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Capitolo 2 L’Affidamento familiare: teoria, modello, prassi.

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Capitolo 2

L’Affidamento familiare: teoria, modello, prassi.

2.1 Il progetto d’affido tra complessità e benessere

A distanza di ormai molti anni dalla legge “istitutiva” dell’affidamento familiare, credo si possa fare, a questo punto, una riflessione rispetto a cosa si intenda davvero, concretamente, per affidamento familiare. Mi riferisco ad un ragionamento che non sia solo teorico, ma che si basi anche sulle esperienze realizzate sul territorio e formalizzate, nella stragrande maggioranza dei casi, dalla magistratura minorile.1

Dal punto di vista degli interventi che i servizi mettono in atto a tutela dei minori e della famiglia, si è spesso pensato all’affido familiare come alla soluzione principale e prioritaria del problema della sistemazione extra familiare dei bambini allontanati dalla loro famiglia d’origine. Probabilmente l’affido ha goduto di una sorta di privilegio ideologico, per l’espressione del concetto di famiglia che esprime, e questo ha fatto sì che non venissero ben considerati alcuni elementi problematici insiti in tale progetto che, invece, ad una valutazione più attenta dei risultati di molti affidi, si rivelano essenziali sia per il suo buon funzionamento che per optare per una scelta alternativa allo stesso.2

1 Le ricerche indicano che gli affidi disposti dalla magistratura, quindi giudiziari, sono la netta maggioranza, rispetto a

quelli consensuali.

2 L. Morini, Affido familiare: un'analisi critica, in “Prospettive sociali e sanitarie”, n.19/2006.

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Occorre, innanzitutto, pensare bene, seppur con tempi che si concilino con quelli del bambino, prima di programmare un affidamento familiare.

Il concetto di complessità, acquisito sempre più diffusamente dagli “addetti ai lavori”, nonché dagli studiosi, e considerato oggi come un principio guida nell’operatività dei servizi, deve essere tenuto a mente costantemente e deve consentirci di fare pensieri sistemici, intercorrelati: per progettare un affido dobbiamo pensare, fin da subito, che abbiamo a che fare con la complessità. Prima di iniziare, ci dobbiamo preparare come nell’organizzazione di un viaggio, straordinario, arricchente, ma molto impegnativo, per le modifiche che, necessariamente, impone. Nel nostro bagaglio dobbiamo avere informazioni approfondite su tutta la famiglia, sulle relazioni tra i suoi membri, sugli “attori” più importanti, sulle abitudini del bambino; in particolare su ciò che ha avuto e da chi, ma anche su ciò che gli è mancato o, peggio, sulle violenze e trascuratezze subite, su quanto e in che modo quel particolare, unico, bambino si farà affidare o meno; dobbiamo ipotizzare come reagirà il nucleo alla “perdita”, quali ferite si riattiveranno nei genitori, che impatto sociale avrà per la famiglia l'intervento, come risponderà l'ambiente sociale del minore (scuola, parrocchia, vicinato). Questi “pensieri” non hanno ovviamente lo scopo di demotivare l’affidamento familiare nel caso in cui intravedessimo delle difficoltà o dei rischi, ma sono fondamentali per pianificare il lavoro e farci trovare pronti a fronteggiare le avversità e i momenti di naturale crisi. Il concetto di complessità, che sarà il principio cardine della presente dissertazione, è ben

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rappresentato anche nel lavoro di Cirillo già citato nel capitolo precedente, “Famiglie in crisi e affido familiare”, nonostante il testo in questione sia stato scritto a poco tempo di distanza dalla promulgazione della legge sull’affidamento.3 A più riprese egli precisa infatti la molteplicità delle

operazioni richieste per mettere in atto un affido. Per citare solo le principali, occorreranno: diagnosi e prognosi della famiglia d’origine, selezione della famiglia affidataria, abbinamento mirato, terapia alla famiglia biologica, sostegno alla famiglia affidataria; in assenza di tali elementi imprescindibili non sarà possibile attuare un progetto che rivesta “dignità”.

Un altro aspetto su cui punta l’autore è, come già anticipato, l’integrazione: egli infatti considera che è “condannata al fallimento l’ambizione di un solo operatore di prendersi in carico un intero sistema allargato, conflittuale al suo interno, com'è tipicamente quello costituito da famiglia naturale e famiglia affidataria”.4

Fa riflettere anche sul fatto che impegnare un solo operatore potrebbe apparire, ad una valutazione precipitosa, come una scelta di economicità, ma sommando i costi di una presa in carico così gravosa e articolata, dove l’operatore corre il rischio di implodere professionalmente, anche per le componenti identificatorie lasciate libere di circolare, in assenza del prezioso lavoro di regolazione attuato dall’équipe, si può facilmente concludere che vi è sicuramente un maggior

3 S. Cirillo, Famiglie cit.

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risparmio nell’elaborazione di un progetto di presa in carico che consenta un’integrazione finalizzata dei singoli interventi.

Tali concetti mi sembra possano essere rappresentati dal caso sottoesposto:

Alice è una minore che, oggi, ha sedici anni, ma ne aveva nove quando è iniziata la sua esperienza di affidamento familiare. L’intervento è stato attuato nell'urgenza, perché la bambina, vittima di un grave conflitto della coppia genitoriale, al termine di un periodo di tempo trascorso con la madre, era stata da questa accompagnata a scuola, dove avrebbe dovuto poi essere “ritirata” dal padre, all’uscita. I due genitori, separati, non si erano comunicati reciprocamente le loro intenzioni: la madre era tornata nel paese deve risiede tutt’ora, a più di quattrocento chilometri di distanza dal luogo di residenza della minore, ed il padre non era rientrato da un viaggio nel suo paese d’origine. Le insegnanti della scuola frequentata dalla bambina si erano così ritrovate nella difficile situazione di dover gestire un vero e proprio abbandono: il padre risultava infatti irraggiungibile e la madre si dichiarava impossibilitata a tornare a riprendere la bambina. Con il tempo, l’incompetenza genitoriale dei coniugi e la trascuratezza nei confronti della figlia, si sono andate sempre più delineando, così come la superficialità e l’immaturità di entrambi, unite però ad un atteggiamento assolutamente ambiguo e invischiante con la bambina, a cui, pur sfuggenti e lontani, hanno sempre verbalizzato affetto e desiderio di riconciliazione; negli incontri protetti (sulla cui metodologia ritornerò in seguito), che non sono mai stati più frequenti che trimestrali, non hanno in nessun caso mancato di farle regali inappropriati e megalomani, accompagnati a spiegazioni di impossibilità ad essere più presenti per malattie, mancanza di lavoro, di casa, di mezzi. Ovviamente i servizi, in questi anni, hanno “lavorato” alacremente per la minore, sia per contenere il “conflitto di lealtà” che viveva, intendendo con questo l'inconciliabilità vissuta tra l’amore per la sua famiglia d’origine e quello verso la famiglia affidataria, nonché ‘'idealizzazione delle sue figure di riferimento, ma anche per sostenerla ed incoraggiarla nell’elaborazione dell’abbandono, nell’accompagnamento psicologico e sociale all’interno della famiglia affidataria (nella quale ha continuato comunque a sentirsi un ospite). Il Tribunale Minorile ha preso in considerazione, in accordo con i servizi, il decadimento della potestà genitoriale, ma la minore, ascoltata, si è detta contraria, disperata all'idea di non poter tornare con i genitori. Diverse sono state le difficoltà che la famiglia affidataria ha dovuto

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fronteggiare, soprattutto per sopperire alle delusioni che, sistematicamente, i genitori naturali provocavano alla figlia; la coppia affidataria stessa, nella crisi, ha attivato modalità non sempre consone, ma comunque in linea con il “gioco familiare” della loro famiglia, anche allargata. Si è così sperimentato, ancora una volta come operatori, la difficoltà a lavorare con gli affidatari sulle istanze interne che li hanno condotti all’affido, anche quando queste sono abbastanza chiare e condivise, o comunque palesate tra gli operatori e con la famiglia: tali aspetti infatti, sembrano sempre più riservati quasi esclusivamente alla fase di conoscenza, ed in seguito “messi da parte”, perché “oscurati” dalle impellenti esigenze e vicende del minore e della sua famiglia naturale. Ovviamente ciò che sottende alla richiesta d’affido, le reali motivazioni alla candidatura, emergono e seguono incontrollate la loro via proprio nei momenti di crisi: questo è ciò che è avvenuto nella vicenda in esame.

Ultimamente, a seguito dell’ennesimo agito provocatorio della ragazza, che l’ha messa in una situazione di grave rischio ed ha evidenziato in lei una forte attrazione verso l’infrazione delle regole e la capacità di simulare, la famiglia si è mostrata impaurita e incapace di comprendere il limite tra un eventuale disagio psicologico sofferto da Alice e il bisogno di sperimentarsi, tipico dell’età adolescenziale; la coppia ha espresso la propria impotenza ed ha mostrato una grave vulnerabilità, tanto da rendere indispensabile procedere ad un inserimento della minore in una Comunità Educativa, rispondendo alle ripetute richieste di Alice di essere allontanata (pur non prospettando un progetto di vita alternativo concreto) e nell’ipotesi di poter riportare un minimo di equilibrio in una situazione di complessiva confusione, da cui anche gli operatori dei servizi sono stati sopraffatti.

Gli elementi di criticità, che hanno assunto una valenza assolutamente negativa e distruttiva, si possono così riassumere:

- la storia della minore, adultizzata e trascurata, che le ha reso particolarmente difficile “lasciarsi andare” in una situazione di accudimento e di considerazione che non aveva mai sperimentato;

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- la distanza fisica dei genitori, che ha reso impervio, se non impossibile, qualsiasi lavoro con loro, compresa anche la ricostruzione della loro storia pregressa, entro la quale, certamente, si annidano i comportamenti attuali;

- il conflitto di lealtà vissuto dalla minore, che ha favorito in lei comportamenti ambivalenti, facendola sentire continuamente in bilico tra il legame che ha sempre sentito forte con la famiglia d’origine, (nonostante in diverse occasioni si sia lasciata andare a critiche, anche feroci, verso entrambi i genitori), e l’affetto e la riconoscenza nei confronti della famiglia che l’ha accolta, che le hanno fatto sperimentare il ruolo di figlia, sconosciuto e causa di dolorosi sentimenti di tradimento verso i genitori biologici.

- la difficoltà della ragazza ad inserirsi nella famiglia affidataria, che ha portato i genitori affidatari, nell’ultima fase, a inviarle messaggi espulsivi, sebbene non a livello consapevole. Si consideri, a tal proposito, che l’ipotesi costruita dagli operatori sulle motivazioni che hanno indotto la famiglia affidataria a rivolgersi all’affido (oltre ad una buona dose di umanità, sensibilità, altruismo e fede religiosa), è che la coppia genitoriale mirasse ad inviare messaggi precisi alla famiglia allargata della madre affidataria, da cui entrambi i coniugi sembrano ricercare approvazione, pena la sofferenza ed il disagio. Accogliere un bambino in affido sembra aver avuto, nella loro storia, il significato, senz'altro inconscio, di suscitare ammirazione e rispetto da parte della famiglia allargata della donna (l’uomo sembra molto più autonomo dalla propria famiglia d’origine e risulta invece molto legato alla famiglia della moglie); sentimenti che, forse, i due

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coniugi percepivano minati dal precoce matrimonio del primo figlio, con conseguente “inserimento” dello stesso nella famiglia della moglie (come un atteggiamento trasmesso da padre in figlio) e il trasferimento del secondo figlio in un’altra regione, per svolgere un lavoro che già svolgeva vicino a casa. Il pensiero sotteso, che accompagna l’agito, sembra essere: “Se prendiamo un bambino in affido i nostri parenti non metteranno in dubbio che siamo buoni genitori!”; è facilmente intuibile la disperazione, il lutto, la difficoltà a mantenersi integri psicologicamente, allorché la minore, nonostante tutto l’impegno e l’amore profuso, non si comporta da buona figlia, serena e grata. Certamente tale prospettiva è inserita in un universo di relazioni, affettive, educative, ed anche in altre motivazioni già espresse, che sono senz’altro sane nel contenuto, nonché in una normale quotidianità nutritiva.

In queste situazioni, il dilemma che sopra ogni altro attanaglia gli operatori è il futuro della ragazza: quest’ultima infatti corre il rischio, nel tentativo di riappropriarsi in maniera così manicheista della sua appartenenza, di essere destinata ad un cammino infruttuoso e doloroso. Difficilmente trarrà contenuti terapeutici da questo ennesimo lutto, al di là di quali siano le caratteristiche della comunità educativa che l’accoglie, che hanno comunque una fondamentale importanza. Certamente un lavoro sarà possibile se tutti gli attori coinvolti, in primis gli operatori dei servizi, si attiveranno per la ricostruzione dei legami e l’elaborazione delle separazioni necessarie. E’ mia opinione che l’unico progetto possibile, per garantire un futuro sufficientemente sereno alla ragazza, sia quello

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di aiutarla a dare un senso alle sue istanze separative e disfattiste, nonché accompagnarla ad investire in maniera maggiormente proficua e stabile nella famiglia affidataria che, da diversi anni a questa parte, ha rappresentato per lei l’unica possibile, con i limiti e le potenzialità già evidenziate. Certamente tutto questo sarà possibile a patto che la famiglia affidataria non viva come distruttivo per sé un lavoro, ormai indispensabile, sull’affrancamento dalla famiglia d’origine, sull’autonomia e la consapevolezza, che metta in dubbio anche le apparenti certezze.

Tale impegnativo progetto potrà realizzarsi inoltre solo se i punti di vista, distanti e spesso contrapposti, dei vari professionisti coinvolti a vario titolo, riusciranno a coesistere, in sinergia, ciascuno tollerando l’inevitabile adattamento, senza sentirsi minato da sentimenti di perdita e sopraffazione alla propria specificità.

In questo caso sembra sufficientemente rappresentato il concetto, sopraesposto, che l’affido porti con sé il tema della complessità. Appare utile sottolineare, ancora una volta, che pensare all’affido mediante il “paradigma della complessità”5è il primo passo da compiere se si vuole procedere con successo su

questo terreno impervio. L’affido rifugge le logiche di causalità lineare e gli approcci semplificatori: incedere secondo il principio di causa ed effetto è causa di frustrazioni e insuccessi. Rendersi invece disponibili a lavorare con la complessità significa aver ben interiorizzato che “l’insieme è diverso dalla

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somma delle parti”, come enunciato originariamente dalla scuola della Gestalt negli anni '50, rilanciato poi da Lewin, pioniere della psicologia sociale, quindi reinterpretato da von Bertalanffy, fondatore della teoria generale dei sistemi, e dagli studiosi delle interazioni umane: questo fondamentale principio rimane la base dell’agire operativo, anche nel campo dell’affido.6

Fabio Sbattella, nell’introduzione al primo testo del CAM sull’affido, sopracitato, riporta: “Disporsi alla frequentazione della complessità significa anche rinunciare a steccati istituzionali, a rigide separatezze tra servizi, a prassi operative interessate più a definire confini di zone di influenza, che a guadagnare trasversalità e canali di comunicazione. Significa, in altre parole, imparare seriamente a collaborare, a negoziare e rinegoziare frequentemente con altri adulti regole e definizioni di ruolo, metodologie e obiettivi, anche quando si ha come fine primario il mantenere costante il delicato equilibrio evolutivo di un percorso di crescita. L’affido è infatti, per definizione, un’opera collettiva a più mani, generata nel tempo dagli apporti di molti soggetti. In essa il desiderio della presenza di grandi registi o direttori d’orchestra deve realisticamente lasciare il posto al fascino di una integrazione paziente, tessuta dai protagonisti che accettano, ciascuno, di partecipare responsabilmente all’opera collettiva e rimangono, a lungo, al proprio posto. L’affido non può essere infatti realizzato e condotto da singoli operatori, da famiglie isolate, da persone ricche della sola volontà di bene. C’è bisogno d’équipe, di reti di servizi, di chiari protocolli

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d’intesa, di forti capacità di gestire la propria posizione attiva all’interno di un’azione collettiva.”7

2.2 Progettare un affido: l’importanza di conoscere la storia trigenerazionale e, in parallelo, il livello di salute psico-sociale del bambino

La normativa, (già trattata nel primo capitolo), afferma con evidenza il diritto del minore ad essere educato nell’ambito della propria famiglia e sottolinea chiaramente che, alle famiglie in condizione di disagio, devono essere destinati idonei interventi che consentano al minore di crescere con i propri genitori. Ad eccezione di casi di necessità ed urgenza, l’allontanamento del minore dalla propria famiglia può essere previsto, nel suo esclusivo interesse, solo quando gli interventi di sostegno messi in atto non hanno conseguito gli effetti desiderati e la permanenza in famiglia può generare un grave pregiudizio per la sua crescita.8

Se tutto questo si deve realizzare prima dell’affidamento familiare, se prioritariamente l’impegno deve essere rivolto a mantenere il minore nella sua famiglia d’origine, e quindi a favorire tutti quegli interventi di sostegno e cura del nucleo, di salvaguardia del rapporto, è ovvio che tale progetto riguarderà, in maniera massiccia, minori, famiglie gravemente destrutturate, dove gli interventi di cui sopra sono falliti. Tali situazioni presentano infatti difficoltà sociali, sanitarie, psicologiche, difficilmente recuperabili o non recuperabili affatto, associate ad un legame con il figlio che, in genere, si ritiene che sia da garantire,

7 CAM (a cura di), L'affido cit., pagg.11-12. 8 L.149/01, art.1, comma 3.

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a tutela dell’equilibrio psicologico del minore: l’esperienza ci insegna che gli strappi sono troppo dolorosi da tollerare.

Partendo da questa constatazione, sarà più facile per tutti (operatori, famiglie, bambino, terzo settore), gestire quelle situazioni, la maggioranza, in cui l’affido non avrà termine, senza comunque trattarle come “adozioni mascherate”, bensì cercando, in tutti i modi, di costruire progetti a salvaguardia dei legami familiari. L’impegno prioritario, a mio avviso, come già indicato, dovrà essere quello del legislatore, nello sforzarsi di pensare ad un nuovo istituto giuridico o ad una sostanziale modifica di quello presente, che tuteli maggiormente, a livello soprattutto legale, minori, famiglia naturale e famiglia affidataria; il dovere professionale impone comunque anche agli operatori dei servizi di affinare, sempre più, i contenuti teorici e aver ben chiaro che il progetto del minore non finisce con l’affidamento familiare: un lavoro con i genitori, sebbene siano difficili da trattare, aggressivi, scostanti, delegittimanti e gravemente ammalati, deve sempre essere fatto, perché se il bambino potrà giovare, almeno, di incontrare i suoi genitori e trovarli un po’ meno compromessi, avremo fatto molto per il suo equilibrio futuro, indipendentemente dalla famiglia affidataria in cui lo abbiamo collocato che, certamente, è quasi sempre più piacevole da incontrare.

Nel pensare ad un progetto di tutela per un minore occorre, in prima istanza, domandarci cosa si intenda per genitorialità fragile, o inadeguata; chiederci chi

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siano i “Cattivi genitori”9 e le conseguenze che tali individui avranno sulla vita

dei loro figli.

L’assunto che guida tale percorso è recepito da Bowlby: “se una società vuole veramente proteggere i bambini, deve cominciare con l’occuparsi dei genitori”.10

Per attivare un qualsiasi processo d’intervento in favore dei minori che necessitano di tutela infatti, non si può prescindere da una presa in carico dei genitori, e per riaccendere negli operatori la motivazione a lavorare con genitori abusanti, maltrattanti, trascuranti, il primo passo è quello di non tralasciare il fatto che questi adulti sono stati, a loro volta, “bambini incompiuti”.11

Il riferimento teorico è quello della trigenerazionalità che impone uno sguardo sulle tre generazioni e che, come già anticipato, rifugge le valutazioni e le ipotesi lineari, a favore della multifattorialità.

Ondina Greco e Raffaella Iafrate ci suggeriscono che: “Il benessere del minore ha sempre a che fare con il bisogno di legittimazione: esso si definisce con l’appartenenza di stirpe, con il riconoscimento di una genealogia che travalica la condizione presente dei genitori naturali.”12

E’ infatti ormai assodato che non tutto si giochi nel presente, e che le condizioni presenti siano solo una parte della storia familiare.

9 S. Cirillo, Cattivi cit.

10 J. Bowlby, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina, Milano 1982. 11 S. Cirillo, Cattivi cit.

12 O. Greco – R. Iafrate, Figli al confine, una ricerca multimetodologica sull'affidamento, ed. Franco Angeli, Milano

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Vi è comunque necessità di fare un’analisi anche del presente, per un’efficace azione professionale. Quando siamo in presenza di inadeguatezza genitoriale, che può essere transitoria o definitiva, più o meno grave, dobbiamo sempre indagare attentamente su quanto questa mancanza sottoponga, in quel momento, nel “qui ed ora”, il bambino, che è per sua natura incapace di difendersi emotivamente e cognitivamente, a gravi danni sull’apprendimento, sulla socializzazione, sulla fiducia di base e su una gran parte delle competenze, presenti e future.

Paola di Blasio, nella prefazione al testo “Cattivi genitori”, indica quanto i traumi, le aggressioni fisiche e verbali, compiute nel quotidiano, abbiano “il potere di sconvolgere, di alterare i meccanismi neurali, di confondere e modificare i ricordi, di disregolare le emozioni e di trasmettere un’idea del mondo e dei rapporti distorta e deformata.”13

Dovendo procedere ad una classificazione, seppur approssimativa, basata sull’esperienza lavorativa (ormai ventennale), sulle ricerche visionate, nonché su svariate pubblicazioni in materia14, si può senz’altro sintetizzare che, la maggior

parte dei genitori di questi minori, ha una diagnosi di malattia mentale, o è in carico al servizio per le dipendenze (tossico e/o alcol dipendenza) o presenta sintomi antisociali e/o difficoltà relazionali che, spesso, sfuggono alla presa in carico specialistica. Per lo più sono famiglie multiproblematiche, in cui è

13 P. Di Blasio in S. Cirillo, Cattivi cit., pag. IX.

14 Le ricerche sono quelle condotte dal Centro Nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza e

del Centro Regionale di documentazione per l’infanzia della Regione Toscana, mentre le pubblicazioni citate sono quelle comprese nella bibliografia del presente lavoro.

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presente la disabilità, l’invalidità, la disoccupazione o sottoccupazione, la precarietà alloggiativa.

Nella totalità dei casi, questi adulti hanno avuto figure d’attaccamento carenzianti ed hanno subito, nel corso della loro infanzia, gravi situazioni traumatiche: i “cattivi genitori” hanno avuto “genitori cattivi”.

Le riflessioni, che ormai da anni conducono sia gli esperti che gli operatori dei servizi, secondo una prospettiva relazionale-simbolica, ci inducono a fare i conti con la potenza, sia positiva che negativa, che si nasconde nella storia lunga delle generazioni.

Ondina Greco e Raffaella Iafrate, in una ricerca sull’affidamento familiare, parlando dell’importanza di conoscere le vicende trigenerazionali, riferiscono: “Tale potenziale può essere avvicinato[…]: se ne può rintracciare qualche indice, oppure può essere anche solo presunto, messo in conto, supposto come presenza silente.”15

Conoscere la storia della famiglia consente certamente di progettare in maniera più efficace. Prevede un movimento che evoca quello del pendolo: quanto più si va all’indietro, tanto più si acquista la spinta per salire verso l’alto.

Conoscere il bambino che è stato il genitore che abbiamo in carico, stimola, inevitabilmente, un approccio empatico, che non deresponsabilizza, né prescinde da attuare interventi a protezione del bambino, ma che decolpevolizza e offre la possibilità, preziosa, di dare un senso.

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Condurre colloqui empatici non significa, infatti, assolutamente, giustificare il comportamento maltrattante, bensì renderlo maggiormente comprensibile agli occhi stessi di chi lo ha commesso.

Ripercorrere la storia infantile del genitore non ha lo scopo di individuare la ragione che lo autorizzi a maltrattare i suoi figli o lo giustifichi, bensì di porlo in contatto con la propria sofferenza di bambino, in modo tale che egli possa entrare in assonanza con quella sofferenza che provoca ai suoi figli, così da interrompere la catena della ripetizione.

“Per questo è così importante che la scheda familiare non si limiti a indagare i rapporti su due generazioni (bambino-genitori), ma che ne contenga tre, delle quali quella di mezzo è la generazione dei nostri utenti-genitori. Infatti, dobbiamo sempre aver presente che nei casi di maltrattamento, abuso sessuale, trascuratezza, non è il bambino il soggetto sintomatico, ma il genitore: il bambino è la vittima del comportamento nocivo del genitore, e naturalmente potrà poi strutturare, a causa dei danni riportati, dei sintomi, come il Post Traumatic Stress Disorder. Ma primariamente la persona affetta da un sintomo è il genitore, e quindi è in primo luogo la sua anamnesi che dobbiamo raccogliere, per l’appunto ripercorrendo la storia dei rapporti significativi infantili che ha vissuto.”16

A questo proposito, l’operatore dovrà tenere conto del fatto che, il racconto dei genitori-pazienti, sulla loro infanzia, è connotato, quasi sempre, da

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mistificazione e idealizzazione, oltre che da deformazioni dei fatti e incongruenze temporali: la memoria, certamente, per protezione dell’Io, opera un lavoro di cesellamento, occultazione e modifica, che ci consente di sopravvivere.

Nella stragrande maggioranza dei casi che abbiamo in carico assistiamo infatti ad un fenomeno drammatico: i genitori “inadeguati”, che hanno sperimentato un rapporto carenziante con i propri genitori, non hanno consapevolezza del danno ricevuto. Spesso le storie sono coperte da massicce esaltazioni, da forti minimizzazioni: la carenza non è riconosciuta come tale.17

Un altro aspetto centrale, conseguente alla storia infantile del genitore, ed anzi, a questa strettamente connessa, che si ritrova molto spesso nei genitori di cui ci occupiamo, sono le conseguenze insoddisfacenti della relazione coniugale, la pesante problematicità delle unioni matrimoniali. Spesso queste persone si scelgono e si uniscono per placare i loro bisogni infantili profondi, rimasti inappagati. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la formazione della coppia non riesce a soddisfare tali bisogni; anzi, le aspettative sono per lo più destinate ad essere deluse. Anche perché molto forte continua ad essere la dipendenza emotiva con le rispettive famiglie d’origine.

L’esperienza di lavoro finora accumulata ha portato a considerare indispensabile allargare il campo d’osservazione a quello dei sistemi con cui il nucleo utente è in rapporto. Milena Lerma precisa infatti che “eventuali comportamenti

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disturbati, dei singoli o del gruppo, rappresentano l’esito di relazioni interpersonali disfunzionanti che si generano in un preciso contesto interattivo, quello del sistema familiare al suo interno ed in relazione con altri sistemi.”18

Accade che la presenza in una famiglia della disoccupazione, dell’invalidità, della devianza, della conflittualità esasperata tra i coniugi, rappresentino problemi talmente gravi, e spesso estremamente urgenti, da assorbire tutta l’attenzione dell’assistente sociale, che è portato a preoccuparsi più del contenuto della richiesta che di altri aspetti che, nel tempo, hanno determinato il problema e lo mantengono: la cronicità assistenziale di alcune situazioni familiari ci ha costretto a riflettere su come il nesso tra evento grave e disagio presente non sia mai di causa ed effetto ma, sempre, multidimensionale.

Accanto a genitori inadeguati, vivono bambini sofferenti (adultizzati, ipostimolati, trascurati, non riconosciuti come figli, usati nei conflitti, privi di speranza, minati nell’autostima personale): la ricostruzione della storia familiare consente di realizzare un progetto che può produrre cambiamento nei genitori ma, a fronte di gravi segnali di rischio sui bambini, che sono i nostri pazienti primi, l’intervento prioritario, tempestivo, è quello della tutela, ed il contesto che si deve aprire, di conseguenza, è quello, chiaro, del Tribunale Minorile.

Il trattamento dei genitori è in parallelo: occorre, tempestivamente, occuparci anche di loro.

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2.3 La valutazione delle competenze genitoriali

Parlando di valutazione delle competenze genitoriali si dovrà innanzitutto definire cosa si intende per funzione genitoriale.

Dante Ghezzi la definisce come “quell’insieme di comportamenti volti all’accudimento fisico e psicologico del bambino che presuppongono un profondo investimento emotivo nella relazione con lui.”19

Chiarisce quindi che non si tratta di possedere o meno competenze pedagogiche, ma di un’espressione che riguarda profondamente l’identità personale e le relazioni con il partner e le rispettive famiglie d’origine. Nelle situazioni “disfunzionali”, il legame nei confronti del bambino da parte dei genitori non ha come fine il benessere dello stesso, bensì è funzionale a potenti e incontrollabili sentimenti attivati nella relazione tra adulti.

Malacrea e Vasalli riportano che addirittura l’incesto non sia equiparabile ad una banale nevrosi del singolo o ad un atto perverso, ma che questo deplorevole agito abbia radici nelle relazioni familiari; esso può infatti verificarsi perchè si sono gradatamente verificate una serie di modificazioni psicopatologiche della struttura familiare, che vanno dalla parentificazione dei figli, alla figliazione ed emarginazione di uno dei genitori, all’eccessiva attivazione seduttiva del minore, per cui la confusione dei ruoli è totale. Gli autori arrivano a sostenere

19 D. Ghezzi e F. Vadilonga (a cura di), La tutela del minore. Protezione dei bambini e funzione genitoriale, Raffaello

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che tutto il gruppo familiare si rende complice: ogni membro ha una responsabilità, in misura più o meno consistente.20

Stefano Cirillo, sempre trattando dell’incesto, ma in relazione alla valutazione, indica come indispensabile l’allargamento del fuoco dell’osservazione alle famiglie estese dei due coniugi. “L’approfondimento del contesto di apprendimento di ciascuno dei due nella propria famiglia d’origine aiuta l’altro a individuare le radici del comportamento del coniuge e a intravedere, nel contempo, propri possibili comportamenti, atti a correggere, anziché mantenere, le strategie relazionali del partner.”21

Ciò che porta all’ incompetenza genitoriale fonda le sue basi su un disagio non riconosciuto di uno o di entrambi i partner, che viene agito in famiglia, anche con il figlio; l’insoddisfazione di coppia, che non ha fornito le compensazioni richieste sul piano affettivo, dà luogo a incomprensioni profonde ed attiva processi che sfociano nella trascuratezza e nel maltrattamento: i processi si evolvono nell’arco di tre generazioni.22

Secondo Francesco Vadilonga la fase della valutazione della funzione genitoriale “va orientata in senso riparativo per il minore e non accusatorio per i genitori […] i genitori devono essere aiutati a gettare un ponte tra le proprie sofferenze agite e quelle manifeste del figlio.”23

20 M. Malacrea e A. Vassalli (a cura di), Segreti di famiglia. L’intervento nei casi d’incesto, Raffaello Cortina, Milano

1990.

21 S. Cirillo in A. Malacrea e A. Vassalli (a cura di), Segreti cit., pag.223.

22 S. Cirillo, M. V. Cipolloni, L’assistente sociale ruba i bambini?, Raffaello Cortina, Milano 1994. 23 D. Ghezzi e F. Vadilonga, La tutela cit., pagg.76-77.

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Luigi Cancrini riferisce che la difficoltà maggiore di questi genitori, che ostacola drasticamente la funzione genitoriale, è quella di non riuscire a vedere il figlio come persona distinta da sé; intralciano, o addirittura impediscono, l’espressione delle peculiarità del figlio, considerandolo un prolungamento di loro stessi, delle loro personalità più o meno apertamente disturbate; non rispettano i suoi tempi fisiologici di crescita. “La situazione del bambino che vive un’infanzia infelice […] è una situazione in cui egli non è al primo posto della gerarchia, non è l’oggetto principale degli investimenti affettivi dei suoi genitori, ma solo l’oggetto dei loro movimenti transferali. Vissuti come l’oggetto o il bersaglio di fantasie, di emozioni, di pulsioni attive o coperte che non riguardano loro ma i fantasmi relativi alle figure di riferimento affettivo ancora esageratamente attive all’interno dei genitori, questi bambini diventano lo schermo delle emozioni proiettate su di loro da adulti infelici e immaturi. Quello che rischia di fallire, con loro, è il meraviglioso progetto di sviluppo originale in cui si costituisce l’identità della persona che ognuno può diventare.”24

Paolina Pistacchi25, analizzando il significato di “essere genitori”, osserva come,

nel termine, entrino in gioco due categorie tra loro diverse: quella biologica, che si realizza nella procreazione, e quella psicologica, che riguarda la trasmissione di relazioni e di valori attraverso le generazioni. Fa riflettere infatti sul fatto che per espletare un compito generativo è sufficiente aver acquisito una maturità biologica, mentre per quello genitoriale è necessario raggiungere la maturità

24 L. Cancrini, La cura delle infanzie infelici. Viaggio nell’origine dell’oceano borderline, Raffaello Cortina,

Milano 2012.

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psicologica. La genitorialità è quindi una funzione complessa, che si realizza attraverso svariati compiti che i genitori sono chiamati a compiere: si può raggiungere una genitorialità senza alcun legame biologico. Fondamentale è il dovere accuditivo-educativo, che rimanda alla genitorialità come cura e, soprattutto, al legame d’attaccamento che si sviluppa tra il bambino e chi si prende cura di lui. Si parla di “funzione materna”, che offre accudimento, calore, vicinanza e affetto, e di “funzione paterna”, che educa al senso di giustizia e di equità e garantisce il senso del limite e il rispetto della legge. Ovviamente l’una e l’altra funzione possono essere svolte sia dal padre che dalla madre: non esiste più una suddivisione rigida dei ruoli; attualmente tale separazione si è affievolita e le funzioni sono diventate interscambiabili, a patto che i genitori, reciprocamente, siano in grado di riconoscere e sostenere il ruolo genitoriale del partner.

Spesso il vissuto d’attaccamento sperimentato dal genitore nell’infanzia è quello che trasmetterà ai suoi figli: affinché dei genitori si comportino in maniera adeguata nella cura del figlio, è necessario che abbiano sperimentato, in prima persona, un attaccamento sufficientemente buono. Esercitare la funzione genitoriale significa permettere al figlio di esprimere tutto sè stesso, la sua unicità e peculiarità, e non condizionarlo a crescere per dare soddisfazione ai genitori, per appagare le loro aspettative.26

26 P. Pistacchi, J. Galli, Un viaggio chiamato affido. Un percorso verso la conoscenza dei soggetti e delle dinamiche

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Sul comportamento genitoriale ha quindi molta influenza il “funzionamento psicosociale” del padre e della madre.

Alcuni studi sulle famiglie multiproblematiche hanno messo in luce che queste sembrano funzionare secondo due categorie d’attaccamento: l’invischiamento e il disimpegno. Si può assistere infatti ad un totale coinvolgimento di tutti i membri da un lato, con attitudini fusionali, del tutto patologiche, e un totale disinteresse e disimpegno verso i figli dall’altro; queste, nella loro forma più estrema, possono manifestarsi in veri e propri abbandoni, sia fisici che psicologici.27

Identificare quindi precocemente, in via preventiva, i fattori di rischio che minano l’espletamento sano della funzione genitoriale, può far sì che si attivino adeguate strategie di sostegno alla relazione genitori-figlio o, nei casi più estremi, che si intervenga a tutela del bambino, prima che subisca trascuratezza fisica e psicologica, abuso emotivo o maltrattamento; situazioni tristemente note agli operatori dei servizi.

In sintesi, la valutazione della capacità genitoriale è uno strumento diagnostico, multidisciplinare: acquisisce i contenuti della psicologia clinica e dello sviluppo, della neuropsichiatria infantile e della psichiatria, ma si completa anche con la diagnosi sociale, che accerterà, in primis, le cure materiali e morali che i genitori e i parenti sono effettivamente in grado di prestare al bambino, cogliendo anche elementi della relazione.

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In presenza di una assoluta incapacità dei genitori (e della famiglia estesa) a soddisfare i bisogni vitali del bambino, tanto da configurarsi in un’irreversibile situazione di abbandono, la legge provvede a che siano assolti i compiti genitoriali attraverso l’istituto dell’adozione.

E’ evidente che la valutazione delle capacità genitoriali, dal momento che fornisce elementi fondamentali per delicate decisioni che incidono sui diritti personali e familiari, deve soddisfare standard di affidabilità scientifica. “Ogni valutazione clinica e psicosociale con valenza psicoforense, che si collega e traduce in decisioni giudiziarie, deve essere caratterizzata da requisiti di scientificità sotto il profilo teorico, procedurale e metodologico. Deve perciò consentire: 1) la “falsificazione” dei giudizi espressi, in considerazione di tutte le ipotesi alternative e del loro grado di validità; 2) la verificabilità, attraverso l’analisi degli elementi osservati, l’affidabilità e replicabilità delle tecniche utilizzate, ovvero la probabilità di ottenere i medesimi risultati a partire da riscontri svolti da osservatori diversi.”28

Appare quindi chiaro che una valutazione multiprofessionale e multidimensionale è un’ottima garanzia per tutti: operatori, giudici, avvocati, ma, prevalentemente, per le famiglie e il minore.

Soprattutto nel contesto giudiziario, di solito il primo professionista coinvolto è l’assistente sociale: a mio avviso questo operatore ha competenze specifiche per svolgere tale indagine, e, in alcune situazioni, gli elementi e gli strumenti che

28 G. B. Camerini, L. Volpini, G. Lopez, Manuale di valutazione delle capacità genitoriali, Maggioli Editore, Rimini

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possiede lo mettono in grado, per certi aspetti più di altri specialisti, o comunque più tempestivamente, di attivare i primi interventi di sostegno e tutela, nonché di garantire una presa in carico con tempi che altri servizi non riescono a soddisfare. In linea generale possiede mezzi fondamentali per pervenire alla valutazione delle capacità genitoriali, su un piano sociale, che spesso è determinante, pertanto non può sottrarsi a tale compito e delegare agli altri specialisti. Ritengo infatti che se un minore vive in un ambiente insalubre, se è costretto a frequenti spostamenti, se non è ben chiara la figura adulta che si prende cura di lui, se i genitori sono tossicodipendenti e/o alcoldipendenti, o patiscono sofferenze psichiatriche, non hanno un lavoro, provengono da situazioni familiari multiproblematiche e il bambino presenta sintomi nei contesti in cui si interfaccia (nido, scuola, vicinato), o comunque è a rischio il suo sviluppo evolutivo, per dati oggettivi in cui vive la propria quotidianità, questi, o alcuni di questi fattori sociali, tangibili, dimostrabili, possano essere assolutamente sufficienti per procedere con un progetto di tutela. Soprattutto se questi elementi si accompagnano ad una mancanza di collaborazione dei genitori o ad una minimizzazione dei fatti, se non anche alla negazione. Dal punto di vista prognostico poi, se si può prescindere dalla valutazione dello status socioeconomico, dal livello di istruzione, e persino dalla diagnosi di personalità di uno o entrambi i genitori, è assolutamente rilevante il riflesso che i

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comportamenti di questi ultimi hanno sui figli e le risposte, dirette ed indirette, che forniscono allorché vengono richiamati alle loro responsabilità di genitori.29

In considerazione di quanto riportato sull’importanza di avere informazioni sulla trigenerazionalità ed in relazione alle riflessioni sul ruolo che riveste il servizio sociale, si consideri che, spesso, gli assistenti sociali sono i depositari della storia familiare.

L’art.7 della legge della R.T. 41 del 2005, individua l’assistente sociale come la responsabile del caso, sottendendo l’attribuzione di funzioni di coordinamento. E’ la figura professionale che, più di altre, ha relazioni costanti con le persone in carico, attraverso colloqui, visite domiciliari, contatti con la rete di riferimento. E’ ovvio che possiede contenuti per esprimere la propria “voce” rispetto alla valutazione preliminare di pregiudizio in cui il minore si trova per la sua condizione personale e familiare, e di come e quanto questa comprometta il suo sviluppo psicosociale. E’ altrettanto palese che un buon progetto, che garantisca il soddisfacimento dei bisogni del minore non si potrà attuare se non in integrazione necessaria con le altre figure specialistiche, così come con tutti gli altri membri dell’équipe: educatori, insegnanti, assistenti domiciliari e volontari compresi.

Il rischio infatti, da rifuggire, è di procedere in solitudine, come già ricordato nel corso del presente lavoro e sottolineato da tutti gli studiosi che si occupano di servizi sociali e di tutela. Infatti è proprio nella solitudine che si annidano le

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peggiori insidie per l’operatore: lo slittamento di contesto, l’emergere incontrollato del proprio vissuto emotivo, la sopraffazione e le idee rinunciatarie.

Nell’interazione cooperativa tra operatori, si crea invece un mosaico, certamente più complesso rispetto alla visione univoca, ma anche più ricco e più chiaro, oltre che maggiormente fecondo di possibilità.30

Il lavoro di gruppo svolge infatti sempre funzioni molto utili, tra cui azioni autoformative e autocorrettive nei confronti dei suoi membri, compensazione di eventuali carenze o inesperienze dei singoli, ma soprattutto “sperimentazioni altrimenti impossibili ad un operatore isolato, quindi maggiore creatività, ed in ultimo corresponsabilità allargata all’intero gruppo e servizio.”31

2.4 Attivare un affido: i vari sistemi coinvolti

L’esigenza di attivare un affidamento familiare, di solito, è avvertita, in prima istanza, dall’assistente sociale. Anche quando è un altro professionista a valutare l’ipotesi di un collocamento extrafamiliare, normalmente tale possibilità è riferita all’operatore sociale perché, concretamente, la realizzi. Ad eccezione delle situazioni d’urgenza, in cui ci si deve attivare con estrema tempestività, in tutte le altre circostanze passa sempre un tempo, più o meno lungo, dalla prima volta in cui si pensa che “quel bambino” dovrebbe essere affidato ad un’altra famiglia al momento in cui si realizza, concretamente, un affidamento familiare.

30 S. Cirillo ( a cura di), Il Cambiamento nei contesti non terapeutici, Raffaello Cortina Editore, Milano 1990. 31 R. Mazza, Pensare e lavorare in gruppo. La supervisione nelle relazioni d’aiuto, Erreci Edizioni, Potenza 2013,

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Eppure sappiamo che i fattori che favoriscono un buon esito, anche a lungo termine, rispetto al benessere del minore, siano identificabili in affidi avvenuti in età precoce e in casi nei quali il legame familiare sperimentato dal minore nella sua storia precedente non abbia subito attacchi troppo gravi.32 E’ quindi

assolutamente controproducente e certamente inefficace per la salute del bambino, lasciarlo in una situazione di rischio e di malessere, in cui i suoi bisogni non vengono soddisfatti, per un tempo troppo lungo, o comunque troppo significativo. Molteplici sono le variabili che interferiscono sulla tempestività, e che attivano altri movimenti, non sempre in linea con il mandato professionale. Queste azioni, “deplorevoli” ma umane, possono essere: l’invio della situazione ad altri colleghi con intenzioni non collaborative ma deleganti; la difficoltà ad assumersi la responsabilità, giustificata dal fatto, purtroppo molto comune, che anche altri membri dell’équipe non si sono attivati per un reale cambiamento, ma si sono limitati ad una presa in carico individuale, di sterile trattamento del sintomo; la segnalazione “fotografica” alla magistratura, nella speranza che sia il giudice a prendere quei provvedimenti che “l’operatore sociale”, “improvvisato fotografo”, non indica. Cirillo infatti avverte che la segnalazione fotografica non serve assolutamente a nulla e ribadisce: “se volevamo fotografare la realtà, facevamo i fotografi (i quali a loro volta ci direbbero che anche loro la realtà la interpretano e la trasformano): se abbiamo scelto di essere promotori del cambiamento, non possiamo tradire la nostra scelta.” 33

32 O. Greco e R. Iafrate, Tra i meandri dell’affido. Un percorso di ricerca, Vita e Pensiero, Milano 1993. 33 S. Cirillo, Cattivi cit., pag.89.

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Rispetto alla difficoltà ad agire nel versante della protezione del minore con tempestività, altre variabili intervengono, che appaiono comunque strettamente collegate alle azioni sopradescritte. Provo ad elencarne qualcuna di quelle che, solitamente, si presentano agli operatori: una delle più determinanti è, a mio avviso, la relazione che, fino a quel momento, si è sviluppata con la famiglia. L’operatore può temere uno slittamento di contesto che, da spontaneo, improntato sull’aiuto, verrebbe a trasformarsi in coatto, con tutte le complicazioni che questo comporta. Decidere il collocamento extrafamiliare di un minore e segnalare tale prospettiva sia ai genitori che alla Procura del Tribunale Minorile, può far paventare all’assistente sociale il rischio di essere considerato un delatore.

Cirillo e Di Blasio sottolineano infatti che: “E’ indubbio che questa iniziativa è estremamente delicata e l’operatore può accingervisi con molta riluttanza, in quanto contrastante con il modo prevalente con cui i professionisti dei settori psicosociale e sanitario considerano il loro ruolo. Essi infatti percepiscono sé stessi in esclusiva funzione d’aiuto, provando quindi ripugnanza a compiere un’azione di controllo sociale qual’ è la denuncia.”34

In realtà chiunque abbia esperienza di lavoro con il servizio di tutela dei minori, sa bene che la chiarezza è fondamentale: i genitori, passato il primo momento di sconforto, che può anche sfociare in rabbia verso l’operatore, considerato traditore e “doppiogiochista”, in genere, ad eccezione dei casi più gravi di

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riluttanza al cambiamento e di negazione massiccia, che spesso sottendono gravi limiti cognitivi se non anche sofferenze psichiatriche molto gravi, accettano e comprendono che l’operatore è tenuto per legge a segnalare la situazione di malessere del minore alla magistratura e non vi si può sottrarre. Ciò che mi sembra inoltre da considerare, come elemento importante è che, nella chiarezza del rapporto, le persone riescono ad intravedere i margini per ricevere aiuto, anche nel contesto coatto.

Un altro elemento che può frenare l’operatore nel progettare un affido è la consapevolezza che si tratta di un intervento che può aggravare la crisi e causare ulteriori conflitti e disgregazioni nel sistema familiare.

“In una prima fase”, infatti, “il provvedimento di affidamento può produrre nel bambino, paradossalmente, “malessere”. La perdita dei punti di riferimento familiari e ambientali mette infatti il minore in difficoltà e, come mostrano esperienza clinica e ricerche, solo la speranza di poter preservare i primari legami familiari permette al minore di godere della situazione di affidamento.”35

Il costo di un eventuale malessere nell’immediato è comunque ripagato da un benessere futuro, e da miglioramenti evidenti nella qualità di vita, piuttosto repentini.

Infine, probabilmente, può inficiare il percorso verso l’affidamento, anche il vissuto dell’operatore. Mazza, a tal proposito, riporta: “Non è raro che le storie personali, formative e familiari degli operatori, escano dal loro consapevole

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controllo, andandosi a mischiare, non sempre terapeuticamente, con quelle degli utenti.”36

Altre volte le vicende private si vanno a sommare con il carico emotivo del lavoro sociale, “appesantendo” il professionista e condizionandone l’accoglienza e l’ascolto.

Un notevole peso, nella motivazione al lavoro e nella produttività, è inoltre rappresentato dalla relazione con i colleghi, talvolta caratterizzata da incomprensioni, rivalità, ma anche naturali stanchezze, diversità di carattere e di vedute che, nella quotidianità pressante e urgente del lavoro, spesso non confluiscono in un momento di riflessione congiunta, che riesca a dipanare qualche nodo.

E’ condiviso che la supervisione, sia essa rivolta a équipes monoprofessionali o pluriprofessionali, o addirittura interistituzionali, rappresenti un luogo privilegiato e auspicabile dove si riesce “a muovere meccanismi arrugginiti, rigenerare batterie scaricate dal tempo, dall’usura, dalla noia, dalla difficoltà del caso, dal collega non scelto e da quell’infinità di processi gruppali inconsci che condizionano l’operare nell’istituzione.”37

Laddove questo non sia possibile, avere comunque, all’interno del servizio, un tempo “formalizzato” per pensare, riflettere, progettare, condividere i punti di vista sul caso, è condizione “sine qua non”: l’operatore, che ha un mandato professionale chiaro, deve impegnarsi personalmente affinché questo si realizzi,

36 R. Mazza, Pensare cit., pag.23. 37 R. Mazza, Pensare cit., pag.38.

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e deve farlo lui in prima persona, senza deleghe, senza pensare che qualcun altro dovrebbe farlo.

Anche rispetto alla supervisione, nonostante sia palese a tutti la grave crisi di risorse in cui impattiamo in questo particolare periodo storico, è pur vero che, laddove ci sono operatori più sensibili e più motivati a rappresentare tale esigenza ai loro responsabili o ai dirigenti o alla “parte politica”, tale preziosa risorsa viene poi messa a disposizione, quasi sempre.

In sintesi, appare senz’altro pertinente richiamare, ancora una volta, Stefano Cirillo, laddove teorizza: “In un’ottica sistemica, dunque, noi definiamo la recuperabilità o meno di una famiglia alla luce di una valutazione che comprenda non solo il sistema utente, ma anche il sistema più vasto operatori-utenti: nella nostra prognosi, cioè, comprendiamo noi stessi.”38

E’ innegabile, per i servizi, la portata responsabilizzante di tale assunto, che assume un valore sociale, politico ed anche economico, oltre che etico.

Paola di Blasio, sempre in relazione alla necessità di programmare interventi organizzati e sincronici, di tutela del bambino da una parte e di valutazione e trattamento della famiglia dall’altro, riprende il concetto rivolgendosi alle istituzioni e, in particolare, a chi svolge funzioni gestionali: “ […] se le politiche sociali non saranno in grado di favorire il perseguimento di questi obiettivi, attraverso l’organizzazione di interventi psicologici e sociali assieme, se chi decide sulla spesa pubblica continuerà a scindere e separare artificialmente- su

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queste tematiche- ciò che è sociale da ciò che è sanitario, sarà molto difficile fare in modo che l’allontanamento del bambino trovi un luogo per poter essere capito, spiegato e assumere il vero significato protettivo che racchiude.” 39

2.5 Le tappe indispensabili per attivare un affido

Nella mia esperienza lavorativa ho spesso toccato con mano l’importanza di avere chiaro il percorso formale, dell’agire concreto, che non ha meno importanza di tutto il bagaglio sopradescritto circa l’individuazione dei fattori di rischio e di quelli di benessere, la conoscenza della storia familiare nonché della quotidianità e l’importanza di lavorare in team.

In concreto, una volta che abbiamo chiaro che si dovrà procedere verso un percorso extrafamiliare, è utile cercare di definire, in maniera chiara, i vari passaggi successivi.

Innanzitutto, se siamo in un contesto giudiziario, se riteniamo cioè che ci siano gli estremi per una segnalazione alla Procura Minorile, o se la situazione è già in carico al Tribunale per i Minorenni, occorre agire in stretto contatto con tali organi ed attendere formale autorizzazione. E’ fondamentale infatti che si lavori tutti in un contesto chiaro, “pulito”, che più facilmente definisce e formalizza i ruoli di ciascuno. Spesso, nella mia esperienza di assistente sociale di un Centro Affidi, ho ricevuto richieste di reperimento di una famiglia affidataria per minori che provenivano da situazioni familiari seguite in collaborazione con l’autorità

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minorile, nelle quali il progetto di affidamento extrafamiliare era condiviso dai genitori, quindi si prospettava, apparentemente, come consensuale, ed i servizi territoriali ritenevano di poter procedere senza l’avvallo del giudice. Mi permetto di porre evidenti dubbi a tale modo di procedere perché si deve tener conto, oltre al consenso espresso dai genitori, se tale disponibilità sia in relazione alla consapevolezza delle necessità del figlio e se le disfunzioni presenti nel nucleo siano tali da consentire una reale coscienza del progetto sottoscritto. Marina Orsini40, in un convegno di studio che si è tenuto a Genova,

alla fine dell’anno 1995, riferisce infatti: “Se vi è consenso all’affido, ma vi è pregiudizio (ad esempio non percezione da parte dei genitori dei bisogni del minore) o addirittura abbandono, il Tribunale per i Minorenni deve essere coinvolto, da subito. Occorre quindi, per fare un affido senza coinvolgere il Tribunale, che si preveda una difficoltà temporanea fin dall’inizio e vi siano genitori capaci di collaborare con il progetto di affido in corso, senza esporre il minore a cambi repentini di programma, che non tengono conto delle sue esigenze.”41

Chiarito questo fondamentale aspetto, si potrà procedere attraverso la richiesta formale di reperimento di una famiglia affidataria al Centro Affidi. E’ questo un momento molto decisivo e delicato, perché l’istanza, che dovrà poi culminare con un abbinamento, il più possibile mirato, dovrà contenere un progetto,

40 Marina Orsini è stata, per molti anni, giudice delegato del Tribunale per I Minorenni di Genova.

41M. Orsini, Il punto di vista del Tribunale per i minorenni, in M. G. Cardillo, M. Deidda, L. Maglio, C. Muzio (a cura

di), L’affido familiare oggi: una ricerca per ridefinire la rotta, Atti del convegno di studio- Genova 20/21 novembre 1995, Tipografia Araldica, Genova 1997, pag.49.

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preferibilmente redatto in team, con tutte le figure che, a vario titolo, si sono occupate di quel minore. Il piano di lavoro dovrà comprendere una diagnosi sulla famiglia del bambino, ma anche una prognosi, intendendo con questa il livello di possibilità che ha quella famiglia di pervenire ad un cambiamento. Per molto tempo, i teorici e gli operatori dei servizi, hanno ragionato pensando all’affidamento familiare come un intervento da prediligere nel momento in cui si ha una prognosi di recuperabilità, finalizzata al rientro del minore in tempo breve, definito presumibilmente come un periodo sufficiente ai genitori per raggiungere il cambiamento stesso; non si è abbastanza riflettuto, a mio avviso, sulle sostanziali modifiche che, nel frattempo, hanno interessato anche il bambino o su quelle situazioni in cui è utile non prevedere un rientro ma, nello stesso tempo, non è auspicabile procedere ad una separazione definitiva.

Si è cioè proceduto pensando all’affido da una parte e all’adozione dall’altra, come provvedimenti simmetrici, non integrabili.

Purtroppo questo ragionamento si è spesso fermato al livello teorico, mentre nella prassi dei servizi ci si è imbattuti sempre più frequentemente in situazioni “limite”, che non appartenevano né all’una né all’altra situazione.

L’ambiguità della circostanza ha spesso determinato agiti ambivalenti: si sono frequentemente messi in atto affidamenti senza alcuna aspettativa circa il recupero della famiglia d’origine e, di conseguenza, la speranza, sotterranea, non palesata, era che il legame tra il bambino e i genitori gradualmente si indebolisse

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e, in modo più o meno consapevole, ci si è anche adoperati a tale scopo.42

Paradossalmente “l’imbroglio” messo in atto è che, a fronte della consapevolezza che il minore in affido non avrebbe mai potuto giovare di genitori “cambiati”, sono stati comunque attivati progetti che prevedevano incontri tra il bambino e la sua famiglia d’origine con cadenza settimanale e telefonate magari giornaliere. Spesso, a tali prescrizioni di contatto non si è associato affatto un “lavoro” con la famiglia d’origine. Anche i non addetti ai lavori possono facilmente comprendere quali sofferenze possano essere state innescate da un simile modo di procedere. E’ certamente disfunzionale “trattare” un affidamento familiare “sine die”, come se fosse un affidamento temporaneo. Dato per scontato che il progetto d’affido familiare è, per lo più, destinato a durare nel tempo, visto che, per come è articolata la legge, l’affido è riservato anche a quei minori che vivono in famiglie destrutturate, patologiche, che non sono in grado di proteggerli e di allevarli, ma che hanno creato legami affettivi e un’appartenenza tale da non renderli adottabili, perché l’adozione li sradicherebbe dalla loro vita, dalla loro storia e rischierebbe di sgretolare la loro identità, proprio per questo concordo con quanti sostengono che l’affido familiare a tempo indeterminato sia lo strumento più idoneo per tutelare questi bambini, permettendo loro di non perdere i legami con un passato ormai troppo significativo.

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Non ritengo che l’istituto dell’affidamento familiare sia da ritenersi fallito perché tende a protrarsi nel tempo e perché, nella stragrande maggioranza dei casi, i genitori non riescono a cambiare così radicalmente da poter riaccogliere il figlio che, tra l’altro, nel frattempo, ha creato relazioni tipicamente parentali sia con i genitori affidatari che con i membri della famiglia allargata di questi ultimi; sono però convinta che non stiamo agendo nell’interesse del bambino se non lavoriamo seriamente con la sua famiglia d’origine, attivando tutte le risorse affinché questa possa modificarsi quel tanto che basta almeno a mantenere una relazione con suo figlio più sana, più dignitosa, o almeno meno dolorosa.

In queste situazioni, dove il rientro del minore non è realisticamente pensabile, prevedere incontri settimanali, magari liberi, tra genitori e figli (talvolta in alcuni progetti si prevede addirittura il rientro nei fine settimana), e contatti telefonici frequenti, spesso neanche regolati, sembra avere la funzione, occultata, di consolare i genitori per l’ennesima ingiustizia patita, di fingere che non sia successo niente, di “tirare avanti” senza far nulla e vedere cosa succede. Cirillo richiama al senso di responsabilità quando sollecita: “l’alternativa di non far nulla è illusoria […] non decidere è semplicemente un’altra decisione, quella di lasciare le cose come stanno.”43

Tale modalità non è certamente tutelante per il bambino, che ha ben chiaro, per averlo sperimentato, il disagio sofferto dai suoi genitori e che deve avere

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l’agilità di un funambulo per destreggiarsi tra le varie realtà che vive, tra i cambiamenti che ha subito e tra tutto l’universo di emozioni che sperimenta. Quando parlo di un lavoro con i genitori, indispensabile per un progetto d’affido, mi riferisco alle prese in carico empatiche, che prevedono colloqui di sostegno, non deresponsabilizzanti ma senz’altro decolpevolizzanti. Si deve lavorare nell’ottica della riduzione del danno, nella prospettiva di fissare obiettivi, sempre, seppur minimi, che hanno comunque una ricaduta positiva sul bambino: se la madre alcolista inizia almeno a frequentare il centro alcologico, può trovare uno spazio dove parlare della sua sofferenza per l’allontanamento di suo figlio e operatori che, lavorando con lei, l’aiutino a comprendere quanto potrà giovarne il suo bambino ad incontrarla sobria, interessata a lui e non sofferente, se tutto questo si realizza, avremo fatto molto per il futuro di quel minore; incontri proficui, dove stanno bene bambini e genitori, potranno inoltre alimentare in questi ultimi la motivazione ad intraprendere percorsi di recupero, così che, anche in assenza di un rientro fisico del bambino nella sua famiglia d’origine, ci possa essere una cura delle relazioni familiari ed un “rientro” affettivo, emotivo, che è comunque indicatore di benessere.

In queste situazioni dobbiamo quindi attivarci nonostante la famiglia d’origine non faccia nessuna richiesta d’aiuto, neghi ogni problematica, abbia inferto gravi maltrattamenti ai loro bambini, e magari presenti una pesante psicopatologia; dobbiamo avere “il desiderio di trovare […] qualche risorsa per stimolare nell’utente il desiderio di cambiamento. E poiché non ci può essere

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cambiamento senza un desiderio di cambiare, sarà il nostro, di desiderio, finché quello dell’utente non c’è, a sostituirlo per un tratto di strada.”44

Ovviamente questo modo di procedere attiverà un coinvolgimento emotivo da parte dell’operatore, che dovrà essere costantemente regolato dal gruppo di lavoro, al fine di non diventare collusivo, quindi paralizzante e confusivo: a tal fine è senz’altro auspicabile che ci sia una comunicazione costante e una stretta condivisione tra chi si occupa del bambino, chi ha in carico l’uno o l’altro genitore, e chi sostiene la famiglia affidataria. Andolfi sostiene infatti: “Parcellizzare i problemi, generalmente, produce più danni che soluzioni […] i problemi vanno visti in una dimensione sistemica, di ricerca di connessioni e non, invece, attraverso il microscopio o il paraocchi.”45

Nella mia esperienza, per esempio, è sempre stato un intervento positivo, per tutta l’équipe ed anche per il progetto, il momento in cui gli operatori del Centro Affidi incontrano la famiglia d’origine. Talvolta è stato concordato, con gli altri colleghi del territorio coinvolti nel caso, che fosse proprio il Centro Affidi a rimarcare formalmente ai genitori la necessità di modificare il loro stile di vita, mettendolo in parallelo con la sofferenza manifestata dal bambino e rinforzare, prospettandolo come possibile, l’impegno al cambiamento, secondo il percorso già indicato dagli operatori territoriali. La modalità operativa è quella di condurre alcuni colloqui congiunti tra l’assistente sociale e la psicologa del centro affidi e i membri più significativi della famiglia; le strategie utilizzate

44 S. Cirillo, Cattivi cit., pagg.88-89.

45 M. Andolfi, Un confronto tecnico-culturale in M. G. Cardillo, M. Deidda, L. Maglio, C. Muzio,(a cura di), L’affido

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sono quelle dell’accoglienza della loro storia ma, in parallelo, della definizione del contesto, che è di tutela del minore. Nel corso degli incontri si forniscono loro informazioni sulla famiglia affidataria, si programma e si attua la conoscenza con la stessa, si forniscono notizie sul bambino, si segnalano le difficoltà ed i progressi del figlio, si ragiona insieme sulle istanze che portano, chiarendo sempre che il loro principale interlocutore è il servizio territoriale che, spesso, è presente agli incontri, nella figura dell’assistente sociale. Principalmente, in questi momenti, i famigliari sono resi partecipi della metodologia del servizio che, mettendo al centro il bambino, ritiene indispensabile che si mantenga una relazione stabile e proficua tra loro e il figlio; tutto questo, in genere, rassicura anche il genitore più compromesso. Ovviamente, tale procedura potrà essere attuata se vi è chiarezza tra gli operatori, così da non produrre confusioni rispetto ai ruoli e alle funzioni: la tutela del minore e il recupero della sua famiglia devono restare in carico al servizio locale territoriale, mentre il servizio affidi si occuperà del versante della famiglia affidataria.

Tornando al progetto: l’esperienza sul campo e considerazioni di metodo ci indicano che non è auspicabile un programma d’incontri così “pressante” tra il bambino in affido e la sua famiglia quando si tratta di affidi messi in atto a fronte di gravi disfunzioni familiari; se lo abbiamo allontanato infatti, è anche per proteggerlo dai comportamenti dei genitori, che non possono essere cambiati all’improvviso. In parallelo è altrettanto importante tenere sempre a mente

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quanto emerge dalle ricerche: queste infatti, se da una parte ci indicano che il bambino instaura un buon rapporto con la famiglia affidataria fin quasi dall’inizio, dall’altra mettono in evidenza come sia per lui irrinunciabile il legame originario con la sua famiglia d’appartenenza.46 Questo assunto traccia,

inevitabilmente, il solcato del nostro lavoro.

2.6 Il bambino: soggetto di diritti

E’ formalmente condiviso, a tutti i livelli, che il protagonista principale dell’intervento di affido extrafamiliare sia il minore: non sono tuttavia assolutamente certa che tale “dichiarazione d’intenti” si traduca sempre, concretamente, nell’operatività.

E’ comunque una conquista irrinunciabile, segno tangibile di una cultura trasformata, la normativa attuale, che vede sempre di più il minore come cittadino attivo, portatore di diritti, con peculiarità e desideri propri.

Il legislatore infatti, riconoscendo il minore come soggetto di diritti, antepone il benessere del minore ai diritti di potestà degli adulti: questo è, a mio avviso, un aspetto centrale.

L’art.3 della Convenzione europea di Strasburgo del 1996, sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, proclama infatti il diritto dei minori di essere informati e di esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che li riguardano. Tale importante atto conferisce al bambino uno dei diritti fondamentali di ogni

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