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CAPITOLO I 1. I DIVERSI PROFILI DELLA PARTECIPAZIONE

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CAPITOLO I

1. I DIVERSI PROFILI DELLA PARTECIPAZIONE

La democrazia vive di partecipazione e in particolare di una partecipazione pluralistica e inevitabilmente conflittuale poiché nella società convivono – e spesso si contrappongono – diversi interessi pubblici e privati. Omogeneizzare questi interessi può significare scadere nell’assolutismo; “addomesticare” artificialmente il conflitto può condurre ad un’involuzione autoritaria. Pertanto il dissenso è un elemento imprescindibile della democrazia ed esso esige, una volta formatosi sulla base di conoscenze e informazioni, di potersi esprimere liberamente; attraverso la democrazia è possibile disciplinarlo, pur senza annichilirlo, poiché «il conflitto non va negato, relegato, privato di voce, sedato, assorbito, mistificato o distratto»1. Componente imprescindibile della democrazia, pur non costituendone la cura per tutti i suoi mali, la partecipazione richiede di essere attiva, informata, consapevole e ineluttabilmente conflittuale; una partecipazione polimorfa, che dia voce a quanti più interessi possibile e che si estrinsechi non attraverso forme plebiscitarie e passive, ma attraverso «soggetti collettivi che siano strutturazione e veicolo di idee e bisogni della società alle istituzioni»2.

«La partecipazione, a chi la guardi da vicino, finisce per apparire come un fiorito sentiero che girovaghi in un territorio pieno di mine»3. Questa, perfettamente e sapientemente descritta dall’amministrativista Mario Nigro, è la scoraggiante sensazione che prova chi si approcci allo studio della partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche. Ma data la grande attualità del tema – e la sua diretta connessione con i numerosissimi conflitti ambientali che oggi occupano le pagine di cronaca – ho deciso di raccogliere la sfida dandone conto nel presente lavoro, nonostante la già ricchissima letteratura in materia.

1 A. Algostino, Democrazia, rappresentanza, partecipazione. Il caso del movimento No Tav,

Napoli, Jovene, 2011, p. 214.

2 Ivi, p. 225.

3 M. Nigro, Il nodo della partecipazione, in Riv. Proc. civ., 1980, p. 226, ora in ID., Scritti

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9 In generale, possiamo affermare che esistono diversi profili della partecipazione: a) la partecipazione come istituto di garanzia, ovvero come strumento che deve guidare tutti quei procedimenti volti a concludersi con un provvedimento lesivo degli interessi del destinatario; si tratta della partecipazione nella sua accezione difensiva, i cui legittimati attivi sono limitati ai soggetti destinatari diretti delle decisioni amministrative, ovvero coloro che, pur non essendo destinatari diretti del provvedimento amministrativo, dallo stesso potrebbero subire un pregiudizio; b) la partecipazione a scopo collaborativo, secondo cui l’apporto partecipativo viene considerato come strumento al servizio dell’amministrazione procedente, la quale può disporre del contributo privato per la ricostruzione dei fatti e degli interessi in gioco; in tal caso la norma riconosce al “chiunque” il diritto a partecipare al procedimento e sottende un contributo del privato alla miglior definizione dell’interesse pubblico anche con finalità di prevenzione del conflitto; c) la partecipazione come strumento di democrazia nell’amministrazione, attraverso cui l’apertura alla sovranità popolare, senza distinzioni riguardo al tipo di atto che l’amministrazione è chiamata ad adottare (generale o puntuale), determina una co-decisione nel senso letterale di “decidere insieme” all’amministrazione. Si tratta ovviamente di un’opzione libresca e utopica, poiché l’amministrazione resta titolare del potere decisionale4. Ma benché il potere decisionale rimanga in capo all’amministrazione, essa ha il dovere di assumere decisioni non soltanto legittime, ma anche legittimate, ovvero accettate – e il più possibile condivise – dalla comunità di riferimento.

Il principio del contraddittorio, ovvero del giusto procedimento, è stato ampiamente indagato nel diritto amministrativo ed è disciplinato, in Italia, dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, contenente norme generali in materia di procedimento amministrativo.

Nel diritto interno il principio del contraddittorio si è affermato, all’inizio, nei procedimenti amministrativi sanzionatori e, in generale, di limitazione dell’autonomia privata (ad esempio nei procedimenti disciplinari per consentire al

4 Un’ipotesi di questo tipo è stata in voga negli anni Settanta, soprattutto in Italia e in Francia. Nel

1976 furono istituiti i Consigli di quartiere dove la logica era quella dei soviet, ovvero la partecipazione dal basso e del “chiunque”(residente in quel quartiere): si demandava la definizione delle politiche a questo organo, ma questo modello non è mai decollato. I Consigli di quartiere sono rimasti perlopiù lettera morta o comunque non sono stati mai incisivi.

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10 funzionario pubblico destinatario del provvedimento di far conoscere la propria opinione prima della decisione); soltanto in un secondo momento è stato generalizzato il diritto del privato ad intervenire nel corso del procedimento, secondo cui l’interessato, dopo essere stato informato dell’esistenza di un procedimento volto ad incidere sulla sua sfera giuridica, deve essere messo nella condizione di esprimere il proprio punto di vista all’amministrazione procedente5.

2. “DALLA COMMISSIONE NIGRO” ALLA LEGGE 241/1990: LA

PARTECIPAZIONE AL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

La partecipazione al procedimento amministrativo è un istituto giuridico in base al quale i privati, ovvero i soggetti esterni all’amministrazione, possono essere coinvolti in un processo decisionale svolto da un’amministrazione pubblica. Il privato prenderà visione del materiale documentale relativo al procedimento in corso e qualora presenti osservazioni o produca documenti, l’amministrazione dovrà tenerli in considerazione al momento dell’adozione del provvedimento finale.

Si tratta della tipologia di partecipazione che Aldo Sandulli ha definito «funzionale»6 – poiché l’intervento dell’amministrato nel procedimento opera “in funzione” dell’efficienza dell’azione amministrativa – distinguendola dalla partecipazione a carattere lato sensu, spesso definita «popolare» o «istituzionale» che si esplica attraverso forme di democrazia diretta e istituti di autogoverno7. Cercando nel nostro ordinamento giuridico, è possibile trovare un primo riferimento a questo istituto nei primi decenni del XX° secolo, quando la dottrina

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Il principio del contraddittorio e il diritto di difesa sono riconosciuti anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nonché della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla base dell’art. 6 della Convenzione europea. La Corte ha infatti dato un’interpretazione ampia alle espressioni «diritti e doveri di carattere civile» e «accusa penale», includendo nella prima anche i rapporti con la pubblica amministrazione e nella seconda anche le sanzioni disciplinari e amministrative e le misure restrittive relative alla materia fiscale e al pubblico impiego.

6 A. Sandulli, Il procedimento, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, II ed.,

Diritto amministrativo generale, II, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 1137 ss.

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Ivi, pp. 964 ss. Nei decenni successivi, la dimensione funzionale del procedimento è stata al centro della riflessione di Mario Nigro: si vedano, in particolare, il volume Studi sulla funzione

organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, Giuffrè, 1966, ed il saggio Il nodo della partecipazione, op. cit., pp. 225 ss.

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11 propose di applicare a tutta l’attività amministrativa (e non solo a quella contenziosa) l’art. 3, co. 1, legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, in cui si prevedeva la facoltà «delle parti interessate» di presentare all’amministrazione decidente deduzioni e osservazioni scritte. Il Consiglio di Stato non accolse questa interpretazione e il comma 1 dell’art. 3 continuò ad essere applicato soltanto nel ricorso amministrativo gerarchico, il quale prevede l’impugnazione del provvedimento amministrativo di fronte ad un’autorità amministrativa di livello gerarchicamente superiore.

Per molti anni, l’applicazione della partecipazione procedimentale ha conosciuto un ristretto ambito applicativo: il legislatore aveva previsto ipotesi di intervento del privato limitatamente ai provvedimenti di tipo afflittivo (come le procedure ablatorie della proprietà privata e di comminazione di sanzioni amministrative e disciplinari) e ai procedimenti di approvazione di piani urbanistici.

In seguito, con la storica sentenza 22 febbraio 1962, n. 138, la Corte Costituzionale ha fornito nuove e coraggiose indicazioni dichiarando l’incostituzionalità di una legge che sacrificava le situazioni giuridiche soggettive. In base al principio del giusto procedimento, la legge doveva limitarsi a definire in astratto i criteri e i fini del vincolo ambientale, nel caso di specie relativo all’intero territorio regionale valdostano, rimettendo all’amministrazione il compito di limitare i diritti di utilizzazione delle proprietà immobiliari, in contraddittorio con gli interessati. In questo modo veniva consentito, agli stessi interessati, di difendersi di fronte al giudice in caso di abusi da parte dell’autorità procedente. Al di là dei buoni propositi però, le affermazioni della Corte in ordine alla possibilità per gli interessati di esporre le proprie ragioni di fronte all’autorità amministrativa, cadevano in quel momento in un vuoto ordinamentale.

Con l’evolversi delle modalità garantiste dell’azione amministrativa, si è registrata un ripresa di interesse per il tema della partecipazione, inducendo il legislatore a porre rimedio alla carenza normativa.

2.1. Verso una codificazione del procedimento amministrativo

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12 In base alle dichiarazioni programmatiche del Governo dell’agosto 1983 (I Governo Craxi), il tema centrale della IX Legislatura si appuntava sulla necessità di mettere mano ad un complesso di riforme istituzionali. Tra queste vi era la riforma della pubblica amministrazione, la quale doveva ispirarsi a tre criteri: la democraticità, l’efficienza e la semplificazione. Lo scopo era quello di superare quell’incrostazione autoritaria e quella “imperscrutabilità” che avevano caratterizzato fino a quel momento i comportamenti amministrativi in Italia. In effetti, nel nostro sistema amministrativo vigeva una regola, un principio inderogabile: il segreto d’ufficio, previsto dal Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, il Decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3. Il cittadino non aveva la possibilità di conoscere il contenuto degli atti amministrativi e l’organizzazione interna della pubblica amministrazione, poiché tutto era secretato, coperto dal segreto amministrativo.

Dalla prima metà degli anni Ottanta invece, l’esigenza diventa quella di affermare il «diritto del cittadino all’acquisizione di dati e informazioni sul funzionamento dei servizi che lo interessano»; la nuova necessità è quindi l’affermazione del principio di “trasparenza”.

Con la legge 7 agosto 1990, n. 241, ed in particolare con gli artt. 22 ss., la prospettiva della normativa preesistente è stata completamente ribaltata prevedendo il diritto di accesso ai documenti amministrativi. Pur non trattandosi, come è ovvio, di un accesso indiscriminato, è innegabile la portata rivoluzionaria della l. n. 241/1990, che infatti è stata ribattezzata “legge sulla trasparenza amministrativa” per aver scardinato, almeno sotto questo punto di vista, il sistema precedente.

Non altrettanto rivoluzionaria è stata la legge laddove è arrivata ad inglobare l’altro principio che rompe con la tradizione autoritaria del diritto amministrativo: la partecipazione. Un esito questo, che non era nelle intenzioni del “padre spirituale” della riforma, il professor Mario Nigro9, presidente della sottocommissione di studio che elaborò i testi originari della l. n. 241/1990.

9 Mario Nigro nacque a San Fili (CS) il 28 novembre 1912 da una famiglia alto-borghese. Si

trasferì a Roma per laurearsi presso la Facoltà di Giurisprudenza dopo aver compiuto la prima parte degli studi a Napoli. Dedicò l’età giovanile, oltre che allo studio, all’impegno politico. A

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2.2. I lavori della “Commissione Nigro”

Nel 1983 fu istituita la sottocommissione di studio presieduta da Mario Nigro (operante nell’ambito della Commissione ministeriale per la delegificazione e per la semplificazione dei rapporti tra Stato e cittadini) la quale divenne nota appunto con il nome di “Commissione Nigro”. Dopo 3 anni di lavoro, nel 1986, essa partorì il testo che poi fu in gran parte ripreso (non del tutto!) dalla legge sul procedimento amministrativo che fu approvata soltanto nel 1990, con ben quattro anni di ritardo, quando Nigro era già venuto a mancare. Poco prima della sua morte infatti, l’amministrativista aveva previsto che il “suo” disegno di legge avrebbe «dormito nel Parlamento sonni lunghissimi e forse eterni» dato che «le leggi sulla pubblica amministrazione […] sembra che non le voglia nessuno»10. Lo stesso Nigro, criticando i lunghi tempi dell’approvazione, aveva attribuito la tradizionale disattenzione della politica nei confronti dell’amministrazione a due elementi: in primo luogo, «i politici conoscono poco i meccanismi della vita amministrativa, che considerano riti bizantini, i quali ostacolano, non agevolano la soluzione dei problemi della collettività»11. In secondo luogo, «l’indifferenza nasce dal desiderio […] dei politici di non istituzionalizzare e irrigidire secondo competenze rigorosamente fissate […] il rapporto con l’amministrazione, ma di lasciare largo spazio alla cosiddetta pervasività della politica, mantenendo il rapporto stesso in quella flessibilità e incertezza che consentono la più piena puntuale libertà di intervento e di ingerenza, con buona pace […] dei principi sanciti dalla Costituzione»12.

È possibile ipotizzare che, proprio alla luce di tali considerazioni, Nigro avesse concepito l’impalcatura del disegno di legge, più in chiave teorica che operativa, «come creazione di un modello sperimentale di avanguardia, destinato a servire più che come supporto tecnico per il legislatore di oggi come stimolo intellettuale

partire dagli anni Sessanta, l’impegno politico, pur non esaurendosi, cominciò a trasformarsi e ad indirizzarsi verso competenze più propriamente giuridiche. Nel 1974 venne chiamato ad occupare la cattedra di diritto amministrativo all’Università La Sapienza di Roma. Morì a Roma il 28 febbraio 1989.

10 M. Nigro, Il procedimento amministrativo fra inerzia legislativa e trasformazioni

dell’amministrazione (a proposito di un recente disegno di legge), in Il procedimento amministrativo fra riforma legislativa e trasformazione dell’amministrazione. Atti del convegno svoltosi a Messina-Taormina (25-26 febbraio 1988), Milano, Giuffré, 1990,6.

11 Ibidem. 12 Ibidem.

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14 per lo studioso e per il legislatore di un imprecisato e lontano domani»13. Gli stessi membri della commissione hanno sottolineato più volte la sperimentalità di questo disegno di legge che addirittura prevedeva la sua revisione dopo un triennio di applicazione. Di conseguenza, proprio alla prevedibile lunghezza dell’iter parlamentare, possiamo con tutta probabilità attribuire la predisposizione di un testo dichiaratamente sperimentale.

Oggi sappiamo che la profezia di Mario Nigro non si è avverata poiché la legge generale sul procedimento amministrativo, pur con un iter legislativo lungo e travagliato, è stata approvata ed essa costituisce un importante passo avanti nel processo di adeguamento ai principi costituzionali della normativa che regola i rapporti tra amministrazione e cittadini. Tuttavia, nel disegno di legge, non rimane poi molto della partecipazione così come la pensava il professor Nigro.

Nel marzo del 1987, i risultati del lavoro della sottocommissione furono tradotti in un disegno di legge. Così, il 19 novembre 1987, fu presentato alla Camera dei Deputati, dal Presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Goria, il disegno di legge «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi». Nella Relazione14 presentata dal Governo alla Camera durante la seduta di quel giorno, si legge che, tenendo presente la classica duplice finalità – la democratizzazione e la semplificazione del procedimento amministrativo – il disegno di legge intende soddisfare un’esigenza sentita15: la partecipazione dei cittadini all’azione amministrativa fin dalla fase della sua impostazione. D’altro canto si specifica anche che tale disegno di legge non ha la pretesa di esaurire questa esigenza sotto ogni profilo, ma intende piuttosto intervenire sugli aspetti di maggior arretratezza e fungere da «esemplificazione di un nuovo modo di concepire i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini».

La normativa contenuta nel capo III del disegno di legge introduce, in materia di procedimento amministrativo, nuove regole volte ad assicurare una più ampia

13 I. F. Caramazza, Trasparenza e riservatezza. Segreti pubblici in materia di tutela del cittadino

nei principi costituzionali e nella legge, in Gnosis. Rivista italiana di intelligence, consultabile

all’indirizzo internet http://gnosis.aisi.gov.it/sito%5CRivista11.nsf/servnavig/4.

14 Consultabile nel portale ARCHIVI, in banca dati “normativa”, all’indirizzo internet

http://www.icar.beniculturali.it.

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15 informazione degli interessati per consentire la partecipazione da parte di chiunque vi abbia un interesse meritevole di tutela. Dopo essere stato informato dell’avvio del procedimento16, in base all’art. 10, qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, ha facoltà di intervenire nel procedimento.

L’art. 11 del disegno di legge specifica i diritti spettanti a coloro che hanno titolo a partecipare al procedimento; l’art. 12 contiene la disciplina relativa all’istituto dell’accordo procedimentale che determina il contenuto del provvedimento finale o lo sostituisce.

Il disegno di legge parla genericamente di procedimenti caratterizzati da un “particolare interesse partecipativo”, con formula evidentemente assai libera, rinunciando, alla fine, a prendere una posizione più decisa. Tale disegno di legge infatti, prevede un’ampia possibilità di intervento, ma nulla dice sulle modalità con cui organizzare queste presenze, cioè non prevede come possano (o debbano) esprimere la propria presenza i molti soggetti che istituzionalmente possono prendere parte al procedimento amministrativo e i molti soggetti che possono intervenire: che cosa possono conoscere e quando lo possono conoscere, come possono presentare le proprie osservazioni, quali sono i corrispondenti obblighi della pubblica amministrazione ecc., limitandosi a prevedere un obbligo di motivazione del provvedimento finale.

La proposta iniziale della Commissione Nigro, invece, era molto più coraggiosa; essa prevedeva, a fronte di un modello procedimentale “a contraddittorio” tra parti chiaramente individuate, un procedimento del tutto aperto, consentendo ampie forme di intervento. Nel contempo prevedeva la strutturazione di queste diverse possibilità secondo il modello dell’istruttoria pubblica17. Il pioneristico progetto di Nigro, così come si presentava nel 1984, addirittura prevedeva all’art. 7:

16 Gli articoli 8 e 9 prevedono specifiche forme di comunicazione o di pubblicità.

17 Alcune forme di istruttoria pubblica oggi si trovano all’interno degli Statuti di determinati enti

locali, in particolare nello statuto della Regione Emilia-Romagna che all’art. 17 prevede la possibilità di una istruttoria in forma di contraddittorio pubblico, indetta dal Consiglio regionale, alla quale possono partecipare «associazioni, comitati e gruppi di cittadini portatori di un interesse a carattere non individuale» per la formazione di atti amministrativi o normativi di carattere generale i quali devono essere motivati con riferimento alle risultanze istruttorie. Sull’argomento si rimanda al paragrafo dedicato alla legislazione regionale del presente lavoro.

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16 «l’adozione di strumenti urbanistici, di piani commerciali e di piani paesistici, che incidano in modo rilevante sull’economia e sull’assetto del territorio devono essere precedute da inchiesta pubblica». Ma il lavoro della sottocommissione, ancora prima che il progetto fosse inviato al Consiglio di Stato, fu emendato dagli uffici della Presidenza del Consiglio, tra le altre cose, anche nella parte che prevedeva l’istruttoria pubblica18.

A questo punto è facile capire come nella soluzione proposta dal Governo si insinui una sorta di meccanismo paradossale per cui, da un lato, si innescano processi partecipativi assai ampi, ma dall’altro si vanifica il contraddittorio – inteso in senso stretto – nei procedimenti amministrativi volti all’emanazione di provvedimenti puntuali e non si garantiscono meccanismi sufficienti per far fronte alle istanze partecipative invocate. La possibile conseguenza è che il disegno di legge finisca per generare istanze e richieste senza che esista concretamente la possibilità di darvi un’adeguata soddisfazione. In questo modo si è persa l’occasione di dare un’organica e concreta disciplina legislativa al fenomeno partecipativo.

2.3. L’approdo alla legge generale sul procedimento amministrativo

Il disegno di legge sul procedimento amministrativo fu infine approvato nel corso della X Legislatura. Come già anticipato, la terza parte della l. n. 241/1990, recante il titolo «Partecipazione al procedimento amministrativo», si riferisce alla partecipazione dei soggetti interessati al procedimento amministrativo, dettando norme sulla comunicazione dell’avvio del procedimento e includendo una nuova parte che prevede accordi non solo per il provvedimento, ma addirittura in sostituzione dello stesso. Con il capo III si intende realizzare il principio democratico in base al quale deve poter partecipare, fin dall’inizio, al procedimento amministrativo colui che subirà gli effetti del relativo provvedimento.

18 Per approfondimenti si veda R. Chieppa, Mario Nigro e la disciplina del procedimento

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17 L’art. 7 precisa che laddove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento19, l’avvio dello stesso deve essere comunicato ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge devono intervenirvi. L’art. 7 individua un’ulteriore categoria: l’amministrazione è tenuta a dare notizia del procedimento anche ai soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai diretti destinatari, qualora dal provvedimento possa derivare loro un pregiudizio e ciò con le stesse modalità con cui ne fornisce notizia alle parti. Dato che la garanzia della comunicazione dell’inizio del procedimento potrebbe talvolta frustrare l’attuazione pratica dei procedimenti cautelari, il comma 2 chiarisce che l’amministrazione ha la facoltà di adottare misure cautelari anche prima dell’effettuazione della comunicazione, vale a dire inaudita altera parte (senza l’attuazione del principio del contraddittorio).

L’art. 8 stabilisce quali sono gli elementi essenziali della comunicazione dell’avvio del procedimento. Devono essere indicati: l’amministrazione competente, l’oggetto del procedimento promosso, l’ufficio e la persona responsabile del procedimento, l’ufficio in cui è possibile prendere visione degli atti. Di seguito si precisa che qualora, per il numero dei destinatari, la comunicazione personale non sia possibile o risulti troppo gravosa, l’amministrazione provvede a rendere nota la comunicazione mediante forme di pubblicità idonee, stabilite di volta in volta. Al testo originario dell’art. 8, il legislatore ha successivamente introdotto un comma aggiuntivo relativo al regime delle nullità per l’omissione degli elementi contenuti nella comunicazione. Si tratta di nullità relativa che può essere fatta valere soltanto dal soggetto nel cui interesse la comunicazione è prevista. In generale, la nullità è una patologia così grave da non poter essere sanata; può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e senza limiti temporali; in questo caso, l’art. 8, co. 4, specifica che può essere fatta valere soltanto da alcuni soggetti (quelli nel cui interesse la comunicazione è prevista), pertanto si tratta di nullità relativa.

19 Ossia quando ricorre una «qualificata» urgenza (che deve essere espressamente enunciata nel

provvedimento finale e motivata: Cons. St., VI, n. 6833/2003, in Riv. giur. edil., 2004, I, p.670) di adottare una decisione necessaria ed indifferibile per la tutela dell’interesse pubblico. Solitamente si tratta di esigenze di sicurezza, salute, incolumità, per esempio in caso di provvedimenti urgenti a tutela sanitaria.

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18 Successivamente, la legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante il titolo «Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa», tra gli elementi essenziali della comunicazione di avvio del procedimento, inserisce anche la data entro la quale deve concludersi il procedimento, i rimedi esperibili in caso di inerzia dell’amministrazione e, nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza. Oltre a questi elementi, l’art. 41, co. 2, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale) ha previsto che la comunicazione di avvio dei procedimenti con fascicolo informatico debba contenere le informazioni relative alle modalità per partecipare in via telematica. È palese che la comunicazione di avvio del procedimento costituisca il presupposto stesso della partecipazione procedimentale.

L’art. 9, già nella versione originaria del 1990, ha disciplinato l’intervento nel procedimento prevedendo la possibilità di intervento nel procedimento per i soggetti portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati. Mentre i soggetti descritti all’art. 7, una volta ricevuta la comunicazione di avvio del procedimento, devono intervenire, a questi è riconosciuta una mera possibilità e il fattore discriminante è la comunicazione di avvio. È bene ricordare che sono inquadrati come interessi diffusi quegli interessi che la dottrina identifica come interessi adespoti20, cioè come interessi che appartengono a tutti, ma non fanno capo a nessuno: non trovano un centro di imputazione, non esiste un ente che se ne faccia carico o un centro organizzato che garantisca la sua tutela.

L’art. 10 stabilisce quali sono i poteri delle parti e di coloro che intervengono nel procedimento amministrativo. Tali poteri sono: prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto disposto dall’art. 24 (in cui si stabilisce che il diritto di accesso è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi dell’art. 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, nonché nei casi di segreto o di divieto di divulgazione altrimenti previsti dall’ordinamento) e presentare memorie scritte o

20 Negli anni Settanta l’amministrativista Massimo Severo Giannini ha distinto gli interessi

collettivi da quelli adespoti, definendo questi ultimi come interessi non riferibili ad un soggetto determinato e dunque privi di un proprio portatore. Si veda a tal proposito M. S. Giannini, La

tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, Padova, 1976, pp. 23 ss.

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19 documenti che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento.

Inoltre, in base all’art. 11, l’amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi e nel perseguimento del pubblico interesse, accordi che possiamo distinguere in dichiarativi – se intervengono tra i soggetti interessati allo scopo di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale – e sostitutivi se effettivamente l’accordo è integralmente sostitutivo del provvedimento, che quindi non verrà emanato. Questi accordi, pena la nullità, devono essere stipulati per atto scritto e sono soggetti ai controlli previsti per i provvedimenti amministrativi. La pubblica amministrazione ha la possibilità di recedere unilateralmente da questi accordi per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; in aggiunta al testo originario, sul punto la Camera dei Deputati ha previsto l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato. L’ultimo comma dell’art. 11 contiene la riserva di giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie relative agli accordi.

L’art. 12 disciplina la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici in genere a persone e enti pubblici e privati: per l’attribuzione di questi benefici devono essere predeterminati e pubblicati da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, i criteri e le modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi. Tali criteri e le modalità devono risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al primo comma dell’art. 12.

L’art. 13, con il quale si conclude il capitolo relativo alla partecipazione al procedimento amministrativo, specifica che le disposizioni contenute nel capo III non si applicano all’attività della pubblica amministrazione volta ad emanare atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, nonché ai procedimenti tributari. Vale la pena sottolineare l’importanza cruciale di questo passaggio, dal momento che i casi che più avanti affronteremo rispondono proprio a queste tipologie di procedimento.

Perché la partecipazione procedimentale venisse elevata a istituto generale dell’attività amministrativa, come si è visto, si è dovuto attendere il 1990 e la

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20 legge sul procedimento amministrativo, il cui capo III ne fissa la disciplina, applicabile a tutti i procedimenti posti in essere dagli enti pubblici, ad eccezione dei casi espressamente previsti, come abbiamo appena evidenziato, dall’art. 13. Pertanto, alla luce delle modifiche introdotte dalla l. n. 15/2005, la mini riforma delle norme generali concernenti l’azione amministrativa, le forme di partecipazione al procedimento amministrativo riconosciute nel nostro ordinamento sono due: la partecipazione collaborativa e la partecipazione-contraddittorio.

La partecipazione collaborativa si inserisce nella fase istruttoria del procedimento amministrativo permettendo all’ente procedente di conoscere gli interessi privati coinvolti (o potenzialmente coinvolti) dall’attività amministrativa.

Infatti la fase istruttoria del procedimento amministrativo è quella in cui la pubblica amministrazione accerta i fatti acquisendo la documentazione apportata dai soggetti privati, nonché i pareri e le valutazioni di altre amministrazioni. L’amministrazione procedente apprende così gli interessi, pubblici e privati, che saranno oggetto di valutazione ai fini dell’adozione della decisione e della relativa motivazione. Prima dell’approvazione della l. n. 241/1990 esisteva una regolazione generale dell’istruttoria pubblica che si affiancava alle leggi settoriali volte a disciplinare singoli procedimenti amministrativi; nel 1990 invece, è stata introdotta la legge generale sul procedimento amministrativo con l’intento, tra gli altri, di rafforzare proprio le garanzie di partecipazione del privato nella fase istruttoria.

In particolare, durante lo svolgimento dell’istruttoria, l’amministrazione valuta le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione e i presupposti rilevanti per l’emanazione del provvedimento; accerta i fatti, eventualmente disponendo il compimento degli atti necessari; può esperire accertamenti tecnici, ispezioni, inchieste e ordinare esibizioni documentali; può convocare conferenze per acquisire i pareri delle altre amministrazioni coinvolte nel procedimento. Di conseguenza, a seconda delle attività da svolgersi in questa fase, anche in considerazione della natura dei fatti oggetto di acquisizione, la fase istruttoria può essere semplice o complessa. Il soggetto preposto all’espletamento dell’attività istruttoria è il responsabile del procedimento inteso nella duplice accezione di

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21 ufficio responsabile di una determinata tipologia di procedimenti e di funzionario responsabile del singolo procedimento concreto. Non è detto però che il soggetto che provvede all’istruttoria coincida con quello cui compete l’adozione della decisione finale; in questo caso, se l’ente decidente intende discostarsi dalle risultanze della fase istruttoria, dovrà darne motivazione nel provvedimento conclusivo.

La fase istruttoria si ispira al principio della libera valutazione delle prove da parte dell’amministrazione e del non aggravamento del procedimento, se non in presenza di motivate esigenze imposte dalle attività compiute in tale fase. Essa segue la fase preparatoria – (o di avvio del procedimento) durante la quale la pubblica amministrazione apre d’ufficio un procedimento, oppure riceve l’istanza di una parte – e precede quella decisoria in cui l’amministrazione adotta la decisione finale.

La disciplina distingue due tipologie di partecipazione collaborativa: la partecipazione “indotta” e quella “volontaria”. Nella partecipazione indotta i soggetti sono appunto “indotti” ad intervenire poiché l’amministrazione è obbligata a comunicare loro l’avvio del procedimento amministrativo che li riguarda. Nella partecipazione volontaria i soggetti intervengono nel procedimento del tutto spontaneamente, a prescindere dalla comunicazione dell’amministrazione procedente.

La partecipazione collaborativa, sia quella volontaria che quella indotta, in base all’art. 10 della l. n. 241/1990, si esercita prendendo visione degli atti del procedimento attraverso l’esperimento del diritto di accesso e presentando memorie scritte e documenti che l’amministrazione dovrà valutare, se pertinenti all’oggetto del procedimento. Pertanto la legge sul procedimento amministrativo disciplina la partecipazione come istituto di natura documentale21, con la finalità di arricchire il quadro delle possibili scelte finali. Qualora l’attività amministrativa non abbia natura discrezionale (cioè all’amministrazione decidente sia impedito di effettuare scelte) la partecipazione consente comunque all’ente procedente di acquisire informazioni utili, sfruttando il contenuto di osservazioni, memorie e documenti presentati dai privati.

21 Come vedremo in seguito, modalità diverse di partecipazione, per esempio mediante inchiesta

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22 La partecipazione-contraddittorio22 invece è una tipologia di partecipazione che può essere esercitata soltanto nei procedimenti ad istanza di parte. Così, se l’amministrazione ritiene di dover respingere la domanda, prima di adottare il provvedimento negativo, deve dare comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della richiesta all’istante. Entro dieci giorni l’istante potrà presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, di cui l’amministrazione dovrà motivare il rigetto nel provvedimento finale. In altre parole, la comunicazione dei motivi ostativi apre un’ulteriore fase di contraddittorio procedimentale. La funzione di questa tipologia di partecipazione è consentire al privato di contraddire l’operato dell’amministrazione difendendo i propri interessi e dimostrando che le risultanze dell’istruttoria che supportano il “progetto” di provvedimento negativo presentano carenze, illegittimità, errori di valutazione ecc. i quali devono essere rimossi o corretti per modificare il dispositivo del provvedimento.

In caso di violazioni procedimentali che incidono sulle pretese partecipative, il soggetto leso può agire in giudizio per chiedere l’annullamento dell’atto che ha direttamente pregiudicato la pretesa partecipativa (per esempio l’impedimento ad intervenire, il rifiuto scritto di accettazione del deposito di memorie o documenti ecc.). L’annullamento del provvedimento finale può avvenire soltanto in caso di atto discrezionale o, se vincolato, quando si dimostri in giudizio che la partecipazione avrebbe influito sulla determinazione della decisione finale. In particolare, l’art. 21-octies, co. 2, prima parte, l. proc. sottrae all’annullamento il provvedimento vincolato adottato in violazione delle norme sul procedimento qualora «sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».

All’articolo appena citato non sono state risparmiate critiche: tra queste ricordiamo il depotenziamento della partecipazione conseguente all’elevato numero dei procedimenti di natura vincolata e il contestuale potenziamento del

22 Troviamo la partecipazione-contraddittorio all’art. 10 bis introdotto dalla legge 11 febbario

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23 ruolo del giudice, poiché questi si vede attribuito un controllo esteso alla valutazione sostanziale sull’operato dell’amministrazione23.

Sembra invece da escludersi che le pretese partecipative possano godere della tutela risarcitoria, poiché in sede procedimentale non è dato riscontrare l’elemento del danno, il quale può scaturire unicamente dagli effetti prodotti dal provvedimento, o dalla mancata adozione del provvedimento.

3. LE APERTURE ALLA PARTECIPAZIONE NELL’ORDINAMENTO

SETTORIALE: I PROCEDIMENTI AMMINISTRATIVI VOLTI

ALL’EMERSIONE DELL’INTERESSE AMBIENTALE

3.1. La rilevanza giuridica dell’interesse ambientale

Nel testo originario della nostra Carta costituzionale la tematica della tutela ambientale non è prevista. Va detto però che, sostanzialmente, tutte le Costituzioni dell’immediato dopoguerra non hanno previsto il riferimento alla tutela dell’interesse ambientale poiché storicamente non era ancora emersa una questione ambientale: la società civile non era ancora abbastanza matura per acquisire una consapevolezza con riguardo a queste tematiche. Allora, la mancanza di un riferimento alla problematica ambientale, ha imposto alla dottrina e alla giurisprudenza una presa di posizione.

Le questioni ambientali emergono a livello globale a partire dagli anni Sessanta, quando comincia a diffondersi una nuova ondata di industrializzazione che pone come centrale l’interrogativo circa l’utilizzo delle risorse naturali; di conseguenza si comincia a ricercare una certa compatibilità tra l’industrializzazione e il rispetto dell’ambiente. È così che iniziano a nascere, a livello globale, i primi movimenti che richiamano l’attenzione delle agende politiche sulle vicende ambientali.24 Benché a livello globale si fosse ormai affermata una questione ambientale, la nostra Costituzione è rimasta al dato del 1948 e solo in occasione della riforma del Titolo V, avvenuta nel 2001, verrà previsto un riferimento alla questione

23

Cfr. F. Fracchia, M. Occhiena, Teoria dell’invalidità dell’atto amministrativo e art. 21-octies,

l.241/1990: quando il legislatore non può e non deve, in www.giustamm.it, n. 4/2005.

24 Per una più completa ricostruzione dell’affermazione dell’interesse ambientale a livello

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24 ambientale. In particolare, il riferimento alla tematica ambientale emerge all’art. 117 Cost. laddove la materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” è stata attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

Nonostante l’assenza di un riferimento esplicito, non si è impedito alla giurisprudenza di estrapolare dal combinato disposto degli artt. 9 e 32 Cost. il riferimento alla tematica ambientale: in questa direzione si sono mossi, con motivi e ambiti di giurisdizione diversi, la Corte dei Conti, il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione. Si è fatta strada la possibilità di configurare nel nostro ordinamento l’ipotesi di un “diritto all’ambiente salubre” risultante dalla lettura incrociata dell’art. 9 – il quale prevede esplicitamente la tutela del paesaggio – e dell’art. 32 sul diritto alla salute: facendo leva su questi due articoli si è ritenuto esistente un vero e proprio diritto soggettivo alla salubrità dell’ambiente.

In proposito, la giurisprudenza25 ha affermato che la salute risente inevitabilmente del contesto in cui l’uomo agisce, pertanto il diritto alla salute può declinarsi come diritto ad un ambiente salubre in quanto ogni compromissione all’ambiente causata da fenomeni inquinanti può determinare una lesione del diritto alla salute e condizionare il normale svolgimento della personalità dei singoli individui. La rilevanza giuridica dell’ambiente, che costituisce la spinta per una soggettivizzazione dell’interesse ambientale, si rivela fondamentale poiché rappresenta la premessa per l’azionabilità in giudizio volta all’annullamento di provvedimenti amministrativi considerati illegittimi, ovvero al risarcimento e ripristino del danno ambientale. Una volta costruita la nozione di tutela dell’interesse ambientale, ecco che diviene possibile agire in giudizio, mentre prima, non essendo considerato un interesse pubblico, non vi era alcuna istituzione preposta allo scopo di tutelare l’ambiente26.

Dalle definizioni che sono state date del termine “ambiente” 27, possiamo dedurre che esso coinvolga il giurista soltanto se viene inteso come habitat ed in

25 Si veda Cassazione civile, sez. Un., 6 ottobre 1979, n. 5172; Cassazione civile, sez. I, 9 aprile

1992, n. 4362; Cassazione penale, sez. III, 28 ottobre 1993, n. 9727 e successivamente, Cassazione penale, sez. III, 19 gennaio 1994, n. 439.

26 Per maggiori approfondimenti cfr. B. Caravita, Profili costituzionali della tutela dell’ambiente

in Italia, in Pol. dir., 1989, pp. 569 ss.

27 Il lemma “ambiente” viene dal latino ambire, di cui è il participio presente e significa “ciò che

sta intorno”. Nella Convenzione sulla responsabilità civile per danni derivanti da attività pericolose per l’ambiente, adottata a Lugano nel 1993 dal Consiglio d’Europa, si definisce

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25 particolare un «habitat bisognoso di protezione e conservazione»28. La protezione dell’ambiente è un diritto fondamentale dell’uomo che si distingue dagli altri in quanto diritto intergenerazionale che si estende anche come dovere nei confronti delle generazioni future. La questione ambientale infatti, si esplica attraverso l’endiadi libertà e responsabilità: libertà di godere delle risorse naturali esistenti per soddisfare le esigenze delle generazioni presenti, ma allo stesso tempo responsabilità di contribuire alla conservazione delle risorse esistenti, nonché allo sviluppo di nuove risorse, nel rispetto degli esseri viventi.

Nel 1986, con una normativa molto ricca, fu istituita un’apposita amministrazione pubblica preposta alla tutela dell’interesse ambientale: si tratta della legge 8 luglio 1986, n. 349 istitutiva del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (d’ora in poi il “Ministero dell’Ambiente”). Quando nasce una nuova amministrazione pubblica, nasce una missione di cui l’amministrazione stessa si fa carico: in questo modo viene istituzionalizzato un “nuovo” interesse pubblico. Prima di arrivare all’istituzione del Ministero dell’Ambiente però, si testimonia un acceso dibattito, a livello dottrinale e giurisprudenziale, circa le situazioni giuridiche soggettive implicate nella questione ambientale; le dissertazioni erano soprattutto tese all’individuazione delle possibili azioni di tutela da intraprendere. Tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, in assenza di una disposizione costituzionale esplicita o di una normativa settoriale, è stata la Corte dei Conti ad assumere le vesti di giudice naturale per tutelare anche le questioni ambientali. Questo avveniva perché, non essendo un interesse ancora riconosciuto giuridicamente, veniva inquadrato come interesse diffuso, come interesse cioè che la dottrina amministrativista aveva identificato adespota. A quel punto, si è ricondotto il danno all’ambiente nell’alveo del danno erariale: chi causa un danno all’ambiente, di fatto provoca un danno agli interessi diffusi e quindi alle casse dello Stato, pertanto ne consegue la possibilità di sanzionare il danno causato all’ambiente. Il problema però si pone dal momento che il danno sanzionabile

“ambiente” «le risorse naturali, abiotiche e biotiche, come l’aria, l’acqua, il suolo, la fauna e la flora, nonché l’interazione tra di esse; i beni culturali e, infine, gli aspetti caratteristici del paesaggio». L’Organizzazione Mondiale per la Sanità qualifica come “ambiente” «l’insieme degli elementi fisici, chimici, biologici e sociali che esercitano un’influenza apprezzabile sulla salute e il benessere di ogni essere umano».

28 A. Angeletti (a cura di), Partecipazione, accesso e giustizia nel diritto ambientale, Napoli, ESI,

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26 deve essere provocato dai soggetti pubblici poiché la Corte dei Conti non può sanzionare il privato; va da sé che solitamente i danni ambientali sono provocati dai privati e non necessariamente sono i funzionari pubblici a causarli.

Ad onor del vero, già nei primi anni Settanta, il Consiglio di Stato aveva mosso i primi passi con una storica sentenza. Con la sentenza Consiglio di Stato, sez. V, 9 marzo 1973, n. 25329, aveva riconosciuto la legittimazione processuale all’associazione «Italia Nostra» in una controversia concernente l’approvazione, da parte della giunta provinciale di Trento, del progetto per l’esecuzione dei lavori di una strada risultata poi gravata da un vincolo paesaggistico. Ritenendo ammissibile un ricorso presentato dalla suddetta associazione, il Consiglio di Stato aveva riconosciuto in capo a quel soggetto una posizione differenziata rispetto al quisque de populo: non è l’uomo qualunque che sta presentando il ricorso, se «Italia Nostra» se ne fa carico, si trasforma l’interesse diffuso in un interesse collettivo, ovvero in un interesse che appartiene ancora a tutti, ma fa capo ad un centro organizzato. Grazie al riconoscimento di questa associazione, il Consiglio di Stato “entifica” l’interesse diffuso. Alla sentenza Cons. St., V, n. 253/1973 non fa però seguito una norma che avalli tale legittimazione processuale. Nonostante questa apertura, non si è creata una corrente giurisprudenziale e la giurisprudenza amministrativa è tornata ad arroccarsi sulle sue posizioni tradizionali.

Il contrasto che si è venuto a creare tra la storica sentenza e la prassi successiva, ha prodotto la necessità di un intervento legislativo chiarificatore ed è così che si è arrivati alla l. n. 349/1986, la quale, come già accennato, non si limita ad istituire il nuovo Ministero, ma contiene una normativa piuttosto vasta.

L’approdo a questa normativa è passato attraverso un percorso fondato dalla giurisprudenza e dalla dottrina che inizialmente hanno inquadrato la questione sul modello della responsabilità aquiliana per la tutela di un diritto soggettivo. Fino al 1986 si faceva leva sul diritto di proprietà o sul diritto alla salute limitando la tutela dell’ambiente ad una tutela mediata e non diretta. Ciò significa che l’interesse ambientale veniva tutelato non direttamente, ma in relazione ad altri diritti: per fare un esempio, se un terreno, in quanto contaminato, si rivelava

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27 inidoneo alla produzione agricola, il proprietario ne veniva danneggiato sul piano della fruibilità. O ancora, si condannavano le emissioni atmosferiche perché danneggiavano le pareti degli edifici. Dunque la legislazione allora esistente si basava su un approccio tipico del diritto civile, leggendo i danni ambientali come danni a persone o cose. L’ambiente non riceveva una tutela di per sé, ma passava attraverso altri diritti. Un atteggiamento questo che, pur essendo l’unico

escamotage nelle mani dei giudici, rivelava il solito eccesso di antropocentrismo:

l’ambiente non viene tutelato come bene comune a se stante, ma come fonte di compromissione per la vita dell’uomo. Se questo è il punto e l’ambiente non viene fatto oggetto di un’autonoma tutela, il rischio è quello di scadere nel cosiddetto “paradosso del coccodrillo” per cui si può arrivare ad ipotizzare di eliminare quelle specie viventi che per loro natura sono pericolose per l’uomo (ma che al contrario sono fondamentali per l’ecosistema e di conseguenza anche per gli esseri umani). La teoria ecologica ha più volte sottolineato come un atteggiamento di questo genere possa essere estremamente pericoloso per la tutela dell’ambiente (e dell’uomo stesso), sostenendo che all’antropocentrismo andrebbe sostituito un più sano ecocentrismo, ma ancora molto c’è da fare in questo senso.

Non a caso, la tutela mediata è l’atteggiamento seguito ancora oggi dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo che pure si adopera per riconoscere una certa garanzia alla protezione dell’ambiente: non trovando un esplicito riferimento nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo al diritto umano ad un ambiente salubre, ha usato anch’essa altri diritti. In particolare, ha emesso sentenze di condanna facendo leva sull’art. 2 della CEDU – che riconosce il diritto alla vita – e sull’art. 8 che prevede il diritto al rispetto della vita privata e familiare: ogni compromissione all’ambiente può compromettere il diritto alla vita o al rispetto della vita privata e familiare.

La l. n. 349/1986 ha configurato per la prima volta un regime di responsabilità ambientale prevedendo un’apposita azione per far valere il danno ambientale e la possibilità di impugnare i provvedimenti amministrativi considerati illegittimi rispetto alla tutela ambientale.

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28

3.2. La disciplina dei procedimenti a valenza ambientale nel Codice dell’ambiente

Dovendo valutare la rilevanza, nel nostro ordinamento giuridico, della partecipazione del pubblico ai processi decisionali, le procedure di valutazione ambientale possono considerarsi ottimi campi di indagine.

La legge generale sul procedimento amministrativo, al fine di accelerare l’azione amministrativa, ha previsto una serie di meccanismi di semplificazione che possono comportare una minor ponderazione degli interessi coinvolti. D’altra parte, l’esigenza di un’attenta valutazione degli interessi ambientali e di un contemperamento con altri interessi fondamentali, determina che in presenza di tali interessi questi meccanismi non operino, o operino in modo meno netto. Si può facilmente individuare questa tendenza, ad esempio, in relazione all’attività consultiva e a quella di valutazione tecnica.

Nell’esercizio dell’attività consultiva, la presenza di amministrazioni preposte alla tutela ambientale e paesaggistico-territoriale comporta una deroga alle disposizioni generali contenute nella legge generale sul procedimento amministrativo. Infatti, in caso di decorrenza del termine per il rilascio (o qualora si tratti di pareri obbligatori), se l’organo adito non ha posto esigenze istruttorie che richiedano lo spostamento del termine, l’amministrazione richiedente il parere non ha la facoltà di procedere indipendentemente dall’acquisizione dello stesso30. Una disciplina analoga, volta non tanto a tutelare gli interessi pubblici ambientali, quanto la corretta conoscenza dell’incidenza sull’ambiente delle attività considerate, vige per le valutazioni tecniche richieste ad appositi enti o organi per l’adozione di un provvedimento amministrativo. Se l’ipotesi ordinaria prevede che il responsabile del procedimento possa rivolgersi ad altri organi dell’amministrazione pubblica, con qualifica equipollente, o a istituti universitari, tale possibilità è invece esclusa in caso di valutazione di competenza di amministrazioni preposte alla tutela ambientale o paesaggistico-territoriale31. Per quanto riguarda la segnalazione certificata di inizio attività, la deroga al meccanismo generale, motivata da ragioni di tutela ambientale, opera così: ogni atto autorizzativo o di assenso, il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti indicati in leggi o atti generali e non

30 Cfr. art. 16, l. n. 241/1990. 31 Cfr. art. 17, co. 1, l. n. 241/1990.

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29 sia subordinato a limiti o contingenti, o strumenti di programmazione settoriale, è sostituito dalla segnalazione dell’interessato. Sono esclusi i casi in cui sussistano vincoli ambientali o paesaggistici. Inoltre l’amministrazione, con provvedimento motivato, può inibire la prosecuzione dell’attività dopo aver accertato, entro sessanta giorni dalla segnalazione, la carenza dei requisiti e dei presupposti. Scaduto questo termine, l’amministrazione può intervenire soltanto se vengono messi in pericolo alcuni interessi fondamentali tra cui l’ambiente (art. 19, l. n. 241/1990).

Infine va detto che il settore ambientale si caratterizza per una limitata operatività del silenzio-assenso, poiché la presunzione di una valutazione positiva (che spesso altro non è che una mancata valutazione), comporta rischi eccessivamente elevati quando sono coinvolti gli interessi ambientali. Di conseguenza, per evitare pericoli e abusi, l’art. 20 della legge-procedimento prevede che tale istituto non si applichi ad atti e procedimenti concernenti, tra gli altri, l’ambiente e il patrimonio paesaggistico.

A livello settoriale, il tema della partecipazione è richiamato nella disciplina contenuta nel d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, contenente Norme in materia ambientale. Tale decreto legislativo, dalla sua entrata in vigore (29 aprile 2006) ad oggi, ha subito numerose modifiche e integrazioni ad opera di successivi provvedimenti che ne hanno ridisegnato in parte il contenuto, e diversi provvedimenti sono stati emanati in attuazione delle singole parti32.

In particolare, a trattare della partecipazione a scopo collaborativo è la seconda parte del Codice dell’Ambiente, quella dedicata ai procedimenti a valenza ambientale. I modelli più evoluti, sebbene nel nostro ordinamento essi siano ancora lontani dagli strumenti partecipativi previsti in altri Paesi, li troviamo nel procedimento di v.i.a. – che serve per valutare la localizzazione ideale del nuovo impianto, ovvero quanto la scelta di un determinato sito per installare l’opera comporti ricadute sull’ambiente circostante – e di v.a.s..

Di valutazione di impatto ambientale si parla per la prima volta verso la fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Nel 1969 il Congresso approvò il National Environmental Policy Act (NEPA), il quale prevedeva l’obbligo

32 Cfr. F. Fracchia, F. Mattassoglio, Lo sviluppo sostenibile alla prova: la disciplina di v.i.a. e

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30 dell’environmental impact statement (EIS) per tutte le decisioni destinate a produrre effetti rilevanti sull’ambiente.

Nel decennio successivo la v.i.a. comincia a diffondersi anche in Europa ed in particolare la Francia è stata la prima ad introdurre una disciplina ad hoc con la legge 10 luglio 1976, n. 629.

Più tardi, il 27 giugno 1985, il Consiglio dell’Unione europea approva la direttiva 85/337/CEE «concernente la valutazione di impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati»33.

L’obiettivo è sottoporre ad esame ogni progetto che possa avere rilevanti effetti sull’ambiente prima che il procedimento amministrativo previsto per la localizzazione dell’opera sia concluso.

Nell’ordinamento giuridico italiano, la procedura di v.i.a. ha trovato una prima attuazione con la legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente. All’art. 6, co. 1, l. n. 349/1986, era previsto l’obbligo per il Governo, entro 6 mesi dall’entrata in vigore della suddetta legge, di presentare al Parlamento il disegno di legge attraverso il quale recepire la direttiva comunitaria in materia di valutazione di impatto ambientale.

Rilevante, ai nostri fini, è la norma che era contenuta nell’art. 6, co. 9, sulla base della quale qualsiasi cittadino, in conformità delle leggi vigenti, poteva presentare al Ministero dell’Ambiente e a quello dei beni culturali e ambientali, nonché alla Regione territorialmente interessata, «istanze, osservazioni o pareri sull’opera soggetta a v.i.a.» nel termine di 30 giorni dall’annuncio della comunicazione del progetto sottoposto a v.i.a.

Successivamente, l’art. 6 della l. n. 349/1986 è stato abrogato dall’art. 48, d.lgs. n. 152/2006 come modificato dal d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 contenente «ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale» e dal successivo decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128, contenente «modifiche ed integrazioni al d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, a norma dell’art. 12 della l. 18 giugno 2008, n. 69».

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31 Oggi la normativa di riferimento si trova, come già detto, nella Parte II del Codice dell’Ambiente. Tutta la disciplina si ispira – o sarebbe più corretto dire cerca di ispirarsi – ai valori di pubblicità del procedimento e partecipazione.

In particolare, l’art. 5 configura la consultazione quale parte integrante della procedura di valutazione. L’art. 5, co. 1, lett. p) definisce la consultazione come «l’insieme delle forme di partecipazione, anche diretta, delle altre amministrazioni e del pubblico interessato nella raccolta e valutazione dei dati ed informazioni che costituiscono il quadro conoscitivo necessario per esprimere il giudizio di compatibilità ambientale di un determinato piano o programma o di un determinato progetto».

La cosiddetta valutazione ambientale strategica (v.a.s.) è stata introdotta dalla direttiva 2001/42/CE. Nel primo articolo si legge che la v.a.s. è un istituto volto a dare effettiva consistenza giuridica al principio dello sviluppo sostenibile e per questo occorre una profonda modifica dei rapporti tra la politica ambientale e le altre politiche. La v.a.s. consiste in una valutazione ex ante delle ricadute che l’attuazione di determinati strumenti di pianificazione e programmazione potranno avere sull’ambiente.

In realtà essa non rappresenta in Italia una novità assoluta, basti pensare alla l. n. 84/1994 che sottopone a valutazione i piani regolatori portuali; la l. n. 285/2000 sulle Olimpiadi di Torino 2006 e le previsioni contenute nella legislazione di alcune Regioni (Piemonte, Basilicata, Valle d’Aosta) che avevano già introdotto istituti che possono essere ricondotti alla v.a.s..

La v.a.s. nasce in qualche modo per porre rimedio a quel limite della v.i.a. connesso all’oggetto stesso della valutazione: dal momento che ad essere valutati sono i singoli progetti di opere specifiche, sfugge l’analisi del quadro di vasta scala e allora emerge la necessità di introdurre un momento di valutazione complessiva e anticipata, non di singoli interventi, ma di interi piani e programmi. La v.a.s. è capace di orientare le decisioni amministrative sin dalla fase pianificatoria, quando cioè sono ancora disponibili una pluralità di opzioni. Essa rende possibile la partecipazione dei soggetti interessati, nonché delle associazioni ambientaliste: al procedimento di pianificazione o programmazione hanno accesso, come parte attiva, soggetti che, diversamente, ne sarebbero esclusi

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32 aprendo così la decisione ad apporti esterni. Ma come nella v.i.a., anche in questo caso le osservazioni devono essere presentate sempre in forma documentale. In base all’art. 11, co. 5, i provvedimenti amministrativi adottati senza la previa valutazione ambientale strategica, ove prescritta, sono annullabili per violazione di legge34.

Di conseguenza, la valutazione di impatto ambientale, sia con riferimento a singoli progetti (v.i.a.) che a piani e programmi (v.a.s.), potrebbero rappresentare il terreno privilegiato per l’applicazione dello strumento partecipativo per eccellenza: l’inchiesta pubblica, così da realizzare una partecipazione a scopo collaborativo. La partecipazione collaborativa è prevista all’art. 3-sexies35 del Codice dell’Ambiente, il quale contiene anche un richiamo alla Convenzione di Aarhus, ma nella sua articolazione interna risulta deludente.

Il punto è che nel nostro ordinamento giuridico, l’istituto dell’inchiesta pubblica fatica a trovare applicazione ancora oggi, sebbene abbia trovato altrove, anche in Europa, ampio spazio.

Il primo esempio di inchiesta pubblica nell’ordinamento italiano risale al 1988: si trattava di una vera e propria inchiesta pubblica ricalcata sul modello dell’enquête

publique francese, con riferimento alla valutazione di impatto ambientale delle

centrali termoelettriche e turbogas. Era un esempio unico nel nostro ordinamento di procedura di partecipazione allargata a tutti i soggetti interessati da un progetto nuovo e svolta in condizioni tali da garantire l’imparzialità sia con riferimento al proponente (l’ENEL) che agli stessi enti chiamati a pronunciarsi sulla v.i.a. e a rilasciare le autorizzazioni. L’inchiesta pubblica doveva essere condotta da un magistrato amministrativo con la qualifica di Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, assistito da tre esperti designati dal Ministero dell’Ambiente e da tre esperti designati rispettivamente dalla Regione, dalla Provincia e dal Comune. Entro quarantacinque giorni, decorrenti dalla pubblicazione dell’avviso di presentazione del progetto, chiunque ne avesse avuto interesse avrebbe potuto far pervenire, alla sede dell’inchiesta pubblica, memorie scritte contenenti contributi

34

Per un quadro completo sulla v.a.s. si legga G. Pizzanelli, La partecipazione dei privati alle

decisioni pubbliche. Politiche ambientali e realizzazione delle grandi opere infrastrutturali,

Milano, Giuffrè, 2010, pp. 170 ss.

(26)

33 di valutazione sul piano scientifico o tecnico, aventi ad oggetto il sito, il progetto e le prevedibili conseguenze sul piano ambientale. Una volta valutata l’ammissibilità delle memorie presentate e aver eventualmente ascoltato i relatori di tali memorie, il Presidente avrebbe chiuso l’inchiesta con la trasmissione al Ministero dell’Ambiente delle memorie presentate e di una relazione contenente la sintesi delle attività svolte. Alla fine il Ministero avrebbe emesso il giudizio finale di compatibilità ambientale.

Tuttavia l’applicazione di tale procedura è stata sospesa dalla legge 9 aprile 2002, n. 55 per la «conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7, recante misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale».

Oggi le modalità di consultazione nel procedimento di v.i.a. sono disciplinate dall’art. 24, co. 4, 5 e 6, d.lgs. n. 152/2006 così come modificato e integrato dal d.lgs. n. 4/2008 contenente «ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152»36. Si prevede che l’autorità competente possa disporre lo svolgimento di un’inchiesta pubblica per l’esame dello studio di impatto ambientale presentato dal committente o proponente, dei pareri forniti dalle pubbliche amministrazioni e delle osservazioni del pubblico, senza che ciò comporti interruzioni o sospensioni dei termini dell’istruttoria. Al comma 8 dell’art. 24 si legge che nel caso in cui abbia luogo l’inchiesta, il proponente può essere chiamato, anche su sua richiesta, prima della conclusione della fase di valutazione, ad un sintetico contraddittorio con i soggetti che abbiano presentato osservazioni o pareri. Il verbale del contraddittorio sarà acquisito e valutato ai fini del provvedimento di valutazione dell’impatto ambientale. In base al comma 9, entro trenta giorni successivi alla scadenza del termine, il proponente può chiedere di modificare gli elaborati, anche a seguito delle osservazioni emerse nel corso dell’inchiesta pubblica o del contraddittorio. Se accoglierà l’istanza, l’autorità competente dovrà emettere il provvedimento di valutazione dell’impatto ambientale entro novanta giorni dalla presentazione degli elaborati modificati. Qualora l’autorità competente ritenga che le modifiche apportate siano rilevanti per il pubblico, dispone che il proponente ne depositi copia e, entro sessanta

36 Sulle novità apportate dal nuovo Codice dell’Ambiente si rinvia a S. Nespor, A. De Cesaris (a

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34 giorni dalla pubblicazione del progetto, chiunque abbia interesse può prendere visione del progetto (e del relativo studio ambientale) e presentare le proprie osservazioni. Il comma 7 prevede che l’inchiesta pubblica si concluda con una relazione sui lavori svolti ed un giudizio sui risultati emersi che saranno acquisiti e valutati ai fini del provvedimento di valutazione dell’impatto ambientale.

Benché l’importanza della partecipazione e del dialogo riescano comunque ad emergere, è bene evidenziare i limiti che caratterizzano la procedura nel nostro ordinamento. In primo luogo, si dice che l’amministrazione pubblica può – e non deve (sic!) – ricorrere al procedimento di inchiesta pubblica: non c’è alcun obbligo, soltanto se lo ritiene opportuno l’amministrazione chiederà che la procedura si esplichi applicando questo istituto. In secondo luogo, vediamo che tale possibilità37, non deve intralciare (non può né sospendere, né interrompere) i tempi di chiusura del procedimento. Pertanto, anche qualora l’amministrazione decidesse di ricorrere all’inchiesta pubblica, essa dovrà ugualmente consentire il rispetto dei tempi procedurali. Infine, la consultazione dovrà sempre avvenire in forma scritta. In Italia, l’unico strumento che i cittadini hanno a disposizione per contestare la scelta localizzativa consiste nell’inviare, nell’ambito del sub-procedimento di v.i.a., osservazioni scritte che però non vincolano la decisione finale. Inoltre, la ristrettezza dei tempi entro i quali le osservazioni possono essere presentate e il non agile accesso alla procedura riducono ulteriormente la capacità dei cittadini di manifestare il proprio dissenso38. Di conseguenza, questo istituto previsto dalla normativa ci appare come uno strumento ancora inefficace per la gestione della conflittualità nel nostro Paese.

Da tutto ciò si comprende come sia diversa, nel nostro ordinamento, proprio la

ratio: la logica è la celerità del procedimento, sacrificando la partecipazione di

cui, anche nel settore ambientale, si è scelta una versione molto tenue, prescindendo dalle enunciazioni di principio contenute nel già richiamato art.

3-sexies.

Il Decreto Legge 24 giugno 2014, n. 91, recante «Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia

37 Ex co. 6, art. 24.

38 Cfr. A. Corsetti, R. Ferrara, F. Fracchia, N. Olivetti Rason, Diritto dell’ambiente, Bari, Laterza,

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