sul cd. doppio binario. Con ciò deve inten- dersi la differenziazione degli strumenti di diritto penale sostanziale, processuale e penitenziario5.

È questa la logica che ha connotato la cd. legislazione dell’emergenza, giustificata dalla virulenza delle manifesta- zioni della criminalità mafiosa.

La soluzione del “doppio binario”, guidata prevalente- mente da strategie derogatorie nel processo e in fase esecu- tiva, avrebbe dovuto avere uno stretto legame con il tempo.

Anche se lo stile della relazione con esso non può essere quello della stabilità rituale del modello codicistico classi- co6, non si dovrebbe rinunciare all’idea di un termine tem- porale, da individuare commisurando gli indicatori fattuali dell’emergenza7. Si può dire che questo (troppo?) ragione- vole modello teorico, non ha affatto corrisposto all’evolver- si della situazione. Si può parlare, infatti, di un insediamen- to permanente di un diritto penale differenziato, di lotta che si basa su alcuni postulati: la possibilità di riespandere le garanzie si può dare solo in presenza della dimostrata sconfitta definitiva del nemico; anche di fronte a indicatori empirici contrastanti rispetto alle stagioni più virulente del fenomeno, non si può “abbassare la guardia”. Al contrario ci si troverebbe in una pericolosa fase di quiescente sua ri- organizzazione. Ma vi è un altro aspetto. Nell’esaminare i

5 Sul tema vi è un’ampia bibliografia, mi limito a ricordare Aa.Vv., Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, Bari, 1993; G.

Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, Bologna, 1996; Aa.Vv., Cri- minalità organizzata e risposte ordinamentali, a cura di S. Moccia, Napoli, 1999; S. Moccia, La perenne emergenza, 2°, Napoli, 2000.

6 A. Baratta, Prefazione a S. Moccia, La perenne emergenza, cit., XIX.

7 Così G. Fiandaca, Modelli di processo e scopi della giustizia penale, in Foro it., 1992, I, 2024.

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caratteri originari e quelli permanenti del sistema penale italiano, a proposito della legislazione dell’emergenza, si è infatti notato come essa non corrisponda ai modelli storici dei provvedimenti di emergenza.

Il suo profilo non ci conduce ad un carattere originario del sistema: per la penalistica classica quei provvedimenti valevano a conservare indenne il nucleo del diritto penale del codice. L’esperienza recente dell’emergenza ha invece condotto ad una sua emarginazione e ad una espansione delle logiche dell’eccezione8. L’irresistibile espansione del

“doppio binario” a settori sempre più vasti di criminalità ha come vettori alcune norme processuali che fungono da

“polmoni” della sua stabilizzazione nel sistema [art. 51, comma 3bis, art. 407, art. 275 cpp,], con una eterogenesi di fini che è stata recentemente stigmatizzata dalla Corte costituzionale [n. 57/2013]. Se poi si esamina il sistema di giustizia penale nelle sue strutture istituzionali e organizza- tive, il doppio binario si coglie anche nel parallelo operare, a fianco del percorso ordinario dell’ufficio di procura, del- le carriere interne alle DDA e alla DNA. Nelle decisioni concernenti gli uffici direttivi esse potranno avere un peso, comunque sempre gestito dal contesto degli equilibri di corrente. Ulteriore discorso riguarda poi gli incarichi o le

“carriere” extragiudiziarie, con alcuni esempi molto evi- denti.

L’esperienza legislativa più recente ha visto affermarsi, accanto alla tradizionale nozione di ordine pubblico, il con- cetto di sicurezza. I c.d. “pacchetti sicurezza” scandiscono

8 M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema pe- nale italiano (1860-1990), in Storia d’Italia, Annali 14, a cura di L. Violante, Torino, 1998, 538.

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ormai l’iniziativa politica, con una metamorfosi dello Stato di diritto in Stato di prevenzione, si è detto9. Alle più dispa- rate domande di sicurezza, le agenzie politiche rispondono con soluzioni penalistiche10.

9 M. Donini, Sicurezza e diritto penale, in Cass. pen., 2008, 3558.

10 Il linguaggio dello Stato di prevenzione non è comprensibile ad una dogmatica costituzionalmente orientata. La legislazione dei pacchetti sicu- rezza compulsivamente, sostituisce un diritto penale di autore a quello del fatto, presunzioni di colpevolezza al dettato dell’art. 27, 2º comma Cost., la sirena predittiva della pericolosità sociale al paradigma della responsa- bilità, l’incapacitazione a qualsiasi credibile finalismo della pena [riferita espressamente alla sicurezza questa sequenza di provvedimenti e iniziative legislative: Legge n. 128 del 26 marzo 2001 “Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 91 del 19 aprile 2001; d.l. n. 181 del 1 novembre 2007 “Disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica si- curezza”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 255 del 2 novembre 2007 (esso – decaduto per mancata conversione in legge – rappresentava uno ‘stralcio’

del più vasto progetto del Governo sulla sicurezza, costituito da cinque di- segni di legge, mai sottoposti all’esame parlamentare per la fine anticipata della legislatura; le disposizioni del provvedimento erano state riproposte con il D.L. 29 dicembre 2007, n. 249, anch’esso decaduto per mancata con- versione in legge); d.l. n. 92 del 23 maggio 2008 “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 122 del 26 maggio 2008 (Convertito in Legge n. 125 del 24 luglio 2008 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 173 del 25 luglio 2008); d.l. n. 11 del 23 febbraio 2009 “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24 febbraio 2009 (Convertito in Legge n. 38 del 23 aprile 2009 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2009); Legge 15 luglio 2009 n. 94 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 170 del 24 luglio 2009. A questi interventi devono poi affiancarsi altre novelle in parte co- munque ispirate alla tutela della sicurezza, cfr. Aa.Vv., La legislazione penale compulsiva, a cura di G. Insolera, Padova, 2006.

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In questo contesto i nuovi interventi normativi in tema di mafia e criminalità organizzata costituiscono da anni una sorta di coro che accompagna leggi con contenuti e finalità spesso disparati. Ciò ha fatto pensare che, ormai da anni, questa convulsa legislazione penale costituisca una operazio- ne di marketing politico: gli interventi in nome della lotta alla criminalità mafiosa costituiscono l’involucro che consente di smerciare meglio prodotti eterogenei, guasti e contraffatti.

Una confezione che è stata usata per la cd. ex Cirielli [in modo evidente], e per le leggi n. 125/2008 e n. 94/2009.

Il nastrino colorato è costituito dalla reiterazione degli au- menti di pena per l’art. 416bis.

Eccettuando il sistema delle misure di prevenzione [a cui è dedicato il cd. Codice antimafia, D.lgs. n. 159/2011], non affrontato in queste brevi riflessioni, della cui effettivi- tà non è lecito dubitare, come invece si deve fare a proposi- to della sua conformità ai principi costituzionali, si confer- ma così una prevalente funzione mediatica degli interventi, di produzione di consenso [e di potenzialità espansive di una penalità differenziata]. Un campo sul quale l’accordo tra forze politiche, sempre più in affanno nella ricerca di consenso, può apparire facile e scontato.

Post scriptum

Lo strumentale incremento della normativa antimafia non ha avuto battute di arresto, sotto tutti i cieli della politica. Per un aggiornamento rinvio a G. Insolera-T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019.

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Una parola. Si può dire che il lemma Antimafia abbia percorso le vicende siciliane e italiane parallelamente all’af- fermarsi, nel discorso pubblico, della questione della delin- quenza mafiosa1.

Questo è avvenuto, quanto meno, dalla seconda metà dell’Ottocento2.

È tuttavia dagli ultimi due decenni del Novecento che al termine, progressivamente, si affida il compito di connotare una realtà assai più complessa rispetto a quella degli stru- menti normativi di contrasto, amministrativi, di polizia, preventivi e penalistici in senso stretto, da rivolgere contro

* Il testo riprende l’articolo Guardando nel caleidoscopio: Antimafia, antipolitica, Potere giudiziario, in Indice penale, 2015, 223 ss.

1 Per una, tra le molte ricostruzioni storiche, rimando a S. Lupo, Sto- ria della mafia, Roma, 2004 e alla sua amplia bibliografia. L’autore fa prece- dere la sua ricerca da una interessante premessa sulla polisemia della parola Mafia: “È difficile individuare un argomento, una tipologia o successione di fenomeni tra loro omogenei da raccogliere sotto la voce mafia; ed è altrettanto difficile sfuggire all’impressione che sia proprio questa latitudine e indetermi- natezza dei campi di applicazione a farne la fortuna” (p. 11).

2 Recentissima la pubblicazione di una ricerca storica che fa risali- re al periodo immediatamente post-unitario gli intrecci tra varie forme di crimine organizzato e nuova classe politica, F. Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, Torino, 2015. Si veda anche l’ampia recensione di P. Mieli, I primi patti con la Mafia, in Corriere della sera, 25 agosto 2015.

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organizzazioni criminali determinate da un punto di vista territoriale, storico e sociologico3.

Questa osservazione riguarda l’allargamento della parte

“mafia” del lemma composto. L’espansione del concetto, fin dall’entrata in vigore dell’art. 416bis c.p., si sosteneva sul riferimento al metodo di cui al 3° comma e sulla clausola non nominalistica dell’ultimo comma4.

Ciò che mi interessa qui è però soprattutto l’“anti”. È infatti dallo scorcio temporale che ho indicato, che la paro- la [Antimafia] si congeda dal solo campo – per altro, come sappiamo mai dismesso, ma, al contrario, arato ininterrot- tamente fino ad oggi – delle risposte legislative di contrasto nei confronti di un fenomeno criminale che in quegli anni [in particolare nell’operato di Cosa nostra], aveva assunto dimensioni, audacia e ferocia intollerabili (omicidi di ma- gistrati e agenti e funzionari di polizia, di uomini politici, fino all’adozione di tecniche e obiettivi terroristici)5.

Antimafia, progressivamente connota qualcosa di molto più vasto. Anzitutto un dover essere della politica.

La ponderazione tra istanze di garanzia del diritto pe- nale6 e prospettate necessità di Antimafia, deve sempre ve-

3 Come è noto una traiettoria che si è mossa dal coinvolgimento di altre “storiche” aggregazioni criminali del Sud Italia, per investire anche organizzazioni straniere, fino ad esperienze “delocalizzate” e, infine, a so- dalizi politico-affaristici.

4 Progressivamente si è inserito nel testo il riferimento alle associa- zioni anche straniere (2008) e alla ’ndrangheta (2010).

5 È di quegli anni la creazione di un necessario “doppio binario”

processuale e penitenziario. Per uno sguardo di sintesi, G. Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, Bologna, 1996, 23 ss.

6 Anzitutto processuali e penitenziarie, ma anche sostanziali: penso alle connotazioni riguardanti i requisiti di proporzionalità e funzione della pena.

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dere sospette e perdenti le prime.

L’intreccio tra mafia e politica in Sicilia, dal secondo do- poguerra aveva alimentato il racconto di autori, giornalisti e politici coraggiosi7. Una trama che si voleva far culminare con il processo ad Andreotti. E che dal suo esito non è stata smentita; quella vicenda giudiziaria ha infatti dimostrato, se ce ne fosse bisogno, la distanza che separa (che deve se- parare) la ricostruzione storica da quella giudiziaria.

Ma le forze politiche della seconda Repubblica hanno dovuto adeguarsi ad una sorta di sequel permanente: carte in regola, legittimazione e presentabiltà di propri esponen- ti, impongono un articolo di fede, una “rinuncia a satana”

che si condensa nella parola di cui ci occupiamo. Quanto agli attori, Antimafia, non esprime così solo decisioni le- gislative in campo penale, amministrativo e di law enfor- cement: quelle decisioni sono infatti determinate da un circuito molto più vasto di protagonisti. Oggi, inoltre – e questo è il dato più rilevante – i nuovi attori, sempre più spesso, si propongono in termini di aperto antagonismo nei confronti della classe politica. Come dirò tra poco, tra gli argomenti forti della sua delegittimazione, accanto a corru- zione, venalità, dissipazione di risorse pubbliche, possono stare anche incertezze o tentennamenti garantistici nei con- fronti di Antimafia8.

7 Mi viene subito in mente l’opera di Leonardo Sciascia. E il gran film di F. Rosi, Salvatore Giuliano (sia consentito rinviare al mio Salvatore Giuliano (Francesco Rosi) un film ed un processo italiani, in Crit. Dir. 2005, 364 ss.).

8 E qui è possibile cogliere una sostanziale differenza con le vicen- de della lotta al terrorismo: la mobilitazione che, anche in quel caso, ebbe come protagonisti alcuni magistrati, con una diretta esposizione mediatica, restò all’interno della dialettica tra i partiti politici.

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Pronta è l’invettiva delatoria e infamante, che rischiando di bruciare le chances di consenso di formazioni politiche ancora inscritte nella logica di una democrazia rappresen- tativa, sono trepidanti di fronte ad ogni scadenza elettorale.

Un circuito vasto quello che determina quali siano le

“carte in regola” dell’Antimafia, dicevo. Agli attori della

“società civile”9 (in cui si inscrive l’ambigua fisionomia dei

“movimenti”) che ritroviamo nelle continue liturgie memo- rialistiche e pedagogiche, si possono affiancare momenti isti- tuzionali [commissione antimafia], alcuni politici che su An- timafia hanno costruito il loro profilo, i media [le principali testate a stampa, ovvero organi, come “Il Fatto quotidiano”

che, sulla “poetica” congiunta di Antimafia e Antipolitica, ha confezionato il suo abito, con sullo sfondo il fascino intra- montabile delle teorie del complotto]. Da non trascurare le rappresentazioni letterarie, cinematografiche e televisive che, a volte, hanno fatto la fortuna di autori e interpreti10.

9 Una osservazione questa che non vuole metter in discussione l’im- portanza decisiva che, nel contrasto della delinquenza di tipo mafioso, con- tinua ad avere l’impegno e il sostegno alle popolazioni soggette a violenze e a odiose prevaricazioni. Sulle incertezze che, oggi più che mai, gravitano attorno alla invocazione salvifica della “società civile” contro la politica im- presentabile, richiamo alcune mie osservazioni di qualche anno fa a proposi- to della contrapposizione tra partiti politici e sfera pubblica (Il buon re Artù, la fata Morgana e i cavalieri della Tavola rotonda, in Crit. Dir. 1998, 328 ss.

10 Mi torna alla mente il saggio di R. Zaffaroni, principalmente rife- ribile all’esperienza americana, Il crimine organizzato: una categorizzazione fallita in Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, a cura di S. Moc- cia, Napoli 1999, 63 ss. Tra le sue conclusioni: da una parte “Nessuno dubi- ta dell’esistenza di associazioni illecite, associazioni per delinquere, gruppi o bande”, dall’altra “Il ‘mito mafioso’ esteso a tutte le attività illegali nel mercato è una teoria cospirativa scientificamente falsa, sostenuta dai mass-media, dal clientelismo politico e dalle polizie, che la criminologia si sforzò di elabora- re, non riuscendovi, nonostante che ciò sarebbe piaciuto a molti criminologi”

(p. 90). “Il crimine risulta in pratica indistinguibile dalla sua rappresentazione,

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E poi la rete: ultimo travestimento del demone rousso- iano11, ahinoi risorto dalle macerie prodotte. Non mi sono dimenticato di quanto, nel definire l’essere antimafia, gio- chino gli interventi della magistratura. Di singoli, del suo organo di autogoverno, del suo sindacato. Come vedremo, in questo ambito, i tanti attori sopra individuati forniscono un supporto incondizionato all’egemonia assunta dal pote- re giudiziario nella definizione delle politiche penali.

Uno scenario che compare anche nello sfondo di quello che, di recente, e in chiave generale, è stato definito un au- toritarismo ben intenzionato, che ha fatto da contrappunto alla storia della nostra giustizia penale, dalla crisi della pri- ma Repubblica12. Se ne parla in un saggio acuto, come al solito, dedicato ai rapporti tra principio di legalità e ruolo della giurisprudenza: un rapporto sempre più influenzato dalle “luci abbaglianti del moralismo giuridico”13.

sorta di fantastico schermo su cui si proiettano le ansie sociali e le inquietudini culturali di una società”. Così esordisce F. Benigno, op. cit., VIII, nella sua ricerca sul crimine organizzato e sui suoi rapporti con la politica, nella se- conda parte del secolo XIX.

11 Ancora L. Sciascia, su Rousseau e Voltaire: “E a prima vista la rotta di Rousseau sembra la più vasta, la più sconfinata, la più promettente; e cer- tamente la più affascinante. Ma non è quella che è stata percorsa già? Non è quella del romanticismo, della “volontà generale”, della parte maggiore del tutto, degli “ismi” micidiali? Cerchiamo di fare bene i conti. E se anche di Voltaire non ci resta molto, anche se soltanto ci restano i racconti; le pagine sul caso Calas, un mucchietto di lettere, questo poco teniamocelo. A questo poco afferriamoci. O andremo a fondo con Le confessioni e l’Emilio di Rousseau appesi al collo” in Nero su nero, Torino, 1979, 201. Una pagina di un formi- dabile diario intellettuale del decennio 1969-79.

12 D. Pulitanò, Crisi della legalità e confronto con la giurisprudenza, in Riv. It. dir. proc. pen., 2015, 53.

13 L. Violante, in Magistrati, Torino, 2009, richiamato da D. Pulitanò, op. ult. cit., 54. A questo tema è dedicato anche il recente saggio di M. Do- nini, Il diritto penale come etica pubblica, Modena, 2014.

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Ma Antimafia, nelle forme che ho provato a descrivere, sembrerebbe sfuggire anche alla dimensione moralistica, se pure impropriamente affidata al potere giudiziario: istanza che, in tal caso, si vuole, comunque, sincera, reale [ben in- tenzionata].

Prendendo spunto da recenti vicende si vedrebbero all’opera “impostori della morale”: “tratti inequivocabili di grande impostura sono, senz’altro rinvenibili nella cosid- detta antimafia di facciata e strumentale o di carriera”14.

E si è quasi obbligati a ricordare la questione dei “pro- fessionisti dell’antimafia”, e Fiandaca lo fa, e ancora una volta tornare a Sciascia che, in quel modo, si condannò all’oblio e all’isolamento da parte della stragrande mag- gioranza dell’intellighenzia politicamente impegnata della

“società civile”15.

14 G. Fiandaca, Contro i finti paladini della morale, in Il foglio, 28 lu- glio, 2015.

15 Come è noto la questione nacque per un articolo di Sciascia, com- parso su Corriere della sera del 10 gennaio 1987. Lo scrittore, a proposito della deroga operata dal Consiglio superiore della magistratura ai consue- ti criteri (di anzianità) per l’assegnazione del ruolo di capo della Procura di Marsala in favore di Paolo Borsellino e ciò in ragione della specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata, manifestava perplessità. Ciò non certo nel contesto di una cro- naca dedicata al tema, ma con il respiro che gli era proprio, commentando l’opera di uno storico inglese che aveva ricondotto la dura lotta alla mafia intrapresa durante il fascismo a logiche di potere interne al regime. E quello scavalcamento operato dal CSM aveva acceso il timore dell’antimafia come strumento di potere “che può benissimo accadere anche in un sistema demo- cratico, retorica aiutando e critica mancando”.

Sciascia chiarì in un articolo comparso sullo stesso quotidiano (il 26 gennaio 1987) come avesse grande stima di quel magistrato e oggetto delle sue considerazioni fosse il metodo adottato dal CSM, ma, forse, soprattutto le motivazioni proposte da quell’organo: in ciò c’era tutto il suo gusto per una ironica filologia di tutte le espressioni di potere.

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Forse, allora, aveva visto giusto quel grandissimo sicilia- no, scrittore e autentico moralista16, che alla lotta alla mafia aveva dedicato il senso e l’opera di una vita, ben conoscen- do, tuttavia, l’essenza e la insidiosa attitudine camaleontica della mafiosità. Le immagini sono quelle del caleidoscopio:

i colori, le cose, i fatti cambiano di posizione, anche in con- seguenza di piccoli movimenti.

Sarebbe necessario, quindi, “ripensare l’Antimafia”. Al- zare voci che propongano interpretazioni storiche, giuridi- che e giudiziarie capaci di interrompere il percorso meta- storico di quella che è divenuta una categoria dello spirito:

il discrimine politico che non tollera distinguo, gettando nel fango ogni ragionante ricerca di verità17.

O da una parte o dall’altra!18

Ancora le cangianti immagini del caleidoscopio: quelle che si compongono oggi, a quasi trent’anni dall’inizio del viaggio di Antimafia; affiancano alla istanza preventiva e repressiva contro il fenomeno criminale, altre tinte forti: la sfiducia nella democrazia parlamentare, nel liberalismo, la presunzione di corruzione morale di tutta la classe politica.

Quello che, qualche anno fa, poteva essere osservato come

16 A quella grande tradizione letteraria, “fortunatamente in via di estinzione” si ascriveva ironicamente Sciascia, op. cit., 51.

17 “Nei prossimi anni, qualsiasi cosa accada, gli opinion makers conti- nueranno imperterriti nella celebrazione della invincibilità della mafia”, così conclude S. Lupo, in G. Fiandaca-S. Lupo, La mafia non ha vinto. Nel labi- rinto della trattativa, Bari, 2014, 66.

18 In rete si possono rintracciare i passaggi della violenta campagna intrapresa dal Fatto quotidiano e, in particolare, dal suo direttore, contro Giovanni Fiandaca. E viene in mente ancora Sciascia, quando ai dubbi sull’antimafia affiancò quelli dell’Affaire Moro. In quel caso almeno la po- lemica non solo fu più garbata, ma fu con Scalfari, già consacrato guru del giornalismo. Se ne parla in Nero etc., cit., 233 ss.

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un segmento di “diritto penale del nemico”19, ha subito una mutazione.

Antimafia riconduce ad unità una questione criminale20 e la “questione morale”, per usare un vecchio, sfortunato, slogan politico21.

La positiva diversità di uno schieramento, infatti, non si è proprio affermata: è la politica tutta che si vuole preci- pitare nel gorgo. E Antimafia è diventato uno dei bastioni dell’antipolitica.

Anatomia del potere giudiziario: fino ad ora, ragionan- do attorno ad una parola ho tentato di descrivere l’affer- marsi, nel discorso pubblico, di un’idea, di un modo di es- sere e di intendere la politica, che la influenza e finisce con determinarne i contenuti. Provo ora ad individuare i tratti degli attori e mi soffermo sul tema della politica criminale antimafia.

Questa la mia tesi: Antimafia è stato il laboratorio che, nello scorcio temporale indicato, ha visto lo sviluppo di un progressivo spostamento nelle mani del potere giudiziario, con la preminente voce della magistratura requirente, delle strategie di politica criminale e delle conseguenti opzioni penalistiche.

Lo scenario attuale non ci consegna tuttavia un ritorno

19 Sul tema M. Donini, Diritto penale di lotta. Ciò che il dibattito sul diritto penale del nemico non deve limitarsi ad esorcizzare, in Studi sulla Que- stione criminale, vol. 2°, 2007, 55 ss.

20 Voglio chiarire ai miei quattro lettori che, a proposito di mafia e criminalità organizzata, la sussistenza di una grave questione criminale non può essere messa in dubbio.

21 Mi riferisco evidentemente alla intervista ad Enrico Berlinguer rac- colta da Eugenio Scalfari e comparsa sulla Repubblica del 28 luglio 1981, nella quale il leader del PCI immaginò una differenza “antropologica” che avrebbe distinto i comunisti dagli altri partiti.

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di élite, provenienti anche dal potere giudiziario, che si rap- portano con la politica rappresentata in Parlamento.

È il potere giudiziario che direttamente fa azione poli- tica mettendo in campo un formidabile armamentario di strumenti invasivi e coercitivi delle libertà individuali.

Si tratta dell’assunzione di poteri, nei fatti sovraordinati e capaci di tenere perennemente in scacco gli altri poteri, a cui corrisponde un pervicace rifiuto di qualsiasi forma di controllo e di stigmatizzazione che non provengano dal proprio ordine. All’azione politica non corrisponde alcun contrappeso o verifica. È un potere irresponsabile.

E sarebbe un paradosso identificare nel potere giudizia- rio una élite tecnica nel momento in cui si vogliono mollare tutti gli ormeggi che lo subordinavano al legislatore.

Ma l’attuale estrema debolezza di quest’ultimo ci ha mostrato invece una singolare equiparazione tra la guida tecnica accettata sui temi economici e quella riconosciuta, o subita, dando voce decisiva ai magistrati associati o singoli sui provvedimenti portati dal governo in tema di giustizia.

Un potere diffuso, ma coeso, che, se trova dei limiti, sono quelli che si autoimpone22. Quindi Antimafia come laboratorio di quello che è un più generale spostamento di poteri nelle mani degli uffici di Procura.

Alcuni assiomi.

L’insostenibile peso delle indagini preliminari e del conseguente potere dell’ufficio di Procura. Nel contesto at- tuale sono gli uffici di Procura a disporre di un formidabile armamentario per infliggere penalità effettiva. Ciò è dipeso da molteplici fattori: debolezze e ingenuità già rinvenibili

22 Su questi temi rinvio al mio, Qualche riflessione e una domanda sulla legalità penale nell’epoca dei giudici, in Criminalia, 2012, 285 ss.

Riferimenti

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