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1. VEDO NUDO

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1. VEDO NUDO

Il cinema alle soglie degli anni Settanta

1.1 La rivoluzione sessuale e il suo riflesso sul sistema dei media

L’usurata formula della “rivoluzione sessuale” viene spesso utilizzata per sintetizzare e cristallizzare un complesso multiforme di fenomeni socioculturali che hanno trovato il loro terreno di coltura storico nella fine degli anni Sessanta e hanno caratterizzato il mondo occidentale nella sua quasi totalità. A partire dalla seconda metà del decennio, infatti, una progressiva liberalizzazione dei costumi ha indiscutibilmente cambiato volto alle società europee e statunitensi, in materia di famiglia, rapporti tra i sessi, considerazione del corpo.

Per quanto riguarda l’Italia, il repentino processo di industrializzazione e urbanizzazione, che aveva investito il nostro Paese a partire dagli anni Cinquanta, aveva innegabilmente prodotto un generalizzato miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Tuttavia, aveva avuto anche l’indiretta conseguenza di promuovere la corsa al benessere personale e potenziare un atteggiamento di diffuso individualismo. Questo nuovo assetto socioeconomico, portato di una modernizzazione plasmata sui dettami del capitalismo consumistico, aveva contribuito di fatto a far tramontare l’idea di “comunità collettiva” che era sottesa alla società patriarcale tradizionale, improvvisamente spazzando via anche una serie di regole che in questo sistema trovavano il proprio fondamento e la propria ragione d’essere.1

Si affermava un modello di famiglia nucleare contro quello della famiglia estesa: queste nuove cellule sociali, meno numerose e ripiegate su se stesse nell’isolamento dei moderni centri urbani, allentavano parzialmente la “sorveglianza” sulla vita dei singoli membri. Al loro interno, la donna viveva un momento di inusitato protagonismo, in quanto principale destinataria delle strategie di mercato messe in

1 Per una ricostruzione della vita socio-politica italiana dal boom economico alla contestazione e oltre, si veda: P.

Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 2006 (1989), in particolare pp. 283-459. In particolare, per quanto riguarda l’idea di “distorsione dei consumi” e il carattere essenzialmente “privato” del boom economico, si vedano le pagine 291-92 e 325-26.

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atto dalla civiltà dei consumi, incentrate per l’appunto sulla casa e sui beni di lusso, come gli elettrodomestici e il vestiario.2

Venivano cioè pesantemente scalfiti i presupposti fortemente gerarchici che avevano garantito solidità e continuità alla conformazione sociale preesistente: i genitori vedevano indebolirsi l’indiscusso potere che avevano sempre avuto sui figli; l’uomo perdeva gradualmente la possibilità di controllare (economicamente, ma non solo) la donna, e così via. Una simile incrinatura dell’ordine costituito riguardava anche il rapporto del cittadino con lo Stato, o del fedele con la Chiesa, in un processo generalizzato di laicizzazione e di progressivo esaurimento del ruolo educativo tradizionalmente rivestito dalle istituzioni.3

La relativa libertà acquisita dall’individuo nell’epoca del “miracolo economico”, e la sua inedita preminenza come figura sociale, non potevano non avere conseguenze anche sul piano dei costumi sessuali. Nonostante forti elementi disorientanti, dovuti alla permanenza di “tentazioni” tradizionaliste diffuse, venivano di fatto messe in discussione una serie di consuetudini morali e comportamentali che avevano da sempre dominato la nostra storia culturale.

Sebbene in modo diseguale, a seconda dell’appartenenza di classe e della provenienza territoriale, uomini e donne cominciavano a rivedere la loro posizione all’interno del vincolo matrimoniale e della composizione famigliare. La coppia eterosessuale come istituzione socialmente stabile, finalizzata alla procreazione e all’educazione dei figli, stava inesorabilmente perdendo il “peso” che aveva avuto fino a quel momento, sia a livello di vita quotidiana che nell’immaginario “amoroso” collettivo. In questo senso, l’Italia confusa ed entusiasta descritta da Pasolini in

Comizi d’amore (1965) rappresenta una fedele fotografia della vastità e della

complessità delle trasformazioni in atto.

Il Movimento Studentesco del ’68, poi, col suo portato libertario che aborriva ogni tipo di costrizione e regolamentazione della vita privata (soprattutto riguardo la sfera del corpo e delle relazioni sentimentali), aveva enfatizzato la liberazione sessuale come uno degli strumenti e, insieme, delle finalità stesse della propria lotta,

2 Su questo legame tra società dei consumi di massa e mutamenti del costume in Italia, in particolare per quanto

riguarda le identità di genere, si veda: P. Capuzzo (a cura di), Genere, generazione e consumi. L’Italia degli anni

Sessanta, Carocci Editore, Roma, 2003.

3 Si veda: P. Adamo, Il porno di massa. Percorsi nell’hard contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano,

2004, in particolare il capitolo Rivoluzione sessuale, controcultura e pornografia, pp. 21-66; P. Ortoleva, Il

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contribuendo così a infrangere gli ultimi tabù rimasti in materia.4 Gli echi delle prime ricerche sessuologiche (Kinsey, e la coppia Masters e Johnson, soprattutto) e delle teorizzazioni di intellettuali come Wilhelm Reich, Herbert Marcuse e Norman O. Brown, unitamente all’“esempio” delle pratiche rivoluzionarie d’Oltreoceano (in uso presso le formazioni controculturali e i primi gruppi del femminismo radicale), avevano condotto, anche nella cultura italiana, a una legittimazione politica della multiforme natura della sessualità umana. Venivano, cioè, portate alla ribalta istanze da sempre rimaste inespresse, come l’imprescindibilità del piacere femminile, la piena liceità delle relazioni omosessuali, la “normalità” del sesso prematrimoniale e casuale, il declino della monogamia come unica forma di legame possibile.

Sotto i colpi del progresso industriale e della crescita economica, da una parte, e delle forme di socialità alternative espresse dalla controcultura, dall’altra, la sessualità si andava dunque sempre più affrancando dalle antiche catene repressive e assumeva un’importanza senza precedenti.

Non è ovviamente questa la sede per compiere valutazioni prettamente sociologiche (o filosofiche) sulle ricadute della cosiddetta rivoluzione sessuale in termini di valori e comportamenti condivisi, mode, consumi e immaginario collettivo negli anni in questione; né tanto meno sulle complicazioni assunte dal fenomeno, in termini di assetto politico mondiale.5 Ciò che mi preme considerare, piuttosto, è il rapporto che questo processo di allentamento del “controllo sessuale”, di fatto molto più sfaccettato e tortuoso di come si è portati generalmente a pensare, può aver avuto col sistema dei media nel suo complesso.

4 Per una ricostruzione completa e accorata delle vicende del Movimento, dagli anni Sessanta in poi, si veda: N.

Balestrini e P. Moroni, L’Orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed

esistenziale, Feltrinelli, Milano, 2003 (1988). È innegabile, in ogni caso, che non si possa limitare il rapporto

intrattenuto dal cinema con i movimenti di protesta della fine degli anni Sessanta unicamente all’espressione di istanze sessuali rivoluzionarie. Per una descrizione più approfondita del riflesso avuto dal ’68 sulla produzione e sulla cultura cinematografica, si vedano, tra gli altri: I. Moscati (a cura di), 1969. Un anno bomba. Quando il

cinema scese in piazza, Marsilio, Venezia, 1998; S. Dalla Casa, Il cinema militante, in G. Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume XI – 1965/1969, op. cit., pp. 349-365 e G. Spagnoletti, C’è ma non si vede: il Sessantotto nel cinema italiano, in G. Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume XI – 1965/1969, op.

cit., pp. 366-376.

5 In un intervento tenuto il 19 marzo 2010 alla VIII MAGIS-International Film Studies Spring School di Gorizia,

Mario Perniola espone un’affascinante teoria secondo la quale la rivoluzione sessuale sarebbe stata una delle armi messe a punto dall’Occidente nella guerra fredda contro il comunismo. Secondo il filosofo, infatti, la deregolamentazione dei costumi sessuali avrebbe dovuto costituire il perno di una battaglia culturale finalizzata a rendere attrattivo lo stile di vita occidentale per la gioventù d’Oltrecortina. Parte dell’intervento è riportato nell’articolo: M. Perniola, Perché l’eros è diventato un’arma di guerra, «La Repubblica», 17 marzo 2010, sezione R2, p. 49.

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Una delle principali conseguenze dell’evidenza assunta dalla questione sessuale a livello sociale e politico era stato il graduale ridimensionamento delle tradizionali demarcazioni tra uno spazio privato, dove il sesso era vissuto e/o “parlato”, e una sfera pubblica, dove invece era «escluso non solo come pratica e come oggetto visibile ma anche, in linea di principio, come tema di conversazione».6 Il sesso, cioè, non era più così rigidamente compartimentato all’interno di perimetri deputati, fossero essi luoghi fisici o aree di significato. L’ambito della comunicazione, nell’accezione più ampia possibile, diventava un terreno fertile per argomenti fino ad allora proibiti, che entravano a gamba tesa tanto nei quotidiani scambi verbali tra persone, quanto nel dominio della rappresentazione e dell’industria culturale.

Il fenomeno macroscopico che caratterizzava il panorama mediale negli anni della “rivoluzione” era dunque l’inusitata proliferazione di “discorsi sul sesso”, anche in un Paese come l’Italia, governato in prevalenza da forze politiche conservatrici e legate a doppio filo alla morale cattolica.

Ugo G. Caruso, in un suo breve saggio sul soft-core italiano di fine anni Sessanta, descrive in questi termini l’“essenza” di un’epoca:

L’epoca, innanzitutto, è quella caratterizzata da un generale e spesso confuso desiderio di sottrarsi alla morale tradizionale, in cui esordiscono nelle edicole riviste patinate per soli uomini, mentre sugli stessi scaffali nuovi album a fumetti, di qualità invero scadente, si avviano verso una linea semi-porno accentuando i connotati sadici e morbosi dei precedenti Satanik, Kriminal, Jesebel, Sadik ecc. In teatro appaiono i primi nudi integrali nel musical Hair, mentre fioccano le denunce nei confronti del Living Theatre durante la tournée di Paradise Now. Nelle sale cinematografiche fa scalpore (e soldi) lo pseudo documentario tedesco Helga che aprirà la strada ad analoghi prodotti di carattere pornochirurgico, mentre i cineclub romani e milanesi, protetti dalla loro stessa «sotterraneità», propongono [...] un proto-cult come Couch (1964) di Andy Warhol.7

6 P. Ortoleva, Il secolo dei media, op. cit., pp. 195-96

7 Ugo G. Caruso, Minima immoralia: il filone soft-core, in Montini F. (a cura di), Una generazione in cinema.

Esordi ed esordienti italiani 1975-1988, Marsilio, Venezia, 1988, pp. 175-176. L’autore fa qui riferimento a Helga - Dalla sfera intimissima di una giovane donna (Helga-Vom Werden des Menschlichen Lebens, Erich F.

Bender, 1967). Il film fu primo al box office italiano per la stagione 1967-68 (secondo i dati SIAE riportati dal sito http://boxofficebenful.blogspot.com, ultima visita 20 agosto 2010).

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“La morale tradizionale”, dunque, sembrava essere il principale oggetto di un conclamato processo di iconoclastia, che si stava dispiegando a cavallo tra due decenni, su diversi fronti mediatici (cinema, editoria e teatro, ad esempio) e su vari livelli della compagine culturale, attraversando sia la cosiddetta cultura “alta”, che i prodotti “popolari”, che (ovviamente) le manifestazioni di tipo decisamente controculturale.

Questo attacco generalizzato a convenzioni culturali percepite ormai come antiquate sembrerebbe perciò essere soprattutto il riflesso diretto dei profondi mutamenti nel costume sessuale che stavano avvenendo all’interno della società civile.

Tuttavia, considerare l’erotizzazione dei media a cavallo tra anni Sessanta e Settanta unicamente in questi termini di mero rispecchiamento di istanze “altre”, portate alla luce dalla rivoluzione sessuale, può risultare parzialmente fuorviante. Se è vero, infatti, che la società italiana si apriva ai discorsi sul sesso, è anche vero che esisteva un’industria culturale pronta, per varie ragioni, a cavalcare questa nuova “disponibilità”. Come afferma Fausto Colombo ne La cultura sottile,

nella rappresentazione sempre più esplicita del corpo e della sessualità si intrecciavano due strategie differenti: quella […] in cui lo sconfinamento dal senso “borghese” del pudore aveva una funzione di lotta e nemmeno tanto paradossalmente pedagogica, configurandosi una volta di più come un’operazione d’élite, non a caso condotta da “autori”; e quella ragionevolmente appartenente a una strategia d’intrattenimento, obiettivamente industriale, in cui si riconosceva una disponibilità di una ragionevole fetta del pubblico a consumare prodotti in cui l’erotismo fosse protagonista […].8

D’altro canto, nessuna sessualizzazione della comunicazione sarebbe stata possibile se non fosse intervenuto un mutamento interno a quelle istituzioni, come la censura, da sempre preposte a vigilare perché ciò non accadesse.

Per provare a comprendere le modalità della liberalizzazione dell’erotismo all’interno della storia culturale italiana, è necessario, a mio giudizio, tenere presenti

8 F. Colombo, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta, Milano,

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diversi ordini di fattori. Questioni di carattere istituzionale e legislativo si affiancavano infatti a dinamiche socio-economiche ben precise. A loro volta, questi intrecci avevano pesanti ricadute sulle relazioni interne al sistema dei media, al centro del quale il cinema cominciava a perdere la propria posizione di preminenza quasi assoluta.

Un articolo intitolato Vent’anni di censura e malcostume. I responsabili dei film

“sexy”, apparso sul «Corriere della sera» il 5 giugno 1969 e firmato da Giovanni

Grazzini, ci fornisce alcuni interessanti indizi su quelle che, già all’epoca dei fatti, venivano percepite come le possibili ragioni “storiche” del rivolgimento in atto nell’Italia di fine decennio.

A poco a poco molti freni si allentano, il gusto, com’è ovvio, comincia a deperire, si delinea il successo dei “sexy al neon”. Allora la censura che fa? Non soltanto dà via libera, salvo casi eccezionali, quasi a compensare il maschio italiano di quanto

gli ha sottratto la legge Merlin, ma sembra compiacersi di vedere alleggerito il

proprio impegno: ora che una buona fetta della produzione si orienta verso il sesso

perché offre redditi incoraggianti, il controllo sui film di idee diviene uno scherzo

da bambini, basta applicare la legge che vieta il vilipendio delle istituzioni e

tornare soddisfatti al controllo delle natiche.9

Una specie di “fisiologico” allentamento dei freni inibitori, l’abolizione delle case di tolleranza, il sesso sugli schermi come tentativo di arginare la crisi del cinema, l’ambiguità strutturale della censura italiana: Grazzini sembra quasi indicare in questi argomenti le dirette motivazioni dell’esplosione erotica degli anni Sessanta. Si tratta, certo, di una semplificazione polemica, utilizzata principalmente per stigmatizzare la decadenza del gusto che l’autore intravedeva nella vita culturale e sociale dell’epoca.

Tuttavia, se volessimo provare a seguire la strada che una lettura di questo tipo sembra indicare, saremmo innanzitutto obbligati a tornare indietro di almeno una

9 Citato in T. Sanguineti (a cura di), Italia taglia, Transeuropa, Ancona, 1999, p. 74. Corsivo mio. Il critico qui

utilizza un’espressione mutuata da titoli come Sexy al neon (1962) e Sexy al neon bis (1963) di Ettore Fecchi, o

Mondo matto al neon (Carlo Veo, 1963), per riferirsi polemicamente all’intero filone del documentario sexy,

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decina d’anni rispetto all’esplosione della rivoluzione sessuale, e ad aggiungere altri elementi al quadro delineato fino a ora.

1.2 Il film sexy e la “crisi” del cinema

La disamina di quali siano stati gli effetti della legge Merlin sulla cultura e sulla società nel nostro Paese è ovviamente questione piuttosto complessa, che esula in larga parte dalle finalità di questo studio. Tuttavia, anche uno storico dei media come Peppino Ortoleva chiama in causa la scomparsa della casa chiusa, luogo “rituale” di aggregazione maschile, tra le dinamiche sociali che avrebbero influito sull’affermarsi del nudo, prima, e della pornografia, poi, nel panorama mediale italiano.

I film «scollacciati» che ebbero il loro capostipite in Europa di notte erano il sostituto del bordello per diversi aspetti: occasione di socializzazione maschile, di iniziazione almeno immaginaria di chi il sesso non lo aveva ancora praticato, di eccitazione vicaria, quasi che le fantasie proposte dal cinema sexy fossero tra le vie scelte dagli italiani per adeguarsi all’esplicito invito di Totò alla fine di un divertente film di Mauro Bolognini: «Basta con le nostalgie. Ormai sono chiuse. ARRANGIATEVI!».10

La liberalizzazione dell’erotismo mediatico in Italia sarebbe, dunque, almeno in parte ascrivibile a una sorta di «nostalgia del bordello»,11 inteso come luogo della disponibilità incondizionata del corpo femminile. Disponibilità che, dopo le legge Merlin, gli spettatori maschi potevano ritrovare in forma simbolica nel fiorire di film e pubblicazioni (più o meno marcatamente osé) che, dalla fine degli anni Cinquanta in poi, cominciavano gradualmente a dilagare sulla scena culturale italiana.

Questa tesi, senza dubbio interessante, permette di complessificare la definizione del substrato culturale sotteso alla sessualizzazione dei media: da una parte, infatti, aggiunge un importante tassello legislativo-istituzionale alla descrizione del processo di superamento della compartimentazione sociale della sessualità; dall’altra, fornisce un’ulteriore spiegazione della pressante richiesta di erotismo da parte del

10 P. Ortoleva, Il secolo dei media, op. cit., p. 172. L’autore fa qui riferimento ai film: Europa di notte

(Alessandro Blasetti, 1959); Arrangiatevi! (Mauro Bolognini, 1959), con Totò e Peppino De Filippo.

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“consumatore”, soprattutto maschio, degli anni Sessanta. Tuttavia, come anche lo stesso autore sottolinea, esistevano altre ragioni, più profondamente radicate nelle dinamiche interne all’industria culturale, che avevano permesso a questa domanda di trovare soddisfazione in un’effettiva offerta.

Per quanto riguarda strettamente l’ambito del consumo cinematografico, il propagarsi del nudo e del sesso sarebbe indicativo, sempre secondo Ortoleva, di un altro segno dei tempi, forse ancora più eclatante della chiusura dei postriboli. La coincidenza di date tra i primi esempi di film sexy e la diffusione su vasta scala della televisione sarebbe, infatti, un elemento tutt’altro che trascurabile per spiegare il successo di questo particolare filone. In un momento, cioè, in cui il mezzo televisivo aveva già raggiunto una fetta consistente della popolazione italiana,12 produttori ed esercenti avrebbero cercato di rendere più appetibile la visione di pellicole in sala attraverso lo sfruttamento di contenuti e temi esclusi dal consumo domestico.

In realtà, all’inizio degli anni Sessanta, i sintomi della recessione del cinema non erano poi così apertamente evidenti. Effettivamente, alle cifre record del 1955 (nel quale si erano registrati 819,4 milioni di spettatori) era seguito un crollo improvviso: il 1956, ricordato infatti come l’anno della prima crisi, aveva visto diminuire di 29 milioni i biglietti venduti e di 670 milioni di lire gli incassi, forse proprio per l’inevitabile contraccolpo dovuto alla “novità” della televisione.13 La ripresa, che pure c’era stata, non aveva riportato nelle sale i numeri del ’55, attestandosi comunque alla rassicurante cifra di 744,7 milioni di spettatori nel 1960. Anche il rendimento dei singoli cinema cominciava a presentare leggeri segni di flessione (da una media di 83.256 biglietti a sala nel 1950, a una di 71.662 nel 1960). Tuttavia, attraverso una politica di aumento contenuto del prezzo dei biglietti (da un costo medio di 96 lire nel 1950, si era passati in dieci anni alle 162 lire), gli incassi totali sul territorio italiano erano addirittura arrivati quasi a raddoppiare nel giro di un decennio (63.404 milioni di lire nel 1950, a fronte dei 120.986 nel 1960).14

12 Nel 1959, sempre secondo Ortoleva, la televisione raggiungeva in Italia quasi duemila abbonati. Ovviamente,

considerando la prassi abituale della fruizione collettiva, la percentuale di pubblico raggiunta effettivamente era molto più ampia. Si veda: P. Ortoleva, Il secolo dei media, op. cit., p. 175. Vedere Aldo Grasso o Monteleone.

13 Si veda: V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bompiani, Milano,

1974, p. 165.

14 Si veda: B. Corsi, Con qualche dollaro in meno. Storia economica del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma,

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Un simile andamento altalenante (ma, in fin dei conti, positivo) avrebbe contraddistinto anche tutti gli anni Sessanta: a un calo progressivo del numero di spettatori (da 663 milioni nel 1965 a 551 milioni nel 1969), corrispondeva tuttavia una crescita degli incassi al botteghino (dai 159 miliardi del 1965 si era passati ai 179 miliardi del 1969), sempre grazie a un progressivo rincaro dei biglietti, tale da riuscire anche ad assorbire parte del deficit dovuto al tasso d’inflazione.15 I benefici della legge Corona del 1965, emanata dal primo governo di centro-sinistra, avevano poi dato una discreta spinta alla produzione, riportando (dopo il 1966) i film italiani in circolazione di nuovo oltre le duecento unità.16

Nel periodo 1959-1969, dunque, nonostante la comparsa sulla scena di una nuova e potente concorrente, il cinema continuava a detenere il primato economico dell’intrattenimento, sebbene tramite soluzioni palliative e precarie, che stavano semplicemente spostando in avanti il peso della crisi reale.

Il ruolo della televisione, per lo meno in questa fase, non è stato perciò quello di diretta antagonista della sala tout court: la diffusione non ancora così capillare degli apparecchi e una programmazione tutto sommato piuttosto limitata (affidata unicamente alle sole reti di Stato) non avrebbero in nessun caso permesso allo “spettacolo domestico” di mettere seriamente in discussione la visione di film al cinema.

Almeno inizialmente, l’ingresso nella partita mediale di questo nuovo giocatore è andato in realtà soprattutto a rafforzare la graduale marginalizzazione del consumo di profondità a opera delle prime visioni cittadine, processo che era già in atto a partire dal 1959 e aveva le proprie ragioni in un’evoluzione interna all’industria stessa.17 Gli esercizi situati nei centri urbani (dove avevano luogo i debutti dei film) stavano, infatti, diventando il vero motore economico a livello di distribuzione, in grado di orientare anche l’andamento delle sale di seconda visione, o addirittura di

15 Si veda: B. Torri, Industria, mercato, politica, in L. Micciché, Il cinema del riflusso. Film e cineasti italiani

degli anni ’70, Marsilio, Venezia, 1997, p. 16.

16 Nel 1964 i film prodotti in Italia erano stati 315, con un crollo improvviso nel 1965 a 188. Nel 1966 la

produzione si attestava su 240 pellicole, che sarebbero diventate 254 nel 1967, 262 nel 1968 per poi cominciare lentamente a calare dal 1969 (247); si veda: R. C. Provenzano, La produzione e il consumo, in G. Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume XI - 1965/1969, op. cit., p. 413. Sulla legge 1213, si vedano, oltre all’articolo in questione: B. Corsi Con qualche dollaro in meno, op. cit., pp. 131-139 e G. P. Brunetta, Storia del

cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta 1960-1993, Volume IV, Editori Riuniti, Roma, 2001,

pp. 16-32.

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soppiantarle (anche grazie alla motorizzazione di massa che stava seguendo il boom automobilistico del 1956).18

È stato, dunque, proprio questo tipo di fruizione ad accusare per primo il colpo della concorrenza della televisione. Con l’accordo tra RAI e Anica del 1966, poi, si può dire che la perdita di valore commerciale delle sale “periferiche” si sia andata inesorabilmente aggravando, lasciando alle reti televisive il dominio quasi assoluto della programmazione delle pellicole uscite da tempo dal mercato.19

In un articolo dedicato al documentario sexy e al peplum, filoni sviluppatisi a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, Vittorio Spinazzola analizza approfonditamente i risultati ottenuti al botteghino da questi due sottogeneri negli anni dal 1957 al 1964 circa.20

Per quanto riguarda lo storico-mitologico, il dato interessante è la sperequazione tra i numeri delle prime visioni e gli incassi totali sull’intero mercato. Prendendo come esempio, tra gli altri, un film di Giacomo Gentilomo del 1961, Maciste contro

il vampiro, si nota che, a fronte di una riuscita discreta al momento del lancio

(31.426.000 di lire, ben pochi tuttavia se paragonati ai 471.652.000 del Barabba di Richard Fleischer, dello stesso anno), il vero “successo” della pellicola andava registrato ben quattro anni dopo, con un incasso totale a fine ciclo di 527 milioni di lire.21

Che il fenomeno interessasse questa tipologia di film in misura maggiore rispetto ad altre, ce lo dimostra un raffronto che Spinazzola opera tra gli introiti di seconda e terza visione ottenuti da alcune pellicole uscite nel 1958.

I soliti ignoti (Mario Monicelli) e Mio zio (Mon Oncle, Jacques Tati) avevano

ottenuto rispettivamente 842.267.000 e 342.584.000 di lire al 31 dicembre 1960, mentre il loro incasso ammontava a 879.080.000 e 345.991.000 di lire alla stessa data del 1961 (con una differenza, dunque, di 29.813.000 e 3.407.000 di lire in un

18 Si veda: F. Colombo, Industria culturale e cultura del consumo, in S. Bernardi (a cura di), Storia del cinema

italiano. Volume IX – 1954/1959, Marsilio-Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2004, p. 317. Sulla questione delle

sale periferiche, si veda anche, nello stesso volume: B. Corsi, Il pubblico, un gigante sconosciuto, pp. 442-450.

19 Si veda: G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta 1960-1993, op.

cit., p. 24.

20 V. Spinazzola, Il documentario esotico-erotico e il filone mitologico, in Cinema e pubblico, op. cit., pp.

318-336.

21 Idem, p. 329. L’autore cita altri film dello stesso anno a esempio di questa tendenza. La guerra di Troia

(Giorgio Ferroni), con 76.102.000 alle prime visioni e 802.442.000 di lire nel 1965; Romolo e Remo (Sergio Corbucci), con 46.765.000 e 710.820.000; Il colosso di Rodi (Sergio Leone), con 31.836.000 e 659.823.000;

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anno di programmazione). Se lo stesso criterio si applica a due peplum (datati anch’essi 1958), Le fatiche di Ercole (di Pietro Francisci, considerato l’iniziatore della serie) ed Erode il Grande (Viktor Tourjansky), si nota che la crescita nell’anno di programmazione 1961 risulta essere ben più elevata: con 823.053.000 di lire a fine 1960 e 862.859.000 a fine 1961, il primo mette a segno 39 milioni di entrate in più in un anno; sorte analoga per il secondo, con 421.907.000 a fine 1960, 461.527.000 a fine 1961 e quindi una differenza di 40 milioni.22

Osservando il successo sul lungo periodo di questo filone, si potrebbe a ragione affermare che la forsennata produzione di film storico-mitologici era stata uno dei mezzi attraverso i quali l’industria italiana aveva tentato di tenere e sfruttare il mercato di profondità,23 nell’epoca della sua messa in discussione ad opera della concorrenza televisiva. Il peplum, dunque, sarebbe apparentabile ai successivi

spaghetti western e spionistici nostrani, nella disperata rincorsa del cinema italiano

anni Sessanta al consenso del pubblico popolare.24

L’andamento dei documentari erotico-esotici, chiamati anche film sexy, manifesta (almeno secondo Spinazzola) un orientamento leggermente dissimile da quello del peplum, presentando migliori risultati nelle prime visioni e una tenuta meno eclatante nei cicli di sfruttamento successivi.

Il sopra citato Europa di notte incassava 286 milioni di lire alle prime visioni (con l’eccezionale risultato di 1.210 milioni durante tutto il 1959). Un simile exploit veniva realizzato da Mondo di notte di Luigi Vanzi, che si piazzava al terzo posto nella classifica dell’anno seguente (287 milioni di lire, 1.027 in totale). Mondo cane (Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi) otteneva buoni risultati durante la stagione 1961-62 (264 milioni nelle prime) e manteneva un discreto successo dopo tre anni e mezzo (con 784 milioni). Nella stagione 1962-63, almeno venti titoli si giocavano «le più varie combinazioni dei termini sexy, notti, nudo, neon, proibito»; sempre Jacopetti otteneva un quinto posto in classifica nel 1963 con La donna nel

mondo (che incassava 302.081.000 alle prime visioni), e così via, con un progressivo

ridimensionamento del fenomeno nelle annate successive.

22 Idem.

23 Sui generi di profondità nella prima metà degli anni Sessanta, si veda: S. Della Casa, I generi di profondità, in

G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume X – 1960/1964, Marsilio-Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2001, pp. 294-305.

24 Si veda, ad esempio: L. Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia, 1998 (1995), pp.

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La proliferazione di titoli pressoché identici nel giro di pochi anni, infatti, aveva fatto perdere “mordente” a questa tipologia di film già al momento dell’uscita: Il

mondo di notte n. 3 (Gianni Proia, 1963) ad esempio, incassava al debutto “solo”

120.805.000 di lire, oppure Le città proibite (Giuseppe Maria Scotese, 1963) ne otteneva 116.720.000. Anche il pubblico di profondità si dimostrava scarsamente interessato a questi prodotti, se si pensa che, ad esempio, Mondo cane n. 2 (Jacopetti, Prosperi, 1963) incassava nell’ultimo trimestre del 1964 solo 11.652 milioni di lire, contro i 61.878 ottenuti negli stessi mesi dal peplum I dieci gladiatori (Gianfranco Parolini, 1963), o i 61.545 del western I tre spietati (Joaquín Luis Romero Marchent, 1963).25

I dati forniti da Spinazzola, mentre confermano la destinazione “di profondità”, e quindi soprattutto popolare, dello storico-mitologico, attesterebbero una predilezione per il documentario sexy da parte di uno spettatore prevalentemente borghese e cittadino. Non ci autorizzano, cioè, a considerare i primi nudi al cinema come un’operazione consapevolmente orientata al mercato delle seconde visioni, condotta al preciso scopo di riguadagnare la fascia di pubblico effettivamente sottratta al cinema dalla televisione in quella precisa congiuntura.

L’impressione, piuttosto, è che il successo ottenuto da Europa di notte (inconsapevole iniziatore del filone) sia stato oggetto di una sorta di speculazione produttiva improntata al “bracconaggio”26 e all’immediatezza dei risultati, secondo una pratica imitativa/ripetitiva, tipica dell’industria italiana, che prevedeva lo «sfruttamento “a rapina” dei potenziali di consumo immediatamente disponibili, badando cioè più a catturare che a conservare spettatori».27

Un commento dello stesso Blasetti, su «Bianco e Nero», ci permette di inquadrare in questo modo la genesi del film sexy:

Nel cinema italiano c’era il pregiudizio che per fare un film ci volesse a tutti i costi una trama, dei personaggi [...]. Io sostenevo invece che 2.500 metri di pellicola

25 Questi dati e la citazione sono tratti da: V. Spinazzola, Cinema e pubblico, op. cit., pp. 319-320.

26 Sul concetto di “bracconaggio” legato all’industria cinematografica italiana, si veda: R. Eugeni, Sviluppo,

trasformazione e rielaborazione dei generi, in S. Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume IX – 1954/1959, op. cit., pp. 77-97.

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possono essere sostenuti benissimo senza artifici da un tema valido in sé e dall’inchiesta che su questo tema si può fare.28

Una sorta di “sfida” produttiva autoriale si sarebbe, perciò, trasformata in un miniera d’oro da sfruttare, nella sua forma documentaria (poco costosa, rispetto a un film di fiction) e per i suoi contenuti “piccanti” (che avevano dimostrato, proprio col film in questione, di funzionare al botteghino, nonostante i risultati non sempre eclatanti dei suoi epigoni). Senza badare, ovviamente, al fatto che si sarebbe certamente trattato di una vena dal rapido esaurimento e senza operare alcun tipo di reale e seria programmazione, con l’ottica ormai consolidata dei “pochi, maledetti e subito”.

Il film sexy, nato dunque soprattutto da una spinta di questo tipo, non aveva in realtà avuto la possibilità di influire più di tanto sull’andamento generale del mercato, se non mettendo a segno, nel giro di pochissimi anni, qualche buona posizione nelle classifiche del botteghino. Il filone, come già dicevamo precedentemente, era infatti già quasi del tutto esaurito mentre si affermava lo

spaghetti western, genere che avrebbe realmente dominato il consumo (di profondità

e non) negli anni Sessanta.

Il valore dei mondo e dei film “di notte” va, quindi, ricercato non tanto nei suoi “numeri” o in una sua (forse inesistente, almeno in quel momento) vocazione popolare, quanto piuttosto nella sua portata culturale.

Sempre secondo Spinazzola, infatti, i cosiddetti film “al neon” di inizio decennio andrebbero considerati soprattutto in ragione dell’influenza che avevano esercitato sulla percezione dell’erotismo presso il pubblico dell’epoca. La popolazione italiana era tradizionalmente abituata a ben altri “canoni” nella rappresentazione dell’amore e del rapporto tra i sessi, mutuati semmai dalla letteratura rosa, dal melodramma, dal cineromanzo “classico” alla «Grand Hotel».

Pensiamo per contrasto a tanta parte della produzione italiana e hollywoodiana d’argomento amoroso, dove regnano l’allusione e il sottinteso, la contaminazione tra sensualismo e sentimento, il gioco degli istinti evocati e subito repressi, in un

28 La citazione è tratta da: R. Nepoti, Documentari, cinegiornali e cinema non fiction, in G. De Vincenti (a cura

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contesto narrativo ricco di seduzioni morbose ma purificato dal trionfo finale della virtù e della punizione o pentimento del vizioso peccatore. Qui invece le cose vengono chiamate col loro nome, e nessuno finge di ignorare i desideri che le immagini sollecitano. In questa brutale franchezza di linguaggio lo spettatore

trovava un antidoto all’ipocrisia del dico e non dico. 29

Gli pseudo-documentari sexy avrebbero dunque contribuito a impostare un più franco rapporto dello spettatore con i contenuti legati alla sessualità, aprendo la strada a fenomeni impensabili in precedenza, come le prime riviste for men only e, sul lungo periodo, il film a luci rosse. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, si inaugurava, cioè, la possibilità di filmare, proiettare e, soprattutto, vedere il nudo e il sesso, nella loro crudezza e per se stessi.

Dell’apertura di questa nuova frontiera avrebbe risentito fortemente il cinema italiano nel suo complesso, in particolare nelle sue forme, appunto, “popolari”, quelle destinate cioè soprattutto a produrre i numeri al botteghino nelle aree di mercato più a rischio. L’importanza del film sexy di inizio anni Sessanta, dunque, risiede a mio giudizio non tanto nell’avere “riportato” gli italiani al cinema (ovvero nell’avere direttamente “arginato” la crisi incipiente), quanto nell’avervi portato, finalmente, il sesso. A uso e consumo soprattutto di altri generi (lo stesso spaghetti western, l’horror gotico di Freda e Bava, il sexy thriller che si sarebbe sviluppato a fine anni Sessanta, l’erotico propriamente detto inaugurato nel 1968 da Bora Bora di Ugo Liberatore, e così via), che di questa novità avrebbero fatto, di lì a poco, tesoro.30

1.3 Moralismi e censure

Sebbene con un chiaro accento di biasimo, anche Lino Micciché si è soffermato sul fenomeno del film sexy, mettendo in luce la natura dissacrante di quello che egli

29 V. Spinazzola, Cinema e pubblico, cit. p. 323. Corsivo mio.

30 In realtà, anche la schiera di film erotici di ambientazione esotica, usciti a fine decennio sulla scia del successo

del film di Liberatore, aveva avuto un’influenza relativamente scarsa sul mercato. A fronte di una produzione esplosiva, questo filone si era sempre mantenuto su incassi piuttosto bassi. Ad esempio, nel 1969 vengono prodotte 24 pellicole classificabili come erotiche, per un incasso totale di 6 miliardi e 400 milioni di lire circa; il confronto col genere comico-satirico, ad esempio, rende abbastanza l’idea di questa sproporzione (su 30 pellicole prodotte, un incasso di quasi 21 miliardi, sempre nel 1969). Si veda: R. C. Provenzano, La produzione e il

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stesso definisce una sorta di «Walhalla sessuologico».31 Si trattava, certo, di una «dissacrazione di destra»,32 la cui portata dirompente si può considerare quasi una sorta di effetto collaterale secondario, un “accidente” connaturato a una produzione che mirava unicamente a sfruttare a proprio vantaggio le contraddizioni del sistema. Il superamento di alcuni tabù visivi, che questi prodotti hanno involontariamente causato, passava infatti attraverso una nuova forma di mistificazione del contenuto sessuale, questa volta però di natura prettamente formale, ovvero il filtro pretestuoso della cronaca giornalistica e del reportage. Le ipotetiche ambizioni informative di questi film (spesso supportate da un acceso moralismo nei testi di commento) avevano, dunque, la funzione di vero e proprio fattore giustificante, per un pubblico e delle istituzioni censorie che si compiacevano di accettare tacitamente (e ipocritamente) l’inganno.

Un tale espediente si può inserire perfettamente nei molteplici escamotage messi in atto da registi e produttori per ottenere profitti dal nudo, dal sesso e dalla violenza aggirando gli ostacoli posti dalla censura. Manovre di questo tipo hanno caratterizzato vari momenti e luoghi della storia del cinema: basti pensare alle origini dell’exploitation americana nei brevi filmati divulgativi sulle malattie veneree e sugli effetti delle droghe, che circolavano semi clandestinamente durante gli anni Trenta e Quaranta.33

Incredibilmente, quindi, la censura di inizio anni Sessanta si era dimostrata piuttosto lassista nei confronti del film sexy, forse proprio per la natura non finzionale di questa schiera di pellicole.34

Allo stesso modo, qualche anno dopo la proliferazione dei documentari erotico-esotici all’italiana, lo strepitoso successo al botteghino di un prodotto come Helga è stato possibile grazie al lasciapassare censorio fornito al film dalle sue supposte intenzioni esplicative riguardo la vita sessuale all’interno della famiglia. Mentre era implicitamente chiaro agli spettatori (e ai censori stessi) che l’interesse della

31 L. Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, op. cit., p. 135. 32 Idem, p. 137.

33 Si veda: R. Curti e T. La Selva, Sex and Violence. Percorsi nel cinema estremo, Lindau, Torino, 2003, pp.

19-27. Gli autori rintracciano in questo tipo di prodotti le prime temerarie rappresentazioni di contenuti “proibiti” in territorio nordamericano, sebbene in circuiti periferici rispetto alla produzione cinematografica mainstream e quindi non toccati delle restrizioni imposte dal famigerato Codice Hays.

34 O forse perché, come vedremo tra poco, le nuove commissioni di censura (nate dalla legge 161) prevedevano la

presenza di membri dell’industria. Si veda: F. Vigni, La censura, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema

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pellicola stava principalmente nelle scene di nudo integrale “ginecologico”: immagini di quel tipo, assolutamente comuni nei film da bordello, costituivano una visione sconvolgente e senza precedenti all’interno del cinema cosiddetto “legittimo”.35

L’istituzione della censura è, per sua natura, caratterizzata da una sorta di ambiguità costitutiva: fornisce sottili scappatoie nel momento stesso in cui impone i divieti e, paradossalmente, crea tortuose vie di fuga per il “proibito” proprio attraverso gli stessi strumenti con i quali erige i muri che dovrebbero invece celarlo alla vista. Il caso di un film come Helga è dunque la prova lampante dell’ipocrisia di fondo delle istituzioni che si trovano a dover vigilare sulla moralità.

In ogni caso, la situazione italiana degli anni Sessanta era complicata anche da altri fattori e contingenze storiche.

Tra il 1959 e il 1961 la censura cinematografica in Italia aveva raggiunto una sorta di punto di non ritorno in quanto ad aggressività nell’aperto esercizio del potere. Moralisti “dal pugno di ferro”, come i ministri del turismo e dello spettacolo Umberto Tupini e Alberto Folchi, o i procuratori della repubblica Pietro Trombi e Carmelo Spagnuolo, guidavano un’istituzione che colpiva vigorosamente e indiscriminatamente l’erotismo e l’impegno politico. Erano gli anni delle tristi vicende censorie di film come L’avventura e Rocco e i suoi fratelli, e dell’accanimento contro l’opera di Mauro Bolognini, solo per citare gli episodi più eclatanti.36

La legge n. 161 del 1962, abolendo la casistica delle tipologie di spettacoli non ammessi (che era rimasta pressoché invariata rispetto al decreto fascista del 1923 e che praticamente metteva sullo stesso piano le offese al comune senso del pudore con una qualsivoglia idea di critica sociale) e allargando la composizione delle commissioni di censura anche a personalità dell’industria cinematografica (oltre che

35 Nel film Helga viene mostrato per la prima volta senza censure un parto umano. Per film da bordello si

intendono quei filmati illegali (muti e solitamente composti di un solo rullo di pellicola) in cui venivano ripresi atti sessuali espliciti di varia natura. Questo tipo di film non aveva ovviamente circolazione nelle sale, ma era destinato al consumo privato o veniva utilizzato come intrattenimento extra nelle case di tolleranza. Su questi ultimi, si vedano, tra gli altri: M. Salotti, Lo schermo impuro. Il cinema pornografico dalla clandestinità alle luci

rosse, Editori del Grifo, Montepulciano, 1982; e il capitolo The Stag Film: Genital Show and Genital Event, in L.

Williams, Hard Core. Power, Pleasure and the “Frenzy of the Visible”, University of California Press, Berkeley - Los Angeles - Londra, 1999 (1989).

36 Si veda, in proposito, il paragrafo significativamente intitolato Gli ultimi fuochi della censura, in G. P.

Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta 1960-1993, Volume IV, Editori Riuniti, Roma, 2001, pp. 28-38. Si veda anche: F. Vigni, Buon costume e pubblica morale, in S. Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume IX – 1954/1959, op.cit., pp. 65-75.

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a giornalisti e professori di diritto e pedagogia),37 avrebbe dovuto almeno in parte mitigare il clima di terrore degli anni precedenti.

In realtà, sia la reintegrazione della categorizzazione in sede di regolamento esecutivo della legge (datato 11 novembre 1963), sia la connaturata doppia natura (amministrativa e giudiziaria) della censura italiana non avevano permesso grossi passi avanti in tal senso.38 In effetti, le commissioni censorie istituite a livello governativo rappresentavano soltanto uno degli sbarramenti contro i quali un film poteva arrestarsi: come è noto, le ordinanze di sequestro promulgate dai singoli magistrati (sovente su indicazione di privati cittadini o associazioni) spesso superavano in rigore e moralismo i provvedimenti della censura preventiva.

Questa doppiezza strutturale dell’istituzione censoria italiana era aggravata perlomeno da altre due componenti. In primo luogo, i giudizi espressi dal Centro Cattolico Cinematografico erano in grado di determinare, almeno in parte, la sorte di una pellicola: direttamente, influendo sulla sua circolazione, mediante l’esclusione dal circuito di sale a esso afferenti; o indirettamente, grazie all’enorme influenza che il Centro era in grado di esercitare sull’opinione pubblica, così come sulla compagine politica al potere in quegli anni. Un’ulteriore forma di censura “laterale” consisteva inoltre in un insieme di misure di natura economica. La negazione del “premio di qualità”, della nazionalità italiana o del visto di esportazione, ad esempio, erano mezzi comunemente utilizzati per esercitare considerevoli pressioni su produttori e registi, mirando di fatto alla marginalizzazione commerciale dei film che non si volevano colpire apertamente.

Le pellicole che in qualche modo “osavano” sfidare la morale cattolica (o si lanciavano in una critica più o meno cruda della società italiana del tempo), andavano dunque incontro a condizionamenti di vario genere, spesso nemmeno direttamente causati dagli organi censori “ufficiali”. Il sociologo “polemista” Carlo Modesti Pauer, nel descrivere le politiche di controllo cinematografico che hanno contraddistinto un lungo periodo della nostra storia (a partire proprio dagli anni Sessanta), postula una stretta correlazione tra il relativo ammorbidimento della

37 In ogni caso si trattava di figure marginali, sia dell’industria che del giornalismo, dato che né i membri

dell’ANAC, né i giornalisti appartenenti al sindacato avevano aderito alla formazione delle commissioni, per protesta contro una legge ritenuta ancora troppo repressiva dai diretti interessati.

38 Sulla legge n. 161 si vedano, oltre ai testi citati sopra: A. Baldi, Schermi proibiti. La censura in Italia

1947-1988, Marsilio-Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2002, p. 27-30; E. Sallustro (a cura di), Storie del cinema italiano. Censure. Film mai nati, proibiti, perduti, ritrovati, Silvana, Cinisello Balsamo (Milano), 2008, passim.

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censura amministrativa dovuto alla legge n. 161 e la sensibile recrudescenza della censura giudiziaria che ne è seguita.

A monte una censura preventiva che vaglia i copioni, le liste dei dialoghi, scoraggia i soggetti scomodi, dissuade i produttori più tenaci; a valle, una censura “corporativa” che segnala quello che è sfuggito ai tagli e alle revisioni, sollecitando i sequestri. Questo è ciò che avviene sempre più negli anni successivi. Accade, infatti, che le maglie della censura burocratica iniziano ad allargarsi, sicché gli ambienti conservatori, sdegnati dal cedimento, si mettono freneticamente in azione per incrementare l’azione dal basso. Dietro ai singoli e ai gruppi di cittadini, sono evidenti le coperture della destra reazionaria - neofascista e clericale - che si appoggia alle garanzie del diritto penale, spesso con l’invio di fastelli di “denunce prestampate” o firmate da gruppi di suore eterodirette.39

Pauer delinea così un quadro piuttosto inquietante di “poteri occulti” all’opera sul fronte della vita culturale del nostro Paese, nel (vano) tentativo di ostacolare quell’evoluzione del gusto e dei costumi che da più parti premeva per imporsi.

In aggiunta a ciò, un altro aspetto della censura italiana presentava dei forti lati di “opacità”. Come in parte già ricordava Grazzini nell’articolo sopra citato, le commissioni e i magistrati sembravano, infatti, più solerti nell’intervenire contro quelle opere la cui “scabrosità” di contenuti fosse legata a una qualche intenzionalità di indagine sulla società contemporanea.

«La sola cosa che non si può sempre presentare nuda è la Verità», scriveva Enzo Biagi su «La Stampa» il 20 ottobre del 1967,40 dando voce a una parte dell’opinione pubblica, esasperata dall’operato di un’istituzione che sembrava riservare una particolare foga punitiva nei confronti dei cosiddetti film “impegnati”. D’altro canto, anche nei fortunati casi in cui il valore culturale di una pellicola di taglio “intellettuale” riusciva a preservarla dalle forbici del censore, si venivano alcune volte a creare degli strani cortocircuiti. Succedeva infatti che ad accampare lo statuto di opera d’arte (e quindi a reclamare la libera circolazione) fossero lavori assolutamente derivativi, che utilizzavano riferimenti alla cultura “alta” a scopi

39 C. Modesti Pauer, Storie di censura e cinema italiano nel XX secolo, in E. Sallustro (a cura di), Storie del

cinema italiano. Censure, op. cit., p. 69-70.

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puramente commerciali. Le vicende del Decameron pasoliniano, qualche anno più tardi, hanno rappresentato un caso esemplare: se l’indiscussa rilevanza del capolavoro letterario “interpretato” da Pasolini per il grande schermo aveva, da un lato, parzialmente preservato il suo film da eccessive misure restrittive, dall’altro aveva dato la stura alla liberalizzazione di prodotti che utilizzavano medesimi riferimenti in maniera palesemente pretestuosa.41

Anche a una veloce analisi di superficie, il contesto della censura in Italia, durante gli anni Sessanta e all’inizio del decennio successivo, appare dunque piuttosto complesso e contraddittorio, frutto di una pluralità di forze in gioco e di una molteplicità di pratiche. Questa complicata congerie, tuttavia, non era di fatto in grado di esercitare una capacità di contenimento tale da arginare altre spinte, di tipo commerciale o “politico-intellettuale” che fossero, che avrebbero portato di lì a poco all’invasione dell’erotismo nella vita sociale e culturale italiana. Gian Piero Brunetta, ricostruendo questo passaggio della storia del cinema italiano, parla di una «estinzione lenta della specie censoria [...] dovuta però più a un processo di naturale consunzione» che a una precisa volontà di istituzioni anacronistiche e miopi (se non del tutto cieche) di fronte al mutamento.42

Nonostante l’opera dei censori e dei magistrati, infatti, il popolo italiano cominciava a “vedere nudo”.

Nell’ultimo episodio di Vedo nudo (Dino Risi, 1969), il personaggio interpretato da Nino Manfredi si “ammala” di una bizzarra forma di delirio allucinatorio a sfondo sessuale, che si potrebbe veramente interpretare come la malattia epocale di un’intera nazione. Risi, in questo ironico (e tutto sommato innocente) apologo sui danni dell’immoralità dei media, mette in scena un mondo ossessionato dal nudo femminile, dove addirittura gli oggetti sono connotati eroticamente. In questo

41 Si veda: T. Sanguineti (a cura di), Italia taglia, op. cit., pp. 204-209. Sul cosiddetto “decamerotico” esistono

una serie di pubblicazioni di taglio prettamente giornalistico, utili in ogni caso per ricostruire la storia del filone e la filmografia completa. Si vedano, tra gli altri: AA. VV., Decameroticus. Guida al cinema boccaccesco italiano, «Nocturno Dossier» n. 56, marzo 2007; A. Bruschini e A. Tentori, Malizie Perverse. Il cinema erotico italiano, Granata Press, Bologna, 1993; M. d’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al

1975, Il Saggiatore, Milano, 2008, pp. 211-221; M. Giordano, La commedia erotica italiana. Vent’anni di cinema sexy “made in Italy”, Gremese Editore, Roma, 2000, pp. 31-51.

42 G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta 1960-1993, op. cit., p.

37. Sulla questione della progressiva delegittimazione dell’istituto censorio nelle società occidentali dopo il secondo dopoguerra, si veda anche: P. Ortoleva, Il secolo dei media, op. cit., pp. 186-188. Per Ortoleva, le complesse dinamiche di questo processo hanno una strettissima relazione con almeno due fattori: la “personalizzazione” dell’adesione intima ai dettami della morale cristiana (con un conseguente mutamento nel concetto di pudore, che diventa da normativo a soggettivo) e l’indebolimento del ruolo dello Stato come educatore (anche a seguito della tragedia dei totalitarismi).

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universo “ipersessuato”, nel quale pare impossibile sfuggire alle molteplici provocazioni, il maschio incredibilmente si confonde: lungi dal trarre profitto da questa disponibilità totale e pervasiva della donna, disponibilità che sfocia appunto nel vaneggiamento visionario, perde la propria virilità e cade vittima della paranoia.

Tralasciando facili interpretazioni profetico-catastrofiste dell’episodio in questione, resta comunque il fatto che già nel 1969 la sessualizzazione mediatica era ormai un fenomeno così conclamato da passare in grande stile al vaglio della parodizzazione commedica.

1.4 La scalata al sesso: istantanea di un’epoca

Anche un altro significativo documento del periodo ci fornisce una preziosa testimonianza riguardo le proporzioni del processo in corso. Nel libro La scalata al

sesso,43 uscito nel settembre 1969, Callisto Cosulich registra, con sorprendente tempestività, la relativa “normalizzazione” del film erotico nelle sale del nostro Paese.

L’autore, sulla scorta di illustri predecessori come Kyrou e Lo Duca,44 tenta di ripercorrere il cammino dell’erotismo cinematografico, dalla “guerra dei seni” tra Calamai e Duranti, fino alla proliferazione del film di educazione sessuale e oltre, senza distinzioni di genere tra il cinema commerciale e l’underground, e con un taglio continuamente oscillante tra la critica pungente e l’aneddotica sagace.

A questo punto del discorso, mi sembra opportuno aprire un’ampia parentesi dedicata espressamente a questa pubblicazione, proprio per il suo valore testimoniale rispetto al fenomeno dell’erotizzazione del cinema a fine anni Sessanta. La sua contemporaneità con la materia di cui tratta lo rende, infatti, una preziosa fonte per ampliare ulteriormente il campo di osservazione, attraverso la voce “in diretta” di un importante critico dell’epoca.

In effetti, al di là dell’innegabile valore di ricostruzione storico-critica, La

scalata al sesso rappresenta, a mio giudizio, soprattutto la traccia di un sentire

43 C. Cosulich, La scalata al sesso, Immordino Editore, Genova, 1969.

44 I due critici francesi avevano entrambi tentato di compilare una storia del cinema erotico, sebbene con

premesse ideologiche piuttosto differenti tra loro. Cosulich rimanda esplicitamente a questi due autori nella sua opera. Si vedano: J. M. Lo Duca, L’érotisme au cinéma, Jean-Jacques Pauvert, Paris, 1958; A. Kyrou,

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diffuso, una sorta di fotografia istantanea delle trasformazioni che stavano investendo la morale degli italiani, nel loro mutuo interscambio con le metamorfosi dello scenario mediale e in relazione ad analoghe tendenze in atto nelle altre nazioni. La prima parte del libro, intitolata ATLANTE FOTOGRAFICO. Documentazione

sulle attuali frontiere del pudore,45 è curiosamente composta da una ricca raccolta di fotogrammi osè rubati agli schermi di tutto il mondo. Quella, cioè, che viene presentata come una singolare “inchiesta di costume” viene condotta dall’autore utilizzando, per l’appunto, le immagini del cinematografo. In qualche modo, sembra quasi che Cosulich voglia attestare una perfetta coincidenza tra le due sfere di significato, i mutamenti socio-culturali da una parte e lo spostamento delle frontiere visive del proibito, dall’altra.

Sintomatico di questa particolare sovrapposizione di ambiti è anche il continuo slittamento, nel seguito del libro, tra il dominio della storia del cinema e quello della vita privata dei suoi protagonisti (o del suo pubblico). Un analogo spostamento, seppure debitamente rovesciato, riguarda anche le “piccanti” vicende vissute dai personaggi nei film analizzati, che vengono qui spesso trattate con estrema serietà, quasi fossero eventi reali, e chiamate in causa come fatti e comportamenti esemplari di un’epoca in odore di rivoluzione.

Se, dunque, si prova a utilizzare questo materiale alla stregua di un rilevamento stratigrafico, per conoscere non tanto la cronaca del tempo, quanto il suo “clima”, si ha come l’impressione che una medesima ebbrezza di rinnovamento venisse percepita, in quel preciso momento, sia sul piano della verità socialmente esperita del sesso, che su quello della sua messa in scena. Questa coincidenza di realtà e rappresentazione (nel comune movimento di emancipazione dai tabù) sembra avvalorare l’ipotesi di un riflesso diretto sulle pratiche mediali delle istanze innovative portate alla luce dalla rivoluzione sessuale.

Ancora più importante, comunque, risulta l’operazione di Cosulich ai fini della composizione a posteriori di una sorta di “canone” dell’erotismo cinematografico di fine anni Sessanta. Nel descrivere i passaggi salienti che hanno portato alla “deregolamentazione” a lui contemporanea, il critico di fatto storicizza precocemente il fenomeno, aiutandoci così a chiarire più approfonditamente l’orizzonte estetico e

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valoriale entro il quale la liberalizzazione del cinema erotico aveva trovato la propria attualizzazione.

Non stupisce che Cosulich ravvisi ne La dolce vita un primo, fondamentale punto di rottura nell’evoluzione culturale del nostro Paese. L’attestazione del “primato” scandalistico felliniano, infatti, sostanzialmente si conforma a un sapere storico generalizzato e ormai dato tradizionalmente per assodato.

Ciò che risulta interessante, tuttavia, è la forza con cui l’autore punta il dito sulle divisioni interne alla coalizione dei “nemici dell’oscenità” di fronte al capolavoro di Fellini. Fino a quel momento, infatti, commissioni di censura, magistrati e giornalisti (a parte quelli appartenenti alla stampa di sinistra) portavano avanti con mezzi differenti un obiettivo comune, e la loro azione spesso era completata dallo scarso interesse che gli spettatori dimostravano per le opere perseguitate.46 In questo caso, invece:

C’era il concorso addirittura morboso del pubblico, c’era l’appoggio della stampa che arrivava sino a un quotidiano di destra come “Il Tempo”; gli stessi cattolici apparivano divisi e il Governo, tramite il suo rappresentante diretto (che allora era il ministro Tupini) era impegnato a difendere la decisione della commissione di censura che aveva dato via libera al film.47

Non è ovviamente necessario insistere, in questa sede, sulle ragioni di tale frammentazione (storicamente risapute, a partire dalle note simpatie di cui Fellini godeva tra pubblico cattolico e istituzioni ecclesiastiche), ragioni che pure vengono messe chiaramente in luce nel libro, arrivando in alcuni punti addirittura a sfiorare il pettegolezzo divertente. Piuttosto, mi preme qui sottolineare che il caso particolare de La dolce vita sembra descrivere, in modo quasi paradigmatico, la progressiva consunzione che cominciava a intaccare l’istituzione della censura: già a partire dal periodo dei suo “ultimi fuochi”, il fronte della moralità si avviava ormai verso una perdita di compattezza di fronte alla molteplicità di istanze che lo minacciavano, anche e soprattutto internamente.

46 Lo stesso Cosulich ci ricorda, a questo proposito, la sorte del film “impegnato” negli anni Cinquanta: vessato

dalla censura e sconfitto al botteghino sotto i colpi delle maggiorate fisiche e dei film hollywoodiani. C. Cosulich,

La scalata al sesso, op. cit., p. 71.

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Il film di Fellini viene dunque etichettato come pietra miliare dell’erotismo già da un illustre commentatore dell’epoca. La dolce vita suscitava più scalpore di altre pellicole coeve (magari anche moderatamente più “spinte”, in quanto a immagini mostrate) proprio in virtù della sua capacità di sbaragliare l’armata censoria e conquistare le platee, influendo così in maniera decisiva sia sul consumo

cinematografico vero e proprio, che sulla normalizzazione di determinati temi presso

l’opinione pubblica.

Solo in seconda battuta, quindi, Cosulich si sofferma sul fenomeno del film sexy e sul successivo film a episodi, considerato come naturale evoluzione del filone sesso-notturno, con l’allettante differenza che a spogliarsi questa volta non erano più delle anonime cover girls straniere, ma le dive nazionali, da Sylva Koscina a Sofia Loren. Tuttavia, questi due sottogeneri vengono qui incasellati più in un’ideale “storia della volgarità”, che non in una vera e propria storia dell’erotismo. Interessante ad esempio il parallelismo che viene tracciato tra questo tipo di film (composti di brevi frammenti o storielle dalla trama spesso telegrafica) e la barzelletta scurrile o, ancora peggio, la barzelletta illustrata a sfondo erotico, diffusa (come vedremo) all’interno dei periodici per adulti nello stesso periodo.

Emerge qui un altro importante aspetto della “cultura sessuale” del cinema italiano, che Cosulich ravvisa con la consueta lungimiranza, ovvero l’eterna commistione tra carnalità e spirito goliardico. A questa mistura, tipica di innumerevoli pellicole nostrane, l’autore sembra quasi imputare la colpa di aver introdotto una sorta di censura implicita, interna alle opere stesse: invece di “proibire” apertamente, si elideva la problematicità delle tematiche legate al sesso e al corpo, di fatto esorcizzandola attraverso il doppio senso pruriginoso “da avanspettacolo”.

In questo caso, l’analisi condotta ne La scalata al sesso sembra dunque confermare l’esistenza, nell’industria come nel pubblico dell’epoca, di una radicata tendenza alla mistificazione, che andava di pari passo con la pretesa “emancipazione”. Il reale motivo d’interesse delle pellicole in questione (il sesso, in fin dei conti) necessitava spesso, cioè, di essere ammantato di altri significati, quali la comicità o il valore educativo e di documentazione, per poter essere effettivamente ben tollerato e garantire il successo a botteghino.

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Nel momento in cui Cosulich redige il suo resoconto, dunque, la sessualità era certamente un argomento di difficile gestione, nella sfera della cultura in senso generale, così come nell’ambito più ristretto della produzione culturale. Tuttavia, ma anche questa è storia nota, l’eros rappresentava altresì un’importantissima risorsa per un’industria cinematografica nazionale che, dalla seconda metà degli anni Sessanta, doveva cominciare a fare i conti con una flessione sempre più tangibile, che (come abbiamo visto) era destinata a cronicizzarsi negli anni a venire. A tale proposito, è estremamente singolare il racconto della sorte che, almeno secondo l’autore, era toccata in questo contesto a un film tutt’altro che goliardico o pruriginoso.

Per pubblicizzare sul mercato italiano L’uomo del banco dei pegni (The

Pawnbroker, Sidney Lumet, 1964), la società distributrice, Euro International Film,

aveva puntato sulla presenza del primo nudo integrale di una donna “bianca”

autorizzato dalla censura, permettendo così alla pellicola di ottenere un discreto

successo al botteghino nella stagione 1966/67.48 In effetti, si trattava dell’amara storia di un sopravvissuto all’Olocausto, e il suddetto nudo integrale compariva soltanto in un brevissimo flash memoriale, riguardante le sevizie subite dalla moglie del protagonista in un campo di concentramento. Per tali motivi, la commissione di revisione aveva deciso di rilasciare L’uomo del banco dei pegni senza tagli, creando di fatto un precedente assoluto e dando di conseguenza il film in pasto a questa spregiudicata campagna promozionale.

Nell’analizzare le ripercussioni di questa vicenda sul piano delle strategie commerciali adottate di lì a poco dagli esponenti dell’industria, Cosulich ci fornisce indirettamente altri elementi utili per ricomporre un quadro plausibile delle frontiere del pudore nell’epoca in questione. Secondo il critico, infatti, il film di Lumet «spianò la via a due fenomeni che caratterizzarono il costume cinematografico del ’67: i film “dal nudo integrale” e la porno-pubblicità».49

Da una parte, cioè, si puntava sulla legalità del proibito, per aumentare l’appeal del cinema visto in sala. Innanzitutto, l’approvazione delle commissioni di censura veniva ormai chiamata in causa quale conferma della scabrosità delle pellicole, al grido di “La censura ha detto sì!”. Al contempo, la categoria “vietato ai minori” si

48 Idem, p. 93 e seg. Lo stesso Cosulich aveva contribuito a questo “stratagemma mistificante”, pubblicando le

fotografie inerenti il nudo in questione in un suo articolo sul settimanale «ABC».

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era venuta ad arricchire di un tripudio di avverbi pleonastici, come “severamente” o “rigorosamente”, in modo da rincarare ancora di più la dose di trasgressività insita nella visione di determinati film.

Dall’altra parte, la strizzata d’occhio allo spettatore con la promessa di contenuti erotici diventava una prassi generalizzata e invasiva, andando a toccare anche opere che nulla avevano a che vedere con il sesso (almeno nella sua accezione divertentistica o provocante), addirittura fino a trasformare Mouchette di Bresson in un film sulla violenza carnale.

Queste notazioni, in realtà, ci parlano anche e soprattutto del pubblico a cui determinati stimoli erano rivolti, rivelando un’incontenibile «fame di nudi»50 negli spettatori italiani di fine anni Sessanta. Tale “bisogno” diffuso certamente intratteneva una relazione complessa con le trasformazioni socioculturali in atto nel periodo in questione, tradendo tuttavia un’ambiguità di fondo: se da un lato, infatti, un allentamento del controllo sulla morale aveva reso possibile un’inusitata moltiplicazione dei discorsi sul sesso, dall’altro l’esistenza stessa di un forte fascino del proibito alla base di queste produzioni (e del loro successo) nascondeva probabilmente la persistenza di norme e “pudori” profondi e radicati.

Cosulich dedica poi un intero capitolo alla diffusione nel nostro Paese della pletora di film “ginecologici” che egli stesso rubrica sotto la dicitura di Aufkärungs

Filme.51 Si è già accennato in precedenza al fatto che anche questo eclatante fenomeno di costume potrebbe essere, in realtà, interpretato alla luce di un’ambivalenza morale costitutiva della società italiana dell’epoca. Tuttavia, ne La

scalata al sesso riscontriamo un elemento che ci permette di complessificare questa

interpretazione.

Secondo l’autore, infatti, non è tanto nella rottura del tabù visivo dell’organo genitale femminile (ipocritamente motivata da un supposto valore di educazione sessuale) che va ricercato l’interesse storico di Helga e dei suoi epigoni, quanto nella particolare composizione sociale del pubblico che si recava ad assistere a questo tipo di spettacoli. Rispetto agli antecedenti usciti in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, dei quali mantengono inalterate le caratteristiche blandamente divulgative

50 Idem.

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