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Gli spazi della pena (le strutture detentive fra edilizia ed architettura carceraria)

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Academic year: 2021

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(1)

UNIVERSITÁ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

GLI SPAZI DELLA PENA

(le strutture detentive tra edilizia e architettura carceraria)

CANDIDATO RELATORE

Alessandra Bertini Prof. Luca Bresciani

(2)
(3)

I

INDICE

Introduzione V

CAPITOLO I: IL CARCERE NEL SUO PROFILO STORICO-ISTITUZIONALE

1. Il carcere nell’antichitá 1

2. Il sistema punitivo romano 1

3. L’ordinamento penale feudale 3

4. L’etá cristiana 4

4.1 Il “carcere dei Papi” 8

5. La riforma del pensiero illuminista 13

6. I sistemi penitenziari 16

6.1 Il Panopticon di Bentham 16

6.2 Il sistema penitenziario misto inglese, irlandese, filadelfiano e auburniano 20

7. La riforma penitenziaria del decennio 1830-1840 28

CAPITOLO II: IL CONFRONTO-SCONTRO TRA L’EDILIZIA E L’ARCHITETTURA PENITENZIARIA NELL’ESPERIENZA ITALIANA 1. Edilizia penitenziaria vs architettura penitenziaria 34

2. Continui fallimenti nell’ammodernamento strutturale delle carceri 44

(4)

II

3. Gli impulsi scaturiti dalla riforma del 1975 49

4. Progettualitá disattesa 52

4.1 Le carceri di “massima sicurezza” 52

4.2 Trascuratezza qualitativa degli spazi 54

5. Linee guida per un carcere a “misura d’uomo” 55

CAPITOLO III: CRITICITÁ DELL’AMBIENTE CARCERARIO ITALIANO 1. Il carcere infantilizzante e il carcere responsabilizzante 60

2. Strutture obsolete 63

2.1 Gli interventi possibili 69

3. Gli interni carcerari 71

4. Verso l’allontanamento del carcere dalla cittá 73

4.1 Istituti penitenziari in controtendenza 75

4.1.1 San Vittore nel tessuto urbanistico di Milano 75

4.1.2 Sollicciano: il Giardino degli Incontri 78

5. Concorso per nuove tipologie edilizie del 2001 sulla scia del Regolamento del 2000 81

6. Altri prototipi di istituti penitenziari 90

6.1 Un penitenziario per 3200 detenuti 90

6.2 Una prigione per 3000 detenuti a matrice geometrica pentagonale 91

6.3 Un penitenziario per 3000 detenuti a matrice geometrica esagonale 93

6.4 Una “Cittá Giudiziaria” per 3500 detenuti 94

6.5 Prototipo di un istituto penitenziario a carattere modulare- Schemi planimetrici da 200, 400, 600, 800 posti 97

(5)

III

7. Il susseguirsi di piani carceri per fronteggiare

il sovraffollamento 100

7.1 Il Partenariato Pubblico-Privato 106

7.2 I penitenziari galleggianti 110

8. Degradanti spazi per l’affettivitá 113

9. I “forzati all’ozio”: scarsitá di luoghi lavorativi inframurari 120 10. Il deterioramento psico-fisico dei carcerati come conseguenza di ambienti disagiati 124

10.1 Il “Progetto Lanciano” e la nuova strutturazione per il carcere di Roma-Rebibbia 129

CAPITOLO IV: L’ARCHITETTURA CARCERARIA AL DI LÁ DEI CONFINI NAZIONALI 1. Fleury Mérogis 132

2. Il De Schie e il Dordrecht 133

3. Un istituto a Millhaven (Ontario) 135

4. Complesso penitenziario di Butner 136

5. Il Bartholomew County Jail 138

6. Lo Sheriff’s Operations Center and Jail Complex 139

7. Il Federal Correctional Complex a Florence e ad Allenwood 139

8. Il Leoben Justice Centre 143

9. Bastoy e Halden 144

10. Il carcere di Ringe 150

(6)

IV

CAPITOLO V: IL PROGETTO DI RIFORMA SCATURITO DAL LAVORO DEGLI STATI GENERALI

1. Quadro generale 152

2. Il Tavolo 1: gli obiettivi 154

2.1 Innovazioni strutturali 155

2.2 Avvicinare il carcere alla cittá 164

2.3 Progettualitá 166

2.3.1 “Lo spazio della pena, la pena dello spazio”. Una ricerca-azione partecipata e i possibili sviluppi al carcere di Sollicciano 166

2.3.2 Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Interventi Ristretti 174

2.3.3 Vivere Dentro-Progettare lo spazio e le relazioni nel carcere. Casa Circondariale di Poggioreale 178

2.3.4 Uno spazio per progettare. Progettare spazi e relazioni dentro e fuori le realtá carcerarie 180

2.3.5 Una ricerca sul nuovo carcere di Bolzano 183

2.4 Nuova collocazione delle strutture a sostegno dell’esecuzione penale esterna 197

2.5 Ridefinizione progettuale delle colonie penali agricole 199

3. Decreto legislativo di modifica dell’ordinamento penitenziario 203

Conclusioni 207

Bibliografia 211

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V

INTRODUZIONE

La seguente trattazione si basa sull’architettura penitenziaria, cioè sul modo in cui le carceri sono state, dall’etá dei Riformatori fino al giorno d’oggi, esternamente costruite ed internamente organizzate, fornendo una panoramica a livello nazionale ma anche estero.

Tale aspetto è molto importante, in quanto la struttura di un edificio condiziona non solo il corpo, ma anche la mente di chi vi abita.

Purtroppo molto scarso, se non addirittura inesistente, è stato l’impegno profuso nel cercare di realizzare carceri a “misura d’uomo”, vale a dire che mettessero al centro la persona con tutti i suoi diritti, realizzando di conseguenza spazi adeguati, vivibili, confortevoli, che contribuissero al ritorno in societá dei detenuti come uomini migliori.

Al contrario, a causa della logica sicuritaria che si è sempre piú rafforzata negli anni Ottanta, a seguito dell’emergenza terroristica, si è andata ad affermare l’idea del carcere come luogo deputato all’esclusivo contenimento, della cella come spazio dove trascorrere la maggior parte del tempo, e dei detenuti come soggetti da sottoporre ad una sorveglianza costante.

Tale periodo ha comportato, di fatto, la sostanziale disapplicazione della legge penitenziaria del 1975, che prevedeva l’umanizzazione della pena e la realizzazione di spazi in cui poter svolgere le diverse attivitá

(8)

VI

trattamentali, rendendo cosí un’utopía anche la finalitá rieducativa della pena, sancita dall’articolo 27 comma 3 della Costituzione.

Vedremo, quindi, che piú che di “architettura” penitenziaria, intesa come attenzione alla qualitá degli spazi, si parlerá di “edilizia” perché, da un lato, abbiamo ereditato le vetuste carceri del passato e, dall’altro, si è continuato a costruire un numero sempre maggiore di carceri, per rispondere al crescente sovraffollamento, ma uguali a sé stesse, strutturalmente inadatte, distanti dal centro urbano e, piú in generale, scarsamente adeguate a garantire il rispetto della dignitá dei detenuti..

A questo preoccupante stato di cose, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha ritenuto di dover opporsi, e cosí nel 2015 ha istituito gli Stati Generali dell’esecuzione penale: un lungo percorso di lavoro e ricerca per la ridefinizione dell’esecuzione penale che, all’interno del primo Tavolo di lavoro, ha finalmente assegnato all’architettura il ruolo di protagonista nella riprogettazione dell’ambiente carcerario.

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1

CAPITOLO I

Il carcere nel suo profilo storico-istituzionale

1. Il carcere nell’antichitá

Il problema penitenziario nacque nell’antichitá quando la societá, per salvaguardare la pace e la sicurezza sociale, decise di isolare dalla collettivitá coloro che avevano violato l’ordine costituito, rinchiudendoli in appositi istituti.

Il carcere serviva, quindi, solo a custodire i corpi e le pene avevano l’esclusiva funzione di vendetta sociale e si distinguevano in corporali, come le mutilazioni, la tortura o la morte e pecuniarie, come la confisca di parte o tutti i beni del reo.1

2. Il sistema punitivo romano

Anche in tale sistema il carcere non era considerato una misura coercitiva, in quanto serviva, in linea di principio, “ad continendos homines, non ad puniendos”, cioè aveva lo scopo di assicurare il reo alla giustizia.

1 R. FESTA, Elementi di diritto penitenziario, l’ordinamento penitenziario e l’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena, II ed. Napoli, Simone, 1984, cit.,

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2

Il diritto romano conosceva pene di carattere privatistico, per i trasgressori di norme di interesse individuale e pene di carattere pubblicistico, per i trasgressori di norme di interesse pubblico.

Le pene private erano quelle pecuniarie, mentre quelle pubbliche potevano essere la pena capitale, l’esilio o i lavori forzati nelle miniere.

Uno dei primi esempi di spazio architettonico è stato rinvenuto a Roma: si tratta del carcere Mamertino (V-VI sec. A.C).

Questo si distingue per una concezione funzionale di spazio, in quanto ogni prigioniero se ne stava separato, gettato nella camera piú bassa e sotterranea, ma poteva usufruire anche di un contatto con l’esterno, grazie alla presenza di un ambiente a livello della strada, chiuso da robusti cancelli.2

2 AA.VV, Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari, ed.

Mursia, 2016, cit., pp. 20-21.

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3

3. L’ordinamento penale feudale

In tale ordinamento la prigione era solo un passaggio temporaneo nell’attesa dell’applicazione della pena reale, che consisteva nella privazione, nei riguardi del colpevole, di quei beni riconosciuti universalmente come valori sociali: la vita, l’integritá fisica e il denaro.3

Nella societá feudale il carcere inteso come pena, nella forma di privazione della libertá, non esisteva.

L’unico tribunale era quello del signore, solo lui emanava gli ordini, a lui dovevano obbedienza tutti coloro che avevano in concessione la terra o che vivevano sui suoi fondi.4

Essendo la giustizia amministrata dal “signore”, le pene erano determinate secondo la sua volontá e potevano essere di tipo pecuniario o corporale, oltre all’esilio e alla galera.

Detenzione e tortura erano invece, per lo piú, mezzi istruttori per ottenere la confessione dell’imputato.5 La crudeltá e la spettacolaritá assolvevano la funzione di deterrente nei confronti di coloro che intendevano trasgredire le regole imposte.

3 Archivio di Stato, Il carcere e la pena, cit., p. 3, in www.ristretti.it.

4 Cenni di storia del carcere moderno, in www.tmcrew.org/detenuti/detenuti.htm. 5 R. FESTA, Elementi di diritto penitenziario, l’ordinamento penitenziario e l’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena, II ed. Napoli, Simone, 1984, cit.,

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4

4. L’etá cristiana

Con l’etá cristiana poi, considerando la colpa del malvivente come peccato, anche dal punto di vista giuridico, il carcerato veniva isolato nella cella e separato dal resto del mondo, in quanto doveva dedicarsi alla meditazione e alla purificazione.6

Il ruolo svolto dalla religione nelle diverse concezioni del carcere, quale fondamentale componente del recupero alla societá civile dell’individuo è stato, verso il XVIII secolo, affiancato dall’insegnamento, dall’istruzione o dal lavoro manuale da impartire al detenuto.

Tra il finire dell’XI e il XII secolo l’Inquisizione sostituí la pena di morte con una nuova forma di espiazione della colpa: dopo la tortura il carcere. Attraverso la tortura si costringevano all’ordine e alla disciplina i ribelli e gli eretici mediante l’isolamento, condizionando la mente e sottomettendo il corpo del condannato al potere.

La cella dell’Inquisizione era buia, sprofondata, sotterranea e segreta per definizione.7

6 AA.VV, Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari, ed.

Mursia, 2016, cit., p. 22.

7 Sulle procedure segrete dell’Inquisizione Spagnola cfr. B. BENNASSAR, Storia dell’Inquisizione spagnola, dal XV al XIX secolo, Rizzoli, Milano, 1980, pp. 96 ss. Nei

testi degli inquisitori le prigioni vengono definite “prigioni segrete”. Non è forse un luogo comune attribuire a questi istituti un particolare potere di suggestione. Il loro timore era largamente diffuso nella mentalitá popolare, soprattutto in Spagna. Bennassar (ivi, p. 95) cita come esempio la rivolta di Siviglia e di altre cittá andaluse del maggio 1652. In quell’occasione il popolo, in seguito ad un rialzo dei prezzi dei generi di prima necessitá, scese in piazza e assaltó gli arsenali. Con le armi saccheggió i granai, si impadroní delle sedi dell’autoritá e aprí le carceri. Ma le prigioni dell’Inquisizione non furono toccate, nessuno osó farlo.

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5

Michel Foucault scrisse: << La sua stessa esistenza sfugge allo sguardo. Prigione assoluta, contro la quale non c’è assalto possibile: è l’Inferno con in meno la sua profonda giustizia. Per diritto di essenza le segrete dell’Inquisizione sono sotterranee. Ció che vi si svolge non viene assolutamente visto; ma vi domina comunque uno sguardo assoluto, notturno, inevitabile >>.8

L’edilizia carceraria era, quindi, costituita da ambienti nascosti, difficilmente accessibili e dai quali era pressoché impossibile fuggire.

In Italia possiamo ricordare, come esempi, i Forni a Monza, i Piombi e i Fossi a Venezia 9, la preson cortese veneziana, la gabbia o la colonna

infame e la torre Chatimoine in Normandia.

Con la rivoluzione questi monumenti del supplizio cadranno.

Non sempre peró i processi erano condotti con metodi terroristici e avevano esiti crudeli. Per alcuni casi di processi inquisitoriali in Italia, cfr. C. GINZBURG, I

benandanti, Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino,

1966; dello stesso autore, Il formaggio e i vermi, Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino, 1976. Anche P.F. GRENDLER, L’Inquisizione romana e l’editoria a

Venezia, 1540-1605, Il Veltro, Roma, 1983. R. DUBBINI, Architettura delle prigioni: i luoghi e il tempo della punizione (1700-1880), ed. Franco Angeli, 1986.

8 M. FOUCAULT, Un sapere cosí crudele, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano,

1971, Ivi, cit., p. 48.

9 Gian Giacomo Casanova ci affascina nelle sue Memorie proprio col racconto della

sua memorabile fuga compiuta il giorno di Ognissanti da uno dei peggiori carceri che siano mai stati concepiti da mente umana: i Piombi, torridi in estate, gelidi in inverno. AA.VV, Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari, ed. Mursia, 2016, cit. p. 25.

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6

Nel 1595 ad Amsterdam, in Olanda, è stato realizzato il Rasphuis,10 considerato il primo complesso edilizio che presentava caratteristiche moderne.

Era costituito da celle individuali che si aprivano su ampi spazi, dove erano consentite alcune attivitá dei detenuti.

Fig. 1.2: Rasphuis di Amsterdam

10 Rasphuis significa etimologicamente “casa della sega”, poiché i reclusi erano

obbligati a lavorare fino a quattordici ore al giorno. Rasphuis era una casa di detenzione in Amsterdam aperta nel 1596, in cui venivano rinchiusi i poveri e gli indigenti di tutta l’Olanda. Il suo funzionamento comprendeva tre grandi princípi: 1) La durata della pena poteva essere determinata dalla stessa amministrazione a seconda del comportamento del prigioniero; 2) Il lavoro era obbligatorio, si faceva in comune e veniva percepito un compenso (la cella individuale era utilizzata solo per una ulteriore punizione; in genere i detenuti erano rinchiusi in celle che potevano contenere da tre a quattro persone e i detenuti dormivano a due o tre per letto). 3) Un sistema di divieti e obblighi, uno stretto impiego del tempo, una sorveglianza continua e letture spirituali tenevano impegnati i detenuti per tutta la giornata. Coloro che si ribellavano al normale trattamento poi venivano rinchiusi in celle in cui veniva pompata acqua; il recluso, se voleva salvarsi, doveva a sua volta pompare acqua all’esterno. Storicamente il Rasphuis costituisce il punto di incontro tra la teoria del 1600, di una trasformazione degli individui attraverso un esercizio continuo e la pratica penitenziaria del 1700.

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7

In Italia è stato invece Andrea Palladio, nella seconda metá del Cinquecento, a porre il carcere nel complesso degli edifici pubblici, non sottovalutando la necessitá della qualitá e della salubritá degli ambienti.

Egli, infatti, sosteneva che << devono farsi le prigioni sane e comode perché sono state ritrovate per custodia e non per supplizio e pena di scelerati o d’altre sorte d’uomini >>.11

Sará sotto il pontificato di Innocenzo X, a Roma, che tali idee verranno messe in atto.

Verso la fine del XVI secolo si diffusero in Europa e in particolar modo in Italia le Case di Correzione, dove la punizione e l’ordine erano la regola principale a cui attenersi e il lavoro fu assunto a valore etico, come strumento di punizione e di emendamento.

Vi si rinchiudevano i mendicanti, i vagabondi ed i disoccupati, in quanto la povertá e l’ozio erano considerate fonti di disordine.

Poi, a partire partire dal 1600, si affermarono due diverse concezioni relative alle istituzioni segreganti: quella fondata sul lavoro, propria dell’Europa protestante e quella basata sulla preghiera, propria degli Stati cattolici.12

Quindi, fino a tale periodo storico, possiamo affermare che si siano susseguiti contenitori indifferenziati per diverse categorie di emarginati.

11 Ibidem. 12 Ivi, cit., p. 28.

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4.1 Il “carcere dei Papi”

La svolta viene fatta risalire, tra la seconda metá del XVII secolo e l’inizio del XVIII, alla costruzione delle Carceri Nuove in Roma, fatte edificare tra il 1652 e il 1655 da Innocenzo X, su progetto di Antonio del Grande.13

Alla loro costruzione é stata, infatti, ricondotta la nascita del carcere moderno, come luogo fisico-spaziale della detenzione, come luogo costruito per servire da prigione e piú umano, se paragonato ai sistemi punitivi dell’epoca.

Sempre nello Stato Pontificio, il papa Clemente XI, ordinó quella che è ritenuta la prima progettazione e costruzione di un istituto per minorenni delinquenti, cioè la Casa di Correzione di San Michele, progettata e realizzata dall’architetto Carlo Fontana dal 1701 al 1704.

Fino ad allora i giovani malfattori venivano reclusi nelle piú pericolose e promiscue prigioni della cittá.14

13 R. DUBBINI, Architettura delle prigioni. I luoghi e il tempo della punizione (1700-1880), ed. Franco Angeli, 1986, cit., p. 9.

14 Alla fine del ‘600, I principali istituti di reclusione di Roma sono localizzati al

Campidoglio, a Ripa Grande, alla Curia Savella, a Castel Sant’Angelo, a Tor di Nona e in via Giulia. L’edificio senza dubbio piú efficiente è quello di via Giulia: le Carceri Nuove, costruite tra il 1652 e il 1655, per volere di Innocenzo X, su progetto di Antonio del Grande. Si tratta di una moderna struttura cellulare, organizzata per varie classi di prigionieri, dove viene effettuata una rigorosa separazione dei servizi amministrativi dal corpo cellulare; inoltre, l’inserimento di un lungo corridoio rettilineo all’interno dei settori di detenzione ha lo scopo evidente di razionalizzare i percorsi e di rendere piú agevole la sorveglianza.

Sulle carceri Innocenziane, cfr. il testo di M. TAFURI, in L. SALERNO, L. SPEZZAFERRO, M. TAFURI, Via Giulia. Un’utopia urbanistica del ‘500, Staderini, Roma, 1975, cit., pp. 363-367. A p. 364, Tafuri riporta un interessante frammento del programma funzionale fornito dall’architetto. Si veda anche V. PAGLIA, La pietá dei

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Tale Casa di Correzione era un modello che utilizzava razionalmente lo spazio.15

Essa era formata da due blocchi di celle, ognuno di tre piani, disposti ai lati di una lunga sala rettangolare, che rappresentava la navata della Chiesa. Tale grande sala, durante il giorno, serviva da laboratorio dove i detenuti lavoravano alla filatura mentre, in occasione della messa, si trasformava in cappella.

Fig. 1.3: pianta e sezione del San Michele nel progetto di Carlo Fontana

L’edificio è stato concepito come una perfetta macchina di redenzione, dove la disciplina si formava attraverso la regolaritá delle azioni

carcerati, confraternite e societá a Roma nei secoli XVI-XVIII, Biblioteca di storia

sociale n. 11, Roma, 1980. Ibidem.

15 Su Carlo Fontana cfr. A. BRAHAM, H. HAGER, Carlo Fontana. The drawings at Windsor Castle, Zwemmer, London, 1977; A. BLUNT, The drawings of Carlo Fontana in the Royal Library at Windsor Castle, in Barocco europeo, barocco italiano, barocco salentino, Atti del Congresso internazionale sul Barocco, Lecce,

1969, pp. 89 e ss.; E. COUDENHOVE-ERTHAL, Carlo Fontana und die Architektur

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quotidiane, dei gesti ripetuti, nell’acquisizione dei piú alti valori spirituali della preghiera e del lavoro.16

Opposto all’altare si trovava il luogo della flagellazione, dove venivano puniti i ribelli, ed entrambi i luoghi, quello della fede e quello del castigo, erano direttamente visibili dalle celle superiori, essendo queste disposte come palchi aperti su due scene distinte.17

Il San Michele rappresentó il trionfo architettonico dell’onnipotenza della Chiesa, in quanto il suo sguardo controllore ammoniva ed esortava ad una vita condotta in timore di Dio.

Dopo il noto esempio del San Michele, il caso piú interessante è stato quello della Casa di Correzione di Milano.

16 Sul S. Michele, cfr, G.B. GADDI, Roma nobilitata nelle sue fabbriche dalla santitá di Nostro signore Clemente XII, Roma, 1736; M. GUARNACCI, Vitae, et res gestae Pontificum Romanorum et S.R.E. Cardinalium a Clemente X usque Clementem XII,

1751, 2 voll.; G. VAI, Relazione del Pio Istituto di S. Michele a Ripa Grande, Roma, 1779; J. HOWARD, Etat des prisons, des hôpitaux et des maisons de force, Paris, 1788, 2 voll., pp. 280-282; L.P. BALTARD, Architectonographie des prisons, Paris, 1829, la pianta del Fontana è qui confrontata con quella della casa di correzione di Milano (1762-66); A. TOSTI, Relazione dell’Origine e dei Progressi dell’Ospizio

Apostolico di S. Michele, 1832; C.L. MORICHINI, Degli istituti di pubblica caritá ed istruzione primaria e delle prigioni in Roma, Roma, 1842, 2 voll., in particolare T II,

p. 21 e ss.; A. BERTOLOTTI, Le prigioni di Roma nei secoli XVI-XVIII, Roma, 1890; piú direttamente, Archivio di stato di Roma, Fondo Istituzioni caritative, Ospizio Apostolico di San Michele, Libro Mastro, vol. 671-677. Tra gli studi recenti cfr. il <<Quaderno di Documentazione>> sul S, Michele, pubblicato nel 1983 dall’Istituto dell’enciclopedia italiana con la collaborazione del Ministero per i beni culturali e ambientali; anche E. ANDREOZZI, L’intervento di F. Fuga nell’Ospizio apostolico

di San Michele a Ripa Grande: il Carcere delle Donne, << Ricerche di storia

dell’arte>>, n. 22, 1984, pp. 43-54; nell’articolo vengono messe in evidenza le analogie esistenti tra la casa di correzione del Fontana e il Carcere delle donne, progettato dal Fuga e costruito nel 1753. Ivi, cit., p. 9.

17 Il Carcere delle Donne, del Fuga, costruito accanto a quello del Fontana sul lato di

Porta Portese, presenta un’analoga disposizione a palchi. Le celle sono peró disposte su un solo lato della grande sala. Ivi, cit., p. 11.

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Il progetto di istituirla risale ad una proposta del duca di Ossona, avanzata nel 1670 18 e si pensó di unirla alla realizzazione di un grande Albergo dei poveri, che a Milano ancora mancava.19

Tra i vari progetti fu prescelto quello di Francesco Croce 20: l’Albergo, un grande edificio a croce, con cortili e Chiesa centrale, si ispirava all’architettura dei grandi ospedali rinascimentali ma, per ragioni economiche, non verrá mai realizzato; mentre, la Casa di Correzione risultava formata da tre bracci cellulari, inseriti a croce nella cappella, riproducenti lo schema a palchi del San Michele. Qui, come in quest’ ultimo, Chiesa e prigione sono la stessa cosa.

La Casa di Correzione, una volta ultimata, accolse quegli stessi condannati che l’avevano costruita e altri criminali provenienti dalle carceri sovraffollate.

18 L. TROTTI, Storia dell’Origine, Progresso e Stato presentaneo della casa di correzione di Milano, manoscritto s.d. della Biblioteca Braidense di Milano; anche S.

BIFFI, Sulle antiche carceri di Milano e del Ducato milanese, Milano, 1884; C. CATTANEO, Di varie opere sulla riforma delle carceri, <<Il Politecnico>>, XVII, 1840. Ivi, cit., p. 18.

19 A. SCOTTI, Distribuzione, tipologia e scelte formali di alcuni edifici di pubblica utilitá nella Milano del secondo Settecento, in E. Sori (a cura di), Cittá e controllo sociale nel XIX secolo, Angeli, Milano, 1982, pp. 219 e ss. Ibidem.

20 L. TROTTI, op. cit.; Francesco Croce (1696-1780) esegue lavori nell’Ospedale

Maggiore di Milano, costruisce la casa di correzione, Palazzo Monti e villa Brentano a Corbetta. Nel 1761 viene nominato architetto del Duomo. Cfr. F.C. in Lessico

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Fig. 1.4: la Casa di Correzione di Milano

In essa l’organizzazione del lavoro è stata talmente perfezionata da indurre gli amministratori a considerarla una scuola professionale per la formazione di operai specializzati da introdurre, una volta liberi, nel settore tessile della regione.21

Un cosiddetto prolungamento dell’esperienza milanese puó essere considerata la Casa di forza di Gand, fondata nel 1771 nelle Fiandre austriache, per volontá del magistrato J.H. Vilain XIV.

L’edificio, progettato dall’architetto Montfeson, era una sorta di fortezza militare, formata da due ottagoni concentrici collegati da bracci radiali. Nei bracci vi erano le celle individuali, dove le diverse classi,

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costituite da uomini, donne, criminali e vagabondi, stavano in isolamento le une dalle altre.22

Negli istituti di Roma, di Milano, di Gand, e nel Rasphuis di Amsterdam, John Howard e gli artefici della Riforma, alla fine del XVIII secolo, riconobbero i modelli ideali del penitenziario moderno.

5. La riforma del pensiero illuminista

A partire dal XVIII secolo c’è stata una revisione radicale dei presupposti e dei metodi punitivi e si inizió a riflettere sui fini della detenzione e sui metodi piú adeguati per raggiungerli.

Il penitenziario inizió a proporsi non solo per le finalitá punitive e di risarcimento della societá colpita dal crimine ma, soprattutto, quale emendamento ed opportunitá di miglioramento spirituale dei detenuti. Sará poi con l’affermazione dell’Illuminismo che si inizierá, finalmente, a dare corpo a riflessioni critiche riguardanti anche le carceri e la pratica della tortura, ponendosi anche il problema della costruzione e delle caratteristiche architettoniche degli istituti destinati alla carcerazione.

Possiamo dire che, almeno fino alla metá del XVIII secolo, la detenzione non sia mai stata considerata una pena, cosí come oggi la intendiamo, ma che fosse solo un mezzo per impedire che l’imputato, in attesa di

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condanna, si sottraesse alla stessa. Quindi il carcere era un semplice edificio, di solito attiguo al tribunale, che veniva adattato a tale scopo, ed essenzialmente concepito come luogo di custodia provvisoria, in attesa del giudizio o dell’esecuzione della pena.23

Solo verso la metá del XVIII secolo il carcere inizió ad essere pensato come luogo apposito di espiazione delle pene detentive e acquistó rilevanza sociale. Si volevano abolire le pene corporali e capitali e trasformare le prigioni da luoghi di crudeltá e d’infamia a luoghi di espiazione e rigenerazione, rendendo la carcerazione emendativa e produttiva tramite il lavoro.

In tale epoca, ad opera soprattutto di Cesare Beccaria in Italia e di John Howard in Inghilterra, iniziarono ad affiorare alcuni princípi innovatori che ispireranno tutti i successivi orientamenti in materia penitenziaria:

-il principio di umanizzazione della pena, intesa come castigo inflitto in proporzione alla gravitá del crimine commesso e non secondo l’arbitrio del giudice;

-il principio della pena come mezzo di prevenzione e sicurezza sociale e non come pubblico spettacolo deterrente per la sua crudeltá.

Cesare Beccaria, sotto l’influenza dei filosofi dell’Illuminismo contro l’asprezza delle pene, pubblicó il libro “Dei delitti e delle pene” che, pur essendo stato scritto sotto l’ispirazione delle condizioni delle carceri e

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dei carcerati, ebbe grande influenza piú sui veri e propri ordinamenti penali che nel campo preciso dell’esecuzione della pena detentiva.

John Howard, nel 1756, dopo aver avuto esperienze dirette con le prigioni, sia come detenuto sia come sceriffo, denunció la loro condizione di disordine, ozio e mancanza di igiene nel suo famoso libro “Lo stato delle prigioni” del 1777.24

Inoltre, John Howard in Inghilterra o Benjamin Rush in Pennsylvania sostennero che la pena, se attuata nel carcere, in isolamento, non sarebbe piú stata una vendetta e avrebbe portato al ravvedimento dei detenuti.

Tutte queste nuove idee portarono alla consapevolezza della necessitá di riforme penitenziarie, volte alla trasformazione delle prigioni da luoghi di infamia e crudeltá, in luoghi di rigenerazione del reo.25

La pena veniva interpretata nell’ottica di rieducazione, non piú come una punizione. La crudeltá, che aveva caratterizzato per secoli l’istituto della detenzione, le pene corporali, il lavoro ad esaurimento, l’assenza di igiene e di luce, la promiscuitá fra detenuti per etá, criminalitá, recidiva vennero meno, dando luogo a spazi architettonici diversi.

Non piú grandi stanzoni bui, ma celle singole o per pochi detenuti; igiene e luce capovolgevano il principio della segreta, perché ora si

24 In www.treccani.it.

25 R. FESTA, Elementi di diritto penitenziario e l’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena, II ed. Napoli, Simone, 1984, cit., p. 7, in Archivio di Stato, Il carcere e la pena, cit., p. 5.

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voleva vedere bene il detenuto e tenerlo il piú possibile sotto osservazione.

Il primo modello di carcere costruito con criteri di autentica modernitá è stato realizzato a Ghent, in Belgio.

Si trattava di uno stabilimento penitenziario per millequattrocento persone, progettato dall’architetto Verlain nel 1773.

6. I sistemi penitenziari

6.1 Il Panopticon di Bentham

Jeremy Bentham 26, ricalcando e in parte modificando il progetto di suo fratello Samuel, realizzó il Panopticon o Inspection House, considerato la nuova figura architettonica della sorveglianza.27

26 Jeremy Bentham nacque a Londra il 4 febbraio 1748 e prima di impegnarsi in

un’attivitá di ricerche filosofico-politiche, esercitó per breve tempo l’avvocatura. Si impegnó anche in progetti sociali ed economici contro la disoccupazione ed il pauperismo, unendo l’utile all’azione sociale in un’attivitá imprenditoriale organizzata dal fratello Samuel Bentham ed imperniata sulle Industry-houses, ovvero case di lavoro, nelle quali vennero in un primo tempo impiegati i carcerati, e poi i disoccupati. Le imprese di Samuel Bentham erano ovviamente orientate ad ottenere piú profitti ed a pagare dividendi agli azionisti e non si puó essere del tutto certi che lo scopo umanitario e filantropico prevalesse su quello economico. L’effetto fu quello di assorbire una parte di disoccupati in attivitá produttive, sottraendoli alla logica dell’assistenza. Inoltre egli compose un’opera, Il Panopticon, nel quale sostenne l’esigenza di modificare il sistema carcerario al fine di renderlo meno costoso e piú produttivo. Egli aveva posto alla base della sua visione filosofica il principio del cosiddetto utilitarismo morale. Principio giá enunciato da Hutchenson e Cesare Beccaria che avrebbe consentito la massima felicitá possibile al maggior numero possibile di individui. Ivi, cit., p. 42.

27 J. BENTHAM, Panopticon, or the Inspection House, London, 1791. Nello stesso

anno, il testo viene pubblicato in Francia dall’Assemblea nazionale. Una ristampa, insieme alle ventuno lettere scritte da Bentham sul Panopticon, a partire dal 1786, è stata pubblicata recentemente in Francia: J. BENTHAM, Le Panoptique, Belfond, Paris, 1977, con un’intervista a M. Foucault e postfazione di M. Perrot. L’edizione

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Bentham disse: << Raramente l’azione segue cosí velocemente il pensiero come in questo caso l’esecuzione l’ordine >> 28 e descrisse la

sua macchina come strumento utilizzabile per una grande varietá di applicazioni, << sia che si tratti di punire i criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, istruire quelli che vogliono entrare nei vari settori dell’industria, o fornire l’istruzione alle nuove generazioni >>.29

Si trattava di un edificio a corpo unico, senza articolazioni, con il muro perimetrale circolare e privo di aperture verso l’esterno.

Al centro si trovava la torre, da dove un unico sorvegliante sarebbe stato in grado di vedere e controllare ciascun detenuto all’interno delle celle, che erano disposte ai vari piani della costruzione cilindrica.

I sorveglianti avevano una visuale perfetta di ogni azione dei detenuti, grazie al fatto che le celle erano chiuse da grate sottili o da pareti vetrate.

Qualora si fosse verificata un’infrazione, il direttore avrebbe potuto parlare direttamente con il colpevole tramite i tubi acustici, che si irradiavano dalla torre ad ogni cella.

italiana (a cura di A. Fontana e M. Galzigna), Marsilio, Venezia, 1983, riproduce soltanto le lettere, l’intervista a Foucault e il testo della Perrot. R. DUBBINI,

Architettura delle prigioni. I luoghi e il tempo della punizione (1700-1880), ed. Franco

Angeli, 1985, cit., p. 31.

28 J. BOWRING (a cura di), The Works of Jeremy Bentham, Edinburgh, 1843, cit. it.

In R. EVANS, Panopticon, <<Controspazio>>, n. 10, ott. 1970, Ibidem.

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Fig. 1.5: progetto del Panopticon

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Nel Panopticon l’isolamento era continuo e le possibilitá di movimento e di lavoro inesistenti. Esso è stato il modello di reclusione che ha segnato la trasformazione della prigione da monumento a macchina, da spazio di morte, inerte, a dispositivo disciplinare e che ha contraddistinto il passaggio da una morale di esclusione e di rifiuto ad una di recupero sociale degli individui attraverso l’ammaestramento. Bentham pensava che nella torre, insieme agli ispettori e ai magistrati, si potessero ospitare anche gruppi di cittadini, ed in tal modo la prigione si sarebbe trasformata in un << teatro morale le cui rappresentazioni avrebbero impresso il terrore del crimine >> 30 e, contemporaneamente,

in un osservatorio sociale sul funzionamento delle istituzioni.31

Il progetto del Panopticon è rimasto tale, poiché non è mai stata realizzata la costruzione.

Oggi, in controtendenza con l’ideale del Panopticon, all’isolamento non viene piú assegnato un effetto liberatorio anzi, viene considerato una vera e propria tortura.

A tal proposito, Charles Dickens, nel suo “L’America”, descrivendo la visita fatta all’Eastern Penitentiary nel 1842, ha osservato che: << il sistema consiste nella piú rigida, stretta e disperata segregazione, e credo che nelle sue conseguenze sia non solo crudele ma soprattutto sbagliato (…) Nelle intenzioni posso credere anch’io che si tratti di un sistema

30 Ivi, cit., p. 35.

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moderato, umano e di intenti riformatori, ma sono anche persuaso che coloro i quali concepirono l’idea di una disciplina carceraria del genere e quei benevoli signori che ne danno esecuzione non hanno la minima idea di ció che stanno facendo. Credo che pochissimi uomini siano in condizione di valutare giustamente l’immensa tortura e l’agonia che questa orrenda punizione, prolungata per degli anni, infligge ai poveri sofferenti (…) Sono sempre piú persuaso che tutto ció impone un vero abisso di pazienza, tale che soltanto quei sofferenti sono in condizione di valutarla e che nessun uomo ha il diritto d’imporre ai propri simili. Io credo che questo lento e quotidiano confronto con i misteri del cervello sia infinitamente peggiore di qualsiasi altro supplizio corporale (…) per questo io lo denuncio ancora piú forte come una punizione che soffoca l’umanitá e perció non ha il diritto di sussistere >>.32

6.2 Il sistema penitenziario misto inglese,

irlandese, filadelfiano e auburniano

Il sistema misto inglese prese corpo dall’esigenza di dare una risposta adeguata alle rimostranze, provenienti dalle colonie penali dislocate in Australia, che erano diventate la discarica umana dei condannati inglesi e che si ingrossavano giorno dopo giorno.33

32 In www.solitarywatch.com.

33A proposito delle navi prigione nell’Inghilterra dell’800 e delle condizioni di

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Il Governo, allora, decise di far trascorrere ai condannati un primo periodo di isolamento nelle carceri inglesi e successivamente una fase di lavoro in comunitá, presso istituti della Gran Bretagna, Gibilterra e delle Bermuda, ed infine i detenuti riabilitati sarebbero stati rinviati in Australia.

Il Governo inglese optó per un modello architettonico piú aperto del Panopticon.

Nel 1817 fu inaugurato il carcere di Millbank, le cui pareti esterne somigliavano a dei bastioni medievali.

Tale prigione era formata da sei edifici cellulari pentagonali, agganciati ad un corpo centrale esagonale, con al centro la cappella. La sorveglianza, in ciascun pentagono, si effettuava da una torre posta al centro del cortile.34

In teoria tale carcere si basava sul principio della sorveglianza di Bentham ma, in pratica, non era che un labirinto di corridoi senza fine. Disordini e rivolte denunciarono gli abusi delle guardie carcerarie, le pene corporali e l’isolamento.

questo problema. AA.VV, Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli

penitenziari, ed. Mursia, 2016, cit., p. 48.

34 T.A. MARKUS, Pattern…, cit. anche R. EVANS, The fabrication…, pp. 243 ss. Ibidem.

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Fig. 1.7: pianta del penitenziario di Millbank a sei padiglioni a maglia pentagonale, articolati su un nucleo centrale esagonale

Con la prigione di Pentonville, a Londra (1842), il peggioramento della disciplina carceraria raggiunse il suo culmine.

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Nella cella il detenuto vi trascorreva la maggior parte del tempo ed era, come diceva Tocqueville, << una prigione nella prigione >>,35 un piccolo microcosmo separato da tutto il resto.

Le reti di conduzione che rifornivano l’interno di aria ed acqua erano perfettamente isolate, per impedire le comunicazioni a percussione e la finestra era fissa e chiusa da una griglia e da una vetrata opacizzata che impediva di vedere fuori. Dallo spioncino presente sulla porta veniva effettuato un controllo continuo delle azioni dei prigionieri.

La cella era un involucro insonorizzato,36 una macchina che costringeva il detenuto ad assumere comportamenti ripetuti, in maniera sempre uguale.

Il comfort non doveva mai superare un certo limite poiché, come diceva Charles Lucas << non bisogna mai ammettere all’interno delle prigioni un grado di benessere materiale che superi quello al quale le classi inferiori possono aspirare, perché cosí si creerebbe, per cosí dire, un premio di incoraggiamento al crimine >>.37

35 R. DUBBINI, Architettura delle prigioni. I luoghi e il tempo della punizione (1700-1880), ed. Franco Angeli, 1986, cit., p. 62.

36 Particolari studi sull’insonorizzazione delle celle vengono eseguiti nelle prigioni

inglesi dal fisico Michael Faraday e dagli architetti Abel Blouet e Thomas Bullar; cfr. Evans, op. cit., cap. 7, Ivi, cit., p. 63.

37 Lettera di Charles Lucas al barone De Gerardo, pari di Francia e consigliere di stato.

23 gennaio 1833; cit. in H. GAILLAC, Les maisons de correction (1830-1845), Cujas, Paris, 1971, p. 34. Ibidem.

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24

Malgrado gli insuccessi sul piano del recupero dei condannati, la pubblica opinione continuó a legittimare l’istituto per la sua capacitá di controllo sociale.

Il sistema irlandese è stato, invece, introdotto dopo che i responsabili delle carceri irlandesi presero atto, nel 1853, delle pessime condizioni in cui si trovavano i detenuti, denunciando cosí il grave stato degli stabilimenti: << i detenuti erano in una prostrazione generale moralmente e fisicamente, le prigioni erano affollate in sommo grado e l’evidente deperimento dei condannati irlandesi sembravaci reclamasse immediata attenzione, ed abbiamo tentato ogni possibile, onde rimediare a questo stato di cose che contrasta con la condizione dei detenuti in Inghilterra >>.38

Il Governo, con il sistema irlandese, ha introdotto un regime che consentiva il lavoro all’aperto, l’organizzazione di istituti di diverso livello di sicurezza e la possibilitá di applicare una spiccata differenziazione progressiva del regime disciplinare e di vita dei ristretti.39

Per quanto attiene agli Stati Uniti, è stato il movimento religioso dei quaccheri a determinare una profonda trasformazione delle strutture carcerarie esistenti.

38 M. IGNATIEFF, Op. Cit. AA.VV, Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari, 2016, cit., p. 54.

39 L. SCARCELLA e D. CROCE, Gli spazi della pena nei modelli architettonicidi,

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25

Essi volevano un modello che non affliggesse piú il corpo, ma che puntasse all’anima, al comportamento e alla buona condotta.40

È nato cosí il sistema filadelfiano, caratterizzato da un edificio a piú bracci, a forma di parallelepipedi rettangolari, che si dipartono da una rotonda centrale. Vi era la segregazione quasi assoluta del detenuto in cella singola, la mancanza di contatti con il personale di sorveglianza e con gli altri detenuti, l’autogoverno attraverso cui veniva affidata al detenuto stesso la propria recuperabilitá, il lavoro svolto in cella e la mancanza di luoghi e di servizi comuni.

Un esempio in merito è stata la prigione di Walnut Street, Filadelfia (1790), che prevedeva: isolamento continuo in cella separata, obbligo del silenzio e preghiera.41

Altro esempio di applicazione del sistema filadelfiano lo troviamo, sempre a Filadelfia, nel penitenziario di Cherry Hill (1821-1829): la prigione era formata da bracci disposti a raggiera, ed ogni braccio era costituito da una serie di celle ai lati di un grande corridoio centrale. Il detenuto, appena rinchiuso in cella, veniva lasciato in una solitudine assoluta, finché non chiedeva di lavorare o di avere dei libri; la loro privazione era considerata il primo grado di castigo.42

40 AA.VV, Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari, ed.

Mursia, 2016, cit., p. 55.

41 R. DUBBINI, Architettura delle prigioni. I luoghi e il tempo della punizione (1700-1880), ed. Franco Angeli, 1986, cit., p. 60.

42 DEMETZ e BLOUET, Rapports à M. le Comte de Montalivet… sur les pénitenciers des Etats-Unis, Paris, 1837, p. 28; anche Documents officiels sur le pénitencier de l’Est ou de Cherry Hill à Philadelphie, traduits par Moreau-Christophe, p. 19. Ibidem.

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26

Egli viveva nell’oscuritá all’interno della sua cella, dalla quale non poteva mai uscire e ciascuna cella era dotata di un cortile individuale, dove poteva lavorare in isolamento.43

Come diceva Abel Blouet, al ritorno dalla sua missione negli Stati Uniti, << I muri sono la punizione del crimine…la cella mette il detenuto in presenza di sé stesso, egli è obbligato ad ascoltare la sua coscienza…I muri sono terribili >>.44

Fu con il penitenziario di Auburn, del 1818, nella cittá omonima di Auburn, che si cercó di porre rimedio a tali condizioni disumane.

Fig. 1.9: la prigione di Auburn

43 La costruzione originale era a un solo piano, al quale ne è stato aggiunto un altro. Ibidem.

44 A. BLOUET, Projet de prison cellulaire, 1843. Blouet é ispettore degli edifici

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27

La prigione di Auburn era inserita in un lotto urbano determinante un andamento planimetrico ad U, possedeva ampi cortili destinati a magazzini e laboratori, limitava la segregazione alle ore notturne utilizzando quelle diurne al lavoro in silenzio, ed organizzava collettivamente le altre attivitá, come la refezione ed il passeggio.45

La cella si restringeva allo spazio indispensabile, non possedeva comunicazioni con l’esterno ma, attraverso una porta cancello, immetteva sul ballatoio, che si affacciava sulla navata comune a tutti i piani.

In linea generale il sistema auburniano rimaneva organizzato in bracci, con le celle che si affacciavano sull’ambiente interno e non avevano aperture verso l’esterno, ed era di tipo misto e progressivo: dapprima era previsto l’isolamento continuo, poi solo notturno e lavoro diurno in comune, successivamente vi erano periodi intermedi in organizzazione agricola o industriale e infine la liberazione condizionata.46

Nella maggior parte degli stati americani venne adottato tale sistema, in quanto ritenuto migliorativo rispetto agli altri due.

Nel 1834, il Ministro degli Interni inglese, invió un suo emissario a studiare sia il metodo filadelfiano sia quello auburniano e a riferire sui loro rispettivi meriti e cosí concludeva: << nel giudicare i rispettivi

45 M. BIAGI, Carcere, cittá e architettura. Progetti per il carcere di San Vittore a Milano 2004-2009, Maggioli Editore, 2012, cit., p. 172.

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meriti si vedrá che la disciplina a Auburn è di carattere fisico, a Filadelfia morale. La frusta, nel primo, infligge un dolore immediato, ma l’isolamento, nel secondo, ispira un terrore permanente. La prima degrada perché umilia. Il secondo soggioga ma non abbatte. A Auburn il carcerato è tenuto costantemente con durezza, a Filadelfia con garbo; un sistema contribuisce ad indurire, l’altro ad addolcire la passione. Auburn suscita sentimenti vendicativi, Filadelfia l’abitudine alla sottomissione >>.47

7. La riforma penitenziaria del decennio

1830-1840

In Toscana tale riforma è consistita in un programma di esclusivo riuso dell’edilizia esistente.

Le antiche prigioni delle Stinche e del Bargello di Firenze e i bagni penali di Pisa e di Piombino vennero abolite.48

Dopo la chiusura del carcere delle Stinche, la zona penitenziaria si spostó di alcuni isolati piú ad est, nel complesso delle Murate.

47 AA.VV, Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari, ed.

Mursia, 2016, cit., p. 59.

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Le Murate erano un ex convento, ridotto a sistema cellulare nel 1836 e che dal 1883 al 1985 sará il carcere maschile di Firenze; dopodiché i detenuti verranno trasferiti nel carcere di Sollicciano ed in altri istituti.49 Nel XXI secolo, infine, un progetto di recupero vi ha ricavato una serie di appartamenti popolari, bar, ristoranti, trasformando l’edificio in un luogo di ritrovo.

Vi fu una moltiplicazione, nei vari Stati italiani, degli spazi di reclusione, ma senza variazioni di tipologia. Infatti, per motivi economici, le amministrazioni hanno riutilizzato castelli e conventi, come ha potuto notare l’inviato del Ministero dell’interno francese Auguste Edouard Cerfberr: << grandi edifici, costruiti con il genio che caratterizza le opere della religione sono deserti…si trasformano indifferentemente in ospedali o prigioni >>.50

Ed aggiunse << occorrono costruzioni nuove >>. << Un’architettura

particolare, per le prigioni come per tutti gli edifici

pubblici…l’architettura delle prigioni come quella degli stabilimenti di caritá è ancora da inventare >>.51

49 R. DUBBINI, Architettura delle prigioni. I luoghi e il tempo della punizione (1700-1880), ed. Franco Angeli, 1986, cit., p. 41.

50 Ivi, cit., p. 42.

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Nel Regno delle Due Sicilie, alle carceri distrettuali e circondariali esistenti, 52 si andarono ad aggiungere, all’inizio degli anni 1830, le nuove prigioni costruite a Capua, Avellino, Salerno, Lecce e Palermo.

Quelle costruite ad Avellino e a Palermo vennero progettate sul modello a raggi della prigione americana di Cherry Hill,53 dall’architetto

Giuliano Defazio.54

In Piemonte, Carlo Alberto, nel 1839, ordinó la costruzione di nuove carceri centrali ad Oneglia e ad Alessandria.

Qui è stato, invece, adottato il sistema auburniano.

Per la progettazione della prigione centrale di Alessandria, vennero esposti, nel “Programma”, 55 i nuovi princípi di architettura carceraria. In esso si richiedeva la trasformazione del corpo di fabbrica dell’ex convento << convertendolo ad uso di alloggio degli impiegati addetti…e al servizio di tutti gli uffici accessori >> 56 e la progettazione ex novo di uno stabilimento per cinquecento detenuti, da sottoporre alle regole

52 F. VOLPICELLA, op. cit., pp. 95-96. Ibidem.

53 Cfr. Handbook of Correctionnal Institutions Design and construction, United States

Bureau of Prisons, 1949, pp. 28-29; anche N. JOHNSTON, The Human Cage: a brief

history of Prison Architecture, The Amarican Foundation, Filadelfia, 1973; e il volume

a cura dell’Unsdri, Prison Architecture, The Architectural Press, London, 1975.

Ivi, cit. p. 43.

54 Esperto di architettura idraulica; progettista di attrezzature portuali. Ibidem. 55 Programma per la costruzione della prigione di Alessandria, “Annali Universali di

Statistica”, LX, 252-255, Ibidem.

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31

della << segregazione notturna e della segregazione diurna sotto l’osservanza dell’assoluto silenzio >>. 57

Vi erano stabilite anche le caratteristiche tipologiche dell’oggetto: << Qualunque sia la forma deve in essa essere osservato il sistema panottico in tutti i locali dove si trovano i detenuti >>.58

All’architetto venne, quindi, affidato il compito di realizzare un dispositivo di reclusione di cui erano giá stati fissati gli elementi costitutivi e analizzati i dettagli tecnici.59

Il vincitore del concorso fu l’architetto Henri Labrouste,60 che nel suo progetto dispose in successione l’edificio del convento, trasformato per accogliere i servizi amministrativi; un braccio di detenzione con celle schiena a schiena; i laboratori, strutturati secondo lo schema panoptico, costituiti da bracci innestati in un corpo centrale; infine un anello cellulare per l’isolamento.

57 Ibidem. 58 Ivi, cit., p. 44.

59 Cfr. Programma…, 253; si prescrive l’impiego del <<sistema di Perkins dei

termosifoni ad acqua calda coi miglioramenti di Tredgold, l’applicazione di tubi acustici per portare, non udita, la voce dal punto centrale dell’osservatorio al luogo destinato per le guardie nelle officine>>. Ibidem.

60 Una recente monografia su Labrouste è stata curata da Pierre Saddy (Paris, 1977).

L’interesse di Labrouste per l’architettura della sorveglianza risulta evidente anche dai suoi rilievi italiani, tra i quali compaiono il lazzaretto di Ancona (C. VANVITELLI, 1731), l’Albergo dei poveri di Napoli (F. FUGA, 1751) e il lazzaretto S. Leopoldo di Livorno. Ibidem.

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32

Con tale progetto Labrouste ha dimostrato che, per costruire oggetti architettonici efficienti, è necessario avere un programma di richieste dettagliate.

Egli sembra poter incarnare quella figura di tecnico che, nella spazializzazione delle istituzioni, come scrisse Charles Lucas, deve saper tradurre << nella pietra l’intelligenza della disciplina >>.61

Nel 1841 l’architetto Francesco Angiolini ed il marchese Carlo Torrigiani, membri dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, elaborarono un progetto di penitenziario composto da celle triangolari prive di pareti di contatto, in modo che le comunicazioni fossero impedite e le epidemie limitate.62

Al centro si trovava l’altare, visibile da ogni cella, e non la torre di sorveglianza del Panopticon.

Tale progetto venne ritenuto piú concorrenziale, in quanto piú economico, rispetto a quello elaborato in Francia dall’architetto Nicolas Philippe Harou-Romain,63 che propose una sorta di versione perfezionata del Panopticon di Bentham.64

61 C. LUCAS, De la réforme des prisons, Paris, 1838, II, p. 69. Ivi, cit., p. 45. 62 C. TORRIGIANI, Sul diritto di punire…in alcuni suoi rapporti coll’economia morale e politica, Firenze, 1841. Alla fine della “dissertazione” viene presentato il

progetto del penitenziario. Ivi, cit., p. 46.

63 Redattore con Blouet e Horeau del Programma per la costruzione delle prigioni

d’arresto e di giustizia, 1841. Ibidem.

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33

Nel dibattito sui sistemi di reclusione un ruolo importante venne svolto anche dalle Sezioni di scienza penitenziaria, all’interno dei congressi degli Scienziati italiani.65

Ad esempio, durante il Congresso di Padova del 1841, Carlo Cattaneo sostenne il sistema filadelfiano, in quanto secondo lui, avrebbe condotto alla trasformazione delle prigioni italiane,66 a discapito del “falso filantropismo” di quello auburniano.

65 Cfr. SCOPOLI, SALERI, PETITTI, Questioni igieniche intorno alla Riforma delle carceri, indirizzate alla Sezione medica del IV Congresso, Padova, 1842. Ivi, cit., p.

47.

66 G. C. MARINO, La formazione dello spirito borghese in Italia, La Nuova Italia,

Firenze, 1974, p. 364; C, CATTANEO, Di varie opere sulla riforma delle carceri.

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34

CAPITOLO II

Il confronto-scontro tra l’edilizia e l’architettura

penitenziaria nell’esperienza italiana

1. Edilizia penitenziaria vs architettura

penitenziaria

La riforma penitenziaria è stata disattesa, in quanto, per molti anni, in Italia, non c’è stato alcun rapporto tra il carcere e l’architettura e si tendeva a parlare, piuttosto, di edilizia penitenziaria.

La differenza tra il concetto di architettura e quello di edilizia consiste nel fatto che la prima punti alla qualitá degli spazi, la seconda solo alla quantitá.

Bisogna ricordare che é soltanto nell’accezione di “architettura penitenziaria” che le finalitá del recupero e del reinserimento sociale del condannato potranno essere raggiunte, poiché questa disciplina è dotata di strumenti non solo tecnici, ma anche culturali, che le consentono di superare la mera ed elementare dimensione insita nel fare edilizia.67

67 AA.VV, Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari, ed.

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35

Le sfide che l’architettura si pone debbono essere assunte sin dal momento dell’elaborazione “filosofica” dell’idea del penitenziario, per poi trasferirle sul piano pratico.

L’edilizia carceraria, al contrario, trascura le forme, i rapporti, le dimensioni e le proporzioni, che sono elementi qualitativi importanti per la psiche dell’individuo, tendendo a rispettare solo princípi di mera quantitá e di economia.

Nella realtá vediamo, spesso, edifici progettati esclusivamente in base al solo principio economico dell’assemblaggio di un maggior numero di celle, a fronte di un minor numero di ambienti destinati al personale di custodia, deprivando cosí il complesso edilizio di tutta una serie di possibili annessi e configurazioni spaziali, o semplicemente di carattere formale, che sono necessari alla vita carceraria.

Un particolare da annotare è che proprio alla Divisione tecnica del DAP è stato affidato l’incarico di progettare gli interventi di ampliamento previsti dal Piano carcere.

Questo prevede, per l’immediato, la realizzazione di padiglioni all’interno di strutture preesistenti per far fronte al problema del sovraffollamento e, con il tempo, un congruo numero di nuovi edifici. Per realizzare tutto questo si auspica di non tener conto del problema dell’emergenza, ma di programmare in senso vero e proprio le strutture di cui l’amministrazione ha bisogno, ripartite per ordine e grado dei livelli di trattamento e di sicurezza.

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36

La riforma del 1975 è stata disattesa anche per quanto riguarda gli aspetti urbani e territoriali, in quanto le vecchie strutture poste nei centri urbani sono state dismesse, ed i nuovi impianti sono stati costruiti ai margini, trasmettendo cosí un forte senso di separazione e di isolamento.

I processi di relazionamento tra cittá e carcere, presupposti dalla riforma, sono allora diventati piú complicati, a causa della maggiore distanza dalla rete dei servizi e dal tessuto associativo.

Paradossalmente, è nei progetti di alcune nuove carceri del periodo precedente alla riforma, che si possono ritrovare interpretazioni spaziali significative dei contenuti che saranno fatti propri dalla riforma.

A tal proposito risulta essere significativo rendere una panoramica delle opere di due grandi architetti: Mario Ridolfi e Sergio Lenci.

Mario Ridolfi 68 (1904-1984), tra i piú stimati architetti italiani, progettó due carceri: il carcere di Badu e Carros a Nuoro e l’altro a Cosenza. Si tratta di due rari esempi di intervento dell’architettura, in ambito carcerario, negli anni Cinquanta.

Nel progetto del nuovo carcere di Badu e Carros, Ridolfi inserí la sua aspirazione a rileggere in chiave moderna i valori del passato, le tecniche, i materiali e i particolari architettonici, tendendo a ricreare uno

68 Fu esponente del MIAR (Movimento italiano per l’architettura razionale). In

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37

spazio capace di comunicare con il contesto storico-architettonico e la natura del luogo.69

Il quadro in cui fu progettata l’opera fu soprattutto di ordine funzionale e contenitivo, a cui Ridolfi rispose con la ricerca di un punto di equilibrio attraverso la qualificazione architettonica dell’opera nel contesto ambientale.

Egli ha trasferito nel tema carcere un fare colto ed un complesso di competenze tecnico-costruttive di cui aveva dato prova col “Manuale dell’architetto”.70

Per il carcere di Badu e Carros Ridolfi ha realizzato un impianto planimetrico che si articolava su geometrie elementari, come il triangolo e l’esagono.

L’organizzazione funzionale del complesso non presentava particolari innovazioni, rispetto alle tipologie carcerarie di riferimento, perché egli si è concentrato maggiormente sulla dignitá architettonica degli ambienti e sulla rielaborazione delle forme e dei materiali; inoltre, grazie

69 C. MARCETTI, L’architettura penitenziaria dopo la riforma, cit., p. 72, in Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, a cura di S.

ANASTASIA, F. CORLEONE e L. ZEVI, ed. Ediesse, 2011.

70 Nel dopoguerra Mario Ridolfi intensificó la propria attivitá sottoponendo a verifica

il linguaggio razionalista attraverso un dettagliato studio dei metodi costruttivi tradizionali. Da ció conseguí, nel 1946, la pubblicazione del Manuale dell’architetto, redatto insieme a C. Calcaprina, A. Cardelli e M. Fiorentino, per conto del Consiglio nazionale delle ricerche. In www.treccani.it.

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ai volumi semplici e all’andamento orizzontale, tale complesso si inseriva bene all’interno del contesto.

Fig. 2.1: progetto del carcere Badu e Carros

Successivamente il complesso è stato modificato, per adeguare le sue strutture a carcere di massima sicurezza e ció ha fatto sí che non fosse piú ricordato per la sua qualitá architettonica.

Nel dopoguerra, altro architetto di spicco è stato Sergio Lenci, che si è occupato della Casa Circondariale di Rebibbia (1959), del carcere mandamentale di Rimini (1967), della Casa Circondariale di Spoleto (1970) e della Casa Circondariale di Livorno (1974).

Egli, dopo aver svolto sopralluoghi nella realtá degli edifici penitenziari, inizió a riflettere sulla necessitá della realizzazione di un carcere

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moderno e trasse una serie di indicazioni per la progettazione delle carceri: applicazione di criteri di igiene edilizia quali l’aerazione, la luminositá e l’inserimento degli edifici nel verde.

Lenci nel 1959, interpellato dall’allora Direttore generale degli Istituti di Pena, in occasione della progettazione del carcere di Roma- Rebibbia, proponeva di << creare due unitá distinte, anche se vicine, in modo da non superare, per ogni istituto, le seicento persone (…) organizzare tutto il complesso come una sommatoria di piccoli gruppi di detenuti, autonomi rispetto a taluni servizi (…) abbandonare gli schemi a palo telegrafico a favore di una organizzazione dei corpi di fabbrica piú libera, che aprisse al massimo gli affacci da tutte le finestre verso l’orizzonte piú lontano (…) abbandonare completamente gli schemi tradizionali di edifici pluripiani nei quali le celle sono raggiungibili da ballatoi sovrapposti che si affacciano sul vuoto centrale (…) creare normali corridoi, ciascuno al servizio di una sola sezione in modo da evitare la caotica promiscuitá del padiglione cellulare tradizionale, nel quale non vi è mediazione tra l’individuo e l’intera popolazione carceraria…>>.71

71 Sergio Lenci nel 1980 subí un’aggressione da parte di un gruppo di terroristi di Prima

Linea che avevano deciso di giustiziarlo. La sua “colpa” sarebbe stata quella di aver progettato il carcere di Roma-Rebibbia con criteri di rispetto dei diritti umani dei prigionieri, cosí da ridurre quel maggiore “potenziale rivoluzionario”, tipicamente presente in una struttura detentiva. C. MARCETTI, L’architettura penitenziaria dopo

la riforma, cit., p. 78, in Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, a cura di S. ANASTASIA, F. CORLEONE e L. ZEVI, ed.

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Inoltre, dichiaró che, in relazione agli edifici cellulari, si era ispirato alle architetture dei campus universitari della Danimarca, per le strutture di servizio collettivo, agli edifici di Alvar Aalto 72 e, per gli edifici esterni, all’architettura di Le Corbusier.73

Il complesso consiste di quattro edifici cellulari in muratura tradizionale con laterizi a vista, sono blocchi a tre bracci di celle ciascuno ed hanno tre piani; in ogni braccio vi è un soggiorno comune, il servizio doccia, l’infermeria e la sala colloquio.74

Fuori dal muro di cinta vi è il fabbricato per la direzione e la caserma degli agenti, ed il primo è posizionato a cavallo del passaggio d’ingresso, in modo da creare un sistema di accesso piú articolato attraverso una corte e una piazzetta, rendendo in tal modo meno grezzo il rapporto tra il dentro e il fuori le mura.

Infine, egli progettó un sistema di verde con 12.000 alberi piantati nelle aree libere.

72 Hugo Alvar Henrik Aalto è stato architetto, designer e accademico finlandese, tra le

figure piú importanti nell’architettura del XX secolo e ricordato come maestro del Movimento Moderno. In www.treccani.it.

73 Le Corbusier, pseudonimo di Charles-Edouard Jeanneret-Gris, è stato un architetto,

urbanista, pittore e designer svizzero naturalizzato francese. Ibidem.

74 C. MARCETTI, L’architettura penitenziaria dopo la riforma, cit., p. 78, in Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, a cura di S.

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Il carcere di Spoleto, invece, è composto da blocchi cellulari a quattro piani, ed uno dei padiglioni ha quattro bracci.

Una maggiore scomposizione dei gruppi di celle è stata ottenuta attraverso uno sdoppiamento della sezione da trenta detenuti in due ali di una L, con il camerone di soggiorno al vertice. Nell’area esterna vi sono gli edifici della direzione, una palestra ed edifici per gli agenti.75 Nel progetto per la Casa Circondariale di Livorno, Lenci ha disposto gli edifici cellulari in maniera che le celle si affacciassero verso il paesaggio esterno. Ha ricercato una maggiore luminositá e composto le sezioni in piccoli gruppi. Nel complesso l’edificio non ha la struttura di una fortezza, anzi, al contrario, dá un senso di permeabilitá.

Fig. 2.3: Casa Circondariale di Livorno

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Nonostante l’innovazione che Lenci propose nella progettazione delle carceri, fu emarginato dalle nuove progettazioni degli anni Ottanta.

Gli architetti fiorentini Mariotti, Inghirami, Campani ed altri si occuparono della progettazione di un altro caso esemplare: il carcere di Sollicciano.

Per loro il carcere avrebbe dovuto essere “un brano di cittá”, integrato con il contesto dei servizi sociali urbani.76

Nel bando era suggerito il superamento dei corpi di celle a ballatoio e la limitatezza dei cortili dell’aria, che la vita diurna dovesse essere vissuta in socialitá di lavoro e che lo studio si svolgesse fuori dalla cella, che dovrebbe servire solo per la notte.

Gli architetti scelsero l’impianto a palo telegrafico e proposero di introdurre lamelle di cemento, al posto delle inferriate alle finestre e che le celle fossero dotate di un terrazzino.77

76 In occasione di una intervista fatta loro da Giovanni Michelucci, a proposito del

progetto “La cittá ristretta 2001”, essi dissero che il maggior rischio che a loro sembrava, fosse quello di farne una cittadina autosufficiente che ripetesse, al suo interno, la struttura urbana, ma risultasse poi avulsa dalla cittá reale. C. BURDESE,

Nuovo regolamento del 2000, concorso per nuove tipologie edilizie del 2001, carcere e cittá, in Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, cit., p. 104, a cura di S. ANASTASIA, F. CORLEONE, L. ZEVI, ed.

Ediesse, 2011.

77 C. MARCETTI, L’architettura penitenziaria dopo la riforma, cit., p. 82, in Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie, a cura di S.

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