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L'internazionalizzazione delle piccole e medie imprese: il contratto di rete e i modelli societari europei

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Tesi di Laurea Magistrale

L'internazionalizzazione delle piccole e medie imprese: il

contratto di rete e i modelli societari europei

Relatore: Candidato:

Professor Antonio Marcello Calamia Elena Scipioni

(2)

Introduzione...6 Capitolo I – L'internazionalizzazione delle piccole e delle medie imprese.

1.1 – Le piccole e le medie imprese.

1.1.1 – Le piccole e le medie imprese italiane: inquadramento...7

1.1.2 – Le piccole e le medie imprese come “colonna portante” del sistema economico europeo...9

1.1.3 – Il concetto di impresa in generale: le nozioni italiana ed europea...9

1.1.4 – L'evoluzione della definizione europea di piccola e media impresa...11

1.1.4.1 – Il criterio degli effettivi...13

1.1.4.2 – I criteri del fatturato e del totale di bilancio...15

1.2 – Il fenomeno dell'internazionalizzazione.

1.2.1 – La globalizzazione...16

1.2.2 – L'internazionalizzazione mercantile e produttiva...19

1.2.3 – Le interpretazioni teoriche del fenomeno dell'internazionalizzazione...29

1.2.4 – La delocalizzazione...33

1.2.5 – I processi di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese...37

1.2.5.1 – I vantaggi...40

1.2.5.2 – I rischi e gli errori frequenti...41

Capitolo II – Le reti di imprese e il contratto di rete. 2.1 – Le reti di imprese.

(3)

2.1.2 – Le differenze tra la rete di imprese e altri strumenti giuridici...46

2.1.3 – L'evoluzione legislativa delle reti di imprese: la nascita della soggettività giuridica della rete...49

2.1.3.1 – Le reti di imprese a “regime speciale”...52

2.1.4 – Le reti di imprese e i lavoratori: gli istituti del distacco transnazionale e della codatorialità...54

2.2 – Il contratto di rete.

2.2.1 – Il contratto di rete: definizione e soggetti stipulanti...59

2.2.2 – La causa del contratto di rete...61

2.2.3 – La forma e il contenuto del contratto di rete: gli elementi obbligatori e facoltativi del negozio giuridico...63

2.2.4 – Il programma di rete...68

2.2.5 – Le modifiche soggettive al contratto di rete: nuove adesioni, recesso anticipato ed esclusione...71

2.2.6 – Il diritto di voice degli aderenti...76

2.3 – La normativa antitrust e il contratto di rete.

2.3.1 – Premessa...78

2.3.2 – Il contratto di rete e la normativa sugli aiuti di Stato: l'articolo 107 TFUE...79

2.3.3 – Le intese vietate dalla disciplina antitrust: il rischio per il contratto di rete di violare la normativa...80

2.3.3.1 – La Comunicazione dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in merito alle reti di imprese; il bollettino n° 17 del 16 maggio 2011...82

2.3.4 – Le concentrazioni di imprese e il contratto di rete...84

2.3.5 – L'abuso di posizione dominante collettiva e il contratto di rete; l'abuso di dipendenza economica...87

(4)

sostegno delle piccole e medie imprese.

3.1 – I modelli societari europei: le alternative a disposizione delle piccole e delle medie imprese.

3.1.1 – La Società Europea: introduzione...90

3.1.1.1 – Il Regolamento CE n° 2157/2001: la disciplina applicabile alla Socetà Europea...91

3.1.1.2 – Le procedure di costituzione della Società Europea...92

3.1.1.3 – L'assemblea generale degli azionisti e gli organi di amministrazione...94

3.1.1.4 – La Direttiva n° 2001/86/CE e il ruolo dei lavoratori nella Società Europea...95

3.1.1.5 – Le problematiche connesse all'assenza di norme interne di accoglimento...96

3.1.2 – La Società Cooperativa Europea (SCE)...97

3.1.2.1 – Le caratteristiche principali della Società Cooperativa Europea: modalità di costituzione, struttura e capitale sociale...99

3.1.2.2 – La Direttiva n° 2003/72/CE in merito al coinvolgimento dei lavoratori nella Società Cooperativa Europea...100

3.1.2.3 – Gli svantaggi relativi alla Società Cooperativa Europea...102

3.1.2.4 – La relazione della Commissione europea sull'applicazione del Regolamento n° 1435/2003 del Consiglio, relativo allo Statuto della Società Cooperativa Europea...102

3.1.3 – La Società Privata Europea (SPE): introduzione...104

3.1.3.1 – Gli obiettivi di onerosità e flessibilità: l'impatto della proposta legislativa...105

3.1.3.2 – Le principali caratteristiche che rendono il modello della Società Privata Europea più favorevole rispetto agli altri modelli...110

3.1.4 – Il Gruppo Europeo di Interesse Economico: l'oggetto sociale e i membri...111

(5)

3.1.4.1 – La personalità giuridica del GEIE: inquadramento

nella legislazione italiana...113

3.2 – Alcune politiche e strumenti europei a sostegno delle piccole e medie imprese: lo Small Business Act e Horizon 2020. 3.2.1 – Lo Small Business Act e la maggiore attenzione alle esigenze di crescita delle piccole e medie imprese...114

3.2.2 – Horizon 2020: un sistema di finanziamento per la ricerca e l'innovazione...119

Conclusioni...123

Bibliografia...125

(6)

Introduzione.

Le piccole e le medie imprese sono considerate come punto focale dell'economia italiana e come colonna portante dell'Unione Europea; visto e considerato il periodo di crisi economica che hanno attraversato e che ancora oggi stanno attraversando, obiettivo di questa tesi è quello di analizzare metodi di internazionalizzazione che consentano alle stesse di accrescere la propria competitività, attraverso l'espansione su mercati esteri.

Il primo capitolo si riserva di individuare le piccole e le medie imprese da un punto di vista in primis italiano e, in secundis, europeo; successivamente verrà contestualizzato il fenomeno dell'internazionalizzazione nell'ambito della globalizzazione, segnandone quelli che sono i vantaggi, i rischi, e gli errori da evitare.

Il secondo capitolo, entra nello specifico di uno strumento per internazionalizzarsi, quale è il contratto di rete ai fini della costituzione di una rete di imprese.

Una delle particolarità della rete, è ricnonducibile alla possibilità per ogni impresa “retista” di mantenere la propria individualità, pur partecipando ad un progetto comune e duraturo di crescita economica (non legato solo al breve periodo come accade, ad esempio, per i consorzi e per le associazioni temporanee di imprese), che può essere indirizzato non solo a progetti italiani ma, di interesse di questo lavoro, anche transnazionali.

Il terzo capitolo analizza principalmente quelli che sono i modelli societari europei che vengono elaborati dal legislatore per semplificare l'intervento delle imprese che hanno la propria sede in uno Stato membro dell'Unione Europea, in altro Stato membro, per evitare una problematica di contrasto di discipline e consentire una riduzione dei costi connessi all'operazione.

Infine il capitolo, e dunque il presente lavoro, si conclude con un accenno ad alcuni dei più importanti interventi legislativi europei a sostegno mirato delle piccole e delle medie imprese.

(7)

CAPITOLO I

L'internazionalizzazione delle piccole e delle medie imprese

“L'occupazione, la crescita e gli investimenti in Europa sono subordinati

all'istituzione di un contesto normativo adeguato e alla promozione dell'imprenditorialità e della creazione di posti di lavoro. Non possiamo permetterci di soffocare l'innovazione e la competitività con normative troppo prescrittive e troppo dettagliate, in particaolare nei confronti delle piccole e medie imprese (PMI). Le PMI sono la colonna portante della nostra economia e creano l'85% dei nuovi posti di lavoro in Europa. Abbiamo il dovere di sgravarle da regolamentazioni onerose”.

Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea

1.1 – Le piccole e medie imprese.

1.1.1 – Le piccole e medie imprese italiane: inquadramento.

Il nostro ordinamento è costituito dalla notevole diffusione di imprese di piccole e medie dimensioni, prevalentemente riconducibili ad un contesto famigliare o comunque ad un socio di riferimento.

Ciò caratterizza la storia dell'imprenditoria italiana, in quanto le aziende tendono a mantenere i tratti distintivi personalistici anche nell'ipotesi in cui decidessero di aumentare la propria dimensione.

(8)

che hanno depositato un bilancio valido in Italia e hanno occupato 3.8 milioni di addetti (più della metà in piccole imprese)1.

Le piccole e le medie imprese italiane, nelle loro particolarità, presentano pregi e difetti.

Tra i difetti troviamo l'accentramento delle decisioni, che impedisce il confronto costruttivo tra più individui oltre che limitare le scelte strategiche alle inevitabilmente limitate conoscenze dell'unico soggetto, o dei pochi soggetti, incaricati della gestione (al contempo questo può essere tuttavia considerato pregio, dal momento in cui garantisce estrema flessibilità e celerità nelle decisioni); la scarsità delle risorse umane disponibili in quanto un singolo individuo tende ad assumere una pluralità di funzioni, determinando una minor specializzazione; il ripetuto ricorso al turnover ossia al costante ricambio di personale che comporta un aumento del costo di formazione; la mancata documentazione delle attività, che comporta il fenomeno per il quale alla fuoriuscita di personale consegue la fuoriuscita del know-how2; l'elevato costo di aggiornamento

normativo e la tendenza a non avere risorse sufficienti a sostenerlo; l'esigenza di consulenza specializzata esterna per l'investimento all'estero, in mancanza di conoscenze interne adatte (con relativa dipendenza dalla stessa, nonché fuoriuscita di risorse monetarie volte in tal senso).

Tra i pregi, invece si possono riconoscere la flessibilità della struttura che consente un celere adattamento ai mutamenti di mercato, grazie alla comunicazione efficace tra gli addetti (numericamente ridotti); i minori costi diretti rispetto ad una grande imprsa, in quanto, visto lo sfruttamento delle competenze di poche risorse umane, i costi sono più ridotti (nonostante a questo pregio si contrapponga il difetto della scarsa specializzazione); le elevate consocenze del settore in capo all'imprenditore di riferimento poiché, come accennato all'inizio

1 Rapporto Cerved PMI 2016.

2 “Know how: insieme di saperi e abilità, competenze ed esperienze necessari per svolgere bene determinate abilità all'interno di settori industriali e commerciali. Solitamente l'espressione viene utilizzata per indicare le capacità di carattere tecnico-industriale ma vi possono essere comprese anche quelle sulle regole che riguardano l’organizzazione imprenditoriale, la commercializzazione dei prodotti, le tecniche di vendita e più in generale tutto ciò che attiene alla gestione del’impresa” (Dizionario di Economia e Finanza, 2012).

(9)

del paragrafo, le piccole e medie imprese italiane sono connotate dalla centralità dell'elemento del know-how del fondatore o dei fondatori e questo comporta come risultato un'ottima qualità del prodotto in ragione della partecipazione diretta dello stesso nella gestione della produzione.

1.1.2 – Le piccole e medie imprese come “colonna portante” del sistema economico europeo.

Le piccole e medie imprese, definite come “colonna portante” dell'economia europea dal Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, sono essenziali per la creazione di posti di lavoro e per la crescita economica.

Per questa ragione risultano imprescindibili la creazione ed il rispetto dei criteri di individuazione delle stesse, ai fini di una più corretta applicazione delle normative di sostegno elaborate dall'Unione Europea, la quale considera le piccole e medie imprese come priorità nelle politiche economiche e sociali di sua competenza3.

Non sempre risulta agevole individuare le imprese rientranti nella categoria, in ragione dei rapporti che si instaurano a livello finanziario, operativo e di governance con altre imprese; tale tendenza rischia di complicare la distinzione tra un'impresa piccola o media e un'impresa di maggiori dimensioni.

Per questa ragione viene elaborata una normativa ad hoc volta a questo obiettivo4.

Prima di analizzarla, occorre definire il concetto di impresa in generale secondo il diritto interno, nonché secondo il diritto europeo.

1.1.3 – Concetto di impresa in generale: le nozioni italiana ed europea.

3 Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, Lussemburgo, 2015.

(10)

Ancor prima di definire le piccole e le medie imprese, occorre individuare il concetto di impresa in generale, sia dal punto di vista dell'ordinamento italiano sia da quello europeo.

Il codice civile italiano non dedica alla definizione di “impresa” una disposizione ad hoc; sarà pertanto necessario estrapolare tale nozione dall'art. 2082 cc relativo alla nozione di “imprenditore”.

Art. 2082 cc: “E' imprenditore chi esercita professionalmente

un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”.

L'articolo appena menzionato allude al c.d. “metodo economico”, il quale richiede l'equilibrio tra costi e ricavi (quindi il perseguimento di un c.d. “lucro oggettivo”) e non necessariamente lo scopo di lucro in senso stretto (in cui i ricavi superano i costi, il c.d. “lucro soggettivo”) ai fini della definizione di un'attività come economica e quindi imprenditoriale5.

Anche a livello europeo non troviamo una disposizione ad hoc che definisca l'impresa; per questa ragione è necessario a tale scopo fare riferimento alla giurisprudenza europea.

La Corte di Giustizia Europea individua il concetto di impresa in modo volutamente ampio, così da ricomprendere le nozioni dei diversi Stati Membri per una più diffusa applicazione della normativa

antitrust.

In particolare, la Corte di Giustizia Europea sostiene che: “(...)

nel contesto del diritto della concorrenza, la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e delle sue modalità di finanziamento, e che l’attività di collocamento è un’attività economica”6.

La genericità della definizione adottata dalla Corte consente, quindi, di evitare che l'applicazione della normativa antitrust europea

5 Sentenza Cassazione, 24.11.2014 n°6835.

6 Sentenze della Corte di Giustizia “Kleochner-Werke AG Hoesch AG”, 13 luglio 1962 e “Hoefner ed Elser”, 23 aprile 1991.

(11)

dipenda dalle nozioni civili e commerciali di impresa degli Stati Membri.

Occorre specificare che non sono considerate attività economiche:

• le attività che non implicano un qualche tipo di compenso

pecuniario, come sussidi, sovvenzioni e donazioni;

• le attività per cui non esiste un mercato certo o diretto;

• le attività per cui il profitto generato non è diverso dal reddito

personale dei suoi membri o azionisti7.

1.1.4- L'evoluzione della definizione europea di piccola e media impresa.

La definizione di piccola e media impresa italiana deriva dall'adeguamento dei criteri di individuazione delle stesse alla normativa europea attuale, avvenuto con Decreto Ministeriale del 18 Aprile 2005.

La Commissione Europea8, in ragione della necessità di

realizzare un mercato unico senza frontiere tra gli Stati Membri, riscontrò l'esigenza di uniformità della definizione di piccola e media impresa9 già con la Raccomandazione 96/208/CE del 3 Aprile 1996,

ad opera della quale elabora i criteri di: numero di dipendenti, fatturato, totale di bilancio, indipendenza10.

7 7° Programma Quadro, Decisione Commissione Europea del 18 Dicembre 2012 (le 20 regole di partecipazione): “Sull’adozione delle regole destinate a garantire una verifica coerente dell’esistenza e dello status giuridico, nonché della capacità operativa e finanziaria, dei partecipanti alle azioni indirette finanziate mediante sovvenzioni nell’ambito del settimo programma quadro della Comunità europea per le attività di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione e nell’ambito del settimo programma quadro della Comunità europea dell’energia atomica per le attività di ricerca e formazione nel settore nucleare”.

8 “È una delle principali istituzioni dell’Unione Europea (UE), con sede a Bruxelles. In base all’art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, la Commissione vigila sull’applicazione da parte degli Stati membri dei Trattati e degli atti vincolanti adottati dalle istituzioni dell’UE; dispone del potere d’iniziativa legislativa, partecipa alla formazione degli atti del Consiglio dell'Unione Europea e del Parlamento Europeo; si occupa dell’attuazione delle politiche comuni; gestisce i programmi e il bilancio dell’Unione; rappresenta l’Unione nelle relazioni esterne, eccettuata la politica estera e di sicurezza comune (Relazioni esterne dell'Unione Europea)” (Enciclopedia Treccani, 2017),

9 La nozione di piccola e media impresa ricomprende anche la microimpresa. 10 Art. 1, Par. 1-2-3, Allegato Raccomandazione 96/280/CE.

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Ben presto i criteri a cui si riferiva la normativa vennero considerati superati, soprattutto in riferimento alle soglie finanziarie (totale di bilancio e fatturato) ad opera del fattore inflazionistico e dell'incremento di produttività registratosi nel frattempo.

Per questa ragione dopo alcuni anni venne emanata, in sostituzione della precedente, e con decorrenza dal 1° Gennaio 2005, la Raccomandazione 2003/361/CE del 6 Maggio 2003, tuttora vigente ai fini della definizione di microimprese, piccole imprese e medie imprese utilizzata nell'ambito delle politiche comunitarie.

Il contenuto dell'atto deve essere applicato dagli Stati Membri, dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI) e dal Fondo Europeo per gli Investimenti (FEI).

Lo scopo di questa definizione viene enunciato dalla stessa Commissione, in particolare dal membro responsabile per l'impresa e l'industria Günter Verheugen:

«Le microimprese e le piccole e medie imprese (PMI)

costituiscono il motore dell’economia europea. Sono una fonte essenziale di lavoro, generano spirito imprenditoriale e innovazione nell’UE e sono quindi essenziali per favorire la competitività e l’occupazione. La nuova definizione di PMI, entrata in vigore il 1 gennaio 2005, rappresenta un importante passo verso il miglioramento dell’ambiente operativo delle PMI e ha lo scopo di promuovere l’imprenditorialità, gli investimenti e la crescita. La definizione è stata elaborata dopo ampie consultazioni con le parti interessate coinvolte e ciò prova che l’ascolto delle PMI è un elemento fondamentale per la realizzazione efficace degli obiettivi di Lisbona (...)”.

La definizione operata dalla Raccomandazione in esame distingue tra diverse categorie di imprese, ognuna delle quali corrisponde ad un tipo di rapporto che può instaurarsi tra un'impresa ed un'altra.

Queste specificazioni sono volte ad escludere dalla definizione imprese non definibili come imprese di piccole o medie dimensioni. Le categorie sono le seguenti:

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• impresa autonoma: si definisce autonoma l'impresa che non rientra nelle definizioni di impresa associata ed impresa collegata, quindi se l’impresa è completamente indipendente o ha una o più partecipazioni di minoranza (ciascuna inferiore al 25%) con altre imprese;

• impresa associata: se la partecipazione con altre imprese arriva almeno al 25%, ma non supera il 50%, si considera che il rapporto sia tra imprese associate;

• impresa collegata: se la partecipazione con altre imprese supera il tetto del 50%, le imprese sono considerate collegate11.

Una volta ricondotta l'impresa ad una di queste categorie, sarà necessario valutare la rispondenza ai seguenti criteri12:

• medie imprese: numero di effettivi fino a 250, fatturato fino a 50 milioni di euro, totale di bilancio fino a 43 milioni di euro; • piccole imprese: numero di effettivi fino a 50, fatturato fino a

10 milioni di euro, totale di bilancio fino a 10 milioni di euro; • microimprese13: numero di effettivi fino a 10, fatturato fino a 2

milioni di euro, totale di bilancio fino a 2 milioni di euro.

1.1.4.1 – Il criterio degli effettivi.

Nella nozione europea di effettivi, così come intesa dalla Commissione Europea ai fini dell'applicazione dei criteri da essa elaborati nella Raccomandazione 2003/361/CE, rientra sia il personale a tempo pieno che il personale a tempo parziale, su base temporanea e stagionale14.

11 Art.3, Raccomandazione 2003/361/CE del 6 Maggio 2003. 12 Art.2, Raccomandazione 2003/361/CE del 6 Maggio 2003.

13 Il concetto di microimpresa rientra nell'abbreviazione PMI (Piccole e Medie Imprese). 14 Art. 5, Allegato Raccomandazione 2003/361/CE: “Gli effettivi corrispondono al numero di unità lavorative-anno (ULA), ovvero al numero di persone che, durante tutto l'anno in questione, hanno lavorato nell'impresa o per conto di tale impresa a tempo pieno. Il lavoro dei dipendenti che non hanno lavorato tutto l'anno oppure che hanno lavorato a tempo parziale, a prescindere dalla durata, o come lavoratori stagionali, è contabilizzato in frazioni di ULA. Gli effettivi sono composti: a) dai dipendenti che lavorano nell'impresa; b) dalle persone che lavorano per l'impresa, ne sono dipendenti e, per la legislazione nazionale, sono considerati come gli altri dipendenti dell'impresa; c) dai proprietari gestori; d) dai soci che svolgono un'attività regolare nell'impresa e

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In particolare, sono ricompresi nella nozione in esame: • i dipendenti;

• i soggetti che svolgono attività lavorativa nei confronti dell'impresa essendo equiparati, secondo la normativa nazionale, ai veri e propri dipendenti (ad esempio i lavoratori su base temporanea o ad interim);

• i proprietari-gestori;

• i soci che beneficiano di vantaggi finanziari offerti da essa o che svolgono un'attività regolare nell'impresa.

Per quanto concerne le definizioni di lavoro dipendente, lavoro temporaneo e via dicendo, è necessario rifarsi alla normativa nazionale riferibile all'impresa.

Nel nostro ordinamento giuridico, in particolare, troviamo la definizione di “lavoratore subordinato” all'art. 2095 c.c.: “E'

prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”.

Gli elementi essenziali per l'individuazione della categoria sono quindi la retribuzione, la collaborazione, la prestazione di lavoro e la sottoposizione alle direttive dell'imprenditore.

Per quanto concerne quest ultimo elemento, vi sono casi (per esempio nell'ipotesi del lavoro intellettuale) in cui è difficilmente apprezzabile e, per questa ragione, la Corte di Cassazione si è prounciata più volte; ad esempio: “quando l'elemento

dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo, dato beneficiano di vantaggi finanziari da essa forniti. Gli apprendisti con contratto di apprendistato o gli studenti con contratto di formazione non sono contabilizzati come facenti parte degli effettivi. La durata dei congedi di maternità o parentali non è contabilizzata.”

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dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, elementi che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente con indizi probatori della subordinazione” (Cass. n. 9252/2010).

In tale pronuncia emerge come possano valutarsi, quando l'elemento della direzione non è facilmente apprezzabile, i criteri sussidiari della collaborazione, della continuità delle prestazoni, dell'osservanza di un orario determinato, della retribuzione secondo cadenze fisse, del coordinamento dell'attività del lavoratore all'assetto organizzativo dell'impresa, dell'assenza di struttura imprenditoriale in capo al lavoratore.

Si escludono invece dal concetto di effettivi: • gli apprendisti15;

• gli studenti con contratto di formazione professionale; • i dipendenti in congedo di maternità o parentale.

1.1.4.2 – I criteri del fatturato e del totale di bilancio.

Il fatturato annuo viene determinato calcolando il reddito che un’impresa ha prodotto durante l’anno di riferimento mediante la vendita di prodotti e la prestazione di servizi che ricadono nelle attività ordinarie dell’impresa, dopo aver dedotto gli eventuali oneri.

Il fatturato non comprende l’imposta sul valore aggiunto (IVA) o altre imposte indirette16.

Invece, quando si parla di totale di bilancio annuo, si intende il valore dei principali attivi d'impresa.

15 Art. 41 comma 1 e comma 2, Dlgs. 15 Giugno 2015, n°81: “L'apprendistato e' un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani. Il contratto di apprendistato si articola nelle seguenti tipologie: a) apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore; b) apprendistato professionalizzante; c) apprendistato di alta formazione e ricerca.”

16 Art. 28 Direttiva 78/660/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1978 “L’importo netto del volume d’affari comprende gli importi provenienti dalla vendita di prodotti e dalla prestazione di servizi rientranti nelle attività ordinarie della società, diminuiti degli sconti concessi sulle vendite nonché dell’imposta sul valore aggiunto e delle altre imposte direttamente connesse con il volume d’affari”.

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Nel nostro ordinamento troviamo, tra le scritture contabili che compongono il bilancio di esercizio, lo stato patrimoniale, che riporta la situazione patrimoniale dell'impresa riferibile al momento della chiusura dell'esercizio.

L'attivo a cui si riferisce la normativa europea in esame è proprio quello contenuto all'interno dello Stato Patrimoniale, così come schematizzato all'interno dell'articolo 2424 c.c.17.

1.2 – Il fenomeno dell'internazionalizzazione.

1.2.1 – La globalizzazione.

La globalizzazione è “un processo attraverso il quale mercati e

produzione nei diversi paesi diventano sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento di capitale e tecnologia”18.

Spesso la globalizzazione viene associata al fenomeno della liberalizzazione di merci e capitali in quanto, in mancanza, non sarebbe stata possibile un'efficace integrazione non solo economica ma anche sociale e culturale tra le diverse aree del mondo.

Secondo alcuni studiosi il fenomeno della globalizzazione sarebbe iniziato con la scoperta dell'America (1492), secondo altri con la Rivoluzione Industriale di fine 1700 o durante il periodo antecedente la prima guerra mondiale (primi anni del 1900).

Vista la difficoltà nell'individuare un momento preciso di inizio del fenomeno, è preferibile osservare il momento in cui la globalizzazione ha subìto una notevole accellerazione: durante gli anni '70 del secolo scorso.

Gli eventi principali che hanno segnato l'inizio di questa fase sono stati:

17 Per il contenuto dello Stato Patrimoniale secondo la normativa italiana, Art. 2424 c.c. 18 Definizione OCSE (Organizzazione per la coesione e lo sviluppo economico).

(17)

• La dichiarazione di liberalizzazione dei movimenti di capitali, effettuata dall'allora Presidente degli Stati Uniti d'America Richard Nixon (1971);

• La politica Reagan – Tatcher (anni '80) che ha comportato una serie di liberalizzazioni, oltre a sgravi fiscali;

• La caduta del muro di Berlino, che ha aperto i mercati dell'Est al libero mercato (1989).

Insieme a questi accadimenti, è sicuramente stato complice dell'accellerazione il progresso nel settore delle comunicazioni come conseguenza delle innovazioni tecnologiche.

Alcuni autori hanno definito il mercato liberalizzato come “villaggio globale”19 ove, senza impedimenti, è possibile raggiungere

chiunque ed effettuare qualsiasi transazione finanziaria, anche dall'altra parte del mondo.

Come in ogni fenomeno, esistono anche in riferimento alla globalizzazione caratteri ed effetti positivi e negativi.

Dal punto di vista negativo, si riscontra una libertà di scelta, per le società multinazionali, del mercato più conveniente e il più lontano possibile dagli occhi del fisco; ciò comporta inevitabilmente la drastica diminuzione, se non la eliminazione, della competitività dei piccoli produttori, distributori e venditori nonché la distribuzione del capitale nelle mani di pochi operatori.

Altro importante svantaggio si riscontra nel mondo del lavoro: si assiste, infatti, alla riduzione marcata della domanda di lavoro a bassa qualifica con corrispondente aumento della domanda di lavoro altamente specializzato, caratterizzato da un più elevato salario.

Inoltre, la globalizzazione favorirebbe le scelte di trasferimento della produzione dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, ove i diritti umani non sono garantiti e i salari sono più bassi: tutto ciò senza reali benefici per la popolazione (anzi, provocando squilibri nell'economia locale).

L'impatto in tal senso sul mercato del lavoro è considerato uno

19 M. McLuhan, "Gli strumenti del comunicare", originale: "Understanding Media: The Extensions of Man", 1964.

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dei principali responsabili degli incrementi di disuguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri20.

Il potere delle multinazionali è molto elevato, tanto che le loro scelte di mercato influenzano le scelte politiche, in modo tale che i loro interessi economici siano sempre tutelati.

Esempio dell'enorme potenza delle multinazionali, è stata la creazione della World Trade Organization (WTO) nel 1995, che in passato prendeva il nome di General Agreement on Tarifs and Trade (GATT).

La WTO consiste in un insieme di accordi nati insieme alle istituzioni che prendono il nome di “World Bank Group”21 e

“International Monetary Found”22 durante la Conferenza di Bretton

Woods del 1944 (infatti sono c.d. “Istituzioni di Bretton Woods”).

Scopo di queste istituzioni era regolamentare l'economia internazionale; in particolare il Fondo Monetario Internazionale naque per garantire la stabilità dei tassi di cambio, mentre la Banca Mondiale era volta alla ricostruzione e allo sviluppo, conseguentemente alla fine della seconda guerra mondiale.

Al di là degli intenti iniziali, le istituzioni in esame ebbero una trasformazione a seguito delle riforme del sistema del commercio internazionale: divennero istituzioni sempre più indirizzate al soddisfacimento degli interessi economici degli investitori occidentali nel mondo, nonché, non molto tempo dopo, degli investitori globali.

Le multinazionali, a fronte di un mercato divenuto ormai globale ad opera dei processi di liberalizzazione dei mercati finanziari, sono state fin da subito indubbiamente più agevolate dal fatto che i loro comportamenti non erano regolamentati da alcuna istituzione; al contrario le piccole e medie imprese subiscono il notevole divario tra

20 R. Vittori “Export, Delocalizzazione, internazionalizzazione, un'opportunità delle aziende italiane per superare la crisi”, pag. 36, Milano, 2013.

21 “The World Bank is a vital source of financial and technical assistance to developing countries around the world. We are not a bank in the ordinary sense but a unique partnership to reduce poverty and support development. The W.B.G. comprises five institutions managed by their member countries” (http://www.worldbank.org/en/about/what-we-do).

22 “The IMF's primary purpose is to ensure the stability of the international monetary system— the system of exchange rates and international payments that enables countries (and their citizens) to transact with each other. The Fund's mandate was updated in 2012 to include all macroeconomic and financial sector issues that bear on global stability.” (http://www.imf.org/external/about.htm).

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lo Stato, rimasto nazionale, ed il mercato divenuto globale.

Il risultato è quindi una perdita di sovranità in capo allo Stato, in favore delle multinazionali.

Anziché, quindi, avere l'effetto e lo scopo di ridurre le differenze tra gli Stati del mondo, come auspicato da numerosi autori dell'epoca, la globalizzazione è finita per aumentarle: il dominio del mercato globale resta nelle mani della c.d. Triade composta da Stati Uniti d'America, Giappone e Europa, lasciando escluse zone come, ad esempio, l'Africa23.

Esaminando il fenomeno dal punto di vista del mercato interno, anche gli imprenditori italiani sono necessariamente tenuti ad adeguarsi al processo irreversibile di liberalizzazione dei mercati, attraverso nuovi approcci di marketing, nuove strutture organizzative, nuove conoscenze dei mercati esteri e, quindi, nuove strategie di mercato.

Gli obiettivi di adeguamento in esame sono perseguibili attraverso un processo di “internazionalizzazione”, definito ed analizzato nei successivi paragrafi.

1.2.2 – L'internazionalizzazione mercantile e produttiva.

Con il termine “internazionalizzazione” si intende il fenomeno dell'espansione d'impresa al di fuori del mercato nazionale, in particolare in mercati esteri ritenuti più proficui.

Il processo di internazionalizzazione può essere aggiuntivo

23 “Così nel 2000 il flusso di investimenti esteri concentrato in USA, Europa e Giappone è stato pari all'80% del totale dei flussi, mentre i Paesi in via di sviluppo hanno nello stesso anno raggiunto il livello più basso dal 1990, con una quota di investimenti esteri persino più bassa rispetto alla loro quota dell'export mondiale e alla loro quota sul totale degli investimenti interni. Considerando inoltre che gli investimenti diretti esteri sono per la maggior parte, oltre il 90%, finalizzati ad operazioni di fusione e acquisizione, emerge con chiarezza come nel breve periodo non implichino la creazione di nuove imprese ma solo il controllo di imprese già esistenti e la creazione di concentrazioni oligopolistiche”. D. Bianchi, “La Globalizzazione: effetti economici, sociali, ambientali” , 2002.

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rispetto alla produzione locale oppure sostitutivo, nell'ipotesi in cui i prodotti locali non risultino più competitivi in termini di costo.

In passato il termine era interpretato in modo meno ampio rispetto ad oggi, riferendosi esclusivamente alle imprese esportatrici.

Si parlava quindi di “internazionalizzazione mercantile” articolata in esportazione diretta (vendita del prodotto all'estero) e indiretta (invio del prodotto ad importatori esteri affinchè lo collochino a loro volta presso punti vendita locali).

Solo in una fase storicamente successiva emergono nuove forme, chiamate di “internazionalizzazione produttiva”.

Iniziamo dall'analisi dell'internazionalizzazione produttiva. Tra le principali forme produttive di internazionalizzazione troviamo gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) o Foreign Direct Investments (FDI): “sono definiti IDE gli investimenti internazionali volti

all’acquisizione di partecipazioni "durevoli" (di controllo, paritarie o minoritarie) in un'impresa estera (mergers and aquisitions) o alla costituzione di una filiale all'estero (investimenti greenfield), che comporti un certo grado di coinvolgimento dell’investitore nella direzione e nella gestione dell’impresa partecipata o costituita”24.

Così come si nota dalla definizione poc'anzi menzionata, gli investimenti diretti esteri implicano il coinvolgimento di quote azionarie nell'investimento e per questo motivo vengono definiti “equity” (attività finanziaria mediante la quale un investitore istituzionale rileva quote di una società definita target (ossia obiettivo) sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all'interno della target).

Secondo le teorie tradizionali le imprese tendono a scegliere questo metodo dal momento in cui ritengono di poter ottenere una

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serie di vantaggi25, tra cui:

ownership specifific competitive advantages: vantaggi legati al diritto di proprietà, i quali precludono l'accesso al mercato produttivo di altre imprese26;

locations advantages: vantaggi legati alla scelta del mercato in cui si intende investire (per esempio condizioni di mercato come il basso costo dei fattori);

internalisation advantages: acquisizione di fasi produttive a monte o a valle che precedentemente erano assegnate ad un'impresa estera, tramite l'acquisizione dell'impresa fornitrice. Queste teorie sono tuttavia applicabili solamente agli IDE “verticali”, inerenti alla delocalizzazione di fasi della produzione a monte e a valle del proprio stadio produttivo, avvantaggiandosi delle differenze di costo.

È servita quindi una diversa concezione degli IDE “orizzontali”, riferibili, invece, alla delocalizzazione di una medesima fase produttiva.

Secondo le teorie riferibili agli IDE orizzontali, i vantaggi anziché essere legati alla differenziazione dei prodotti, sono legati alla “prossimità” e alla “concentrazione”27:

• vantaggi legati alla prossimità: derivano dalle economie di scala28, in relazione a cui il “capitale delle conoscenze” o

25 Approccio teorico di Dunning “OLI: ownership, location, internalisation”, 1977. 26 Brevetti ed altri beni immateriali, tra cui il marchio e l'avviamento.

27 S.L. Brainard 1993.

28 Economie di scala: “diminuzione dei costi medi di produzione in relazione alla crescita della dimensione degli impianti e sono quindi realizzate dalle grandi imprese per ragioni organizzative e tecnologiche. In relazione a un dato livello di dimensione degli impianti, la riduzione dei costi unitari al crescere della quantità prodotta può realizzarsi in conseguenza sia della maggiore efficienza della direzione e delle maestranze, sia della riduzione e dispersione dei rischi, sia della maggiore facilità di finanziamento e della possibilità di un più largo ricorso alla pubblicità. Inoltre le economie di s. sono connesse con la ricerca di migliori metodi di produzione e con lo sviluppo di nuovi prodotti. Alle e. di s. fanno però riscontro anche le diseconomie di scala, ossia le difficoltà crescenti di organizzazione e di amministrazione collegate con l'aumento delle dimensioni delle imprese.”, Enciclopedia Treccani, 2012.

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“knowledge capital” sarebbe trasferibile alle imprese affiliate consentendo una maggiore vicinanza alle imprese estere;

• vantaggi legati alla concentrazione: derivano dalle tradizionali economie di scala per le quali sarebbe più vantaggioso concentrare, appunto, l'apparato produttivo in un'unica località e fare poi ricorso all'esportazione.

Si ritiene che solo ed esclusivamente qualora i vantaggi di prossimità superino quelli di concentrazione sia conveniente procedere con un IDE orizzontale.

Ciò accade, ad esempio, quando gli “assets immateriali” (quindi l'insieme del know-how d'impresa) apportano benefici superiori rispetto ai costi da sostenere per la creazione di un'affiliata estera.

Con assets immateriali si intendono tutte le variabili di tipo non contabile, dunque non rappresentate nei bilanci, che creano nel tempo valore per gli azionisti.

Sono riconducibili a tre categorie:

capitale umano: l’insieme di conoscenze (know-how) e di relazioni legate alla personalità e alla formazione professionale di chi lavora nell’azienda;

• capitale strutturale: l’insieme di regole e meccanismi, scritti e non scritti, che permettono all’azienda di funzionare;

• capitale relazionale: l'immagine dell’azienda percepita dal mondo esterno, quindi azionisti, clienti, fornitori, dipendenti e così via29.

Qualora questi assets apportino effettivamente un vantaggio economico sostanzialmente superiore ai costi legati all'investimento rivolto alla creazione di un'affiliata estera si può parlare di convenienza della strategia.

(23)

Oltre agli investimenti diretti esteri, le piccole e medie imprese possono scegliere di stipulare accordi di cooperazione o partnership come altra forma di internazionalizzazione produttiva.

Tali accordi si articolano in varie tipologie: licensing,

franchising, sub-appalto e joint-venture.

“L’espressione “licensing” indica l’attività di concedere (licensing out) ovvero di prendere (licensing in) in “locazione” un diritto di Proprietà Industriale o Intellettuale (marchio, brevetto, know-how, diritto d’autore, ecc.). Il contratto di licenza in particolare è l’accordo con il quale il titolare di uno di questi diritti (“concedente”) consente che l’altro contraente (“licenziatario”) svolga un’attività che, in mancanza di licenza, costituirebbe una violazione dei suoi diritti di esclusiva30”.

Questo accordo risulta utilizzato in modo particolarmente diffuso all'estero ma molto meno in Italia dalle nostre piccole e medie imprese, come opportunità di crescita per i titolari di diritti proprietà intellettuali e industriali.

In alternativa alla cessione del diritto di proprietà, viene offerta al titolare la monetizzazione del valore del suo diritto: concedendo licenze a terzi, il titolare, che utilizza il diritto nella propria impresa, potrà fruire degli incrementi reddituali legati a questa scelta, oltre che avere la possibilità di presidiare determinate aree geografiche o settori di mercato che potrebbe non essere altrimenti in grado di soddisfare con la propria attività (senza escludere il vantaggio della pubblicizzazione del marchio).

Il franchising è un contratto atipico di derivazione americana, con cui il franchisor (concedente o altro affiliato) concede al

franchisee (affiliato) il diritto di vendere i propri prodotti utilizzando

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il marchio, i segni distintivi ovvero i brevetti di invezione, il

know-how e l'assistenza del franchisor, attraverso la corresponsione di

una somma periodica finalizzata all'accesso alla catena, sommata ad un canone ulteriore proporzionale al volume d'affari (royalty)31.

A livello normativo non vi è un riconoscimento formale, ma una definizione la troviamo all'interno del D.M. n. 295 del 28-05-2001 che definisce il contratto di franchising: ""franchising" indica un accordo

che comporta la licenza di un insieme di diritti di proprietà immateriale che riguardano in particolare marchi o insegne e know-how, per l'uso e la distribuzione di beni o servizi. Oltre alla licenza dei diritti di proprietà immateriale, l'affiliante ("franchisor") fornisce all'affiliato ("franchisee"), durante il periodo di vigenza dell'accordo, un'assistenza tecnica o commerciale: licenza e assistenza formano parte integrante della formula commerciale oggetto del franchising".

Più di recente, in particolare nel 2001, il Comitato Nazionale italiano della Camera di Commercio Internazionale (ICC), dopo anni di lavoro di un gruppo di giuristi provenienti da vari Paesi quali Austria, Canada, Colombia, Francia, Germania, Giappone, Paesi Bassi, Svezia e Stati Uniti (insieme a Silvia e Fabio Bortolotti per l'Italia), ha pubblicato una guida denominata “Using Franchising to

Take Your Business International. ICC strategies and guidance for master franchising area development and other arrangements”.

Questa guida è volta a porre l'operatore (che abbia già una rete di franchising in Italia, generalmente) nelle condizioni di conoscere lo strumento del franchising internazionale per una corretta gestione delle affiliate estere.

Esistono tre forme di franchising internazionale: il Master

Franchise Agreement, l’Area Development Agreement e l’Area 31 A. Ludovici: “Il contratto di franchising: nozioni generali”, 2002.

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Representative Agreement.

Scegliendo il contratto di master franchise, il franchisor nomina un master franchisee che stipuli sub-contratti con i franchisees del territorio, assumendo nei confronti dei sub-franchisees della sua zona il medesimo ruolo che svolge il franchisor nel rapporti con i

franchisees del proprio territorio.

Non è escluso che il master franchisor gestisca propri punti vendita.

Con l'Area development agreement, invece, l’area developer crea un certo numero di punti vendita in un determinato territorio, mantenendo un rapporto diretto tra i punti vendita ed il franchisor. Accade frequentemente che l’area developer stipuli un contratto con il franchisor per per ciascuno dei punti vendita che ha creato.

L’area representative agreement, invece, si pone come intermediario tra il franchisor e franchisees in quanto ha la funzione di seguirli in nome e per conto del franchisor.

Una volta definite le nozioni e le tipologie contrattuali, la guida ICC analizza i problemi collegati alla scelta di espandersi all’estero: opportunità della scelta, rischi, tempistica, selezione del paese, individuazione dei tipo contrattuale più adatto32.

Passando alla individuazione del subappalto, la Commissione europea, nella sua comunicazione del 18 dicembre 1978, lo definì nel seguente modo: “un'impresa detta “committente” incarica,

impartendo proprie direttive, un’altra impresa, il “subfornitore”, di fabbricare prodotti, fornire servizio eseguire lavori destinati al committente o eseguiti per conto di questi”.

Ad oggi invece troviamo la definizione di sub-appalto nel

32 F. Bortolotti: “Come “portare” all’estero una rete di franchising? La guida ICC sull'internazionalizzazione attraverso il franchising”.

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nuovo Codice degli Appalti, Dlgs 19 Aprile 2016 n°50, in particolare nell'articolo 105 dello stesso.

Al comma 1 dell'art. 105, il Codice afferma quanto segue: “i

soggetti affidatari dei contratti di cui al presente codice di norma eseguono in proprio le opere o lavori, i servizi, le forniture compresi nel contratto” mentre al comma 2 dello stesso articolo: “il subappalto è il contratto con il quale l'appaltatore affida a terzi l'esecuzione di parte delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto di appalto. Costituisce comunque subappalto qualsiasi contratto avente ad oggetto attività del contratto di appalto ovunque espletate che richiedono l'impiego di manodopera (...)”.

Il comma 1 pone la scelta del sub-appalto come eccezione: questo comporta che viene posta dal Codice degli Appalti come regola l'esecuzione diretta da parte dell'appaltatore.

Inoltre la normativa pone il limite secondo cui il sub-appalto non può superare il 30% del valore dell'appalto nel suo complesso.

Tale strumento, in termini generali, apporta vantaggi sia al subappaltante che al subappaltatore; al primo in quanto non è tenuto nè ad acquistare materiale nè ad assumere personale, al secondo in quanto vede garantito un determinato livello di ordini.

Il subappaltatore, tuttavia, vede una serie di svantaggi legati alla condizione di dipendenza economica e commerciale nei confronti del subappaltante.

Il sub-appalto diventa di carattere internazionale quando l’impresa che internazionalizza (subappaltatore) attribuisce all'impresa straniera (subappaltante) ordini relativi alla produzione di parti o componenti o all’assemblaggio di un prodotto, il quale sarà poi venduto dall’appaltatore.

(27)

localizzate in Stati in cui i costi di produzione e assemblaggio sono inferiori.

Con il termine joint-venture si intendono alleanze strategiche

con cui le imprese creano un legame tra loro nell'ottica della realizzazione di un progetto comune, a tempo determinato o indeterminato, sfruttando know-how, capitale e sinergie di ciascuna di esse.

Lo scopo è quindi quello di crescere nel mercato in cui già operano oppure entrare in un nuovo mercato, attraverso l'unione non solo di risorse ma anche di competenze e, soprattutto, la ripartizione dei rischi.

La joint venture può assumere sia la forma societaria (joint

venture corporation) sia la forma contrattuale.

Nel primo caso i partecipanti, detti co-ventures, sono responsabili limitatamente a quanto versato e si ripartiranno costi e utili33; la normativa societaria applicabile sarà quella relativa allo

Stato in cui la nuova società avrà sede, quindi, la scelta dello Stato stesso, dipenderà dalla normativa in materia di investimenti stranieri (verificando, ad esempio, se esistono divieti o restrizioni che operano nel mercato oggetto di accordo).

Nel secondo caso, invece, verrà sottoscritto un accordo contrattuale da cui scaturiranno gli oneri connessi al progetto in un'ottica di ripartizione degli utili34, senza creare un autonomo centro

di profitto o di rischio o una società terza.

In quest ultimo caso spesso le parti scelgono, per meglio gestire la collaborazione, di creare un management committee costituito dai rappresentanti dei partner per la gestione operativa del progetto; dal

33 Esempio: la Sony Ericsson, nata dal gruppo dellìelettronica giapponese Sony e la svedese Ericsson (2001).

(28)

momento in cui si tratterà di joint ventures internazionali sarà necessario individuare nel contratto la legge applicabile e scegliere una modalità di risoluzione delle controversie in caso di inadempimento.

Il contratto di joint venture viene detto “a formazione

progressiva” vista la lunghezza delle trattative durante le quali spesso

vengono raggiunte intese pre-contrattuali.

Ad oggi troviamo due fenomeni di cooperazione riferibile alla

joint-venture, ossia: la cooperazione occasionale, per l'esecuzione di

un singolo affare (ad esempio, la realizzazione di un appalto) attraverso la stipula di un contratto o (più raramente) con la costituzione di una società terza; e la incorporated joint venture in cui vengono fatte rientrare tutte le cooperazioni tra imprese non episodiche che vengono realizzate con la costituzione e gestione di una società comune controllata generalmente da due o più società madri e volte ad un determinato obiettivo economico.

Quindi si può dire che con lo strumento contrattuale si tende a porre in essere joint ventures temporanee, volte alla realizzazione di un singolo progetto economico, mentre con lo strumento societario si punta a cooperazioni durature, a tempo indeterminato.

In Europa la nuova figura contrattuale è stata immediatamente recepita, dando vita ad istituti particolari, quali l’association

momentanè belga, o l’Arbeitsgemeinschaft tedesca e si nota come

viene oggi utilizzato in un’accezione assai ampia, riferendola a qualsiasi iniziativa congiunta da parte di più imprese.

In Italia, dove la realizzazione di tali iniziative congiunte viene perseguita tradizionalmente attraverso forme giuridiche diverse, fra le quali, oltre ai consorzi, attraverso istituti più recenti, quali le Associazioni temporanee di imprese ed i GEIE, non esiste una forma

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giuridica assimilabile alla joint-venture, e l'utilizzo di tale espressione è ormai di uso comune.

La stessa giurisprudenza già da tempo ricorre al termine

joint-venture per qualificare quelle forme di associazione di imprese

non riconducibili alle forme di aggregazione istituzionalizzate nel nostro ordinamento giuridico; lo confermano alcune pronunce della giurisprudenza di merito e di legittimità che risalgono alla metà degli anni ‘9035.

1.2.3 – Le interpretazioni teoriche del fenomeno dell'internazionalizzazione.

Le prime teorizzazioni del fenomeno dell'internazionalizzazione sono state mosse dagli autori delle teorie oligopolistiche dei mercati.

Tra i principali esponenti troviamo lo statunitense Raymond Vernon (1913-1999), professore della Harvard Business School (1959-1978) e della Harvard University (dal 1978) che elaborò la teoria del “ciclo della vita del prodotto”.

La teoria in esame si basa su un'idea di relazione tra il ciclo della vita del prodotto, le caratteristiche degli Stati e l'espansione internazionale delle imprese per spiegare le variabili che influenzano gli scambi commerciali internazionali; sviluppò un concetto microeconomico per spiegare le operazioni estere delle multinazionali americane nel periodo post-bellico.

La capacità delle imprese di aprirsi verso un commercio internazionale dipende, secondo Vernon, oltre che dalla dotazione di risorse finanziarie e capitale umano, anche dalla loro abilità nel

35 D. Desiderio, “Le “Joint Ventures” e le nuove forme di aggregazione di imprese”, Studio Desiderio-Avellino.

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realizzare innovazioni di processo o di prodotto attraverso la tecnologia.

Di notevole importanza nella sua teoria era anche il concetto per cui la capacità delle imprese di organizzare gli assets materiali ed immateriali dipendesse dal paese d’origine (country specific).

In particolare, secondo Vernon le imprese statunitensi avevano un vantaggio competitivo dovuto all'elevato reddito pro-capite dei consumatori, all'abbondante capitale e all'alto costo del lavoro oltre che alla loro capacità innovativa, superiorità determinata da alcune caratteristiche strutturali del paese come le istituzioni politico-economiche, i meccanismi di mercato e la disponibilità di risorse.

Vernon esplica la sua teoria attraverso alcune fasi, necessarie all'introduzione di un prodotto nel mercato inernazionale:

• la fase introduttiva, in cui il prodotto non è ancora standardizzato e l'ottimizzazione dei costi non è ancora un problema che si pone l'impresa. Ciò che conta in questa fase è la sperimentazione di vari modelli e delle materie prime per la ricerca del prodotto ottimale da sviluppare nella fase successiva;

la fase di sviluppo, in cui avviene la produzione standard del bene e la diffusione su larga scala (produzione di economie di scala). In questa fase l'impresa inizia a porsi il problema dei costi, in quanto la domanda cresce rapidamente, si ricercano e affermano economie di scala, vengono meno le incertezze sul prodotto. Quindi il produttore deciderà di esportare, dal momento in cui i costi di trasporto sommati ai costi marginali di produzione risultino inferiori ai costi di produzione direttamente nel mercato estero; se invece risultassero superiori,

(31)

a quel punto diverrebbe conveniente produrre all'estero e quindi il produttore opterà per l'internazionalizzazione produttiva. • la fase della maturità, in cui il prodotto nel mercato interno si

stabilizza, mentre cresce la sua produzione nel mercato estero tanto da spingere i produttori locali ad entrare nel mercato (processo imitativo). L'impresa innovatrice dovrà mantenere la quota di mercato, e per farlo dovrà introdursi in fasi diverse, ad esempio la commercializzazione, l'assistenza e la manutenzione;

• la fase del declino, in cui la domanda del prodotto non è più in crescita e il prodotto risulta tecnologicamente obsoleto in quanto perfettamente accessibile agli imitatori locali e, conseguentemente, l'unico mercato di espansione possibile è quello dei paesi in via di sviluppo (a meno che l'impresa non decida di abbandonare del tutto il mercato del prodotto)36.

Al contrario di Vernon, Stephen Hymer (1934-1974), economista canadese, considera non tanto il singolo prodotto, quanto l'impresa, all'interno dello studio del processo di internazionalizzazione.

In particolare, le fasi sono le seguenti:

• prima fase: l'impresa cresce nel contesto nazionale attraverso concentrazioni37 (aumento delle quote di mercato, acquisizioni e

36 Definizione di “Ciclo di vita del prodotto”: Dizionari Simone (http://www.simone.it/newdiz/? action=view&id=506&dizionario=6).

37 Regolamento CE, 139/2004, art. 3 – Definizione di concentrazione: “1. Si ha una concentrazione quando si produce una modifica duratura del controllo a seguito: a) della fusione di due o più imprese precedentemente indipendenti o parti di imprese; oppure b) dell'acquisizione, da parte di una o più persone che già detengono il controllo di almeno un'altra impresa, o da parte di una o più imprese, sia tramite acquisto di partecipazioni nel capitale o di elementi del patrimonio, sia tramite contratto o qualsiasi altro mezzo, del controllo diretto o indiretto dell'insieme o di parti di una o più altre imprese. 2. Si ha controllo in presenza di diritti, contratti o altri mezzi che conferiscono, da soli o congiuntamente, e tenuto conto delle circostanze di fatto o di diritto, la possibilità di esercitare un'influenza determinante sull'attività di un'impresa; trattasi in particolare di: a) diritti di proprietà o di godimento sulla totalità o su parti del patrimonio di un'impresa; b) diritti o contratti che conferiscono un'influenza determinante sulla composizione, sulle deliberazioni o sulle decisioni degli organi di un'impresa. 3. Il controllo è acquisito dalla persona o dall'impresa o dal gruppo di persone o di imprese: a) che siano titolari dei diritti o beneficiari dei contratti suddetti; o b) che, pur non essendo titolari di tali diritti o beneficiari di tali contratti, abbiano il

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fusioni) che consentono profitti sempre più elevati;

• seconda fase: il processo di concentrazione locale non può più proseguire (essendo residuate poche grandi imprese) e il profitto elevato conseguito nella prima fase può essere utilizzato per investimenti esteri, per estendere la crescita anche al di fuori del contesto interno.

Secondo Hymer, quindi, l'internazionalizzazione non è altro che uno dei modi a disposizione dell'impresa per espandersi e conseguire un profitto.

Entrambe le teorie (Vernon e Hymer) collegano il fenomeno dell'internazionalizzazione ad una scansione logica, che ha inizio dal vantaggio iniziale dell'impresa, e prosegue con lo sfruttamento del vantaggio e quindi un allargamento dell'impresa.

I punti negativi di queste visioni oligopolistiche sono dati dal fatto che un determinato settore può non essere caratterizzato dalla presenza di un oligopolio nazionale, bensì potrebbe essere costituito da un oligopolio internazionale che genera processi di concorrenza oligopolistica attraverso Investimenti Diretti Esteri che, anziché creare opportunità a livello extra-territoriale, finiscono per produrre deterrenti contro aggressioni ai mercati locali.

Approccio differente dagli autori sopra citati è quello di Dunning che, nel 1981, introduce nel contesto delle teorie dell'internazionalizzazione alcune variabili legate alle caratteristiche macroeconomiche degli Stati.

Per questo scopo, l'autore prevede una griglia di tre vantaggi a cui tende un'impresa che vuole internazionalizzarsi (come già detto sopra):

ownership specifific competitive advantages: vantaggi legati al

potere di esercitare i diritti che ne derivano. 4. La costituzione di un'impresa comune che esercita stabilmente tutte le funzioni di una entità economica autonoma, è considerata come una concentrazione ai sensi del paragrafo 1, lettera b)”.

(33)

diritto di proprietà, i quali precludono l'accesso al mercato produttivo di altre imprese38;

locations advantages: vantaggi legati alla scelta del mercato in cui si intende investire (per esempio condizioni di mercato come il basso costo dei fattori);

internalisation advantages: acquisizione di fasi produttive a monte o a valle che precedentemente erano assegnate ad un'impresa estera, tramite l'acquisizione dell'impresa fornitrice. Questo approccio è notevolmente innovativo e utile per la comprensione delle espansioni di impresa all'estero.

Al contempo, tuttavia, risulta anche statico, in quanto non analizza gli sviluppi dinamici del fenomeno, basandosi su vantaggi dati: ad esempio la capacità dell'impresa di produrre e commercializzare all'estero può diventare fonte di vantaggi competitivi mentre, alcune volte, è il vantaggio competitivo che genera i vantaggi da internazionalizzazione.

1.2.4 – La delocalizzazione.

La delocalizzazione non è un sinonimo di internazionalizzazione, a differenza di quanto si possa pensare: questo paragrafo vuole spiegare la differrenza tra i due fenomeni.

La delocalizzazione consiste nel trasferimento delle unità produttive dal mercato interno verso i Paesi in cui i costi dei fattori produttivi sono inferiori, soprattutto il costo relativo al lavoro.

Il principale mercato di riferimento continua ad essere quello originario, e non anche il mercato nel quale si è trasferita la produzione.

(34)

Quest'ultima affermazione ci consente di individuare la prima grande differenza tra delocalizzazione e internazionalizzazione; con internazionalizzazione, infatti, si intendono quei processi volti alla conquista di crescenti quote di mercato nei paesi nei quali si è scelto di investire, e non alla riduzione dei costi mantenendo come obiettivo il mercato interno.

Il processo di internazionalizzazione si contraddistingue inoltre dalla delocalizzazione in quanto caratterizzato da precise strategie di ingresso nei mercati esteri.

Chiarita la differenza tra i due processi, è possibile approfondire il fenomeno della delocalizzazione: le ragioni della scelta di delocalizzare sono tutte strettamente connesse alla convenienza economica, pertanto si sceglierà, come Stato destinatario della delocalizzazione, quello in cui le regole, gli usi e le consuetudini consentono realizzabile in modo meno complesso e dispendioso il progetto di delocalizzazione.

In genere la elasticità delle regole, è strettamente connessa a vere e proprie politiche economiche, poste in essere dallo Stato per attirare investimenti diretti esteri.

Il fenomeno, a livello storico, prende piede dal momento in cui iniziano a diminuire gli ostacoli al commercio globale, anche se in Italia ci fu uno sviluppo tardivo e modesto rispetto agli altri Paesi europei.

In particolare, ancora più tardivo è stato l'inserimento nel processo di delocalizzazione delle piccole e medie imprese italiane, viste le notevoli risorse necessarie a livello strategico, finanziario, manageriale, logistico e organizzativo39.

Altro ostacolo alla delocalizzazione per le piccole e medie

39 R. Vittori, “Export, delocalizzazione, internazionalizzazione: un'opportunità delle aziende italiane per superare la crisi”, 2013, Milano.

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imprese, a differenza delle multinazionali, anche italiane, è la specializzazione dell'industria nazionale, rispetto alle economie di scala che rivestono minore importanza nel nostro Paese.

Tale specializzazione, tipica delle piccole e medie imprese, consente un rapporto stretto tra produttore e consumatore, nonché l'interazione con i fornitori, come strategie di competitività (modalità che sono estranee ad imprese di maggiori dimensioni).

Nei settori in cui si utilizzano queste strategie, si tende a ricorrere più che alla frammentazione dei processi produttivi attraverso la delocalizzazione, all'esportazione o alle acquisizioni all'estero.

Dalle numerose indagini effettuate negli ultimi venti anni circa, emerge come le aziende delocalizzino verso Stati in cui la manodopera è a basso costo; tendenzialmente questo comporta una maggior qualificazione del lavoro nello Stato di partenza, in cui i lavoratori si occuperanno di fasi della produzione più specializzate (progettazione, design) lasciando alla manodopera a basso costo le competenze meno critiche, per le quali non è necessaria un'alta qualifica.

Proprio per questo articolarsi della scelta, molte imprese rinunciano a tale comportamento, non volendo rischiare che la manodopera estera sia, sì a basso costo, ma di eccessivamente basse competenze.

Si riterrà non più conveniente delocalizzare la manodopera, dal momento in cui i vantaggi derivanti da essa si scontrano con altri fattori, quali:

• la non produttività del lavoro, pur essendo il lavoro stesso a basso costo;

(36)

controllo;

• aumento del costo del lavoro dovuto a fattori non controllabili, tra cui l'assenteismo, l'esistenza di piani locali di aumento salariale, la difficile gestione del personale per le diversità culturali.

Oltre al basso costo della manodopera, altro aspetto conveniente legato alla delocalizzazione è connesso alle competenze artigiane o alle tradizioni industriali del Paese di riferimento.

Non va dimenticata anche l'importanza della stabilità politica, finanziaria e fiscale dello Stato destinatario oltre al costo dell'energia.

Un importante timore legato alla delocalizzazione in Paesi a basso costo di manodopera, è la diminuzione del livello di occupazione nel Paese di origine.

Ciò provoca una forte deindustrializzazione40, la quale porta ad

un aumento della produttività del settore terziario (dei servizi: trasporti, servizi alle imprese, servizi della persona) mentre decresce il settore primario (agricoltura) e anche quello secondario (industria).

Questa evoluzione si ritiene fisiologica in un periodo successivo all'industrializzazione: porterà vantaggio solo nei Paesi in cui la decisione di dismettere l'industria è seguita da investimenti alternativi.

In Italia, invece, alla deindustrializzazione è seguita una delocalizzazione che ha portato alla difficoltà di trovare lavoro per coloro che appartengono a strati sociali con basso livello di scolarizzazione (infatti, i livelli attuali di disoccupazione sono preoccupanti e colpiscono soprattutto giovani).

Secondo il Segetario Generale dell'OCSE Angel Gurria, nel

40 Treccani, Dizionario di Economia e Finanza: “Deindustrializzazione: processo di cambiamento economico e sociale che avviene progressivamente in un dato territorio e comporta una riduzione del peso delle produzioni industriali, a favore della crescita del settore terziario”, 2012.

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