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Gerusalemme capitale. Le relazioni fra Stati Uniti e Israele da Clinton a Trump (1995-2018)

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Capitolo 1

La strada per Eretz Yisrael, la Terra Promessa 1.1. Un progetto chiamato Israele

“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo e il Gebuseo. Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora, va'! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti.” 1

Nel terzo capitolo dell’Esodo così si descrive la missione di Mosè e la Terra promessa del popolo ebraico, la Palestina (Falastin per gli arabi) quella che sarebbe diventata Israele, o Eretz Yisrael.

L’ebraismo stesso, stando a quando sostiene Vittorio Dan Segre ne Le metamorfosi di 2 Israele, impone tutt’oggi agli ebrei un certo comportamento particolare improntato al

sacro, che ha sempre influenzato (e continua a farlo tutt’oggi) lo Stato di Israele. Tuttavia in che modo il potere politico di uno Stato, che è per sua natura laico, al di fuori di ogni fede, precetto o morale religiosa, si concilia con la “sacralità” dell’ebraismo, sancita a partire dal patto fra Dio, per tramite di Mosè, e il “suo” popolo, il popolo ebraico? Questo è soltanto uno dei tanti dilemmi che agita Israele e la storia del popolo ebraico.

L’attaccamento a Eretz Yisrael o Sion, la montagna su cui all’incirca nel 2400 A.C. era stato fondato il primo insediamento cananeo e dove nell’XI secolo A.C. sarebbe stata fondata Gerusalemme, è sempre stato fortissimo per il popolo ebraico, il suo valore è talmente alto che è quasi inimmaginabile per chiunque non vi appartenga.

Il popolo ebraico uscito dall’Egitto sotto la guida di Mosè era un popolo indomito e fiero (benché provato dopo secoli di schiavitù); discendeva dalla tribù di Giacobbe, arrivato quattrocento anni prima in Egitto dalla terra di Canaan per raggiungere il figlio Giuseppe, diventato viceré d’Egitto.

La Bibbia di Gerusalemme, Esodo, capitolo 3, 7-9, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2003 1

Vittorio Dan Segre, Le metamorfosi di Israele, UTET Libreria, Torino, 2006, capitolo primo, 2

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La dimensione comunitaria per il popolo ebraico è sempre stata essenziale: nel 3 Talmud Abraham Cohen afferma che l’uomo, per gli ebrei, non è destinato a vivere da

solo ma a vivere in comunità, e la vita non è interamente sua, non può farne ciò che vuole, ma è degli altri, la sua condotta interessa gli altri, come quella degli altri interessa lui. Quest’immersione totale nella comunità dell’uomo però determina anche la totale e necessaria fiducia in sé stesso dell’uomo, che non deve dipendere in nessun modo dagli altri: fare la carità è ritenuto un atto onorevole, riceverla è considerato vergognoso, il solo pensiero deve suscitare vergogna e sdegno. Il credo rabbinico, racconta Cohen, più volte afferma la preghiera e l’invocazione di essere sempre il più possibile autonomi e autosufficienti, di non trovarsi mai nella condizione di dover ricevere aiuto o carità; il rischio evidente in tutta questa indipendenza, invocata e affermata, è quello di dissociarsi dal prossimo. Cohen invece ritiene che la vita, per come si era configurata, così complessa, necessariamente dovesse essere comunitaria, ossia non si può fare a meno dell’aiuto e del lavoro degli altri. Bisognava mettere da parte l’orgoglio e intraprendere ogni genere di attività onesta pur di poter sopravvivere e permettere di vivere bene anche agli altri. In questo modo, fa osservare il Talmud di Cohen, anche ogni differenza di classe, di censo e di dignità verrebbe meno.

Gli ebrei che se ne andarono dall’Egitto, sostanzialmente poveri e disorganizzati, ed anche molti (pare fossero circa seicentomila persone) fecero tesoro di questi “precetti” insiti da sempre nel patrimonio culturale ebraico, ed erano fieri e indomiti, nonostante la loro condizione difficile. Il patto (brit) contratto con Dio dal popolo ebraico istituiva quello che di fatto era un rapporto di sudditanza e di “riconoscenza” permanente: Dio, proprio come un Re “temporale”, aveva legato a sé agli ebrei tramite un doppio filo. Leggi a cui attenersi (i Dieci comandamenti), che rappresentano una sorta di Costituzione “morale”, e un codice vero e proprio di norme per regolare la condotta

quotidiana, che individui particolarmente “illuminati” e qualificati erano incaricati di

“amministrare”. Inizialmente erano i profeti, ossia i “successori” di Mosè, e alcuni membri della tribù dei Leviti, incaricati del servizio al tempio. Il Talmud offre questa regola generale di condotta all’ebreo: bisogna osservare sempre la massima lealtà verso lo Stato, perché se non fosse per il governo, “gli uomini si mangerebbero vivi fra di loro” . Il principio essenziale a cui si ispira la condotta dell’ebreo verso lo Stato è “La 4

Il Talmud, Abraham Cohen, Economica Laterza, Bari, 1999, capitolo VI, La vita sociale, 1. L’individuo 3

e la comunità, pp. 227-235 Ivi, p.232

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legge del paese è legge” . Anche la legge ebraica per Cohen deve uniformarsi alla legge 5

dello Stato.

I Leviti, insieme ai discendenti di Aronne, i sacerdoti ereditari, i quali formavano una vera e propria aristocrazia, erano spesso in contrasto col potere politico ebraico, come lo era un’altra aristocrazia, quella dei rabbini, fondata stavolta sul predominio della cultura.

Essendo la Legge così “presente” nella storia ebraica, è sempre esistita una certa “intolleranza” nei suoi confronti alla luce della grande fierezza del popolo ebraico, da sempre, a partire dalla famosa adorazione (profana) del Vitello d’oro; anche molti ebrei rifiutarono la Legge, soprattutto per i pesanti obblighi e i divieti che questa comportava. Essa implica un consenso incondizionato all’ebraismo e a tutto quello che comporta che per il popolo alle volte è insopportabile, per cui esiste tutta una parte del popolo ebraico che di fatto non accetta la Legge e, di conseguenza, la propria religione d’origine (ecco perché molti ebrei nella storia hanno così tanto insistito nell’assimilarsi alle società dei Paesi d’adozione rinnegando il sionismo e decidendo di emigrare altrove).

Dio non spiega i perché delle Sue richieste, non spiega la logica dei suoi Comandamenti. Esige un atto di fede totale da chi crede.

Agli ebrei Dio ha detto che debbono essere sacri (kadosh, che non significa santi) perché Egli lo è. La Bibbia è chiara in merito: gli ebrei devono “essere sacri” se vogliono essere il popolo eletto dal Signore. Sempre Vittorio Dan Segre ci illustra un’altra “particolarità” dell’idea di Israele narrata nella Bibbia : nell’Esodo (19:6) si 6

definisce il carattere particolare di Israele con “Sarete per Me un regno (mamlehet) di sacerdoti e un popolo (goi) sacro”.

Israele doveva configurarsi come un popolo di pari di Dio, nel senso che gli ebrei erano tutti uguali fra di loro, ma erano il popolo eletto, superiore agli altri.

Passare ad un’altra religione, per gran parte della storia del popolo ebraico, era terribile sotto ogni punto di vista, era vista come un “declassamento”, quasi una vergogna da nascondere. L’ateismo era una soluzione “migliore” da questo punto di vista per i cosiddetti maskilim (da sekel, intelletto), ovvero i contestatori dell’ebraismo “originario”.

Ivi, p.233 5

Ibid, pag.11 6

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Allontanarsi dalla fede non era vissuta come una slealtà personale verso l’ebraismo, ma era un allontanamento che era comunque dettato dettato dalla messa in dubbio dei precetti della Legge ebraica, dunque per gli ebrei ortodossi l’ateismo è condannabile per questa ragione. Nonostante le critiche, non c’è oggettivamente nulla che si possa fare per rispondere a questa scelta: l’ebraismo, come ogni religione, deve fare i conti con la modernità e con tutto quello che comporta, e l’ateismo è una scelta da rispettare e da considerare.

Quale sarebbe dovuta essere la terra di questo popolo eletto impregnato dalla fede in Dio fino al midollo, tanto da dirsi il suo popolo eletto?

Theodor Herzl, nel suo fondamentale Lo Stato ebraico ad un certo punto si domanda 7 se l’Argentina, più che la Palestina, non potesse essere la terra perfetta per accogliere finalmente gli ebrei: offriva immense distese di terra che erano “in eccesso” rispetto alle esigenze reali dell’esiguo popolo argentino: il governo di Buenos Aires avrebbe potuto cedere queste terre agli ebrei ricavandone oltretutto notevoli profitti. L’idea era dunque che il trasferimento degli ebrei in Argentina sarebbe potuto avvenire in nome di un proficuo scambio fra i due popoli.

In realtà tutti, ebrei e non, sapevano quale dovesse essere la destinazione ultima e definitiva del popolo ebraico: la Palestina, la mitica Terra Promessa descritta dalla Bibbia, la naturale “casa” del popolo ebraico. Sarebbe stato dunque una sorta di “ritorno a casa”.

Herzl già nella Prefazione de Lo Stato ebraico specifica che il motivo che lo aveva spinto a patrocinare e promuovere la creazione di uno Stato ebraico è stata l’opposizione fortissima, in ogni parte del mondo, in ogni periodo storico, al popolo ebraico. L’obiettivo de Lo Stato ebraico però non era difendere gli ebrei (tutto il possibile in questo senso per Herzl era stato già detto o fatto) ma al contrario, far capire il pubblico, mostrare le ragioni per cui non solo era giusto ma era anche doveroso far si che nascesse uno Stato per il popolo ebraico. Ancora dopo millenni, gli ebrei non avevano una loro patria, ed erano disuniti come popolo. Herzl afferma che la sua non era solo “un’utopia filantropica”: il suo era un progetto concreto e necessario, poiché chiunque poteva verificare le reali condizioni della vita del popolo ebraico, tutti potevano osservare chiaramente che esisteva un’incontestabile forza motrice reale, una

volontà che stava affermandosi condivisa che spingeva verso Eretz Yisrael.

Theodor Herzl, The Jewish State, Penguin Books - Great Ideas, London, Palestine or Argentine? pp. 7

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Herzl era certo di questa sua visione, dei motivi che lo animavano e per cui la riteneva giusta, e che l’avrebbero sicuramente condotta al successo. Riconosceva però che fosse un progetto particolarmente ambizioso, contro cui molti si sarebbero scontrati, e che per le sue difficoltà intrinseche si sarebbe potuto attuare soltanto nel lungo periodo, non nell’immediato.

Bisognava per Herzl essere lungimiranti, mentalmente aperti e pragmatici per accogliere il progetto dello Stato ebraico, “una necessità universale” per Herzl, in grado di scardinare le vecchie concezioni per introdurne di nuove. Egli riconosceva che probabilmente non avrebbe visto nell’arco della sua vita il compimento di questo suo progetto, ma aveva fiducia che comunque un giorno questo compimento arrivasse, e che gli ebrei finalmente avessero potuto avere una loro patria.

Il fatto stesso che esistesse un progetto simile era come dare un segno di speranza. L’antisemitismo era “un problema nazionale” da affrontare, per dirla con Herzl , con 8

politiche universali “nel consesso dei popoli civili. Noi siamo un popolo. Un popolo”. Il patriottismo ebraico e il forte attaccamento alle varie identità nazionali (al punto che molti rifuggivano la propria appartenenza “comunitaria” in quanto gruppo di persone accomunate tutte dalla fede ebraica) esisteva e non era un fatto trascurabile.

Herzl ne Lo Stato ebraico nell’Introduzione riconosce quello che per lui era il “problema” della fedeltà anche estrema del popolo ebraico: “la nostra lealtà in certe circostanze è andata agli estremi; invano abbiamo compiuto gli stessi sacrifici di vita e di povertà dei nostri concittadini. invano ci siamo battuti per incrementare la fama della nostra terra natia nella scienza e nell’arte, o arricchendola con gli affari e il commercio. In paesi dove abbiamo vissuto per secoli siamo ancora guardati come degli strani, e spesso da coloro i cui antenati non erano ancora stanziati nella terra dove gli ebrei avevano già fatto esperienza di sofferenza”. Questa grande lealtà degli ebrei al loro Paese d’appartenenza e agli altri suoi abitanti spesso poteva avere dei risvolti davvero tragici: la volontà di portare in Palestina i “migliori” (i più forti, ricchi e sani) in grado di far partire l’insediamento ebraico e anche la vera e propria disperazione che provavano molti ebrei non abbienti nel non sapere come procurarsi i mezzi per espatriare o comunque per vivere portò molti al totale (o quasi) affidamento ad autorità “superiori”, come nel caso dei nazisti. Il problema del collaborazionismo sionista-ebraico è stato tragico nell’ambito della seconda guerra mondiale, è un’ombra che ancora oggi affligge Israele e la storia del popolo ebraico in generale.

Theodor Herzl, The Jewish State, Penguin Books, Great Ideas, Londra, 2010, pag. 8 8

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Ne La banalità del male Hannah Arendt racconta di come Adolf Eichmann iniziò con 9 l’intrattenere rapporti più che cordiali con i funzionari ebrei, tutti sionisti di vecchia data) dopo che si era edotto sui “pilastri” del mondo ebraico per mostrarsi accorto e sensibile alle loro istanze: imparò un’infarinatura di yiddish, lesse libri essenziali per la comunità ebraica e per il sionismo come Lo Stato ebraico di Herzl o la Storia del

sionismo di Adolf Böhm. Su questa “confidenza” si fondò il rapporto fra nazisti ed ebrei

sionisti, che arrivò a conseguenze estreme come la triste vicenda del treno di Kastner, dal nome dell’ebreo Rudolf Kastner . Al tempo delle deportazioni in Ungheria, 10

Eichmann concordò che avrebbe permesso la partenza in treno di qualche migliaio di ebrei verso la Palestina in cambio di “quiete e ordine” nei campi da cui centinaia di migliaia di altri ebrei venivano tradotti ad Auschwitz . L’accordo si basava sullo 11

scambio di ebrei “privilegiati” selezionati da Kastner (ossia ricchi o importanti abbastanza da costruire degli ostaggi “ideali” da scambiare con gli Alleati in caso di bisogno) con mezzi da inviare sul fronte orientale o comunque con beni preziosi da nascondere nei forzieri del Reich.

Kastner dopo la guerra emigrò in Israele, divenne un impiegato del ministero dell’Agricoltura e a seguito di una segnalazione fu processato e destituito dal lavoro. Pochi anni dopo, essendo ritenuto un traditore del popolo ebraico, fu ucciso a colpi di arma da fuoco per strada da uomini della milizia della destra israeliana Lehi.

Hannah Arendt ha affermato che per i nazisti i sionisti erano “ebrei bravi, in quanto anche loro pensavano in “termini nazionali”… In quei primi anni esisteva un accordo tra le autorità naziste e l’Agenzia ebraica per la Palestina… in base al quale chi emigrava in Palestina poteva trasferire laggiù il suo denaro in forma di beni tedeschi, beni che venivano convertiti in sterline all’arrivo. Ben presto questo divenne l’unico modo in cui un ebreo poteva portare con se’ il suo denaro: l’alternativa era l’accensione di un conto bloccato che poteva essere liquidato all’estero soltanto con una perdita variante dal cinquanta al novantacinque percento… gli emissari palestinesi avvicinavano la Gestapo e le SS di propria iniziativa… costoro cercavano di agevolare l’immigrazione illegale degli ebrei nella Palestina… sia la Gestapo che le SS si mostrarono molto servizievoli… questi emissari parlavano un linguaggio non del tutto diverso da quello di Eichmann… i loro principali nemici, prima dello sterminio, non

Hannah Arendt, La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme, Universale Economica Feltrinelli, Roma, 9

2001, capitolo 3, Un esperto di questioni ebraiche Ivi

10 Ivi 11

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erano coloro che rendevano impossibile la vita agli ebrei nei paesi d’origine, Germania o Austria, ma coloro che impedivano l’accesso alla nuova patria: in pratica, gli inglesi e non i tedeschi… se si trattava di selezionare ebrei da far sopravvivere, gli ebrei dovevano fare da se’ questa selezione ”. 12

La soluzione proposta da Herzl al problema dell’antisemitismo partiva dal presupposto di dover prendere decisioni politiche forti e condivise, perché era ampiamente riconosciuto che gli ebrei fossero estremamente osteggiati in molte parti del mondo, nei Parlamenti, dalla politica, dalla stampa, dal cristianesimo, dalla gente. Spesso non era permesso agli ebrei di integrarsi pienamente in nessun modo nella loro stessa patria (anche se ci vivevano da secoli). Quello ebraico era un popolo notoriamente senza pace da millenni, eppure gli ebrei erano dei cittadini a tutti gli effetti: erano contribuenti, si arruolavano, e si facevano onore nei campi più diversi per la gloria dei loro Paesi. “Erano dei buoni patrioti” gli ebrei per Herzl, e il punto, a suo dire, non era il sostenere a tutti i costi il diritto acquisito degli ebrei ad essere cittadini come tutti gli altri (come invece sarebbe stato naturale) ma semplicemente constatare che nel mondo contemporaneo i rapporti erano improntati più alla forza, alla prevaricazione, anziché al diritto dei popoli e dei singoli.

Per Herzl il moderno antisemitismo non doveva essere confuso con la persecuzione religiosa degli ebrei nei secoli precedenti ; l’antisemitismo moderno fondava le proprie 13

basi non più soltanto sulla religione ma anche sull’emancipazione crescente degli ebrei. La coscienza di non poter davvero fare nulla per stigmatizzare dal punto di vista civile ed economico gli ebrei fece sì che l’antisemitismo crescesse a dismisura col tempo nelle nazioni più civilizzate dove si trovavano gli ebrei sin dal Medioevo.

L’emancipazione degli ebrei per Claudio Vercelli ha seguito due diversi binari 14

paralleli.

Da un lato, c’è stata l’emancipazione come diritto civile e politico acquisito dagli ebrei come individui e non in quanto ebrei, e questo è avvenuto soprattutto nei Paesi occidentali fra il 1789 e la prima metà dell’Ottocento.

Gli ebrei divennero cittadini a pieno titolo, uguali in tutto e per tutto agli altri, connotati dalla loro appartenenza al gruppo più “ampio” dello Stato, con leggi e regole proprie, formato dal corpo dei cittadini che devono essere uniti e determinati nelle loro

Ibid, pag.68 12

Ibid, pag. 23 13

Claudio Vercelli, Israele, storia dello Stato, dal sogno alla realtà (1881-2007), Giuntina, Firenze, 2007, 14

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intenzioni per migliorare le condizioni di vita della comunità nazionale. Non si era più solo membri di uno Stato, ma anche e soprattutto individui.

Ci si chiedeva: l’ebraismo sarebbe stato in grado di vincere la sfida della modernità? I cittadini ebrei capirono che finalmente potevano uscire dai ghetti per realizzarsi come persone e come cittadini, ma non furono loro per primi gli artefici di questa emancipazione: inizialmente beneficiarono “passivamente” dell’allargamento della cittadinanza ad un numero sempre maggiore di persone a partire dalla Rivoluzione francese, a partire dalla quale le Nazioni per essere davvero tali e al massimo del loro potenziale dovevano eliminare le proprie divisioni interne.

Il grande scrittore israeliano Amos Oz nel racconto della sua vita e della sua famiglia

Una storia di amore e di tenebra racconta in modo magistrale le sensazioni, le paure 15

e i sentimenti di una famiglia ebrea che viveva nell’Europa orientale, nel suo caso in Lituania, nel periodo precedente e contemporaneo alla seconda guerra mondiale, e che negli anni Trenta si trasferì in Palestina e assistette alla nascita dello Stato ebraico. Si viveva costantemente con la paura, “La paura che abitava in ogni casa ebraica, una paura di cui non si parlava quasi mai, ce la iniettavano solo di striscio, come un veleno, una goccia ogni ora, era la paura terrificante che forse eravamo davvero delle persone non abbastanza monde, forse eravamo davvero troppo fastidiosi e invadenti, troppo intelligenti e avidi di denaro.” Ai bambini ebrei veniva insegnato di comportarsi bene con i gentili (i non ebrei) per non farli mai arrabbiare, per non provocarli, bisognava insomma che si desse sempre una buona impressione di gente tranquilla, “perbene”, non attaccabrighe. La zia di Oz, Sonia, racconta sempre ne Una storia di amore e di

tenebra che “Voi che ci siete ormai nati qui in terra di Israele, questo non lo capirete

mai… Nessuno immaginava nemmeno lontanamente quel che sarebbe successo di lì a poco, ma ancora negli anni venti quasi tutti ormai erano certi che gli ebrei non avevano nessun futuro né con Stalin né in Polonia e in tutto l’Est Europa, e per questo la rotta verso la terra di Israele si faceva via via più chiara…”. Una volta arrivati, e quando ci si rendeva conto che Israele era davvero la terra promessa da cui nessuno avrebbe potuto cacciare gli ebrei, nessuno più li avrebbe giudicati, disdegnati, la sensazione di gioia, la “gioia del possesso” (possesso della terra, di una casa, di un’occupazione, soprattutto 16

della libertà), era nuova ed era immensa. Una vertigine questo con cui all’inizio si

Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2005 15

Ivi, pag. 246 16

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faceva fatica a convivere ma poi non abbandonava più chi aveva scelto di partire per avere finalmente una vita migliore.

Posti davanti alle istanze della modernità e del processo di costruzione delle Nazioni, non più solo membri di una confessione religiosa ma anche singoli cittadini, senza più punti di riferimento stabili, gli ebrei rischiavano di “perdersi”, come popolo e come religione.

Come si poteva continuare ad essere ebrei? Come si poteva continuare a vivere come ebrei e al tempo stesso integrarsi nello Stato moderno? Le trasformazioni in atto nella società europea fino a che punto avrebbero riguardato l’ebraismo?

Si fece strada nell’ambito ebraico l’idea che non si trattava tanto solo di integrarsi nei vari Paesi dove c’erano classi medie sempre più povere, ignoranti e deboli (e pericolose per gli ebrei), ma che era doveroso per loro, arrivati a quel punto, costruirsi un Paese proprio, in un altro luogo rispetto a questi Paesi, dove gli ebrei sarebbero stati i soli e unici padroni e dove nessuno li avrebbe ostacolati in nessun modo.

Era tempo che lo Stato di Israele diventasse una realtà e non più solo un sogno, un ideale a cui tendere. Perfino Napoleone Bonaparte , nell’ambito della campagna del 17

1799, dal suo “quartier generale” di Gerusalemme scrisse il 20 aprile 1799 che gli ebrei, “deprivati della terra dei loro padri”, erano “i legittimi eredi della Palestina” e che fosse tempo per loro di “riprendersi il patrimonio di Israele”.

In Francia del resto già dal gennaio del 1790 l’Assemblea Costituente aveva dichiarato che gli ebrei spagnoli, portoghesi, avignonesi avrebbero goduto dei diritti dei cittadini attivi; gli ebrei alsaziani, loreni e del Contado Venassino non erano compresi per il momento in questa decisione in quanto ancora sottoposti all’autorità papale. Tuttavia il 27 settembre 1791 sempre l’Assemblea, poco prima di esaurire la propria attività, rettificò e proclamò, se non l’uguaglianza, almeno l’emancipazione di tutti gli ebrei francesi . 18

L’emancipazione ebraica in Francia non suscitò particolari discussioni o proteste, ma ci fu qualcuno, soprattutto fra gli ebrei ortodossi, che temeva l’emancipazione soprattutto per l’effetto che avrebbe avuto sulle strutture e le organizzazioni ebraiche, più che per gli effetti che avrebbe avuto su ogni individuo. Eppure da imperatore, nel 1806, Napoleone aveva decisamente cambiato idea. Decise di agire in modo prettamente

Simon Sebag Montefiore, Jerusalem, the biography, Weidenfeld & Nicolson, Londra, 2011, capitolo 34, 17

Napoleon in the Holy Land, pag.379

Riccardo Calibani, Storia dell’ebreo errante, dalla distruzione del tempo di Gerusalemme al Novecento, Oscar 18

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politico e non civile verso di loro e, deciso a proteggere il territorio sempre “scottante” dell’Alsazia, volle limitare a cinquantamila il numero di ebrei residenti (tutti gli altri dovevano abbandonare la Francia), intese gerarchizzare i rabbini e controllare tutto il mondo ebraico, a partire dalle scuole. L’imperatore soprattutto accusò gli ebrei di non essere dei veri francesi e il Talmud di fomentare l’odio verso i cristiani . 19

Per attuare il progetto di costruzione dello Stato ebraico i primi sionisti come Herzl proclamarono che era necessario avere un’assoluta fede in Israele, e crederci nonostante gli ostacoli inevitabili che si sarebbero presentati.

Lo Stato ebraico futuro nell’ideale sarebbe stato formato da ebrei che, finalmente, dopo secoli di traversie, tornavano alla “loro” terra, alla terra a cui sentivano di appartenere. C’erano comunque già state alcune emigrazioni pre-sioniste di matrice prettamente “religiosa” a partire dall’inizio dell’Ottocento, vollero trasferirsi oppure tornare in Palestina (allora ancora parte dell’impero ottomano) per vivere nei luoghi santi, studiare i testi sacri poi essere sepolti nella terra dei padri.

Agli inizi del XIX secolo arrivò in Palestina la comunità dei perushim (i separati) seguaci del rabbino lituano Eliyahu ben Shlomo Zalman, che divenne il fulcro delle comunità ashkenazite di Gerusalemme, Tiberiade e Safed.

1.2. Come mettere in pratica il progetto di Israele: le prime aliyòt

Nelle intenzioni di Herzl la messa in pratica del progetto di Israele era semplice nell’idea ma molto complicata nell’esecuzione: di questo improbo lavoro sarebbero state incaricati due diversi enti controllati dal movimento sionista, la Società degli ebrei e l’Agenzia ebraica , che avrebbero lavorato in modo parallelo e complementare. 20

La Società degli ebrei già in partenza era stata prefigurata come un ente “transitorio” perché avrebbe svolto il lavoro preparatorio, cioè avrebbe instaurato rapporti diplomatici con le potenze europee presenti a vario titolo in Palestina e dintorni al fine di assicurarsi (privatamente) in virtù delle leggi internazionali il territorio su cui gli ebrei avrebbero potuto creare il loro Stato. Era necessario ottenere un prezzo ottimale (né troppo alto né troppo basso) e assicurarsi il predominio fiscale dei territori acquisiti. L’Agenzia ebraica entrava in gioco soltanto in un secondo momento: avrebbe lavorato di concerto alla Società, si sarebbe configurata come una moderna società per azioni

Ivi, pag.368 19

Herzl, op. cit., pp.33-36 20

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dato che si sarebbe occupata di comprare effettivamente i terreni, funzionava secondo il diritto inglese e infatti era stata posta sotto la protezione diretta britannica (non a caso l’Agenzia aveva sede a Londra).

Essa si occupava degli aspetti più pratici, come liquidare (tramite appositi agenti) gli interessi degli ebrei in partenza per la Palestina, trattare con i vari governi europei in nome degli ebrei e dei reciproci rapporti di “amicizia” precedentemente stipulati, organizzare gli arrivi in Palestina, impostare e gestire i primi commerci, gli scambi e i contatti, e naturalmente indirizzare nelle casse ebraiche i profitti di quest’immensa speculazione.

Nel programma prestabilito dall’Agenzia, sarebbero dovuti arrivare per primi gli ebrei più poveri, interessati a lavorare e ad accumulare beni e denaro, i quali avrebbero lavorato la terra (un fatto incredibile per gli ebrei dell’Est Europa, a cui era sempre stato severamente proibito) e al tempo stesso avrebbero iniziato ad costruire tutte le infrastrutture e le abitazioni che mancavano (molte, in Palestina).

Trasferirsi in Palestina alla fine dell’Ottocento non era affatto una scelta facile. Significava mettere tutta la vita in discussione, ricominciare da capo, accettando un destino incerto. Si aveva davanti un compito enorme: costruire da zero un Paese che formalmente ancora non esisteva, in una terra in gran parte desertica, non disabitata, con persone che di certo non sarebbero state “entusiaste” dell’idea di Israele, e probabilmente avrebbero fatto di tutto per impedirla.

Chi partiva chiedeva una serie di certezze (quelle a cui si era abituati in Europa) che al momento il sionismo non poteva ancora offrire, “certezze” legate al tenore di vita se chi partiva era di ceto medio-alto, ma emigravano verso la Palestina anche poveri, disperati o avventurieri. Partire era una possibilità di vita, spesso l’unica, per chi voleva dare una svolta alla propria esistenza.

C’era chi, come il nonno di Amos Oz arrivato dall’Ucraina, reagiva bene al 21

trasferimento e si metteva a lavorare di buona lena ripartendo dal basso, facendo lavori di fatica nonostante l’età, nonostante fosse una decisa “perdita” rispetto al tenore di vita che molti avevano in Europa, e chi, come la nonna, non riusciva ad abituarsi a quella vita, a quelle scomodità, alla perdita di tutto quello che c’era stato prima.

Le aliyòt (le immigrazioni di gruppo degli ebrei, dal singolare aliyà, cioè “ascesa”, verso una meta, con grande sforzo fisico per raggiungerla e soprattutto con una grande riflessione mentale pregressa che ha portato alla decisione) sono state, per quanto

Oz, op. cit., pp.206-207 21

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discontinue e confusionarie, il presupposto fondamentale per la costruzione di Israele e della sua identità nazionale.

Si sono succedute circa undici aliyòt nell’arco di circa un secolo: le prima è stata nel 1881-1903 a seguito dei pogrom e del violentissimo antisemitismo dell’impero zarista, l’ultima, paradossalmente, proprio un secolo dopo, e partì ancora dalla Russia, ormai ex URSS. “Fare l’aliyà” è un’espressione ancora oggi ricorrente nel mondo ebraico. Chi nel corso della propria vita emigra verso Israele si definisce un olé (“colui che va verso Israele”); al plurale si dice olim.

In Israele era tutto nuovo, tutto da costruire, da organizzare, mancava gran parte di quello a cui si era abituati in Europa e che connotava uno Stato moderno, per cui le partenze di nuovi “pionieri” ebrei volontari, non spaventati dalla mole del lavoro da compiere in preparazione alla fondazione dello Stato di Israele, erano caldamente incoraggiate. Ogni tentativo di incentivare gli arrivi era ben accetto.

Le case di questi lavoratori volontari sarebbero state edificate a spese dell’Agenzia 22

ebraica. Sarebbero state tutte uguali per risparmiare sui materiali, ma a seconda delle zone sarebbero state diversamente caratterizzate. Da tutte le case, perlomeno a Gerusalemme, si diceva che si sarebbe dovuto ammirare il Tempio. Le aree non edificabili e non ancora coltivate avrebbero visto aumentare di molto il proprio valore economico, e secondo il progetto edilizio dell’Agenzia, piuttosto che costruire nelle immediate vicinanze delle ultime case costruite, era preferibile comprare gli appezzamenti di terreno adiacenti e costruire ai margini di essi in modo da creare dei “sobborghi”.

Il lavoro dei primi arrivati per Herzl avrebbe creato un nuovo mercato, il quale avrebbe attratto sempre nuovi ebrei che si sarebbero trasferiti col tempo attratti dalle possibilità di questo mondo nuovo, e che avrebbe aumentato il volume dei commerci. Per Herzl tutto ciò avrebbe portato beneficio non soltanto agli ebrei e al Paese che stavano costruendo ma anche ai Paesi vicini del Medio Oriente, che avrebbero giovato della coltivazione e dell’aumento di valore economico di quelle terre e sarebbero entrati in affari con gli ebrei. Quale lingua avrebbe parlato il nuovo Stato?

Una delle tante “rivoluzioni” che avrebbe attuato Israele era che si sarebbe parlato

l’ebraico, una lingua “in disuso” da secoli (quotidianamente perlomeno, mentre era

usata ancora nella liturgia) che addirittura in Palestina non si parlava più già da prima della distruzione del Tempio ad opera dei romani nel 70 D.C. In generale ognuno

Herzl, op. cit., pp.36-37 22

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comunicava con la lingua che preferiva, che poteva essere del proprio Paese d’origine, dunque ci fu una certa indecisione su quale lingua usare una volta in Palestina.

Gli ashkenaziti, abituati a parlare in yiddish, e i sefarditi, abituati a parlare in ladino, comunicavano in ebraico, che dunque non era proprio una lingua “morta” come spesso si è detto.

E’ stato per merito di Herzl che si è arrivati ad una tappa fondamentale per lo sviluppo del sionismo e per la nascita di Israele: il primo congresso sionista , tenutosi a Basilea 23

dal 29 al 31 agosto 1897, che diede al movimento una reale forza politica e sociale. Per la prima volta il sionismo si presentava al mondo, come organizzazione, progetto e ideali. Da un miscuglio di gruppi, società e individui senza un reale comun denominatore, Herzl aveva tratto, grazie alla sua volontà (e alla sua dialettica) il movimento sionista, aveva incanalato con abilità e coerenza le varie istanze e le varie anime dell’ebraismo presentandole al mondo come unite e compatte. Un risultato notevole per un ebreo ungherese ashkenazita di lingua tedesca, assimilato, che non era proprio un politico di mestiere; Herzl infatti era avvocato e giornalista (e aspirante scrittore teatrale). Inizialmente Herzl era per la piena assimilazione degli ebrei nelle società in cui vivevano, ma poi cambiò radicalmente idea, promuovendo uno Stato interamente ebraico. Egli ha voluto e lavorato così tanto per la nascita di Israele che la sua sepoltura, inizialmente sita a Döbling (Vienna), è stata poi trasferita nel cuore del “suo” Stato ebraico, a Gerusalemme, in un luogo che infatti oggi è noto come Monte Herzl.

Avrebbero partecipato alla conferenza di Basilea del 1897 delegazioni ebraiche da ogni parte del mondo, dall’Europa, alla Russia, all’America. Il congresso non iniziò sotto i migliori auspici: inizialmente era previsto che si tenesse a Monaco di Baviera, data la diffidenza dei delegati russi per la Svizzera, ma poi non fu tenuta in Baviera proprio per la contrarietà delle comunità ebraiche di Monaco, Francoforte, Berlino, Breslavia, per cui non esisteva nessuna questione ebraica da discutere e risolvere.

Anche l’Associazione dei rabbini tedeschi era contraria al fatto che il primo congresso sionista si tenesse in Germania; era un segnale del fatto che a molti in Europa il sionismo non interessava granché, per vari motivi, non ultima la perdita di “status”, di contatti e di comodità che per molti era il trasferimento in Palestina. Zurigo non era una sede adatta perché era la sede di molti anarchici e rivoluzionari, per cui, alla fine, si scelse quasi obbligatoriamente Basilea.

Marzano, op. cit, capitolo 2, 1897, il congresso di Basilea 23

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Il giorno prima dell’apertura dei lavori, Herzl si recò alla sinagoga cittadina per attirare ancora più l’attenzione, e, al momento dell’apertura del congresso, donò ad ogni delegato una spilla col leone di Giuda circondato dalla stella di David con l’iscrizione “L’instaurazione di uno Stato ebraico è l’unica soluzione possibile della questione ebraica”. Erano presenti 197 delegati da vari Paesi d’Europa, dalla Russia e perfino dagli Stati Uniti. Non capitava da tempo immemorabile che molti ebrei fossero riuniti tutti insieme nello stesso luogo.

Il primo congresso sionista portò alla creazione dell’Organizzazione sionista

[ha-histadrut ha-tzionit], con un organo legislativo, che era il congresso, e un governo

esecutivo, al capo del quale stava un presidente eletto (il primo fu Herzl, in carica dal 1897 fino alla sua morte, nel 1904) e sopratutto un inno, [Ha-tiqvah] che “connotava” e legittimava ancora di più il sionismo come Stato. Due anni dopo, nel 1898, in occasione del secondo congresso sionista, sarebbe stata scelta anche la bandiera del movimento sionista (che sarebbe stata adottata anche da Israele): due strisce parallele azzurre su fondo bianco che richiamano la taled, lo scialle da preghiera indossato dagli uomini, e al centro la stella di David [maghen David]. Era un emblema che era ritenuto da molti particolarmente adatto per il futuro di Israele perché era sia per i religiosi sia per i laici.

Il programma del primo congresso sionista di Basilea fu stilato da Max Nordau, un’altra personalità chiave. Era, come Herzl, un ebreo assimilato, originario di Budapest, che si trovava come corrispondente a Parigi durante il processo Dreyfus.

Il programma era sintetico, era formato da soli quattro punti, di cui il più rilevante per Herzl era l’ultimo, il quarto: “Interventi preparatori allo scopo di ottenere dai diversi governi il consenso necessario alla realizzazione degli obiettivi del sionismo”.

Era necessario ottenere il consenso di tutti i governi dei delegati coinvolti per la piena realizzazione del sionismo prima di tutto il resto, ed era la corrente di pensiero cui appartenevano Herzl e altri simpatizzando del cosiddetto sionismo politico. Invece altri delegati a Basilea la pensavano in modo diverso, credendo che prima del consenso dovesse venire la colonizzazione della Palestina, ed era questa la corrente del cosiddetto sionismo pratico.

Col tempo le divisioni fra queste due correnti del sionismo si accentuarono sempre più. Secondo l’idea del consenso da ottenere da parte dei Paesi europei, chi avrebbe dovuto fare da “padrino” alla nascita di Israele?

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All’inizio Herzl si recò dal Kaiser Guglielmo II durante un viaggio che questi fece nell’impero ottomano nell’ottobre 1898 per discutere dell’ipotesi della creazione di uno Stato ebraico sotto la protezione tedesca: la Germania, se avesse accettato, avrebbe goduto dei vantaggi dell’avere un proprio sbocco sul Mediterraneo, mentre l’impero ottomano (che ai tempi possedeva la Palestina) avrebbe goduto del vantaggio del calo dei debiti economici, grazie al denaro ebraico che sarebbe subentrato al controllo di parte delle terre della Sublime Porta. Il Kaiser però rifiutò di fornire il proprio appoggio ad Herzl e al suo progetto, non volendo in nessun modo inimicarsi il Sultano, con cui era alleato in funzione anti-inglese.

Fallito l’accordo col Kaiser tedesco Herzl si rivolse direttamente al Sultano di Istanbul chiedendogli di appoggiare la colonizzazione ebraica di parte dei territori del suo impero, in cambio dell’assunzione del sionismo di parte del debito ottomano: il Sultano però fece chiaramente capire di non essere interessato, per cui alla fine Herzl si dovette rivolgere al governo di Londra e prima ancora al magnate ebreo Lord Nathan Meyer Rothschild, superando la sua iniziale diffidenza verso il sionismo.

Trovato uno “sponsor”, bisognava trovare una terra dove indiziare ogni sforzo.

Dopo aver individuato nell’Africa orientale britannica una possibile area dove far sorgere lo Stato ebraico, Herzl incontrò il ministro delle colonie dell’impero britannico, Joseph Chamberlain, il quale si chiedeva quali concreti benefici avrebbe portato il sionismo alle colonie britanniche: in cambio dell’appoggio di Londra, Herzl rispose che il sionismo avrebbe portato benefici economici concreti all’area colonizzata. Fu scartata subito l’ipotesi di Cipro (troppo importante come base nel Mediterraneo per essere ceduta agli ebrei). Si pensò allora a El Arish, nel Sinai, ma anche quest’ipotesi fu bocciata, e allora Londra propose a Herzl un’area situata nell’attuale Kenya (passata alla storia erroneamente come la “proposta ugandese”), ex colonia inglese nell’Africa orientale. Nonostante la controversa proposta che prevedeva che una commissione si recasse sul posto per accertarsi se davvero quest’area sarebbe potuta essere adatta ad ospitare gli ebrei, Herzl accettò, e ne discusse al successivo congresso sionista, che si tenne sempre a Basilea nell’agosto 1903.

Dei delegati presenti, 292 votarono a favore della proposta, 176 votarono contro e ben 143 delegati si astennero; la spaccatura in seno al congresso era solo rimandata, e alla morte di Herzl il movimento sionista era già sul punto di crollare, ma comunque tutti gli importanti presupposti per il futuro erano comunque stati gettati.

Dopo la morte di Herzl, la presidenza del movimento sionista passò a David Wolffsohn e la sede passò da Vienna a Colonia, dove egli possedeva delle attività commerciali.

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Dopo di lui, il leader divenne Otto Warburg (che mantiene la carica fino al 1920), il quale trasferì la sede da Colonia a Berlino.

Bisogna dire però che il vero “cuore” del sionismo non era in Germania, era in Gran Bretagna, dove si trovava Chaim Weizmann, futuro presidente del congresso sionista e poi di Israele. Weizmann, prima di essere un grande leader sionista, una personalità fondamentale per Israele, era un importante accademico, studioso di biochimica: nel 1901 aveva ottenuto una cattedra a Ginevra, e, dopo la “proposta ugandese” del congresso sionista, si trasferì all’università di Manchester. Weizmann sarebbe diventato la vera voce fuori dal coro, il leader dinamico e ispirato della corrente “alternativa” a quella di Herzl.

Weizmann non era d’accordo con quella che giudicava la linea “attendista” di Herzl e degli altri sionisti più improntati alla religione i quali erano per un periodi di “preparazione” tramite la politica e la diplomazia: il suo pensiero era decisamente volto al “laicismo”, alla modernità e all’apertura: per lui si doveva passare direttamente all’azione colonizzando la Palestina. Weizmann è ritenuto il principale responsabile del documento fondamentale che ha di fatto portato alla nascita di Israele (seppur trent’anni dopo): è la Dichiarazione Balfour, datata 2 novembre 1917, appena due giorni dopo l’attacco agli ottomani del generale inglese Edmund Allenby nel deserto di Beersheva, nel Sud della Palestina. Arthur James Balfour era l’ex primo ministro e Segretario del Foreign Office britannico ai tempi del governo di Lloyd George.

Con l’omonima Dichiarazione, il Segretario Balfour, a nome del governo di Sua Maestà, conferiva a Lord Rotschild il permesso di appoggiare a nome della Gran Bretagna presso la federazione sionista i loro progetti in Palestina e di comunicare che Londra era disposta a collaborare per creare un “focolare ebraico”, senza però pregiudicare i diritti civili e religiosi delle popolazioni già residenti, oltre che degli ebrei nelle altre nazioni. Per quale motivo la Gran Bretagna decise di appoggiare i progetti sionisti? Era vitale per il governo di Londra impadronirsi di un territorio il più possibile vicino al Canale di Suez per gestire i traffici da e per il Medio Oriente e l’India. La terra in questione doveva quindi trovarsi nella penisola araba, che era ricca di petrolio, e possibilmente doveva essere affacciata sul Mediterraneo, approdo naturale per i traffici commerciali europei. Il territorio con tutte queste caratteristiche non poteva che essere la Palestina. Appoggiare i sionisti per questi motivi dovette sembrare a Londra un ottimo modo per arrivare al proprio obiettivo.

Il Mandato inglese della Palestina ebbe inizio ufficialmente il 24 luglio 1922, e il testo della Dichiarazione Balfour fu incorporato nelle leggi mandatarie promettendo quanto

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vi era scritto, ossia che la Gran Bretagna si sarebbe impegnata a fianco dei sionisti per realizzare una “casa” per gli ebrei in Palestina.

Con la Dichiarazione Balfour e poi con la creazione del Mandato inglese di Palestina il movimento sionista aveva ottenuto l’appoggio di cui aveva bisogno in vista della nascita di Israele.

Dopo l’elezione di Weizmann a capo del congresso sionista, emerse anche la figura di un altro fondamentale leader e futuro padre fondatore dello Stato di Israele, David Ben Gurion, fondatore e primo segretario dell’Histadrut (l’organizzazione sindacale dei lavoratori ebrei) e del Mapai, nel 1930, partito di sinistra destinato a governare Israele, sotto diversi nomi, fino al 1977.

1.3. Le origini del legame privilegiato fra ebraismo e Stati Uniti

Il legame privilegiato fra ebrei e quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti ha radici antiche. Secondo quanto sostengono Franca Tagliacozzo e Bice Migliau ne Gli ebrei 24 nella storia e nella società contemporanea, i primi ebrei del mondo a godere dei

benefici dell’emancipazione nel Settecento furono proprio gli ebrei delle colonie britanniche nel Nord America.

Gli ebrei americani sono principalmente di origine sefardita, ossia provengono soprattutto dall’Europa occidentale, in primo luogo dalla Spagna e dal Portogallo, e sono arrivati nel continente americano in fuga dalle persecuzioni antiebraiche messe in atto dalla Spagna dal Re Ferdinando, il quale aveva annunciato l’avvio delle persecuzioni e delle confische contro gli ebrei il giorno stesso che Cristoforo Colombo aveva ricevuto l’autorizzazione dalla Corona spagnola ad equipaggiare la propria flotta, nell’aprile del 1492. Pare che molti uomini imbarcati sulle tre caravelle fossero ebrei convertiti (i marranos).

Quando la Corona spagnola annunciò l’espulsione e la confisca di tutti i beni dei sefarditi, in molti decisero come prima cosa di emigrare nel vicino Portogallo. Appena cinque anni dopo però anche la Corona portoghese ordinò la conversione forzata di tutti gli ebrei, per cui ancora una volta in molti accettarono di restare ma ebbero comunque una vita molto difficile, essendo guardati con un continuo sospetto (si credeva, spesso a ragione, che fossero ebrei non convertiti, dei “falsi cristiani”), ma

Franca Tagliacozzo Bice Migliau, Gli ebrei nella storia e nella società contemporanea, La Nuova Italia 24

Editrice, Firenze, 1993, Capitolo 1, Gli ebrei in Europa tra emancipazione e restaurazione, capoverso 3. L’emancipazione degli ebrei negli Stati Uniti e in Francia, pag.23

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molti altri se ne andarono in altre zone dell’Europa, soprattutto in Europa centrale (in primis Olanda, da quando nel 1561 la Corona olandese aveva aperto le frontiere ai rifugiati dalle persecuzioni cattoliche) e orientale, e molti ebrei portoghesi emigrarono anche in Brasile, al tempo colonia portoghese.

Nel Settecento molti ebrei convertiti in Brasile, soprattutto nelle province di Bahia e Pernambuco, erano i padroni delle maggiori piantagioni e raffinerie di canna da zucchero. Anche la Gran Bretagna era diventata, come l’Olanda, un’oasi di relativa sicurezza e libertà per gli ebrei. Si preferiva accogliere loro anziché accattoni, approfittatori, avventurieri (o anche cattolici). Soprattutto dopo l’epoca di Cromwell, si era formata una modesta ma attiva comunità ebraica britannica, ma fu dopo l’ascesa al trono di Guglielmo III d’Orange, nel 1689, che riuniva le case regnanti di Inghilterra e Olanda, che sempre più ebrei olandesi si trasferirono in Inghilterra per far fortuna e impiegarsi nelle tante imprese commerciali inglesi di successo in tutto il mondo, fra cui, seguiti anche da molti ebrei ashkenaziti (provenienti dall’Europa dell’Est).

1.3.1. Trovare l’America: dalle colonie britanniche ai futuri USA

Nel Seicento e Settecento moltissimi ebrei, sefarditi sopratutto, si trasferirono nelle Indie Occidentali Britanniche, fra cui le isole dei Caraibi: erano soprattutto commercianti ma alcuni divennero anche importanti proprietari di piantagioni di caffè e canna da zucchero. I primi ebrei arrivati ai Caraibi non potevano accedere alle varie cariche pubbliche ma almeno godevano di libertà religiosa ed economica, una differenza notevole rispetto all’Europa. Potevano praticare liberamente i loro culti e avere loro scuole per insegnamento delle Scritture e della cultura ebraica, e infatti furono fondati vari istituti ebraici. Molti ebrei fecero una notevole carriera e divennero delle vere e proprie autorità commerciali nelle Indie Britanniche, alcuni diventarono ricchissimi, con belle case, guadagni importanti, schiavi di proprietà.

Molte volte erano loro a gestire i commerci fra Inghilterra e Giamaica. Gradualmente questi ebrei emancipati arrivarono ad estendere i loro affari anche nelle colonie britanniche del Nord America, a New York (allora ancora chiamata New Amsterdam, essendo possedimento olandese) anzitutto ma anche in altre colonie.

All’inizio erano soprattutto i sefarditi ad arrivare in Nord America, provenienti dall’Inghilterra, dall’Olanda o anche dai Caraibi britannici; soltanto in un secondo momento arrivarono anche gli ashkenaziti.

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Tutti questi ebrei, eccetto gli ebrei olandesi, in Europa non potevano possedere o lavorare la terra o praticare professioni quali l’avvocato o il medico, per cui in America portarono con loro i propri modesti risparmi e una certa abilità commerciale.

Inoltre molti ebrei non erano sposati, non avevano famiglie al seguito, anche nelle colonie inglesi nel Nord America il loro status restava incerto per via delle loro origini che rimanevano controverse anche nelle colonie della moderna Inghilterra. I primi insediamenti sulla costa orientale del Nord America si attestano ad inizio Seicento; il primo insediamento stabile ad essere fondato è Jamestown, in Virginia, nel 1605. La situazione per gli ebrei in America variava da colonia a colonia, c’erano le colonie più rigide e osservanti dal punto di vista religioso che osteggiavano o addirittura cacciavano gli ebrei, e le colonie che erano meno rigide e più permissive, in cui gli ebrei si trovavano bene.

New York comunque restava la prima meta per tutti coloro che arrivavano in Nord America anche per via del ibero commercio di cui godeva. Tuttavia per gli ebrei non c’era ancora la piena “cittadinanza” nelle colonie: ancora per esempio non potevano costruire delle sinagoghe, ed era proibito loro risiedere in Pennsylvania, New Jersey, Massachusetts, Connecticut e New Hampshire. Dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688, le colonie inglesi più rigide divennero in generale anche loro più tolleranti verso gli ebrei che la risiedevano. In Rhode Island e Connecticut gli ebrei iniziarono ad avere un certo stile di vita, soffrivano sempre meno le restrizioni e iniziarono a godere i frutti di una cittadinanza sempre più “piena”.

Nel Settecento ormai erano pochissime le limitazioni nella vita civile per gli ebrei in America. Era letteralmente un altro mondo rispetto alla situazione dei loro correligionari in Europa, soprattutto Europa orientale.

1.3.2. Gli ashkenaziti arrivano in America: diversità a confronto

E per quanto riguarda l’idea di trasferirsi nella Terra Promessa? Cosa se ne pensava nell’Europa dell’Est? Era un sogno, come il desiderio di una spiaggia tropicale dopo un lungo inverno, ma non ci si faceva illusioni su come sarebbe stata “facile” la vita una volta arrivati finalmente fra altri ebrei perché sempre la zia di Oz diceva che “Ovviamente sapevamo quanto fosse dura la vita in Israele… ma vedevamo la grande mappa appesa in classe che gli arabi in terra d’Israele non erano molti… e c’era l’assoluta certezza che ci fosse spazio a sufficienza per qualche milione di ebrei… Pensavamo che entro breve tempo, qualche anno appena, gli ebrei sarebbero stati la

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maggioranza in Israele… Che bel sogno”, e ancora “Mi ricordo persino che mi passò per la testa un pensiero, a un certo punto: insomma, che ci vado a fare in terra d’Israele? Solo per vivere fra ebrei?… Tutto il popolo ebraico mi parve in quel momento come una massa laida che cercava di attirarmi e farmi entrare dentro le sue viscere”. Poi, l’immensa gioia dell’arrivo in Israele “Non riesco a descrivere la gioia che di colpo mi prese in gola, d’un tratto avevo solo voglia di urlare e cantare: è mio! E’ tutto mio! E’ davvero tutto mio! Strano, mai prima nella vita… Mai in vita mia… mai ho più provato una felicità come quella… Qui non dovrò essere cortese né vergognarmi di nessuno… non dovrò sforzarmi di dare una buona impressione ai gentili” . 25

L’emancipazione ebraica non procedette affatto di pari passo in tutt’Europa.

Se in Occidente il processo di emancipazione era iniziato di fatto con la Rivoluzione del 1789 (seppur con significative battute di arresto in età napoleonica) e proseguito con la Restaurazione e in gran parte dell’Ottocento, in Oriente non fu affatto così. Le drammatiche vicende degli ebrei orientali, i cosiddetti Ostjuden, sono state centrali per la storia del sionismo e di Israele.

Nell’Est Europa la situazione per gli ebrei era decisamente diversa.

Il clima generale che si respirava era sempre stato di grande arretratezza e chiusura, e 26

questo aveva grandi conseguenze chiaramente anche sulle comunità ebraiche che erano rimaste molto indietro rispetto a quelle dell’Europa occidentale e non si erano mai pienamente emancipate.

Pietro il Grande fu abbastanza tollerante con gli ebrei, ma non così le zarine che gli succedettero. Caterina II aveva costretto gli ebrei dell’impero russo a vivere tutti nella cosiddetta zona di residenza coatta, una lunga fascia di territori che andava dal Mar Baltico al Mar Nero, che così divenne “la patria” della maggior parte degli ebrei ashkenaziti (infatti fu anche detta anche yiddishland, la terra in cui si parlava la lingua yiddish). Paolo I, il figlio che succedette a Caterina sul trono, cercò di studiare la situazione per migliorarla ma fu assassinato prima che potesse fare qualcosa, allora Alessandro I, nel 1804, diede vita ad un comitato che doveva riorganizzare la vita degli ebrei dell’impero rendendoli più integrati e partecipi; per esempio rese obbligatorio l’insegnamento del russo nelle scuole ebraiche, diede ai ragazzi la possibilità di accedere alle scuole superiori e alle università e addirittura a San Pietroburgo concesse la creazione di una rappresentanza ebraica. Poiché gli ebrei russi però non mostravano

Ivi, pp.237-238, pag.240, pag.245 25

Calimani op. cit, pp.422-428 26

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troppa volontà di convertisti e a livello internazionale si temeva che la Russia divenisse troppo “permissiva” con i suoi ebrei (dando esempi ritenuti “sbagliati” agli altri ebrei) Alessandro I alla fine, deluso, riprese in considerazione l’idea di dividere i russi dell’impero (espellendone una parte) per meglio integrarli.

Nicola I, il suo successore, avviò politiche di graduale ma inevitabile chiusura della Russia e persecuzione degli ebrei. Nel 1827 impose anche agli ebrei di partecipare alla leva obbligatoria con obblighi più pesanti di quelli imposti ai giovani russi. Nel 1835 la

yiddishland fu ulteriormente ristretta, confinando gli ebrei a quindici governatorati

soltanto; erano ormai ritenuti degli stranieri, potevano spostarsi (anche nella loro zona) solo col passaporto. Il controllo da parte delle autorità centrali e regionali era molto rigido, era imposto ogni genere di limitazioni.

Tutto parve cambiare quando Alessandro II salì al trono: il nuovo zar era aperto al nuovo e pareva deciso a modernizzare davvero la Russia. Le leggi più restrittive sugli ebrei furono, se non abolite, almeno molto attenuate, e così gli ashkenaziti poterono essere un po’ più sereni. Furono aperte le frontiere della yiddishland, di poteva viaggiare, si crearono comunità agricole ebraiche, le scuole talmudiche ricevettero slancio dal potere centrale desideroso di amalgamare la comunità russa.

Il 1870 parve a molti ebrei europei un anno irripetibile: in Germania, Austria, Ungheria, Svizzera, Portogallo, Svezia fu sancita la libertà religiosa. Soltanto negli Stati iberici non era stata introdotta per via della passati trascorsi con gli ebrei, ma perfino negli Stati dei Balcani liberati dal dominio della Sublime Porta nel 1878 fu proclamata la libertà religiosa per tutti (la condizione imposta dalla Conferenza di Berlino per il raggiungimento dell’indipendenza).

Alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento una nuova ondata discriminazioni colpì la comunità ebraica ashkenazista: la si credeva complice delle autorità, si guardava con sospetto la rinnovata stagione di libertà e possibilità di cui godeva. Anche per gli ebrei russi non fu facile far fronte alla modernità incombente e alle leggi ancora più restrittive a cui furono sottoposti.

La dimensione tipica delle comunità dell’Est Europa era quella comunitaria del villaggio (yiddishkeit), formato da modeste abitazioni e piccole attività, soprattutto di sussistenza: c’erano sempre la sinagoga, la scuola talmudica e un mercato.

Questi erano i luoghi principali della socialità del villaggio, e le famiglie che vi abitavano erano soprattutto famiglie allargate (mishpokhe), ossia diverse generazioni che convivevano sotto lo stesso (povero) tetto. Agli ebrei nell’impero russo era proibito svolgere qualsiasi lavoro agricolo (non parliamo di possedere della terra), per cui le

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comunità si basavano soprattutto sulle attività di intermediazione, finanziaria e commerciale. Si capisce che in un contesto simile, povero e marginalizzato, era da escludere qualsiasi emancipazione per gli ebrei, che vivevano in uno stato di totale sudditanza, fisica e psicologica, ed erano comprensibilmente poco desiderosi di avere una vita diversa, magari grazie ad un’istruzione superiore o a mestieri diversi.

Dopo che lo zar Alessandro II morì assassinato il 1 marzo 1881, la Russia visse un periodo di cambiamento sociale e politico convulso; gli ebrei erano accusati (come i rivoluzionari, con cui condividevano molte istanze e obiettivi come la lotta al regime zarista) di voler scardinare la società zarista per cui si verificò una nuova stagione di

pogrom (in russo distruzione, devastazione), ovvero azioni collettive e mirate contro

tutti i luoghi in cui vivevano, lavoravano o studiavano ebrei.

Tra 1881 e 1884 le vittime dei pogrom furono centinaia di migliaia. I disordini e le violenze furono pilotate in realtà dal successore dello zar, il figlio Alessandro III, il cui tutore aveva dichiarato che il problema ebraico in Russia poteva essere così risolto: un terzo degli ebrei sarebbe stato integrato a forza, un terzo esiliato e un terzo sterminato. Si era insomma alla ricerca di un “facile” obiettivo da incolpare per i grandi cambiamenti che stava attraversando l’impero russo, e gli ebrei sembravano perfetti per questo scopo anche perché si sapeva benissimo quanto fossero indifesi e arretrati (come del resto gran parte dell’impero).

Si creò una situazione a dir poco insostenibile nell’impero zarista, fu il tracollo dell’ebraismo nell’Europa orientale. Questo è il motivo per cui molti ebrei scelsero di andarsene via, verso l’America e non solo, anche già verso la Palestina ottomana; non era più possibile pensare di restare a vivere e lavorare nell’Est Europa. Fra 1882 e 1914 si calcola che un terzo degli ebrei dell’Est Europa lasciò la propria casa. Gran parte di questi emigranti scelse gli Stati Uniti come meta, New York anzitutto, oppure preferibilmente i Paesi anglosassoni europei.

1.4. L’ebraismo in America tra la Rivoluzione e la nascita degli Stati Uniti

Con la vittoria inglese nella Guerra dei Sette anni e la Guerra indiano-francese, a metà Settecento, le colonie inglesi del Nord America attrassero sempre più ebrei in cerca di fortuna, anche molti ashkenaziti dai piccoli villaggi dell'Europa centro-orientale, che in America preferirono all’inizio concentrarsi nelle città e zone dove già si trovavano altri ebrei ashkenaziti, New York soprattutto, dove si stima si trovassero circa 300mila-350mila ebrei americani (su una comunità di circa due milioni all’epoca, già

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moltissimi) ma anche Savannah, Philadelphia, Newport, New Haven, Providence. Erano i primi ashkenaziti ad arrivare in Nord America, le migrazioni di massa saranno successive.

Pare che almeno fino alla Rivoluzione americana gli ebrei di New York abbiano continuato a vivere nel ghetto della città, nella zona di Wall Street.

Come i commercianti inglesi protestanti, anche i commercianti ebrei subirono le conseguenze restrittive delle politiche commerciali decise dalla Corona a ridosso della Rivoluzione. Anche gli ebrei presero parte alle agitazioni e ai boicottaggi in America, ma le loro posizioni erano ambigue: alcuni rimasero fedeli al Re, altri divennero degli Whigs (liberali). La comunità ebraica fu realmente divisa dalla Rivoluzione americana, ma in generale la maggioranza aderì e rimase fedele alla causa rivoluzionaria al punto di finanziarla (se si trattava di ricchi ebrei) e di lasciare le proprie case se si trovavano in aree di “non-fedeli” alla causa, e molti si trasferirono altrove.

Per il loro impegno verso la causa della Rivoluzione americana, i neonati Stati Uniti anzitutto col presidente Washington, concessero agli ebrei americani la piena libertà religiosa e la cittadinanza.

I documenti “fondamentali” degli Stati Uniti sanciscono la libertà religiosa, dunque tutelano anche gli ebrei americani nell’esercizio della loro fede: la Dichiarazione di Indipendenza afferma che “tutti gli uomini erano stati creati uguali”. La Costituzione del 1787 nel primo emendamento sancisce poi che il Congresso non può arrogarsi il diritto di sancire quali culti siano ammessi e quali no, dunque tutte le fedi sono ammesse negli Stati Uniti (“Il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di una

religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inviare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti”) . 27

Tuttavia, come è risaputo, la Costituzione e gli emendamenti sono leggi federali, ossia riguardano principi e decisioni prese esclusivamente dal governo di Washington, non dai singoli Parlamenti statali: ogni Stato ha diritto di legiferare autonomamente su tutte quelle materie che il governo federale demanda. Negli USA dunque esiste un doppio binario per la politica, c’è quella federale che è valida per tutti e cinquanta gli Stati, e poi quella statale, che cambia di Stato in Stato o anche di area in area (notoriamente il Midwest e il Sud sono più conservatori degli Stati delle due Coste).

I primi dieci emendamenti alla Costituzione americana (www.scienzepolitiche.uniroma2.it) 27

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A livello pratico dunque non c’erano in tutti gli Stati le stesse garanzie di tolleranza e di libertà religiosa, come scoprirono ben presto gli ebrei (come anche i cattolici, i “maomettani”, ossia i musulmani, e gli atei). Nei primi anni, gli ebrei in America ebbero comunque vita difficile per il loro status sociale ancora controverso nonostante il primo emendamento e la sostanziale libertà religiosa vigente. Otto delle prime tredici colonie americane di fatto negavano ancora agli ebrei la piena cittadinanza, ma era una battaglia continua anche a livello federale.

Quanto all’appartenenza politica, tendenzialmente, gli ebrei hanno da sempre votato per i democratici: inizialmente questa era una scelta motivata dall’assoluta fedeltà ai presidenti democratici che avevano emancipato la comunità ebraica americana, ossia Thomas Jefferson e James Madison, il promotore del primo emendamento.

Già a fine Settecento molti ebrei americani divennero eminenti figure del partito democratico, e iniziarono a farsi notare non solo a livello locale. Molti ebrei tuttavia continuavano ad essere nel migliore dei casi guardati con curiosità, e nel peggiore erano sospettati e ancora malvisti per via dell’antica accusa di deicidio e degli stereotipi che continuavano a circondarli. E’ stato soltanto dopo molto tempo che gli ebrei hanno iniziato ad avere accesso realmente alle cariche pubbliche, all’esercito e alle professioni fino a quel momento proibite loro sia in Europa (dove la situazione restava comunque indiscutibilmente peggiore), sia in America, come il medico o l’avvocato.

Grazie ai lasciti o alle donazioni degli ebrei più ricchi, iniziarono a nascere negli Stati Uniti le prime organizzazioni locali (che nei primi tempi di fatto erano autofinanziate). Queste si mobilitavano per l’assistenza e l’aiuto alle comunità ebraiche, ai nuovi ebrei arrivati in America, mandavano fondi ai correligionari bisognosi in Europa, costruivano sul suolo americano sinagoghe, cliniche, scuole, biblioteche, sempre tutte fondate e gestite da ebrei.

Gli ebrei si stavano integrando sempre meglio nella società americana, iniziavano ad essere coinvolti nella vita nazionale ma avevano anche una loro dimensione locale e comunitaria molto sentita. Gli ebrei, soprattutto quelli provenienti dalla Germania e dall’Europa centrale, si lanciavano con passione e intraprendenza nella società americana promuovendo anche iniziative riservate soprattutto alla comunità ebraica, come giornali, biblioteche, club di lettura, festival, teatri, società culturali. Molte di queste iniziative erano promosse da rabbini. Accettare di partire per l’America per molti ebrei era una sfida con sé stessi in primo luogo: non si poteva pensare di mantenere ancora nel Nuovo Mondo le stesse rigide tradizioni religiose e comunitarie del Vecchio.

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Era necessario trovare un compromesso tra uno stile di vita (anche religioso) più “aperto” e le proprie radici ebraiche che si volevano comunque mantenere.

L’inserimento sempre crescente degli ashkenaziti in America portò lo scontento dei più ricchi e raffinati ebrei sefarditi, che non li volevano in quanto temevano che “rovinassero” la loro reputazione e il duro lavoro compiuto per integrarsi sino a quel momento. I sefarditi stavano iniziando ad emergere in modo significativo nella società americana e di certo non volevano perdere quanto conquistato. C’era molta intolleranza e difficoltà a convivere, ”l’unità ebraica” in America era un’utopia . 28

Questo è il motivo per cui nell’Ottocento, quando iniziarono ad arrivare molti più ashkenaziti, si verificarono svariati episodi di intolleranza e rabbia all’interno della comunità ebraica americana, rinfocolati dai pregiudizi che tutti avevano nei confronti degli ebrei più o meno da sempre. Ormai gli ebrei negli Stati Uniti iniziavano ad essere una componente importante (anche numericamente) della società. Ricordavano la loro provenienza europea in modo dolceamaro perché in patria erano cittadini di “serie B” e per varie ragioni erano dovuti partire, in America invece, la nuova patria, stavano avendo sempre più possibilità di sviluppo e di affermazione, per quanto gli ostacoli non mancassero nemmeno negli USA e certamente la vita degli ebrei, soprattutto all’inizio, non era affatto facile.

Si instaurarono col tempo delle routine, abitudini, festività e regole diverse nelle varie comunità ebraiche, e a livello locale iniziavano ad essere presenti varie organizzazioni (come la Shearit Israel) con scopo diverso, rivolte ai nuovi arrivati, a coloro che volevano emigrare. Nell’ebraismo, come nel cristianesimo, esistevano regole precise se si voleva far parte della congregazione, bisognava essere molto coinvolti o spesso non si era nemmeno detti pienamente parte della comunità dei cristiani o degli ebrei. La pressione morale sui fedeli dunque era molto forte.

I cristiani americani (soprattutto millenaristi) si sentirono investiti dal dovere morale di convertire gli ebrei, come a loro volta avevano fatto i puritani inglesi. L’immagine dell’Israele della Bibbia, i precetti dell’Antico Testamento (allora particolarmente seguito) erano ben presenti ai cristiani americani e anche a molti padri fondatori degli Stati Uniti come Benjamin Franklin; egli propose al Congresso continentale l’immagine fortissima di Mosè che divide col proprio bastone le acque del Mar Rosso, e probabilmente immaginò gli Stati Uniti proprio come Mosè, potente, autorevole, legislatore, la guida del proprio popolo.

Sachar, op. cit., pp.69 71 28

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