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L Accademia di Belle Arti Fidia

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Academic year: 2022

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L’Accademia di Belle Arti

“Fidia”

Master annuale di I livello in

“Tecnologie a supporto dell’insegnante di sostegno e della didattica inclusiva”

Impegno complessivo 1500 ore - 60 CFU

Anno accademico 2018/2019

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MODULO II

ADOLESCENTI CON DISABILITA’

INTELLETTIVE: ASPETTI EMOTIVI, COGNITIVI E MOTIVAZIONALI

1. Disabilita’ Intellettiva: Riconoscimento e Caratteristiche

2. Memoria e apprendimento nella disabilita’ intellettiva

3. La rieducazione neuropsicologico-cognitiva nel ritardo mentale

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Introduzione

L’espressione ritardo mentale ha sottolineato per molto tempo la condizione di alcuni individui il cui sviluppo è caratterizzato da un ritmo più lento di quello tipico; da dieci anni a questa parte, tuttavia, è stata soppiantato dal termine disabilità intellettiva, che è stato accettato e condiviso dalla comunità scientifica.

In effetti non si tratta di una distinzione meramente terminologica, poiché le due rivelano una profonda differenza teorica e culturale che si ripercuote inevitabilmente sulle procedure diagnostiche e di valutazione.

Si è passati cioè dal identificare un deficit “…..unicamente dalle prestazioni deficitarie in termini di intelligenza misurate con testi intellettivi standardizzati parentesi ritardo mentale), ad una definizione multidimensionale ad un approccio bio-psico-sociale in cui fattori individuali concorrono con quelli culturali e sociali”.(Zambotti, 2014) Sul piano operativo è utile aver presente prima il ritardo e poi, a parità di ritardo medio, il profilo cognitivo qualitativamente diverso. Per non ignorarlo si parla di ritardo (espressione preferita a quelle usate in passato di debolezza o deficienza o insufficienza mentale, al fine di evidenziare che almeno le prime tappe dello sviluppo, cioè quelle raggiungibili di norma nei primi sei anni di vita, vengono comunque raggiunte, anche se in tempi più lunghi).

Può essere opportuno cercare di distinguere “disabilità intellettive” da “disabilità cognitive”. Con l’ultima espressione ci si riferisce a qualcosa di più ampio, in quanto si considerano anche disabilità non intellettive, come le

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“learning disabilities” o “learning disorders” (disturbi di apprendimento, nella prassi italiana) o le carenze cognitive tipiche di individui con sindrome di Asperger (detti anche, semplificando molto, autistici intelligenti) e normale intelligenza.

Analogamente non ci sono dubbi che disturbi dell’attenzione, della capacità di concentrarsi e di memoria siano disabilità cognitive. Non sempre esse sono disabilità intellettive, in quanto non sempre comportano prestazioni inferiori in test di intelligenza.

Infine possiamo sottolineare che anche le disabilità sensoriali potrebbero rientrare nelle disabilità cognitive, ma non in quelle intellettive, in quanto comportano carenze nelle conoscenze percettive.

Sempre più utilizzata è l’espressione disabilità intellettive (intellectual disabilities). Allo stato attuale il suo uso non è normato o condiviso dalla maggioranza degli esperti e sono quindi possibili usi semantici diversi.

Ne consideriamo tre:

1) In un suo significato molto ampio con “disabilità intellettive” ci si riferisce ad ogni forma di carenza, lieve o grave, insorta prima dei 18 anni o anche dopo (disabilità acquisita, ad esempio a causa di un incidente automobilistico o per demenza).

2) In un suo significato più ristretto si preferisce non considerare le disabilità acquisite e, analogamente alla definizione di ritardo mentale, ci si riferisce solo alle disabilità intellettive che insorgono prima dei 18 anni e comportano anche difficoltà adattive. A differenza del ritardo mentale sono tuttavia considerate anche disabilità intellettive

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lievi, come quelle che emergono con prestazioni in test di intelligenza con QI compresi fra 71 circa e 85 circa, di norma classificate nel funzionamento intellettivo limite.

3) In un suo significato ancor più ristretto l’espressione

“disabilità intellettive” vuole sostituire integralmente l’espressione ritardo mentale, in quanto ritenuto più adeguata a descrivere esattamente gli stessi fenomeni.

Da alcuni anni si sta diffondendo l’utilizzazione dell’espressione diversamente abile. L’avverbio diversamente pone l’enfasi sulla differenza qualitativa nell’uso delle abilità. Esso viene utilizzato per specificare che attraverso modalità diverse si raggiungono gli stessi obiettivi. Vi sono delle situazioni di disabilità in cui questo uso può essere adeguato. Ad esempio allievi non vedenti o ipovedenti possono raggiungere lo stesso adeguati risultati scolastici e sociali utilizzando le risorse visive residue (potenziate con adeguati strumenti) o abilità compensative ( ad esempio quelle verbali). Vi sono altre situazioni, come quelle riguardanti due terzi di tutti gli allievi certificati e cioè quelli con ritardo mentale, in cui l’uso della terminologia diversamente abile può risultare fuorviante.

Consideriamo il caso di un tipico allievo con sindrome di Down. Dal punto di vista della qualità della vita forse si può anche dire che utilizzando le proprie capacità (o abilità) egli può comunque raggiungere obiettivi paragonabili a quelli di tutte le altre persone. In altre parole, può raggiungere un benessere che non può essere considerato inferiore. Se questo è il riferimento, l’espressione diversamente abile potrebbe anche essere utilizzata. Se il riferimento diventa invece quello delle prestazioni scolastiche, sociali e di

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autonomia, l’espressione diversamente abile può risultare ingannevole, in quanto “nasconde” il fatto che tali prestazioni sono inferiori rispetto a quelle tipiche della normalità.

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CAPITOLO I

Disabilità intellettiva: riconoscimento e caratteristiche

1.1 Cenni storici

In Italia verso la fine del XIX secolo e la prima parte del XX secolo l’educazione dei portatori di handicap era affidata a strutture specializzate gestite dai Comuni.

La formazione scolastica di questi bambini non era ancora garantita dallo Stato ma da associazioni religiose ed organizzazioni private.

Con la Riforma Gentile del 1923 furono istituite nelle scuole elementari le “classi differenziali” per gli alunni con anormalità di sviluppo. Dieci anni dopo nacquero le scuole speciali per affetti da malattie contagiose, fanciulli anormali e minorati fisici.

Solo grazie al nuovo sistema educativo elaborato dalla famosa pedagogista marchigiana Maria Montessori fu dato ampio spazio all’educazione dei bambini portatori di handicap all’interno della scuola ortofrenica di Roma.

Il riscatto sociale per i diversamente abili arrivò con la Costituzione della Repubblica Italiana che con gli articoli n.

3, n. 30 e n. 34 stabilì l’uguaglianza e il diritto allo studio per tutti i cittadini, definendo i compiti dello Stato nel rimuovere ogni tipo di ostacolo che non consenta al cittadino la sua piena affermazione.

In seguito alla Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959 in Italia si susseguirono una serie di interventi rivolti ai diversamente abili contribuendo alla diffusione delle scuole speciali per gli irrecuperabili e delle classi differenziali per i corrigendi. In tal modo fu confermata la logica della

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separazione dell’alunno disabile-malato dall’alunno normale- sano.

L'inserimento degli alunni diversamente abili nelle classi comuni avviene, finalmente, con la Legge 30 marzo 1971, n.

118: l’istruzione dell’obbligo degli alunni in situazione di handicap deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali.”

L’ art. 28 è destinato ad ispirare una lunga stagione legislativa a tutela del diritto all’educazione e all’istruzione degli alunni in situazione di handicap nelle sezioni e classi comuni di ogni ordine e grado, che trova la sua formulazione più esaustiva nell’enunciato contenuto all’art. 12, comma 2 della Legge n. 104/1992 . Infatti, nel 1975 con la Relazione Falcucci vengono fuori le carenze della L. 118/71 e si avvia una reale integrazione scolastica degli alunni diversamente abili; il documento della Falcucci, definito una magna charta dell'integrazione scolastica, afferma che l'inserimento degli alunni diversamente abili, dalla scuola materna alla scuola media, si può attuare solo attraverso un nuovo modo di fare scuola, legato per altro "alla preparazione e all'aggiornamento degli insegnanti", richiamando i docenti a delicati compiti di sperimentazione, di ricerca, di aggiornamento, di programmazione.

I tempi sono, così, maturi per l'elaborazione del primo testo legislativo in cui si parla di integrazione scolastica in modo di valorizzare la persona diversamente abile, quale

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protagonista dell'intervento educativo e didattico.

Successivamente, con i decreti delegati del 1974 nn. 416, 419 e 417 si parla di integrazione scolastica degli alunni con disabilità nella scuola di tutti; con la C.M. 262/1988 di programmazione integrata degli interventi attraverso intese fra scuola, ASL, ed Enti locali.

Infine con la legge quadro n. 104 del 1992 si ribadisce il diritto allo studio e all'istruzione e che: l'integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona diversamente abile; l'esercizio del diritto all'educazione e all'istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all'handicap.

A tutto ciò devono seguire gli strumenti dell'integrazione che sono: la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali, ricreativi, sportivi con altre attività sul territorio gestite da enti pubblici o privati, definizione di accordi di programmi tra Enti locali, organi scolastici e i o presidi sanitari locali;

dotazione di attrezzature tecniche e sussidi didattici;

adeguamento dell'organizzazione e funzionamento degli asili nido dei bambini con disabilità per il recupero, la socializzazione e l'integrazione; l'assegnazione di personale docente specializzato e di operatori ed assistenti specializzati.

Si ricorre ad un solo termine per indicare i vari deficit ed è quello disabile che si allontana dalla categorizzazione legata a patologie a livello organico e si passa quindi al modello biomedico.

Il modello bio-medico (anche detto semplicemente «modello

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medico») della disabilità si fonda su una concezione di malattia riduzionista e descrive la persona come «paziente»

e solo in termini di malattie fisiche o psichiatriche.

È un modello che non tiene conto del comportamento umano, le abilità interpersonali e comunicative, né dell'ambiente sociale e relazionale proprio della persona.

L'oggetto dell'intervento è la malattia, intesa come deviazione dalla norma di variabili biologiche e somatiche misurabili.

Gli obiettivi del modello bio-medico sono: effettuare una diagnosi di malattia; impostare un trattamento terapeutico.

Il modello bio-medico si contrappone al modello sociale, focalizzandosi solo sulla malattia, infatti esso trascura l'importanza dei fattori psicologici e sociali nel determinare lo stato di salute-malattia della persona.

Con modello sociale della disabilità si intende una visione della disabilità che nasce alla fine degli anni Settanta del XX secolo esso sposta l'attenzione dalle limitazioni funzionali delle persone con disabilità ai problemi causati dagli ambienti "disabilitanti", da barriere e da culture che provocano forme di disabilità.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità, soprattutto nell'ambito della disabilità, ha adottato un modello sintesi dei due precedenti: il modello bio-psico-sociale.

Il modello bio-psico-sociale della disabilità proposto dalla Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute (ICF 2001) è una sintesi del modello bio-medico e del modello sociale.

Il modello bio-psico-sociale, a differenza dei due modelli infatti, riesce a cogliere la natura dinamica e reciproca delle

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interazioni dell'individuo nel proprio ambiente, superando la prospettiva causa-effetto, considerando per la prima volta in modo olistico, l'aspetto medico- biologico, quello psicologico e quello socio-ambientale.

Secondo il modello bio-psico-sociale, quindi, una persona che presenta un'alterazione dei livelli funzionali o strutturali del proprio corpo, non viene più definita "svantaggiata" in un senso statico e rigido, ma, interagendo con l'ambiente, potrà vivere due condizioni: una perdita o una limitazione dei propri livelli di attività e di partecipazione ai contesti di vita, qualora l'ambiente sia ostile o indifferente a causa di barriere (condizione di disabilità);

una buona performance nelle attività e nella partecipazione ai contesti di vita, qualora l'ambiente abbia elementi facilitatori (assenza di condizioni di disabilità).

L’ICF riflette i cambiamenti di prospettiva nella disabilità attraverso i suoi tre principi fondamentali: universalismo, approccio integrato, modello interattivo e multidimensionale del funzionamento e della disabilità. La parola handicap, che in uno studio condotto dall’OMS, ha connotazione negativa, non sarà più utilizzata. L’ICF può avere, pertanto, ricadute di grande portata sulla pratica medica e sulle politiche sociali e sanitarie internazionali. La disabilità non è il problema di un gruppo minoritario ma una condizione che ognuno può sperimentare durante la propria vita, e l’ambiente, quale fattore determinante nel definire la disabilità, può essere: una barriera ; un facilitatore.

Il modello proposto dall’ICF, infatti, superando la classica relazione menomazione/disabilità/handicap, descrive la disabilità come la conseguenza o il risultato di una complessa

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relazione tra la condizione di salute di una persona, i fattori personali, e i fattori ambientali. Rappresenta, infatti, un capovolgimento di logica che pone al centro la qualità della vita delle persone affette da una patologia, e proponendo, inoltre, un modello bio-psico-sociale ed inclusivo della disabilità, riesce ad ovviare alla contrapposizione tra il modello puramente “medico” e quello puramente “sociale”

di disabilità.

È speciale ogni alunno che manifesta bisogni educativi speciali (special educational needs) in presenza di situazioni particolari diverse e di difficoltà temporanee o permanenti, pervasive o settoriali, a livello fisico, organico, biologico, oppure familiare, ambientale, sociale, culturale che lo ostacolano nell'apprendimento e nello sviluppo e perciò richiede attenzioni e cure educative particolari, scelte, percorsi, sollecitazioni, risorse, valutazioni speciali. Una scuola professionale full inclusive deve saper leggere e riconoscere i bisogni dei suoi alunni, le differenze che li caratterizzano, deve possedere aggiornate e solide competenze di tipo pedagogico, psicologico, metodologico- didattico, organizzativo e relazionale, deve poter disporre di strumenti e risorse concreti da utilizzare nella progettazione e nella realizzazione di interventi che garantiscano il successo formativo di ognuno (UNESCO ,1994).

Tale pedagogia, si fonda sull’idea innovativa in base alla quale le differenze (la cosiddetta “normale specialità) sono una risorsa per l’educazione, la cui valorizzazione richiede ai sistemi educativi capacità di individuazione dei bisogni (individualizzazione) e differenziare le risposte (personalizzazione). (L.53/2003)

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La piena realizzazione del sistema dell’Inclusive education, quindi, non consiste nel dare un posto nella scuola anche a chi è rappresentante di una qualche diversità, ma nel trasformare il sistema scolastico in organizzazione idonea alla presa in carico educativa dei differenti bisogni che tutti gli alunni possono incontrare. (M. Vasallo)

La L.170/10 ha sancito le nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico, la C.M.

8/2013ha dato le indicazioni operative per gli alunni BES.

1.2 Eziologia: fattori causali e genetici

Le cause più comuni della disabilità, relative al momento di insorgenza, si possono classificare in: fattori del periodo prenatale; fattori genetici (ereditari, genetici cromosomici, sindromi particolari);fattori esogeni (infezioni materne, malnutrizione materna, radiazioni, prematurità, ingestione di farmaci non appropriati, ecc.); fattori del periodo perinatale (asfissia, traumi da parto, ecc.);fattori del periodo post- natale (infezioni del sistema nervoso, encefalopatia, traumi da incidenti sia fisici che psichici, disturbi del metabolismo, ecc).

Anche fattori psico-sociali sembrano poter determinare una compromissione dell’intelligenza, tra questi i più significativi appaiono l’ambiente psicologicamente, socialmente, culturalmente o economicamente, le gravi alterazioni dei rapporti intra mattino familiari, l’isolamento sociale la forzata inibizione della tendenza naturale al comportamento esplorativo.

La genetica e di fenotipi comportamentali rappresentano forse l’aria della ricerca dove sono stati fatti progressi

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maggiore negli ultimi anni. Alcuni meccanismi biologici psicologici altamente specifici e di recente individuazione sembrano confermare l’esistenza di uno stretto legame tra genotipo e fenotipo clinici e comportamentali.

1.3 Cause e basi neurobiologiche

La disabilità intellettiva è una condizione caratterizzata da deficit del funzionamento intellettivo ed adattivo; l’esordio è precoce e si esprime in modi differenti nell’arco del ciclo di vita della persona. Le manifestazioni della disabilità intellettiva variano in base al livello di gravità del disturbo, all’età e alla possibilità di intraprendere interventi adeguati.

La disabilità intellettiva può essere generata sia da cause biologiche che da cause ambientali; nel corso dello sviluppo, la disabilità intellettiva può associarsi anche a disturbi psicopatologici.

Le manifestazioni della disabilità intellettiva variano in funzione del livello di compromissione e dell’età. I deficit a carico delle funzioni intellettive possono ad esempio riguardare il pensiero astratto, la capacità di trovare una soluzione di fronte ad una situazione problematica, gli apprendimenti scolastici e la capacità di apprendere efficacemente dall’esperienza; il deficit del funzionamento adattivo, invece, si manifesta nel mancato raggiungimento dei livelli di autonomia attesi per l’età, relativamente ai diversi ambiti di vita quotidiana (domestico, scolastico, lavorativo, sociale). In casi di grave compromissione, si può osservare un ritardo nelle tappe dello sviluppo motorio e linguistico-comunicativo già nei primi due anni di vita, mentre un disturbo lieve potrebbe essere diagnosticato in fase scolare, quando cominciano ad emergere difficoltà

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negli apprendimenti.

Le oggettive difficoltà e la percezione delle stesse portano il bambino con disabilità intellettiva, e spesso purtroppo anche chi gli sta intorno, a sviluppare un’immagine di sé come di una persona “stupida, poco intelligente”, a ridurre quest’immagine alle proprie difficoltà, senza tener conto delle risorse e delle potenzialità che ogni individuo possiede.

La scarsa fiducia nelle proprie possibilità impedisce al bambino di cimentarsi in situazioni nuove, per paura di sperimentare l’insuccesso e la vergogna che ne consegue.

Allo stesso tempo, le persone che circondano il bambino riducono in maniera drastica le loro richieste. In questo modo, però, si riducono anche le opportunità del bambino di mettere in gioco le proprie capacità di problem solving, di apprendere dall’esperienza e quindi di sviluppare conoscenze e concetti sul mondo necessari ad un adeguato adattamento. Si viene dunque a creare un circolo vizioso che porta all’impoverimento cognitivo, all’isolamento sociale e spesso allo sviluppo di una psicopatologia.

Esiste una grande variabilità nella manifestazione delle difficoltà associate alla disabilità intellettiva.

Quando le cause sono di tipo genetico, in genere la sindrome viene rilevata già in fase prenatale con esami specifici e fin dalla nascita sono presenti caratteristiche somatiche peculiari.

In generale, in caso di disabilità intellettiva di grado lieve, le capacità socio-comunicative negli anni prescolari sono paragonabili a quelle dei pari ed è presente solo una lieve compromissione a livello senso-motorio; le difficoltà iniziano ad essere maggiormente evidenti con l’ingresso alla

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scuola primaria, quando le richieste dell’ambiente aumentano.

In caso di disabilità intellettiva di grado moderato, le acquisizioni negli ambiti del linguaggio, delle abilità prescolastiche e scolastiche avvengono lentamente e risultano quindi in ritardo rispetto ai pari. In caso di disabilità intellettiva di grado grave, il linguaggio comunicativo nella prima infanzia è fortemente compromesso, la produzione verbale consiste principalmente in singole parole e poi in frasi semplici; sono inoltre presenti difficoltà senso-motorie. Nella maggior parte dei casi di disabilità intellettiva di grado profondo, viene precocemente diagnosticata una condizione neurologica che spiega il disturbo.

1.4 Criteri diagnostici: novità introdotte dal DSM-5

Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali più noto con la sigla di DSM, è uno degli strumenti più utilizzati dei medici, dagli psichiatri e dagli psicologi per catalogare ed individuare i disturbi mentali. È redatto dall’APA (Associazione Americana degli Psichiatri) elenca le definizioni dei disturbi mentali mentali e ne descrive i sintomi e le linee guida per formulare una corretta diagnosi.

La prima edizione che risale al 1952 era stata scritta anche allo scopo di uniformare quanto più possibile ed integrare a livello globale le conoscenze che prima erano sfaccettate e multiformi.

Il testo ha avuto successive versioni fino all’ultima edizione del 2013, il DSM-5. “…. Il manuale contiene i criteri che permettono di identificare I disturbi nella descrizione di un

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sistema multiassiale che ne facilita una valutazione ampia e sistematica. (DSM-5, 2013). Per quanto riguarda il ritardo mentale i criteri diagnostici sono i seguenti e sono desunti dalla quarta edizione del manuale diagnostico:

funzionamento intellettivo significativamente al di sotto della media (per la valutazione si usa la misura standardizzata di quoziente intellettivo, pertanto si considera al di sotto della media un valore del QI di circa 70 o inferiore); concomitante deficit o compromissione del funzionamento ad attivo attuale ; esordio prima dei 18 anni.

Ma la vera novità è introdotta dall’ultima versione del manuale diagnostico, il DSM-5 che delinea le caratteristiche del concetto di disabilità intellettiva, ….La disabilità intellettiva comporta un deficit nelle abilità mentali generali che influenzano il funzionamento ad attivo in tre aree o domini. Questi domini determinano in che modo un individuo affronta le azioni della vita quotidiana: il domino intellettivo include l’abilità dell’area del linguaggio, lettura, scrittura, calcolo, ragionamento, cognizione lettura, scrittura, calcolo, ragionamento, cognizione e memoria; il dominio sociale è riferito all’empatia, giudizio sociale, capacità di comunicazione interpersonale, all’abilità di stringere mantenere le amicizie e ad abilità simili; il dominio pratico è focalizzato sulla gestione autonoma in aree come la cura personale, la responsabilità lavoro, la gestione del denaro, il tempo libero e la gestione e l’organizzazione di compiti scolastici e lavorativi.

Per la disabilità intellettiva non è prevista un’età specifica, ma i sintomi devono emergere durante l’età dello sviluppo e sono diagnosticati rispetto alla gravità del deficit nel

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funzionamento adattivo . Il disturbo è considerato cronico e spesso co-occorre con altre condizioni mentali quali la depressione, il disturbo di attenzione e iperattività e disturbi dello spettro autistico. (DSM 5, 2013)

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CAPITOLO II

Memoria e apprendimento nella disabilità intellettiva 2.1 Memoria a breve termine

Con il termine “sistema di memoria” si può intendere qualsiasi tipo di sistema o struttura in grado di garantire la conservazione e il recupero di informazioni nel tempo. “La memoria è, come l’attenzione, un meccanismo cognitivo trasversale: pur rappresentando una capacità che opera in maniera autonoma, organizzata in diversi sistemi funzionalmente indipendenti, influenza altri ambiti del funzionamento cognitivo, da cui è a sua volta influenzata”.

(Caselli, Vicari, 2002)

Memorizzare un'informazione è un'operazione complessa che può essere scomposta in diversi fattori. Il primo fattore fondamentale della memoria è la codifica o registrazione di un evento sotto forma di schema, immagine o concetto: esso riguarda quindi la modalità con cui un'informazione è immagazzinata o rappresentata in un sistema di memoria.

Il secondo fattore è la ritenzione, che si riferisce al trattenimento o immagazzinamento dell'informazione nel tempo. Il terzo fattore, infine, è il recupero, o rievocazione, che corrisponde alla capacità di riconoscere e ricordare un'informazione in un secondo tempo. In fase di codifica l'informazione potrà essere riorganizzata, ricostruita, reintegrata sulla base di conoscenze pregresse del sistema (o di ipotesi dello stesso in caso di informazioni mancanti), per favorire la ritenzione e il successivo recupero.

Quando un qualsiasi fattore (tecnico/meccanico ad esempio sistemi di memoria fisici, disturbi attentivi, cause organiche

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o altro nel caso della memoria umana) influisce con le fasi di codifica o di ritenzione o recupero può verificarsi una perdita di informazione, la cui entità potrà variare nel tempo – essendo la perdita temporanea o permanente – e nell'estensione, a seconda cioè della quantità di dati coinvolti.

“La compromissione della memoria e spesso documentata in bambini con ritardo mentale, i quali infatti, apprendono e recuperano informazioni in modo meno efficiente con normale sviluppo cognitivo. A questo proposito sarà utile chiarire che l’atto di ritenere, richiamare esperienze e/o informazioni non è più considerata oggi una funzione unitaria. In accordo con quanto proposto da Squire (1987) e da Atkinson e Shiffrin (1968), sarà utile distinguere la memoria a breve termine dalla memoria lungo termine ”.

(Mariotta, Meneghini et. al, 2002)

La memoria a breve termine (MBT), conosciuta anche come memoria attiva. permette di trattenere l'informazione per un periodo breve (30 secondi circa) ma prolungabile grazie a un processo di reiterazione, o reharsal (ripetizione silente di ciò che interessa mantenere). La reiterazione è anche la condizione fondamentale che permette il trasferimento dell'informazione dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Secondo G. Miller (Il magico numero sette più o meno due, 1956) la MBT è limitata in quanto può trattenere al suo interno solo sette cifre o meglio unità (dove ogni unità va intesa come insieme complesso: 1-2-3-4-5-6-7 sono sette unità, ma anche 12-34-56-78- 90-11-12 sono sette unità: il numero dei numeri è raddoppiato ma il numero di raggruppamenti è rimasto costante).Un buon esempio del

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funzionamento della MBT può essere dato dalla memorizzazione dei numeri telefonici: se ci limitiamo a leggere il numero sull'agenda e comporlo sulla tastiera del telefono esso resterà nella nostra memoria solamente per pochi secondi. Se invece, dopo averlo letto, ci troviamo nella necessità di conservarlo in memoria per un maggior lasso di tempo (ad esempio perché il telefono su cui comporlo si trova in un'altra stanza) una maniera efficace per impedire lo svanire dell'informazione è proprio quella di ripetere silenziosamente le cifre che compongono il numero.

2.2 Memoria a lungo termine

La memoria a lungo termine (MLT) è quella parte del sistema che ci permette di immagazzinare più informazioni e di trattenerle più a lungo, in alcuni casi per sempre. Si riferisce allo stoccaggio continuo di informazioni. In psicologia freudiana, la memoria a lungo termine avrebbe luogo nel preconscio e nell’inconscio. Queste sono le informazioni che teniamo sepolte senza che ne abbiamo consapevolezza, e riprese per essere utilizzate quando necessario, proprio come nell’esempio della biblioteca che abbiamo fatto nell’articolo precedente. Alcune di queste informazioni sono facili da ricordare, mentre ci sono altri ricordi a cui è molto più difficile accedere. La MLT più che alla forma con cui l'informazione in ingresso è stata codificata, presta attenzione al significato dell'informazione stessa. Sulla base di questo principio le informazioni contenute in questa parte del sistema memoria possono essere divise in conoscenze proposizionali (o dichiarative) e procedurali. La conoscenza proposizionale

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riguarda la conoscenza fattuale e tutti i suoi contenuti sono sotto forma di proposizioni (da cui proposizionale) che stabiliscono relazioni tra più concetti utilizzando criteri logici di verità. Essa è a sua volta suddivisibile in episodica (riguarda episodi, eventi della vita personale, ed è strettamente collegata al contesto di codifica delle informazioni) e semantica (ha un'impronta più “culturale” in quanto riguarda il patrimonio di conoscenze, indipendentemente dal contesto in cui si sono apprese o sono state applicate). La conoscenza procedurale, si riferisce al modo in cui apprendiamo abilità percettive e motorie.

Questo tipo di conoscenza può essere ben rappresentata con la forma di script, cioè sotto forma di schemi mentali a carattere generale che descrivono suddividendole in fasi le componenti principali di azioni o insiemi di azioni (ad esempio “mangiare al ristorante” è un buon esempio di script, in quanto tutti si aspettano una serie precisa di componenti: entrare nel locale, sedersi a un tavolo, ordinare, mangiare, pagare il conto...).

2.3 I disturbi della memoria nei soggetti con disabilità intellettiva

Per parlare di disabilità intellettiva devono essere soddisfatti i seguenti criteri: deficit delle funzioni intellettive, come ragionamento, problem solving, pianificazione, pensiero astratto, capacità di giudizio, apprendimento scolastico e apprendimento dall’esperienza, confermati sia da una valutazione clinica sia da test d’intelligenza individualizzati, standardizzati; deficit del funzionamento adattivo che porta al mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e

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socioculturale di autonomia e responsabilità sociale. Senza un supporto costante, i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più attività della vita quotidiana, come la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita autonoma, attraverso molteplici ambienti quali casa, scuola, ambiente lavorativo e comunità; esordio dei deficit intellettivi e adattivi durante il periodo di sviluppo

A livello anatomico la parte frontale della corteccia comanda il movimento, l’attenzione, la memoria; i nuclei di base ed il cervelletto costituiscono la struttura nervosa principale da cui emerge la coscienza e tutte le capacità evolutive, nei soggetti che presentano scarso rendimento scolastico è presente un assottigliamento del corpo calloso, quindi serve più tempo nello scambio tra cellule ed il bambino impegna più tempo a compiere le azioni, inoltre poiché il corpo calloso connette i due emisferi, un assottigliamento provoca la perdita di migliaia di connessioni. Con il lobo occipitale il bambino sorride quando vede la madre, con quello temporale emette le prime parole e quello frontale serve per la pianificazione e il controllo motorio. Se la parte prefrontale è danneggiata il soggetto si distrae facilmente, si comporta in maniera socialmente inadeguata poiché non si rende conto di essere valutato dagli altri. Il lobo parietale contiene il senso del tatto e la corteccia somato-sensoriale che serve per muoversi nell’ambiente. Il lobo temporale contiene l’area uditiva che serve nel riconoscimento di oggetti, nella parte sinistra si decodificano parole e frasi e il riconoscimento dei volti (manca nell’autismo); per la memoria importante è l’ippocampo e l’amigdala. Nella zona occipitale c’è la vista.

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(Parmeggiani, 2014)

“La compromissione della memoria è spesso documentata in bambini con ritardo mentale, i quali infatti, apprendono e recuperano informazioni in modo meno efficiente degli individui con normale sviluppo cognitivo.“ (Castelli,Vicari, 2002)

Gli studi sulla memoria nei soggetti con disabilità intellettiva hanno cercato di definire le capacità cognitive compromesse di ciascun soggetto, ma anche soprattutto le residue aree di forza. Sono stati riscontrati “deficit della funzione mnesica a diversi livelli della sua articolazione. Seppure con alcune eccezioni, ad esempio nel caso dei bambini con sindrome di Williams, sono stati riscontrati molti problemi al livello del funzionamento della memoria a breve termine, ma anche i processi di memoria implicita ed esplicita e e comunque tutte le caratteristiche e i fattori che riguardano la memoria lungo termine sono risultati compromessi. Come dicevamo

“...molte indagini neuropsicologiche sullo sviluppo delle funzioni mnesiche del ritardo mentale hanno cercato di esaminare la funzionalità della memoria breve termine...esse hanno spesso documentato uno span di memoria ridotta nelle persone con ritardo mentale rispetto a controlli effettuati su bambini normodotati di pari età, ma, in effetti non si possono escludere possibili compromissioni delle altre componenti della memoria di lavoro, ovvero del magazzino fonologico e del sistema esecutivo centrale”.

(Castelli,Vicari, 2002).

2.4 Memoria di lavoro e difficoltà di apprendimento

“La memoria di lavoro costituisce l’aspetto operativo- funzionale della memoria breve termine (M Bitti) per

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definizione implicata in compiti cognitivi come il calcolo mentale, la ripetizione di parole e frasi, la decodifica della lettura della scrittura, ossia I processi di apprendimento, comprensione ragionamento. Il funzionamento della memoria di lavoro pertanto è di fondamentale importanza in ambito evolutivo per la comprensione dello sviluppo normale di capacità cognitive complesse; inoltre un difettoso funzionamento può aiutare a comprendere situazioni anomale di sviluppo come le difficoltà di apprendimento del linguaggio orale e scritto.”(Castelli,Vicari, 2002)

La memoria (ha una funzione storica e strumentale del sé per la formazione dell’identità, serve per costruire l’identità; la memoria a breve ci consente di ricordare eventi per un breve lasso di tempo e la memoria a lungo tempo che consente ricordi più lunghi, episodica, semantica, procedurale, di lavoro, come traccia e come schema.

Il concetto di memoria di lavoro, introdotto da Alan Baddeley e Graham Hitch (1974), ha esteso il significato di memoria di breve termine proponendo che essa sia costituita

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da una serie di sistemi interagenti. Il modello di Baddeley e Hitch proponeva che i processi del pensiero umano avvenissero in un sistema dedicato a immagazzinare informazioni nella memoria di breve termine; essa era costituita da tre elementi: un sistema centrale (esecutore), un sistema fonologico (verbale) e un sistema visivo-spaziale (misto).

Nel 2000 Baddeley aggiunse al modello originario della memoria di lavoro un terzo componente costituito dalla memoria episodica (episodic buffer) nel quale vengono aggregate informazioni spaziali, visuali e verbali sequenziate in storie complete di senso. La memoria di lavoro si riduce con l'avanzare dell'età; dato che il ruolo della memoria di lavoro è fondamentale per molti processi cognitivi, tale riduzione provoca un degrado mentale maggiore di quanto ci si aspetti. (Parmeggiani, 2014)

Afferma Stefano Vicari “…..mentre le proprietà del loop articolatorio sono state largamente studiate, le caratteristiche del taccuino viso spaziale (il sistema della memoria di lavoro

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deputato al processamento delle informazioni viso-spaziali) sono ancora poco chiare. Alcuni autori (Wang e Bellugi 1994; Vicari, Brizzolara 1996 et al.) hanno dimostrato che, contrariamente alle persone con sindrome di Down, i bambini con sindrome di Williams pur non differendo dei controlli in compiti di memoria breve termine verbale, presentano marcato deficit in compiti di memoria breve termine viso- spaziale…. tuttavia, poiché la compromissione di tali abilità nei bambini con la suddetta sindrome non è omogenea…. Gli individui con sindrome di Williams potrebbero rappresentare un esempio “naturale“di dissociazione tra memoria visiva e memoria spaziale. A identificare una differenza di prestazioni in due compiti di memoria breve termine in un gruppo di soggetti con sindrome genetica specifica costituirebbe un ulteriore conferma dell’ipotesi che il taccuino viso-spaziale e la realtà organizzato in due sottosistemi funzionalmente diversi.

“(Castelli,Vicari, 2002)

La compromissione della memoria a lungo termine sembra avere un ruolo centrale per determinare le difficoltà di apprendimento delle persone con ritardo mentale. In base a quanto abbiamo affermato, quindi, è necessario determinare il ruolo che la compromissione della memoria lungo termine gioca nel più generale sistema di deficit cognitivo di un individuo Per questo molti studiosi hanno cercato di effettuare, attraverso studi di vario tipo, un’analisi quantitativa del disturbo di memoria a lungo termine nelle persone con disabilita mentale.

“… I dati maggiormente rilevanti sono quelli che mettono in relazione il deficit di memoria esplicita riscontrato nelle

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persone con ritardo mentale ad uno scarso utilizzo di strategie mnemoniche. Sebbene risultati sperimentali non siano completamente univoci, altri studi suggeriscono un sostanziale risparmio dei meccanismi per il consolidamento ed il recupero delle tracce mnestiche….Da un punto di vista pratico questi dati costituiscono un importante bagaglio per gli psicologi dell’educazione per gli insegnanti per pianificare razionalmente degli interventi mirati alla riduzione delle difficoltà di apprendimento e di adattamento sociale mostrate dalle persone con disabilità intellettive”.

(Castelli,Vicari, 2002)

2.5 La Difficoltà di apprendimento

Il disturbo della lettura (dis - disturbo / lessia - lettura in latino e linguaggio in greco) è considerata un disturbo specifico dell’apprendimento di origine neurobiologica, caratterizzata da difficoltà specifiche nella lingua scritta (lettura e scrittura).

Nel 1968, la World Federation of Neurology ha coniato il termine per la dislessia specifica dello sviluppo (“Specific Developmental Dyslexia”) o Dislessia (“Dyslexia”).

Il deficit centrale è nel componente fonologico del linguaggio ed interferisce nelle capacità di decodifica e, conseguentemente, nella comprensione della lettura.

L'identificazione precoce minimizza i deficit neuropsicologici, oltre che prevenire lo sviluppo di disturbi emozionali. Pertanto, una diagnosi adeguata è un fattore importante per garantire la qualità di vita del bambino.

L'abilità di lettura è una funzione cerebrale complessa, che coinvolge una serie di aree cerebrali. Secondo Shaywitz.

(2005) i lettori proficui attivano sistemi neurali altamente

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interconnessi e il circuito comprende regioni responsabili per il processo visivo di grafemi (lettere) e le loro caratteristiche generali (linee, curve, forme) (Occipitotemporale), dopo la conversione dei grafemi

in fonemi (suoni corrispondenti) e comprensione delle parole (Area di Wernicke) e, a seguire, l'articolazione delle parole nell'area motoria della parola (Area di Broca).

Inoltre, altri fattori influenzano direttamente lo sviluppo di questa abilità come il processo di alfabetizzazione, stimolazione in casa e nella scuola, lo sviluppo di abilità di base (percezione uditiva e visiva, psicomotorie), la motivazione, l'attenzione, gli affetti, tra gli altri.

Alcuni segnali indicativi del disturbo della lettura coinvolgono regioni delle aree anteriori e posteriori dell'emisfero sinistro del cervello. Inizialmente riguardano:

linguaggio; ritardo della parola; trascorso familiare di ritardo nella parola e la difficoltà di lettura; scambio di suoni nel discorso; molto tempo per apprendere nuove parole;

difficoltà per ricordare nomi e simboli; difficoltà per imparare rime; lettura; difficoltà per distinguere le lettere dell'alfabeto; difficoltà nell'apprendimento della lettura, nella scrittura e ortografia; difficoltà per separare e sequenziare suoni; difficoltà per discriminare fonema- grafema (suono-lettera); presenta inversioni di sillabe o le parole; presenta aggiunte/omissioni di fonemi o sillabe;

presenta lettura sillabata, lenta e con molti errori; uso eccessivo di parole sostituite (quella cosa, affare) per la denominazione di oggetti; livello di lettura minore per la fascia d’età e il livello di istruzione; difficoltà per raccontare una storia; difficoltà per comprendere le espressioni dei

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problemi matematici; difficoltà nella comprensione dei testi;

scrittura lettere con caratteristiche disgrafiche; difficoltà nella pianificazione motoria dello scritto e per fare lettere in corsivo; difficoltà nella presa della matita; difficoltà per copiare la lezione dalla lavagna; difficoltà per esprimersi attraverso la scrittura, elaborazione di testi scritti/pianeggiamento e realizzare redazioni; scrivere con errori significativi: omissioni, modifiche, aggiunte / omissioni fonemiche e sillabiche, e macchie. (De Lima, Salgado, Ciasca,2006) Negli ultimi decenni la ricerca ha evidenziato con sempre maggiore chiarezza la stretta correlazione esistente tra i ritardi e i disturbi dello sviluppo del linguaggio e i DSA. Seguire attentamente le tappe evolutive della progressione linguistica fin dalla prima infanzia mette il medico nella condizione di prevedere eventuali difficoltà che riguardano l’attività scolastica e, in particolare, l’apprendimento della letto-scrittura.

2.6 I disturbi della scrittura

La disortografia è la difficoltà a tradurre correttamente in forma grafica i suoni che compongono le parole. La disortografia è un disturbo che riguarda il processo di trascrizione basato sul meccanismo di conversione da suono (fonema) a segno (grafema) e il riconoscimento di regole ortografiche che permettono la corretta scrittura di parole con trascrizione ambigua. Si parla di disortografia quando gli errori ortografici sono significativamente superiori per numero e per caratteristiche a quelli che ci si dovrebbe aspettare, facendo riferimento al grado d’istruzione della persona e alla sua consuetudine alla scrittura.

I principali errori sistematici che caratterizzano la scrittura

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disortografica sono: la confusione tra fonemi simili per cui il soggetto confonde suoni alfabetici che si somigliano come f e v, d e t, b e p; la confusione tra grafemi simili ovvero tra segni alfabetici che hanno somiglianza nella forma, ad esempio b e p; le omissioni quando il soggetto tralascia alcune parti della parola come la doppia consonante, la vocale intermedia, la consonante intermedia; le inversioni nella sequenza dei suoni all’interno delle parole. Le abilità di base che possono essere compromesse sono:

l’organizzazione del linguaggio; la capacità di percezione e di discriminazione visiva e uditiva; l’organizzazione e l’integrazione spazio-temporale; il processo di simbolizzazione grafica.

Anche per i disortografici il processo di scrittura è molto laborioso e riduce le energie per le altre abilità necessarie per il processo di scrittura. Mentre devono ideare un contenuto, scegliere le frasi e le parole per esprimerlo, sono costretti a fermarsi su ogni parola per essere sicuri di averla scritta correttamente. L’alunno, in una prima fase, sbaglia molto o ha bisogno di dedicare più attenzione del normale nello scrivere correttamente (e nella giusta sequenza) tutte le lettere o le sillabe.

Questo comporta uno o più di questi effetti: scrive in modo scorretto (es. scambia o omette lettere, ne inverte l’ordine, scrive due parole attaccate, omette accenti e apostrofi); si affatica di più quando scrive; ci mette più tempo a scrivere;

ha più difficoltà a scrivere una frase; prova meno piacere e sviluppa scarso desiderio di esercitarsi nella scrittura.

L’alunno, in una seconda fase, deve dedicare più attenzione del normale nello scrivere correttamente le parole

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(soprattutto quelle nuove o quelle che incontra di meno), quindi ha meno risorse attentive da dedicare al contenuto del testo che sta scrivendo. L’alunno scrive in modo scorretto (specialmente quando va di fretta, quando deve pensare a più cose contemporaneamente, è più stanco, meno interessato, oppure più in ansia). Scrivere è una parte importante di questi compiti: prendere appunti, copiare dal libro o dalla lavagna, scrivere i compiti sul diario o sul quaderno. Si scrivono le parole in italiano, ma si scrivono anche i numeri, altri segni matematici, parole e frasi in lingua straniera e antica. Più tardi nella scolarizzazione potrebbe rimanere solo un problema nell’inglese scritto (e in altre lingue).

Questo comporta in molte occasioni (oltre agli effetti sopra descritti): non riuscire a dedicare sufficiente attenzione alle maiuscole, alla punteggiatura e alla sintassi; aver bisogno di ricontrollare di più (quindi metterci più tempo) per scrivere correttamente; aver difficoltà a scrivere testi, riassunti, temi, verifiche scritte in genere in termini di organizzazione, lessico, sintassi, adesione alle consegne; provare meno piacere e sviluppare scarso desiderio (se non vero e proprio rifiuto ) di scrivere o di impegnarsi in compiti che richiedono scrittura, come i compiti scritti per casa; avere prestazioni variabili (a volte svolge compiti scritti in modo più accurato, altre volte scrive peggiore). Anche la disortografia è diagnosticata attraverso test standardizzati somministrati da personale specialistico dell’Azienda Sanitaria tenendo conto del parametro della valutazione della correttezza, cioè del numero di errori, nella scrittura.

La disgrafia è un disturbo che riguarda l’aspetto formale e

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qualitativo della componente grafica della scrittura. È una difficoltà nella riproduzione dei segni alfabetici e numerici, il cui tracciato appare incerto, irregolare nella forma e nelle dimensioni. L’alterazione dei processi qualitativi della grafia determina una scarsa comprensibilità dello scritto e un processo di scrittura e di rappresentazione grafica nel complesso poco fluido e molto faticoso. Il soggetto disgrafico scrive in modo irregolare, con fatica, con impugnatura a volte scorretta della penna. Ha difficoltà a utilizzare correttamente lo spazio sul foglio, lasciando spazi irregolari, non seguendo la linea di scrittura. La pressione esercitata sul foglio non è regolata adeguatamente, possono essere presenti inversioni della direzione di scrittura. Il soggetto disgrafico ha difficoltà nella copia e nella produzione autonoma di figure geometriche. Il ritmo della scrittura può essere troppo lento o troppo veloce o a scatti, senza armonia nel gesto e con interruzioni. Il soggetto disgrafico ha difficoltà a individuare e correggere gli errori.

A tali difficoltà si possono aggiungere problemi di tipo emotivo poiché nonostante la grande fatica nella rappresentazione grafica (disegno di figure, schemi, grafici, tabelle ecc.) con l’uso anche di strumentazione specifica, l’allievo si rende conto che il risultato del suo lavoro è esteticamente scadente.

Le caratteristiche di una scrittura disgrafica possono essere:

inadeguata velocità di scrittura alfabetica e numerica;

pressione debole o eccessiva sul foglio; tendenza alla macro o micrografia; discontinuità nel gesto; direzione del gesto grafico irregolare; occupazione dello spazio nel foglio non adeguata; inesatta legatura dei segni; distanza tra le parole;

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caratteristiche delle produzioni e riproduzioni grafiche inadeguate.

Le abilità di base che possono essere compromesse sono: le capacità grafo-motorie; l’orientamento e l’integrazione spazio-temporale; la coordinazione oculo-manuale e la coordinazione dinamica generale; la discriminazione e la memorizzazione visiva sequenziale.

Quindi l’alunno in molte occasioni: scrive in modo meno leggibile (specialmente o solo quando presta meno attenzione, va di fretta, oppure deve pensare a più cose contemporaneamente) o più lento; traccia segni in modo inaccurato quando disegna tabelle, figure geometriche, ecc.;

è scoraggiato, demotivato e spesso inaccurato in compiti quali il prendere appunti, il copiare dalla lavagna, lo scrivere sul diario, o i compiti scritti per casa.

Per la diagnosi di disgrafia, attraverso test standardizzati somministrati da personale specialistico dell’Azienda Sanitaria, è necessario analizzare l’assetto morfologico, spaziale e la velocità della grafia.

2.7 Disturbo di comprensione del testo

L’elemento caratterizzante della dislessia è dato dal fatto che gli errori commessi non sono riconducibili a deficit di vista o udito, a scarsa intelligenza, a disturbi della personalità, a scarso adattamento, a caratteri ambientali, a scarsa motivazione, a scarso esercizio. La dislessia non è una semplice difficoltà di lettura, ma è un particolare disturbo nel riconoscere e discriminare i segni alfabetici contenuti nelle parole, ad analizzarli in sequenza e a orientarsi sul rigo da leggere.

La dislessia è un disturbo caratterizzato da un deficit

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nell’accuratezza e/o nella velocità di lettura, che rende la lettura stessa nel complesso scarsamente fluente. Si caratterizza come una mancata o parziale automatizzazione dell’uso dei codici di lettura; come una difficoltà a decodificare testi scritti che diventa un’operazione molto più complessa rispetto ai non dislessici e porta a una maggiore facilità di errore, a un maggior affaticamento, a una maggiore lentezza e a un rilevante impegno delle risorse attentive e mentali. Lo studente con dislessia cioè si concentra specificatamente sulla decodifica del testo stancandosi rapidamente, commettendo errori, rimanendo indietro e di conseguenza esponendosi a una non comprensione completa del significato del testo e non imparando adeguatamente se non ha a disposizione un tempo adeguato o strumenti compensativi idonei.

Gli errori che ricorrono più frequentemente in un soggetto con dislessia sono: confusione di segni diversamente orientati nello spazio (p-b -d -q ; u-n) ; confusione di segni che differiscono per piccoli particolari (m-n ; c-e) ; confusione nel discriminare segni alfabetici che corrispondono a suoni che si assomigliano (f-v, t-d, p-b) ; omissioni di grafemi e di sillabe (fonte-fote; fuoco-foco);

inversioni di sillabe (semaforo-sefamoro) ; salti di parole e salti da un rigo all’altro ; aggiunte e ripetizioni di sillabe (tavolo-tavololo). Le abilità di base che possono essere compromesse sono: la percezione e l’integrazione visivo- uditiva ; la memorizzazione visiva ; l’organizzazione e l’integrazione spazio- temporale ;la simbolizzazione uditivo-grafica ; l’organizzazione del linguaggio.

Si può osservare una dislessia cosiddetta fonologica quando

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il sintomo predominante è la difficoltà nella conversione/associazione grafema-fonema, segno-suono, delle singole lettere; una dislessia cosiddetta superficiale o lessicale o ortografica quando il sintomo predominante è la difficoltà di lettura di parole con eccezioni di pronuncia o accentate in modo irregolare cioè quando l’allievo non ha costruito il vocabolario lessicale necessario ad automatizzare la lettura e ha difficoltà nell’accesso o nel recupero della forma ortografica e fonologica della parola nel lessico mentale. La dislessia che si può trovare più frequentemente è però quella di tipo misto che presenta sintomi tipici di entrambe le due categorie precedenti. Nel soggetto con dislessia si possono accentuare i precedenti aspetti di difficoltà nello studio delle lingue cosiddette “opache” come l’inglese (complesso legame tra pronuncia e scrittura).

L’alunno, in una prima fase della scolarizzazione, sbaglia molto o ha bisogno di dedicare più attenzione del normale nel leggere correttamente (e/o nella giusta sequenza) le singole lettere o sillabe.

Questo comporta uno o più di questi effetti: si affatica di più quando legge; legge in modo scorretto; ci mette più tempo a leggere; ha più difficoltà a comprendere la frase letta; prova meno piacere e sviluppa scarso desiderio di esercitarsi nella lettura.

Il lettore con Dislessia, in una seconda fase (fino ad arrivare all’età giovanile e a volte adulta), deve dedicare più attenzione del normale nel decodificare correttamente le parole (soprattutto quelle più complesse, quelle nuove o quelle che incontra raramente -per alcuni quelle scritte in carattere più piccolo, “stretto”, elaborato, o che non sia lo

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stampato maiuscolo-), quindi ha meno risorse attentive da dedicare al contenuto di ciò che sta leggendo.

Così, oltre agli effetti sopra descritti: ha bisogno di rileggere consegne scritte e testi (quindi ci mette più tempo); salta il rigo o non riesce a dedicare sufficiente attenzione alla punteggiatura; ha difficoltà a comprendere i testi, a fare un lavoro sui testi scritti e a studiare; prova meno piacere e sviluppa scarso desiderio (se non vero e proprio rifiuto ) di leggere o di impegnarsi in compiti che richiedono lettura:

seguire una lettura fatta insieme in classe, seguire una spiegazione fatta con l’ausilio di scritte sulla lavagna, copiare dal libro o dalla lavagna, leggere le consegne degli esercizi sul libro, leggere i compiti segnati sul diario o sul quaderno, verificare di aver scritto bene qualcosa sul quaderno o nelle verifiche scritte, cercare parole sul dizionario, studiare; a volte legge e svolge compiti in modo migliore, altre volte (quando deve pensare a più cose contemporaneamente, quando è più stanco, oppure meno interessato, oppure più in ansia) legge e svolge i compiti in modo peggiore.

Per la diagnosi di dislessia sono considerati, attraverso test standardizzati somministrati da personale specialistico dell’Azienda Sanitaria, i parametri di velocità e accuratezza nel processo di decodifica cioè di lettura.

Le difficoltà specifiche dell’alunno dislessico, sono molteplici, tuttavia si possono ricondurre a due grandi tipologie di compromissioni: le difficoltà fonologiche:

difficoltà nel processo di conversione/associazione di uno o più grafemi ai rispettivi fonemi; le difficoltà lessicali o ortografiche: difficoltà nell’accesso e nel recupero della

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forma ortografica e fonologica della parola dal lessico mentale.

In un alunno con dislessia è spesso presente la difficoltà di comprensione di un testo attraverso la lettura, aggravando così il quadro clinico, mentre non parrebbe inficiata la comprensione di un testo attraverso l’ascolto. È importante ricordare che la dislessia non è una malattia, perché la malattia ha un suo cursus specifico, viene attivata, ha dei momenti di acutizzazione, dei momenti di riduzione;

trattandosi di un disturbo di natura neurobiologica, essa può essere considerata una caratteristica individuale del soggetto (che non lo abbandonerà mai). Gli studi sull’eziologia di questo disturbo mostrano che la causa più frequente è la familiarità, cioè la presenza della difficoltà di lettura in alcuni membri della famiglia.

2.8 I disturbi del sistema dei numeri e del calcolo

La discalculia è una difficoltà specifica nell’apprendimento del calcolo che si manifesta nel riconoscimento e denominazione dei simboli numerici, nella scrittura dei numeri, nell’associazione del simbolo numerico alla quantità corrispondente, nella numerazione in ordine crescente e decrescente, nella risoluzione di problemi. La discalculia riguarda la parte esecutiva della matematica e ostacola quelle operazioni che normalmente dopo un certo periodo di esercizio tutti svolgono automaticamente, senza la necessità di particolari livelli attentivi; le prestazioni di base dei discalculici risultano pertanto significativamente al di sotto del livello atteso rispetto all’età cronologica, alle capacità cognitive e alla classe frequentata. L’efficienza nel

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problem solving matematico non concorre alla diagnosi di discalculia ma appare correlata al livello delle competenze cognitive o al livello di competenza linguistica. La discalculia interferisce in modo significativo con l’apprendimento scolastico e si traduce in difficoltà altrettanto gravi di problematizzazione della realtà e di apprendimento di abilità sociali che richiedono la reversibilità, la seriazione, la classificazione e la comprensione delle relazioni spaziali e temporali L’allievo con discalculia spesso è confuso erroneamente con gli studenti con scarso rendimento in matematica dovuto a un insufficiente impegno personale nello studio. Bisognerebbe tenere presente invece una grossa differenza: a causa della non acquisizione degli automatismi di calcolo, per avere un rendimento solo accettabile, un discalculico, in generale, deve utilizzare una gran quantità di energia e di tempo.

(APA, 2001)

I docenti dovrebbero, nel rispetto della programmazione disciplinare prevista per la classe, comprendere significativamente i personali tempi e modalità di apprendimento di uno studente con discalculia.

Il soggetto con discalculia può avere le seguenti difficoltà:

nella lettura e scrittura di simboli matematici (1-7; 3-8; a-α;

>-<); nella scrittura di numeri sotto dettatura (soprattutto quelli che contengono lo zero: 10035 -135); nell’associare a una certa quantità il numero corrispondente (quattrocento=

104); nell’incolonnare i numeri; nello svolgimento di operazioni matematiche (5 + 5 = 25 ; 3x3=6); nella comprensione di nessi e relazioni matematiche; nella memorizzazione di regole, cifre e tabelline; nelle strategie di

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calcolo a mente (applicazione di procedure facilitanti); nelle operazioni di calcolo (riporto, incolonnamento, prestito, ordine di esecuzione); nelle operazioni di comparazione, seriazione e classificazione; nell’analizzare e nel riconoscere i dati che permettono la risoluzione di problemi;

nel recupero dei fatti numerici; negli algoritmi del calcolo scritto.

Le abilità di base che possono essere compromesse sono: il processo di simbolizzazione; le capacità percettivo-motorie;

le capacità prassiche; l’organizzazione e l’integrazione spazio-temporale; la capacità di memorizzazione;

l’esecuzione di consegne in sequenza. La discalculia comporta uno o più di questi effetti: svolge molti compiti di matematica in modo più scorretto (specialmente o solo quando va di fretta, quando deve pensare a più cose contemporaneamente, è più stanco, meno interessato, oppure più in ansia); si affatica di più quando affronta compiti che comportano aspetti matematici; impiega più tempo a svolgere compiti di matematica; prova meno piacere e sviluppa scarso desiderio (se non vero e proprio rifiuto ) di svolgere compiti di matematica o di impegnarsi in compiti che la richiedono; variabilità maggiore delle prestazioni: a volte scrive e svolge compiti di matematica in modo migliore, altre volte li svolge in modo peggiore.

Per la diagnosi di discalculia, attraverso test standardizzati somministrati individualmente da personale specialistico dell’Azienda Sanitaria, è necessario considerare i parametri di accuratezza e velocità nelle abilità matematiche e ricorrere all’analisi qualitativa dell’errore e delle modalità di approccio ai quesiti aritmetici. (Booth, Ainscow, 2008).

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CAPITOLO III

La rieducazione neuropsicologico-cognitiva nel ritardo mentale

Pierluigi Zoccolotti, nella presentazione del saggio “La riabilitazione neuropsicologica in età evolutiva”, ci illustra le difficoltà legate alla riabilitazione neuropsicologica.

“Non è facile parlare di riabilitazione neuropsicologica. E questo per varie ragioni. Un aspetto certamente importante ha a che fare con la durata temporale dei trattamenti. Le procedure diagnostiche richiedono di norma un tempo comparativamente limitato. Al contrario, la durata di un intervento riabilitativo è molto più lunga e variabile da caso a caso, essendo determinata in modo primario del raggiungimento degli obiettivi impostati nello specifico progetto terapeutico. Un altro aspetto importante riguarda il modellamento individuale dell’intervento. Ogni paziente in qualche misura è un caso a sé stant ”.

Esiste anche la necessità quindi, “di adattare il trattamento riabilitativo al ritmo individuale di apprendimento - che inevitabilmente - … rende difficile sia in termini teorici generali sia in termini di quantificazione sperimentale, una formalizzazione dell’intervento che si presti ad una descrizione sistematica.… Forse ancora più complesso è parlare di riabilitazione neuropsicologica in ambito evolutivo. In ambito evolutivo, le patologie si innestano sul più generale processo di apprendimento e il risultato di tutto ciò si discosta in modi complessi da una condizione

“normale“ che possa essere utilizzata come punto di riferimento.“ (Zoccolotti, 2003)

Particolare importanza in quest’ambito assume il concetto di

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riabilitazione. Infatti se consideriamo soltanto la descrizione o la diagnosi delle procedure neuropsicologiche o ci dimettiamo a fornire ragazzi e famiglie un mero sostegno psicologico, ci accorgiamo di quanto I nostri sforzi possono risultare o fini a se stessi o o privi di spessore e utilità.

“L’ottica riabilitativa permette al contrario di collocare lo sviluppo del ragazzo al centro del lavoro. In questa cornice, trova un senso l’attività di tutte le persone che ruotano attorno ai ragazzi: neuropsicologi, psicologi, riabilitatori, insegnanti e familiari.

La valutazione neuropsicologica accurata delle funzioni cognitive rappresenta, in questa chiave, un elemento fondamentale di monitoraggio dell’andamento del trattamento.

Al contempo, il confronto di terapisti e famiglie che costruiscono insieme un percorso di obiettivi possibili, aiuta i familiari a calarsi nell’ottica del fattibile, aiutandoli ad evitare atteggiamenti che oscillano fra la depressione e disfattismo e illusioni realistiche.

La valutazione neuropsicologica permette di misurare le abilità cognitive (attenzione, memoria, linguaggio, percezione, funzioni esecutive) mediante la somministrazione di test neuropsicologici di valutazione globale e di test neuropsicologici funzione- specifici.

(Zoccolotti, 2003)

Una visita neuropsicologica è costituita da varie fasi e include: colloquio clinico- neuropsicologico;

somministrazione di test neuropsicologici; colloquio con il familiare accompagnatore.

Vengono utilizzati strumenti psicometrici computerizzati e/o

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carta-matita sensibili e specifici che consentono di delineare il profilo cognitivo di un individuo con lesioni cerebrali, patologie neurodegenerative, patologie psichiatriche croniche, condizioni mediche generali interferenti con il funzionamento cerebrale. Infatti, in seguito a lesioni cerebrali traumatiche, patologie vascolari, processi cerebrali degenerativi (es. demenza), patologie psichiatriche croniche o condizioni mediche generali, le abilità cognitive possono essere danneggiate e si possono osservare – in associazione ai deficit cognitivi – alterazioni comportamentali, emotive e di autonomia.

La valutazione neuropsicologica attualmente persegue diversi scopi e si rivela indispensabile a fini diagnostici, prognostici, peritali e riabilitativi.

La riabilitazione neurocognitiva, come abbiamo già accennato, è un processo terapeutico rivolto al soggetto con danno cerebrale, per ridurre i deficit cognitivi e comportamentali, per migliorare la sua capacità di elaborare e utilizzare le informazioni e per consentirgli un migliore funzionamento sociale e lavorativo. (Mazzucchi, 2006) Fonda i suoi presupposti teorici sulle proprietà plastiche del cervello, ossia le capacità di modificare la propria struttura e funzionalità, sia a livello neuronale che cognitivo, in risposta a richieste e stimoli provenienti dall’ambiente e mediante la stimolazione di processi di apprendimento.

A seconda della patologia si osservano deficit cognitivi peculiari e ciò richiede una programmazione dell’intervento di riabilitazione neurocognitiva mirata e specifica.

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