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Per una migliore normalità e una rinnovata prossimità / For a better normality and a renewed proximity

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Academic year: 2021

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PP

LEMENT

I

IL CAPITALE CULTURALE

Studies on the Value of Cultural Heritage

Patrimonio, attività e servizi

culturali per lo sviluppo di

comunità e territori attraverso

la pandemia

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IL CAPITALE CULTURALE

Studies on the Value of Cultural Heritage

Supplementi 11

/

2020

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Supplementi 11, 2020 ISSN 2039-2362 (online) ISBN 978-88-6056-670-6 Direttore / Editor in chief Pietro Petraroia

Co-direttori / Co-editors

Tommy D. Andersson, Elio Borgonovi, Rosanna Cioffi, Stefano Della Torre, Michela di Macco, Daniele Manacorda, Serge Noiret, Tonino Pencarelli, Angelo R. Pupino, Girolamo Sciullo

Coordinatore editoriale / Editorial coordinator Giuseppe Capriotti

Coordinatore tecnico / Managing coordinator Pierluigi Feliciati

Comitato editoriale / Editorial board

Giuseppe Capriotti, Mara Cerquetti, Francesca Coltrinari, Patrizia Dragoni, Pierluigi Feliciati, Costanza Geddes da Filicaia, Maria Teresa Gigliozzi, Enrico Nicosia, Francesco Pirani, Mauro Saracco, Emanuela Stortoni

Comitato scientifico - Sezione di beni culturali / Scientific Committee – Division of Cultural Heritage

Giuseppe Capriotti, Mara Cerquetti, Francesca Coltrinari, Patrizia Dragoni, Pierluigi Feliciati, Maria Teresa Gigliozzi, Susanne Adina Meyer, Marta Maria Montella, Umberto Moscatelli, Sabina Pavone, Francesco Pirani, Mauro Saracco, Emanuela Stortoni, Federico Valacchi, Carmen Vitale

Comitato scientifico / Scientific Committee

Michela Addis, Mario Alberto Banti, Carla Barbati, Caterina Barilaro, Sergio Barile, Nadia Barrella, Gian Luigi Corinto, Lucia Corrain, Girolamo Cusimano, Maurizio De Vita, Fabio Donato, Maria Cristina Giambruno, Gaetano Golinelli, Rubén Lois Gonzalez, Susan Hazan, Joel Heuillon, Federico Marazzi, Raffaella Morselli, Paola Paniccia, Giuliano Pinto, Carlo Pongetti, Bernardino Quattrociocchi, Margaret

Ugolini, Frank Vermeulen, Alessandro Zuccari Web

http://riviste.unimc.it/index.php/cap-cult e-mail

icc@unimc.it Editore / Publisher

eum edizioni università di macerata, Corso della Repubblica 51 – 62100 Macerata

tel (39) 733 258 6081 fax (39) 733 258 6086 http://eum.unimc.it info.ceum@unimc.it Layout editor Roberta Salvucci

Progetto grafico / Graphics +crocevia / studio grafico

Rivista accreditata WOS Rivista riconosciuta SCOPUS Rivista riconosciuta DOAJ Rivista indicizzata CUNSTA Rivista indicizzata SISMED Inclusa in ERIH-PLUS

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Per una migliore normalità e

una rinnovata prossimità

Patrimonio, attività e servizi culturali

per lo sviluppo di comunità e territori

attraverso la pandemia

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ISSN 2039-2362 (online); DOI: 10.13138/2039-2362/2541

Indice

5 Indice

9 Introduzione Pietro Petraroia

Diagnosi e indirizzi di metodo

17 Federico Valacchi, Emanuela Stortoni, Umberto Moscatelli, Maria Teresa Gigliozzi, Sabina Pavone

Fuori dalla crisi. Ricerca scientifica e comunicazione 33 Roberto Camagni, Roberta Capello, Silvia Cerisola, Elisa

Panzera

The Cultural Heritage – Territorial Capital nexus: theory and empirics

61 Claudio Leombroni

Tra krisis e kairòs: per un sistema nazionale del patrimonio

81 Claudio Bocci

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91 Stefano Baia Curioni, Stefania Gerevini

Cosa ci attende? Note sulla gestione della cultura e sullo sviluppo a base culturale dopo la pandemia

109 Luca Dal Pozzolo

Anatomia dell’incertezza

121 Madel Crasta

Ritrovarsi: nei luoghi e nei confini 133 Mariangela Franch

Collaborazione pubblico-privato per lo sviluppo sostenibile del territorio

Dall’analisi al cambiamento della realtà 143 Maria Rosaria Napolitano

L’università come catalizzatore di relazioni per la valorizzazione del capitale territoriale

157 Paolo Clini, Ramona Quattrini

Umanesimo Digitale e Bene Comune? Linee guida e riflessioni per una salvezza possibile

177 Marta Massi, Alex Turrini

Prossimità virtuale o distanza fisica? Trasformazione digitale e co-creazione del valore ai tempi del Covid-19 197 Christian Greco, Corinna Rossi, Stefano Della Torre

Digitalizzazione e patrimonio culturale tra crisi e opportunità: l’esperienza del Museo Egizio di Torino

213 Domenica Primerano

Creare comunità nel tempo sospeso della pandemia 231 Giovanna Brambilla

La Convenzione di Faro e la Fase 4 dei Musei: da obiettivo immaginato a sestante nella notte

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249 Anna Chiara Cimoli

Musei, territori, comunità interpretative: le nuove sfide della partecipazione

267 Chiara Faggiolani

Beni relazionali, partecipazione culturale, lettura: il

posizionamento delle biblioteche e la ricostruzione che verrà

285 Armando Montanari

Covid-19 as an opportunity to tackle the phenomenon of overtourism in European historic centres: the case of Rome 307 Tonino Pencarelli

Cultura e turismo: sfide per una nuova dialettica virtuosa nella prospettiva del wellness tourism

333 Carlo Penati

Il territorio come cultura: un modello innovativo di costituzione delle comunità locali

345 Marco Morganti

Il cerchio e la spirale

357 Stefano Consiglio, Marco D’Isanto, Fabio Pagano Partnership Pubblico Private e organizzazioni ibride di comunità per la gestione del patrimonio culturale 375 Pierpaolo Forte

La conferenza di servizi come strumento di tutela olistica e attiva del patrimonio culturale della Nazione

395 Margherita Eichberg

Semplificazione o delegificazione? Semplificazioni e tutela tra equivoci ed assenza di visione culturale

405 Valentina Maria Sessa

I beni culturali e la semplificazione (non) necessaria: spunti per percorsi alternativi

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427 Salvatore Aurelio Bruno, Pietro Petraroia

Capitale culturale, resilienza territoriale e pandemia: un approccio sussidiario alla gestione delle sfide

449 Giovanna Barni

La cultura messa a nudo dalla crisi Covid-19. Fragilità, potenzialità e riforme strutturali

Appendice

467 Erminia Sciacchitano

Documenti dell’Unione Europea

472 Documento 1. Conclusioni del Consiglio del 21 maggio 2014 relative al patrimonio culturale come risorsa strategica per un’Europa sostenibile

476 Documento 2. Comunicazione della commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. Verso un approccio integrato al patrimonio culturale per l’Europa 492 Documento 3. Conclusioni del Consiglio sulla governance

partecipativa del patrimonio culturale

496 Documento 4. Decisione (UE) 2017/864 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 maggio 2017, relativa a un Anno europeo del patrimonio culturale

505 Documento 5. Quadro d’azione europeo sul patrimonio culturale

542 Documento 6. Ripresa culturale dell’Europa. Risoluzione del Parlamento europeo del 17 settembre 2020 sulla ripresa culturale

dell’Europa (2020/2708(RSP)

555 Stefano Della Torre

I risultati del progetto CHERIE negli scenari post-pandemia: prospettive nell’azione del Cluster TICHE

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ISSN 2039-2362 (online); ISBN 978-88-6056-670-6 DOI: 10.13138/2039-2362/2591

Introduzione

[…] διὸοἷςμηθεὶςκεῖταισκοπός, οὐ βουλευτικοί.

[…] chi non ha uno scopo definito non è idoneo ad assumere una deliberazione.

Aristotele, Etica Eudemia, libro 2, sezione 1226b

Si è ormai affermata la consapevolezza che i gravi danni inferti dalla pandemia da Covid-19 alla salute delle persone, all’economia, a tutti i sistemi relazionali non solo avranno uno strascico molto più lungo della prima fase acuta, ma hanno de-funzionalizzato molti tratti dei tradizionali processi produttivi e di fruizione di beni e servizi, inclusi quelli culturali. Ciò riguarda in particolare le attività di ricerca, apprendimento, produzione, comunicazione, diffusione, sviluppo negli ambiti culturali e le relazioni di co-fertilizzazione fra essi e il complessivo capitale territoriale.

Per deliberare, progettare e governare i processi di passaggio dalla fase attuale (segnata dalle disfunzioni, spesso trascurate, di ciò che fino ad ora era stata la nostra normalità) ad una fase ulteriore – che, a regime, presenti sperabilmente equilibri meglio sostenibili – occorre sia fare tesoro del più qualificato e innovativo lavoro del passato, sia spingere il nostro sguardo in avanti, assumendo uno scopo trainante per le nostre scelte nel prossimo futuro.

Occorrono pertanto un approccio strategico e sistemico, una rafforzata capacità predittiva e un’etica della corresponsabilità non più retorica o ideologica, ma operativa; occorre promuovere modelli in buona parte alternativi a quelli usuali, capaci di favorire la riorganizzazione imprenditoriale e dei pubblici servizi per lo sviluppo culturale, sociale ed economico delle comunità e dei territori. Così si può sperare di saper progettare e attuare condizioni per una futura migliore normalità, che sia più giusta, efficiente, sostenibile rispetto agli schemi

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correnti, capace di garantire migliori relazioni di prossimità a livello globale e locale, considerando che la persistente, strisciante pandemia continuerà per un periodo non breve e di incerta durata ad accentuare le disuguaglianze culturali e, di conseguenza, socioeconomiche.

Perché e come l’attivazione delle leve culturali della nostra società può giocare un ruolo positivo, che possa essere decisivo nell’attraversamento di questa lunga sfida globale?

Come potrà la multiforme realtà culturale della nostra penisola ristrutturarsi su scala territoriale e nelle relazioni internazionali con soluzioni sostenibili nel lungo periodo, orientate all’interesse generale? Come potrà avvenire tutto ciò in aree già ripetutamente martoriate da sismi e dissesto idrogeologico?

In un contesto che sarà sia diversamente globale sia diversamente locale occorre che le comunità e le loro istituzioni si organizzino per imparare a far tesoro dell’occasione di inevitabile cambiamento, diventando learning communities.

I territori e i paesaggi, d’altra parte, non esistono senza le comunità che li vivono e li plasmano; e le comunità sono costituite non soltanto da persone, ma dai sistemi relazionali che esse creano e dai quali sono poi condizionate. La capacità delle persone di essere pienamente sé stesse, in salute, si alimenta dalla relazione, dalle interazioni che sviluppano fra di loro, con le comunità e i territori che frequentano. Viviamo dunque oggi un paradosso insostenibile: quello del distanziamento fisico generalizzato e di lunga durata, in sé contrario alla nostra gioia, al nostro sviluppo e alla nostra stessa salute, eppure motivato da prioritarie esigenze sanitarie.

In questa compressione della libertà di incontrarsi e interagire fisicamente l’elaborazione culturale delle informazioni e dell’esperienza rischierebbe di venire disseccata alle radici, se non fossimo capaci di ridisegnare i processi relazionali e culturali con modalità efficaci ancorché magari inedite, che ancora ci producano gioia, sviluppo e salute con soluzioni solidali e sostenibili.

Per assumere in modo davvero efficace decisioni di governo dei processi in questa direzione, occorre chiarezza e condivisione dei fini e degli obiettivi, proprio come Aristotele ben aveva indicato. Lo specifico apporto che questo supplemento della rivista intende offrire è proprio quello di mettere in fila una serie di contributi, che accostino analisi di scenario e diagnosi a proposte di reindirizzamento dei processi, prospettando anche specifiche soluzioni su più livelli e in più ambiti, verso le quali muovere in modo coordinato.

Gli autori che hanno generosamente aderito al nostro invito – e che qui voglio calorosamente ringraziare anche a nome dei co-editors – si sono impegnati in totale autonomia di metodo e visione, secondo la propria competenza, scrivendo in parallelo senza venire condizionati dal lavoro degli altri. A ciascuno è stato sottoposto soltanto un programma complessivo, redatto da chi scrive ad esito di un approfondito confronto con i co-editors e grazie al generoso, competente e continuativo apporto del comitato editoriale. Cinque i macro-temi suggeriti

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agli autori, con possibilità di svilupparne un aspetto soltanto o di integrarli tutti:

– soluzioni digitali e di rete per il riconoscimento, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e del paesaggio nel contesto territoriale nell’ambito di processi partecipativi;

– governo strategico dei servizi pubblici e privati per lo sviluppo a base culturale;

– superare le distorsioni procedurali e amministrative, evitando finte semplificazioni;

– ottimizzare la relazione fra imprese e “attori” culturali ed economici del “capitale territoriale”, favorendo nuove alleanze locali/globali;

– sviluppare le capacità di previsione e prevenzione: istituzioni di governo, comunità territoriali e ruolo della “terza missione” delle università.

Come il lettore potrà verificare, benché si sia evitata qualsiasi “armonizzazione” a posteriori dei contributi, emergono fra gli autori significative convergenze di indirizzo, pur nella pluralità dei punti di vista. L’obiettivo era non di sollecitare l’adesione a una sorta di pretenzioso “manifesto”, bensì di far emergere, nel pur breve termine agli autori concesso e muovendo da punti di vista differenti, quanto possa supportare un’azione strategica di tutte le componenti istituzionali e sociali del Paese, ispirata al riconoscimento di una capacità generativa propria della elaborazione e della produzione culturale, nel reindirizzare l’economia e l’etica civica al bene comune della coesione e dello sviluppo responsabile e solidale.

Alla base di uno sfidante processo di ridisegno, come quello che qui si auspica, occorre porre una rinnovata e ampliata capacità di riconoscimento

di valore, prima che di uso del valore; dunque anzitutto capacità di ricerca,

affidabilità di metodo, correttezza nell’integrazione e condivisione dei dati e dei risultati. È la via maestra cui ci richiama il contributo a più mani di un gruppo di docenti della Sezione di Beni culturali, cui la rivista afferisce, e che apre la prima sezione di saggi.

A questa visione, che lega la qualità delle competenze di dominio all’approccio integrato e partecipato, ci avevano richiamato, ben prima dell’attuale condizione sanitaria, le policy definite dall’Unione Europea fra 2014 e 2019 in materia di cultura, rilanciate proprio nel contesto emergenziale dal Parlamento Europeo il 17 settembre 2020, come appare qui in appendice nella selezione di atti introdotta da Erminia Sciacchitano, oltre che nel documento elaborato a conclusione del progetto CHERIE – probabilmente la più sistemica interpretazione italiana degli indirizzi europei, dietro stimolo del Presidente della Fondazione TICHE, Lucio D’Alessandro – qui presentato da Stefano Della Torre.

E poiché abbiamo detto dell’importanza, ora più che mai, di assumere metodologie appropriate di comprensione e gestione del capitale culturale nel contesto territoriale, va ribadito che al rigore delle discipline di dominio va associato altrettanto rigore nell’integrazione fra di esse e la comunicazione, la

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condivisione della conoscenza; senza di ciò gli slogan sui metodi partecipativi sarebbero mera propaganda, perché mancherebbero alle comunità punti di riferimento affidabili per sollecitare decisioni e concorrere alla loro implementazione.

La sezione iniziale raccoglie numerosi contributi (Leombroni, Bocci, Baia Curioni et al., Dal Pozzolo, Crasta, Franch) dedicati sia all’esegesi della realtà che

ha impattato la pandemia, sia alla conseguente declinazione dei macro-obiettivi e, dunque, degli indirizzi dell’innovazione di processo che in tanti auspichiamo, nella consapevolezza che differenti piste di lavoro oggi particolarmente utili sono desumibili o ispirate anche da importanti esperienze e studi antecedenti l’arrivo della pandemia, seppure rimasti ai margini dell’attenzione pubblica o quasi dimenticati. Essi sono introdotti da un saggio di taglio macroeconomico (Camagni et al.), che sostiene e argomenta metodologicamente la necessità di

arricchire la lettura del rapporto fra patrimonio culturale e sviluppo locale, elaborandone le molteplici e complesse potenzialità di generazione di valore.

Alla seconda sezione afferiscono quei contributi che, pur impostati su un’analisi complessiva di contesto, svolgono approfondimenti mirati su uno o più temi (ovvero casi di studio), proponendo indirizzi operativi e soluzioni che in linea di massima non esigono, per tradursi in pratica, modifiche di legge, ma essenzialmente un’informata proattività, a partire dalla considerazione critica di esperienze in essere: nulla nasce dal nulla.

Gli ambiti presi in esame, pur numerosi e fra i più discussi in questa fase, non esauriscono ovviamente la casistica neppure nelle categorie generali. Ad esempio, non sono specificamente trattati i temi delle filiere produttive dello spettacolo e delle attività culturali, per i quali occorrerebbe comunque indagare gli ambiti di interazione con le funzioni e le attività di servizio per la tutela e la valorizzazione dell’eredità culturale, ivi inclusi i cosiddetti beni intangibili.

A titolo meramente rammemorativo si richiamano qui gli interventi, di analisi e proposta, sul complesso mondo del digitale (Clini et al., Greco et al.,

Turrini et al.), le questioni poste dai procedimenti amministrativi in materia

di tutela e valorizzazione (Sessa, Bruno, Forte, Eichberg), gli aspetti giuridici e organizzativi dei servizi per l’accesso alla fruizione pubblica dei beni culturali (Penati, Consiglio et al., Barni), le sfide poste al rapporto fra musei e pubblico

(Brambilla, Primerano, Cimoli), il ruolo dei servizi e sistemi bibliotecari (Faggiolani), le dinamiche del turismo in Italia fra passato e futuro (Montanari, Pencarelli, Morganti), il ruolo della terza missione nell’università (Napolitano).

Considerati nel loro insieme, i contributi qui raccolti si propongono dunque non come la compiuta definizione di una proposta monolitica, ma quali apporti, in larga parte compatibili e convergenti – quando non sovrapponibili in taluni dettagli – per una più feconda e corresponsabile economia dei territori, in cui le molteplici e straordinarie declinazioni dell’eredità culturale non siano svilite a mero “contenuto” (come si usa dire) di questo o quel prodotto di comunicazione promozionale di territori fortemente connotati come quelli italiani, ma vengano

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riconosciute nella loro piena capacità generativa, di far crescere cioè la qualità e il valore in più sensi produttivo delle relazioni fra le persone e fra le comunità: un obiettivo da assumere nelle policy senza più timidezza, nel momento i cui finalmente si capisca che le diffuse eccellenze del patrimonio culturale non vanno più guardate e classificate come meri “attrattori” del consumo turistico (grandi o meno grandi che siano), ma che le comunità possano piuttosto organizzarsi produttivamente nella relazione con esse e con il resto del mondo, turismo incluso.

Diviene dunque decisiva, in questa prospettiva, l’adeguata considerazione del fattore “tempo”, sotto ogni profilo. La rivista ha avviato un lavoro che ci si augura giunga tempestivo, sia pure nei limiti in cui è stato possibile realizzarlo; così come altri soggetti, con propri metodi e più ricchi mezzi, hanno avviato ricerche di medio periodo di cui nei prossimi mesi verranno alla luce i primi risultati.

Ora però è il tempo di legare adeguatamente le azioni cosiddette di “ristoro” dei mancati introiti (dalle quali dipendono innumerevoli posti di lavoro), tipiche della cosiddetta “fase due”, con investimenti e processi produttivi orientati a servizi e a modalità di godimento culturale molto più distribuiti territorialmente e idonei ad alimentare il senso di comunità (fase quattro).

Forse sembrerà nulla di inedito rispetto agli auspici del fondatore di questa rivista, Massimo Montella, dei suoi amici, degli autori di questa pubblicazione. Eppure c’è una novità che si chiede da queste pagine si chiede a chi governa di far propria, in qualunque entità istituzionale si operi: smettere di parlare di cultura come di un orpello, di una suggestione straordinaria, di un bene posizionale, di un grande attrattore; e creare invece le condizioni perché la maturazione delle persone, dei gruppi sociali e degli operatori economici grandi e minuscoli cominci a trarre diffusamente dall’eredità culturale competenze ed energia, per conquistare, tutti, una migliore normalità e una rinnovata prossimità.

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«Il capitale culturale», Supplementi 11 (2020), pp. 17-32 ISSN 2039-2362 (online); ISBN 978-88-6056-670-6 DOI: 10.13138/2039-2362/2575

Fuori dalla crisi. Ricerca scientifica

e comunicazione*

* L’articolo è frutto di una riflessione comune ma le singole parti sono così attribuibili: § 1. Federico Valacchi; § 2. Emanuela Stortoni; § 3. Umberto Moscatelli; § 4. Maria Teresa Gigliozzi; § 5. Sabina Pavone.

** Federico Valacchi, Professore ordinario di archivistica e archivistica informatica, Università di Macerata, Dipartimento di Scienze della formazione, dei Beni culturali e del Turismo, P.le L. Bertelli 1, 62100 Macerata, e-mail: federico.valacchi@unimc.it.

*** Emanuela Stortoni, Ricercatrice di Archeologia classica, Università di Macerata, Dipartimento di Scienze della formazione, dei Beni culturali e del Turismo, P.le L. Bertelli 1, 62100 Macerata, e-mail: emanuela.stortoni@unimc.it

**** Umberto Moscatelli, Professore associato di Topografia antica, Università di Macerata, Dipartimento di Scienze della formazione, dei Beni culturali e del Turismo, P.le L. Bertelli 1, 62100 Macerata, e-mail: umberto.moscatelli@unimc.it.

***** Maria Teresa Gigliozzi, Ricercatrice di Storia dell’arte medievale, Università di Macerata, Dipartimento di Scienze della formazione, dei Beni culturali e del Turismo, P.le L. Bertelli 1, 62100 Macerata, e-mail: mariateresa.gigliozzi@unimc.it.

****** Sabina Pavone, Professoressa associata di Storia moderna, Università di Macerata, Dipartimento di Scienze della formazione, dei Beni culturali e del Turismo, P.le L. Bertelli 1, 62100 Macerata, e-mail: sabina.pavone@unimc.it.

Federico Valacchi**, Emanuela Stortoni***,

Umberto Moscatelli****, Maria Teresa

Gigliozzi*****, Sabina Pavone******

Abstract

Il lavoro intende muovere da un’analisi della molteplicità di competenze di dominio necessarie a definire e qualificare quello che genericamente si definisce patrimonio culturale, sia in ragione di specifiche esigenze progettuali che in una logica di trasmissione di contenuti e valori rispetto a un territorio dato. Tale analisi tiene conto delle riflessioni e delle necessità emerse durante la recente emergenza sanitaria ma si sviluppa dentro a una dimensione prospettica orientata al medio periodo. La parte introduttiva che fa il punto sui temi generali è seguita da contributi destinati ad illustrare esperienze di dominio e casi di studio, sempre in un’ottica prima di produzione e poi di uso (o, meglio, riuso) dei dati anche in una logica

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di comunicazione/valorizzazione integrata del patrimonio e del suo tessuto connettivo di ordine storico.

The work intends to start from an analysis of the multiplicity of domain skills useful to define and qualify what is generically defined as cultural heritage, both on the basis of specific design requirements and looking at the transmission of contents and values with respect to a given territory. This analysis takes into account the reflections and needs that emerged during the recent health emergency but develops within a perspective dimension oriented to the medium term. The introductory part that takes stock of the general themes is followed by contributions intended to illustrate domain experiences and case studies, always with a view to first production and then use (or, better, reuse) of the data also in a logic of communication/integrated enhancement of heritage and its historical connective tissue.

1. Le parti per il tutto: dai saperi specialistici ai sistemi interculturali

L’emergenza segnata Covid-19 più che marcare una netta discontinuità con il passato ha contribuito, sia pure in maniera spesso meccanica, a definire meglio le prospettive di un processo evolutivo della percezione e della gestione dei beni culturali che risulta ormai di lungo periodo.

È quindi tornato a porsi in maniera forte il tema del rapporto tra descrizione scientifica e livelli di comunicazione e integrazione del patrimonio generalmente inteso.

Anche in questo contesto specifico l’uso amplificato e quasi inevitabile di ICT innesca tra l’altro fenomeni di ridefinizione della realtà spesso non del tutto sotto controllo. Emerge quindi l’impellenza, peraltro mai sopita, di un approccio critico e consapevole alle modalità di generazione e uso distribuito delle risorse.

Le conoscenze di natura scientifica e tecnica proprie di ogni specifico dominio e il loro linguaggio di riferimento rappresentano un presupposto ineludibile a sostegno della interpretazione, della tutela e, infine, della fruizione intesa come uso pubblico e diversificato delle risorse culturali.

Si parte quindi da descrizioni separate e autoesplicative, rispettose dei singoli standard di dominio, verso la costruzione di risorse, preferibilmente digitali, capaci di integrare le specificità in sistemi interculturali complessi.

La parola chiave di questo tipo di approccio strategico è integrazione, ma un’integrazione che non sia soltanto generico richiamo all’interdisciplinarietà o a network inter istituzionali più o meno coordinati ed efficaci, quanto piuttosto applicazione di criteri di reale interoperabilità descrittiva1.

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I dati necessari ad alimentare le macchine comunicative, dentro a scenari quantitativi inquietanti2, restano il punto di partenza nella loro puntuale qualità

verificabile scientificamente.

Di questo si deve tenere conto anche nella progettazione di politiche culturali che non sacrifichino al δαίμων rappresentativo le fondamenta conoscitive di un patrimonio culturale inteso come risultato della fissione rigenerativa di atomi informativi rigorosamente di dominio. Occorre insomma continuare a investire nella ricerca scientifica di ambito disciplinare (catalogazione, scavi, riordini archivistici, ricerca storica e storico-artistica). Magari evitando fastidiose sperequazioni nei confronti di ardite architetture tecnologiche destinate a marciare a basso regime senza il contributo di ognuna delle specificità scientifiche dalla cui somma scaturisce l’essenza del patrimonio.

Sicuramente i processi di dominio devono tener conto di tecnologie e strumenti di descrizione che ci consentono di andare ben oltre i limiti fisici della descrizione analogica. Si distinguono ormai scenari dove alle strutture gerarchiche e autoreferenzialmente strutturate si sostituiscono rappresentazioni radiali, aperte per la loro stessa natura a processi di integrazione interculturale3.

Il web 5.0 ci affascina con la sua sedicente consapevolezza computazionale4

ma la scelta umana lo deve inchiodare alla sua dimensione fondamentalmente “meccanica”. Scenari ingenuamente cinematografici di fantascienza descrittiva sono da escludere. E per disinnescarne i rischi, che pure esistono, basta una parola: metodo.

Il metodo su cui ogni disciplina ha costruito i suoi statuti epistemologici e che cresce, si aggiusta e si perfeziona con i progressi della ricerca scientifica, è al tempo stesso un potente antidoto a derive robotiche e il pungolo di processi prima cognitivi e poi eventualmente integrativi.

Gli scenari numerici, computazionali, che l’intelligenza artificiale5 già fa

intravedere si svuotano di significato quando non siano sorretti dai diversi

metodi.

In questa circolarità virtuosa ogni singola descrizione di dominio contribuisce alla formula della circonferenza comunicativa e la “valorizzazione” (parola abusata e per molti versi limitata e limitativa) è il risultato di una moltiplicazione contestualizzata di dati di dominio, fruibili secondo logiche integrate. Servono insomma dati validati per costruire quella che con un termine che sembra ormai

2 Borgman 2015; Bauer, Kaltenböck 2012.

3 In questo senso un esempio convincente in campo archivistico è quello proposto dallo standard RiC (Record in Contexts) che recita tra l’altro: «Computerized information systems in particular may serve to integrate or select elements of information as required, and to update or amend them», Records in Contexts. A conceptual model for archival description» (International Council on Archives, Experts Group on Archival Description, Consultation Draft v0.1, September 2016, Introduction, I.3. Il documento è disponibile a <https://www.ica.org/sites/default/files/RiC-CM-0.1.pdf>). Per alcuni approfondimenti su RiC si veda Di Marcantonio, Valacchi 2018.

4 Per un possibile primo approccio al tema si vedano Barabási 2004; 2016. 5 Tra le sconfinate risorse disponibili al riguardo si veda Tavosanis 2018.

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ingenuo si definisce una narrazione del patrimonio, magari nel suo rapporto

con un territorio dato.

A questo livello, però, entra in gioco la storia, elemento forte di contestualizzazione e garanzia di racconto consapevole di un tutto le cui parti anelano a una sintesi che può essere solo di natura storica in senso ampio. E non la storia pubblica ma la storia tout court, senza la quale lo story telling,

possibile collante dei modelli narrativi, rischia di diventare un balbettio piuttosto confuso.

I contributi che seguono questa sorta di introduzione sapranno meglio delineare i tratti salienti del panorama fin qui appena abbozzato, facendo riferimento a concreti casi di studio e riflettendo sul significato anche metodologico di simili approcci.

Nella convinzione che la convergenza di tanti saperi specifici possa abbattere quel “rumore bianco” che troppo spesso sembra ancora separare i singoli statuti epistemologici dalla loro comunicazione integrata6.

2. Ripartire dall’archeologia: il caso di Tifernum Mataurense (Sant’Angelo in Vado – PU)

Io sono archeologo e dedico il mio tempo a cercare di raccogliere notizie sul comportamento di uomini morti da lungo tempo (...). Tuttavia mi piace pensare che anche la conoscenza archeologica possa (...) dimostrarsi utile alla società (...), utile nell’aiutare a pensare in maniera più chiara e quindi ad agire in maniera più umana7.

Sono partita da questa celebre massima di Vere Gordon Childe, padre della moderna paletnologia, per tentare di sviluppare alcune semplici riflessioni sul senso da dare al mestiere dell’archeologo anche in tempi tanto drammatici e convulsi, come quelli globalmente vissuti con l’emergenza sanitaria da Covid-19, e sull’eventualità di trarre da questa disciplina nuovi ed inaspettati impulsi per una ripartenza in particolare delle Inner Areas centro-appenniniche, già

indebolite da tendenze neo-liberiste, crisi economica e sismica, oggi più che mai disorientate e alla ricerca di nuovi e praticabili modelli di sviluppo sostenibile.

6 «L’immagine intuitiva del vuoto, quindi, è quella di un mare che ribolle di attività, o meglio ancora di possibilità, dato che le fluttuazioni riguardano ciò che potrebbe accadere all’atto della misura e non eventi reali in senso classico. Pensate alle scariche di un vecchio televisore, o a quelle di una radio tra una stazione e l’altra: non c’è un segnale vero e proprio – non ci sono particelle dotate di un’esistenza finita – ma non c’è nemmeno silenzio. C’è solo il rumore bianco, un segnale di fondo casuale e incoerente. In alcuni scenari della fisica sperimentale, in effetti, le fluttuazioni del vuoto hanno esattamente l’aspetto del rumore bianco», Weartherall 2017, p. 90.

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Nell’ultimo decennio una propositiva vision politica individua nella

gestione multi-scala8 del paesaggio culturale un asset privilegiato per lo

sviluppo dell’entroterra9, «luogo multiplo, geografico e storico, mitologico e

religioso»10, passando attraverso l’approccio cooperativo11 e la consapevolezza

che l’autenticità di un luogo è intrinseca e dipende in primis da una comunità

consapevole, informata sugli elementi territoriali e cosciente dei valori culturali (ambientali, storici, artistici, etnologici), sentiti come segni di identità12.

In questo senso un importante ruolo viene rappresentato dal patrimonio archeologico, capillarmente diffuso nel territorio montano, veicolo fortemente attrattivo ed evocativo di valori culturali contestuali, che una corretta gestione, tutela e valorizzazione potrebbe elevare da una posizione ancillare rispetto al turismo a quella di sostanziale propulsore di sviluppo, che induca a riconoscere e comunicare gli aspetti valoriali di un intero territorio.

Verso tale direzione grande impulso hanno avuto negli ultimi anni la Public Archaeology13 e la Heritage Education14, che, riportando e parafrasando un

passaggio di Valacchi relativo in verità agli archivi, ma ben applicabile a mio avviso ad un nuovo modo di vedere l’archeologia, rappresentano lo studio di una «(…) massa informativa in continuo divenire, macchina del tempo che di tempo si nutre e tempo genera (…)», «(…) luogo delle risposte ai bisogni di tanti diversi tipi di cittadini, che messi insieme danno luogo ad una società (…)»15.

L’archeologia pubblica è sotto questo profilo passione civile, che deve guardare a un virtuoso soft power, non limitato ad una mera comunicazione,

ma ad una forma di mediazione metabolizzata, che vada oltre le semplici forme di story telling, dall’indubbia valenza didattica e didascalica, ormai però

insufficienti a generare ricadute di più ampio respiro, per caricare l’archeologia di un reale impatto sociale e di un forte valore simbolico e partecipativo. Sotto questo profilo, dunque, oggi in piena emergenza sanitaria, l’archeologia pubblica potrebbe avere la reale possibilità di elevarsi a “trasmettitore di cultura”, dare effettiva prova delle sue potenzialità educative, identitarie e di sviluppo sostenibile per intere comunità. Per fare questo essa deve però innanzitutto interrogarsi sullo iato ancora esistente tra visione esperta e non esperta, cercando di superarlo attraverso la promozione della ricerca a ruolo di mediatore tra politica e comunità. Finora questo contatto è stato cercato e

8 Donato 2011, p. 216.

9 Cerquetti, Sánchez-Mesa Martínez, Vitale 2019. 10 Ferretti, Arminio 2019, p. 25.

11 Capriotti, Cerquetti 2016. 12 Carta 1999.

13 Volpe 2020a.

14 Brunelli 2013, pp. 17-19.

15 Il contributo dal titolo Chi si innamora di pratica senza scienza: inseguendo un’utopia è in corso di pubblicazione sull’Annuario dell’Archivio di Stato di Milano (<https://www. archiviodistatomilano.beniculturali.it/it/164/pubblicazioni-ricerche-e-progetti>) e mi è stato gentilmente anticipato dall’autore, F. Valacchi, che ringrazio.

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creato attraverso l’integrazione di uno spazio virtuale, che tenta di rispondere alle diverse esigenze di accesso al patrimonio materiale ed immateriale, scadendo talora in sovrapproduzioni non sempre positive e accurate, come avvenuto nella fase di “bulimia digitale” durante il lockdown16.

Tale passaggio, invece, potrebbe avvenire proprio partendo dalle peculiarità di “dominio” tipiche dell’archeologia: trasversalità con discipline sussidiarie e complementari; attitudine a fare rete tra competenze diverse; metodo indiziario per ricostruire e comprendere dinamiche complesse dietro il mero dato materiale; capacità di lavorare in gruppo in un contesto territoriale, in una concezione “stratificata” della realtà umana, in una elasticità di gestione manageriale e di problem solving, in un continuo equilibrio tra saperi teorici

e sane pratiche. L’archeologia insomma come forma mentale, come modo di guardare e di sentire la realtà17.

Su queste linee concettuali si va riflettendo da tempo e ora più che mai in seno al gruppo di archeologi ed architetti dell’Università di Macerata, oggi da me diretto, che opera da ormai un ventennio nel distretto della Massa Trabaria lungo l’alta valle del Metauro a pochi chilometri da Urbino, di cui centro aggregante è Sant’Angelo in Vado, l’antico municipio romano di Tifernum Mataurense18. Per rilanciare questo territorio intra-culturale anche nell’attuale

difficile congiuntura storica, si sta lavorando ad uno studio di fattibilità per un progetto di ripartenza, a partire proprio dall’impegno in campo archeologico. Impulsi da e per l’archeologia che potrebbero promuovere lo sviluppo e lo studio di altri beni materiali ed immateriali del paesaggio culturale, da quelli storico-artistici, architettonici, archivistici, paesaggistici ed ambientali, a quelli enogastronomici ed artigianali19, che il territorio può vantare,

ampiamente rientranti nei “domini” della sezione di Beni culturali del nostro Dipartimento. Lo spirito collaborativo tra i colleghi che volessero cimentarsi in questa progettualità potrebbe innescare un processo di rinnovamento basato proprio sulla ricerca scientifica in diversi campi disciplinari, parallelamente a quello archeologico. Un network di competenze accademiche, insomma, che

virtuosamente generi sostanza viva e pulsante, da cui possano attingere enti locali pubblici e privati per un rilancio del territorio.

Lo spirito auspicato è quello ben espresso in una riflessione del Petraroia, in cui si argomenta come lo scopo sia quello di:

16 Volpe 2020b.

17 Manacorda 2008, quarta di copertina.

18 Fra i collaboratori del team mi preme in questa particolare occasione ringraziare l’Arch. Francesca Eugenia Damiani per il fattivo concorso di idee e di ricerca bibliografica. Per un inquadramento storico-archeologico del centro tifernate si veda da ultima: Stortoni 2019b; 2020; c.s. a; c.s. b.

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produrre nella popolazione la percezione dell’investimento in cultura come presupposto essenziale dello sviluppo del capitale territoriale e non come costo “a perdere” per mero adempimento a leggi di tutela totalmente estranee agli interessi dei più: a questo (più che all’efficientamento economico) deve servire la “valorizzazione”, da intendersi come “dimensione relazionale della tutela e non sua antagonista”20.

3. L’uomo con la bicicletta

Che in Italia la maggior parte dei visitatori si concentri in una stretta minoranza di musei, monumenti e parchi statali non è certo una novità21. È

abbastanza chiaro che i migliori esempi di valorizzazione in Italia sono collegati ai luoghi della cultura più noti, le c.d. eccellenze; il nodo critico rimane sempre e comunque il sottoutilizzo del patrimonio diffuso. Poiché, nella ricerca delle cause, l’attenzione degli analisti si concentra per lo più sugli aspetti legati all’organizzazione dell’offerta culturale, all’impresa, agli aspetti fiscali, alla mancanza di adeguate metodiche di comunicazione e via dicendo22, a mio modo

di vedere è opportuno ricordare che esiste un problema culturale di fondo, cui nessun correttivo “tecnico” potrà mai porre rimedio.

C’è anzitutto un corpo sociale che il più delle volte non ritiene opportuno investire in cultura e che anzi non di rado prova una malcelata avversione nei confronti degli studiosi. L’uomo con la bicicletta del titolo di questo contributo è un signore che a ogni suo passaggio gridava “oziosi!”all’intera équipe di scavo di un paese marchigiano dove lo smembramento sistematico del patrimonio archeologico era una pratica corrente, naturalmente giustificata da interessi economici superiori. L’esempio potrà apparire estremo, ma in realtà l’ostile ciclista esternava con chiarezza un pensiero da molti taciuto ma condiviso.

Poi c’è la sostanziale impreparazione culturale degli amministratori pubblici e dei gruppi composti da soggetti pubblici e/o privati tra le cui finalità rientra anche quella di favorire lo sviluppo delle aree rurali; parlo di coloro che, proprio appellandosi alla mancanza di grandi attrattori, non sono disposti a sostenere, promuovere o incoraggiare progetti incentrati sullo studio e sulla successiva valorizzazione del patrimonio archeologico. L’obiezione rivela l’incapacità di cogliere nel suo complesso la somma dei capitali di cui un territorio dispone e quella di afferrare l’autentico significato del paesaggio, che sta non solo nelle peculiarità individuali delle singole testimonianze, ma anche nelle relazioni che ne definivano il ruolo nel contesto generale.

20 Petraroia 2014, p. 44.

21 Tarasco 2019, pp. 204-207, ripreso da Manacorda 2020, p. 24. 22 Tarasco 2019; Manacorda 2020; Petraroia 2020.

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La generazione di valori dal capitale territoriale necessita insomma di una lettura fine e soprattutto di consapevolezza storica23, il che ci riporta alla

centralità della ricerca, e all’indipendenza delle sue finalità e dei suoi metodi. È insomma inaccettabile l’idea, non sempre dichiarata apertamente, che si debba far ricerca “per” la valorizzazione e “in vista di” una ricaduta economica. Infatti un conto è sostenere la necessità che la ricerca archeologica abbia una ricaduta sociale e che i suoi contenuti debbano essere condivisi, comunicati e convertiti anche in motore economico, un altro è ritenere che in assenza di utilità pubblica la ricerca diventi un’attività oziosa24. Siamo ancora molto lontani, infatti, da

quella «socializzazione del processo di riconoscimento di valore»25 che in sé

rappresenterebbe l’unico terreno su cui porre le condizioni utili a una vera e propria attività di tutela e di conoscenza dei capitali territoriali.

Un problema di cultura, quindi, sicché la prima strada da percorrere è quella del rapporto con l’intera catena scolastica, dove si formano le generazioni future; la realtà nella quale viviamo non è di certo quella di una scuola che educhi alla sensibilità verso il patrimonio culturale26. Da questo punto di vista

i PON, in una prospettiva di lungo termine, possono forse rappresentare uno strumento efficace.

Una via che viene spesso auspicata è quella della terza missione. Tuttavia allo stato attuale la terza missione mi sembra più una falla del sistema che una soluzione. Da un lato, infatti, le università contano sulla terza missione per incamerare risorse, senza però offrire al personale docente i mezzi necessari a preparare progetti attrattivi; dall’altro, gli enti territoriali si attendono dalle università prestazioni d’opera gratuite ed anzi chiedono alle università di risolvere i loro problemi di accesso ai finanziamenti. Il risultato è un’inevitabile e poco gradita intersezione con le attività delle libere professioni, nonché un inopportuno intervento delle università in attività che – fino a prova contraria – dovrebbero offrire occasione di lavoro retribuito ai laureati che essa stessa forma.

Tutto questo, è bene aggiungere, in un quadro generale in cui la crescente burocratizzazione e i meccanismi di controllo della qualità creano una pressione insostenibile, talché – va detto – si rischia di passare più tempo a costruire facciate che a operare concretamente.

23 Cfr. in proposito la presentazione di Marco Milanese a Stagno 2018 e le considerazioni sui valori del paesaggio ligure in Stagno, Tigrino, c.s.

24 Montella 2019, p. 272. 25 Petraroia 2020, pp. 10-11. 26 Cfr. Moscatelli 2015a.

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4. Ricerca scientifica e patrimonio culturale: opportunità di sviluppo per le aree interne

L’Articolo 9 della Costituzione recita: «La Repubblica promuove lo

sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». In questo testo, limpido ed essenziale, è racchiuso il senso dell’impegno di tutti coloro che lavorano con e per il patrimonio culturale. Questo almeno in teoria.

In un intervento del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (5 maggio 2003), in occasione della consegna delle medaglie d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte, il capo dello Stato sottolineava che «La stessa connessione tra i due commi dell’articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile».

Se ci volgiamo però a guardare i due aspetti ricerca/patrimonio e a verificarne sul campo l’intrinseca complementarità e la reale assunzione dei valori costituzionali che il binomio esprime, spesso restiamo colpiti da risultati mediocri, lontani dai primigeni intendimenti.

Il patrimonio culturale è ormai considerato piuttosto un’industria culturale, che deve rispondere a criteri di efficienza, fattibilità, economicità, profitto27.

Il concetto è pienamente condivisibile laddove contribuisca a ripianare alcune incrostate inefficienze e debolezze dei sistemi operativi che talora in passato avevano reso le «cose d’interesse artistico e storico» (Legge sulla Tutela no 1089

del 1 giugno 1939) un “meraviglioso” ma pesante vagone da gestire e sostenere. E tuttavia il rischio che si corre nel seguire la bussola del mercato – il quale porta con se il concetto di ‘prodotto’ – è quello di allontanare di fatto la ricerca scientifica “sul” patrimonio dalle pratiche di valorizzazione “del” patrimonio, compresa la comunicazione, altro pilastro fondamentale nella politica dei “beni culturali”28. Gli esempi che si possono fare sono moltissimi ed è di tutta evidenza

l’esiguità di “prodotti” ad alto contenuto scientifico, innovativi e accessibili per la trasmissione del sapere. Il che non deve significare automaticamente “prodotti di nicchia”, tanto per restare nel linguaggio mercantile. A causa di una certa bulimia generata nella società dalla giostra continua di eventi mediatici – non sempre necessari – e dalle straripanti offerte turistiche – non sempre consapevoli – il “bene culturale” è diventato troppo spesso un banale e rilucente richiamo, svuotato di contenuto, privato della vera sostanza conoscitiva che solo la competenza disciplinare sa e può garantire. La storia dell’arte, ad esempio, si direbbe in molti casi non pervenuta. Riservata ancora nell’immaginario collettivo alle elucubrazioni di pochi snob autoreferenziali, rinchiusi in esclusivi circoli intellettuali ed accademici, difficilmente viene

27 Cfr. Tarasco 2019 e Manacorda 2020.

28 Data la ricca bibliografia su questi temi, si vedano qui da ultimo Feliciati 2016; Manacorda 2018.

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percepita come disciplina indispensabile non solo alla comprensione dell’opera d’arte in sé ma come strumento di conoscenza reale, allargato al contesto e compartecipe di altri domini (la storia, l’archeologia, l’architettura o la fisica). Non è questa la sede per entrare nel merito delle patologie che affliggono la storia dell’arte – e gli storici dell’arte – di cui già da tempo si fa autocoscienza29.

Vale la pena invece riportare l’attenzione sul ruolo che le singole discipline, e in particolare quelle cosiddette umanistiche, devono mantenere nel sistema di conservazione, valorizzazione e comunicazione del patrimonio culturale. Un ruolo che i cultori della materia e gli accademici devono presidiare e al contempo rendere aperto, privo di pregiudizi e collaborativo, in primis all’interno degli

stessi ambiti disciplinari e comunque tra un settore e l’altro, specie tra le scienze “dure” e quelle umanistiche. La sfida è quella di lavorare davvero in sinergia, di accordare gli strumenti per un’interpretazione che offra la migliore esecuzione possibile. Fuor di metafora, la ricerca scientifica e il patrimonio devono restare saldamente uniti, anche e soprattutto quando quest’ultimo lo si voglia mettere a reddito.

Non c’è altro modo per evitare derive pericolose: da un lato l’inutilità e l’ineluttabile oblio della disciplina, sempre meno condivisa e tramandata, dall’altro la perdita della conoscenza, dell’integrità e della memoria del patrimonio.

Nel momento attuale, la crisi economica che il Covid-19 sta portando con sé non nasconde superandole le crisi preesistenti ma anzi le mette in risalto. Uno dei contesti dove l’assommarsi di eventi catastrofici richiama l’urgente intervento di una rete di saperi, coesi e concreti, è l’area gravata dal sisma 2016, ma in generale in quest’ambito possono rientrare tutte le Aree interne. Spopolamento, isolamento, abbandono e degrado del territorio sono i maggiori sintomi di un’assenza di investimenti “nella manutenzione della cultura” che è di antica memoria (Toscano, 1977). La riattivazione e il rilancio economico di questi territori non può non passare per il consistente e diffuso patrimonio culturale, che costituisce l’ossatura più profonda dell’identità collettiva, il legame materiale e immateriale delle comunità con la memoria di una storia condivisa30. Troppo spesso gli edifici storici e le chiese hanno perso il loro

contenuto di opere, suppellettili o arredi, destinati a rimanere in giacenza nei depositi di ricovero dove la necessità di salvaguardia li avevano confinati provvisoriamente all’indomani di un terremoto o di un’alluvione. L’opera sradicata dal suo contesto e resa perciò in teoria permanentemente fruibile in modo autonomo, nelle mostre o nelle sale museali, ha comportato in molti casi l’abbandono e il deterioramento dell’edificio per il quale era stata pensata e dove aveva una precisa e riconosciuta funzione, lasciato lentamente deperire dalla mancata manutenzione proprio per l’assenza dell’interesse che lo aveva

29 Pinto, Lanfranconi 2006; Montanari 2011.

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caratterizzato. Insieme al bene materiale si perdono memoria, culto, identità, conoscenza. I luoghi periferici si spogliano, diventano terre desertificate, mentre si lascia sempre più spazio alle grandi aggregazioni, ai fenomeni di sicuro richiamo mediatico e quindi di immediato ritorno economico, all’arte “capolavoro”.

L’opportunità che ora si presenta è paradossalmente offerta dai limiti imposti dalla pandemia, dal distanziamento fisico che probabilmente ci condizionerà per molto tempo. È l’occasione per investire risorse economiche ed intellettuali nel far emergere le potenzialità di territori che, rimasti spesso fuori dai grandi circuiti di profitto, offrono la ricchezza e la complessità di un tessuto culturale che è contesto autentico, valore identitario della comunità.

Le difficoltà che finora hanno marginalizzato queste aree possono essere almeno in parte superate grazie all’implementazione di tecnologie digitali che il Covid-19 ha accelerato e che sono ormai indispensabili per sostenere la conoscenza e la comunicazione. L’auspicio è che nell’ampia discussione sulle strategie di sviluppo non venga meno la consapevolezza della centralità del patrimonio culturale e della ricerca scientifica quale perno indispensabile per il rilancio morale ed economico dell’Italia.

5. Il “bisogno di storia” ai tempi di Covid-19: il progetto Diario della quarantena

La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini. È un sapere critico non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo e vive nel dialogo […] Ma nulla di questo può farsi se la storia, come sta avvenendo precipitosamente, viene soffocata già nelle scuole e nelle università, esautorata dal suo ruolo essenziale, rappresentata come una conoscenza residuale, dove reperire al massimo qualche passatempo31.

Con queste parole iniziava l’appello per La storia come bene comune

promosso dallo storico Andrea Giardina, dalla senatrice a vita Liliana Segre e dallo scrittore Andrea Camilleri nel 2019. L’accorato tono del messaggio arrivava in un momento in cui a livello mediatico la comunicazione del passato, soprattutto di quello recente, continuava a rimbalzare sui giornali e sui social media in maniera spesso superficiale e poco meditata. Più da vicino, recepiva

anche le modifiche all’esame di stato che avevano eliminato la cosiddetta traccia

31 La storia è un bene comune, appello lanciato nel 2019 da Andrea Giardina, Liliana Segre, Andrea Camilleri. Cfr. <https://www.repubblica.it/robinson/2019/04/25/news/la_storia_e_un_ bene_comune_salviamola-224857998/>, 04.09.2020. La sezione di Beni culturali dell’Università di Macerata fu tra le prime ad aderire all’appello e a sostenere l’adesione dell’intero Ateneo di Macerata.

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di storia nella prima prova scritta della maturità, invitando dunque il ministero a ritornare su questa decisione. L’appello ha suscitato una forte eco mediatica e non si fa che ripetere che c’è un gran “bisogno di storia” ma di quale storia si parli non sempre risulta evidente e troppo spesso, soprattutto, si continua a sovrapporre i due termini “storia” e “passato” e sfugge invece come la storia non sia altro che un nesso inestricabile tra passato e presente32. Un’occasione di

ripensare allo scorrere del tempo ci è stato dato dal Covid-19: improvvisamente ci siamo ritrovati sospesi tra passato, presente e futuro, costretti a vivere in una dimensione al tempo stesso individuale e collettiva: mai come durante i mesi passati ci siamo potuti rendere conto che, come cantava Francesco de Gregori in anni lontani, «la storia siamo noi, […] nessuno si senta escluso»33.

Perché l’umanità sente il bisogno di conservare? È questa forse la domanda principale a cui tentano di rispondere tutti coloro che si occupano di beni culturali e di storia. Potremmo fare riferimento a una serie di classici del pensiero che hanno provato a rispondere ma risulterebbe pleonastico. Quello che qui ci interessa sottolineare è come durante l’emergenza sanitaria dei mesi scorsi l’esigenza di conservare la memoria di quanto ognuno di noi stava vivendo sia diventata ancora più pressante. La necessità di condividere e di verbalizzare la propria esperienza ha fatto moltiplicare soprattutto sui social media gli spazi di

racconto sulla quarantena34. Ovviamente non solo gli storici si sono cimentati

in questi racconti – pensiamo anche ai numerosi progetti cinematografici in cantiere35 – ma certamente il contesto ambientale ha fatto ripensare anche

agli storici il proprio ruolo come docenti. Un ruolo già fortemente messo in discussione per la difficoltà di trovare nuove modalità didattiche e, per alcuni versi, ridimensionato, ma la cui ridefinizione è oggi ancora più pressante specie in relazione alla dimensione pubblica e civile dello storico. Far dialogare le proprie competenze disciplinari con la propria esperienza di docenti ha significato in questo particolare frangente svolgere anche la funzione di medium rispetto alla

trasmissione del pensiero di una generazione di giovani che si è trovata a vivere la propria vita da studente durante una pandemia di dimensioni globali.

32 Un libro in corso di pubblicazione che è stato indubbiamente influenzato anche dalla contingenza del momento storico presente è quello di Antonio Trampus, Mappe del tempo (Il nostro amico tempo). Ringrazio l’autore per avermi fatto leggere il dattiloscritto in anteprima.

33 Francesco de Gregori, La storia siamo noi, album Scacchi e tarocchi, 1985.

34 Faccio qui riferimento solo a due progetti di ambito “storico”: Storia e storie ai tempi del

coronavirus promosso da Il Giornale di storia: <https://www.giornaledistoria.net/rubriche/storia-e-storie/>, 04.09.2020; Storie virali, a cura di Andrea Carlino e Giovanni Pizza, sul portale Treccani: <http://www.treccani.it/magazine/atlante/speciali/Storie_virali/Storie_virali.html>, 04.09.2020.

35 Basta fare una rapida ricerca su youtube e su google per rendersi conto della quantità di materiali in tal senso. Solo a titolo di esempio si veda il progetto di un gruppo di cineasti bolognesi su cui cfr. L’Italia in quarantena. Call per un documentario collettivo sullo stile di Gabriele Salvatores, «Artribune», 20.03.2020 (https://www.artribune.com/arti-performative/cinema/2020/03/quara-ntena-il-documentario-collettivo-call/, 04.09.2020).

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Interrogarsi su come dare voce alle ragazze e ai ragazzi che abbiamo sentito assai provati durante i mesi del confinamento è stata un’esigenza di alcuni di noi che si sono naturalmente ritrovati intorno a un progetto nato per iniziativa di Marcello Ravveduto all’interno del suo corso di Digital Public History dell’Università di Salerno e che ha portato alla creazione di un sito

Diario della quarantena36 – dove sono stati inizialmente raccolti i racconti

degli studenti salernitani. Anche io, avevo tentato un esperimento simile con i miei studenti del laboratorio di Public History per i beni culturali e il turismo e, di conseguenza, il progetto si è poi allargato alla collaborazione di

diverse Università – Macerata, Teramo, Tuscia, Napoli “l’Orientale” – nella convinzione che la scrittura non solo potesse aiutare gli studenti a riflettere sulla propria condizione ma che raccogliere le testimonianze di una generazione, dei loro sentimenti, fosse anche un modo di «creare delle fonti che consentano agli storici del futuro di ricostruirlo avendo consapevolezza non solo del contesto relazionale ma anche dei sentimenti vissuti»37.

Negli ultimi anni si parla molto di storia delle emozioni anche sulla scia del fascino esercitato dalle neuroscienze in ambito storico e storico-artistico38;

abbiamo oggi una grande occasione, quella di lavorare su un laboratorio di emozioni condivise ma, al tempo stesso, molto personali, che rappresentano un patrimonio prezioso di memoria. Sappiamo bene che storia e memoria sono concetti complessi e soprattutto non sovrapponibili fra loro, è importante però la consapevolezza che ciò che si raccoglie oggi sarà il patrimonio culturale immateriale del futuro. Come docenti di storia credo che il nostro compito oggi all’interno dell’università e, a maggior ragione, in un corso di Beni culturali sia anche questo.

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37 Ravveduto 2020.

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The Cultural Heritage – Territorial

Capital nexus: theory and empirics*

* Robero Camagni, Emeritus Professor, Politecnico di Milano, Department of Architecture, Built Environment and Construction Engineering, Piazza Leonardo da Vinci, 32, 20133 Milano, e-mail: roberto.camagni@polimi.it.

** Roberta Capello, Full Professor of Applied economics, Politecnico di Milano, Department of Architecture, Built Environment and Construction Engineering, Piazza Leonardo da Vinci, 32, 20133 Milano, e-mail: roberta.capello@polimi.it.

*** Silvia Cerisola, Assistant Professor, Politecnico di Milano, Department of Architecture, Built Environment and Construction Engineering, Piazza Leonardo da Vinci, 32, 20133 Milano, e-mail: silvia.cerisola@polimi.it.

**** Elisa Panzera, PhD Student, Politecnico di Milano, Department of Architecture, Built Environment and Construction Engineering, Piazza Leonardo da Vinci, 32, 20133 Milano, e-mail: elisa.panzera@polimi.it.

R o b e r t o C a m a g n i * , R o b e r t a

Capello**, Silvia Cerisola***, Elisa

Panzera****

Abstract

The potential role of cultural heritage in local development has been extensively recognized, both at the academic and institutional level. Its conservation and valorization, however, have been at the center of a lively debate between those who see preservation policies as a mere moral duty and those who see them as part of a wider forward-looking strategy to support economic evolution and performance. This is especially the case now,

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with the Covid-19 pandemic casting additional doubts on the most effective schemes to face and overcome the current crisis. Within this context, the present paper aims at discussing the relationship between cultural heritage and local development in an original manner. Overcoming the traditional idea that the linkage takes place merely through touristic activities, this work puts forward the idea that Cultural Heritage represents one of the multiple elements of what is called “territorial capital” (TC), i.e. the set of territorial assets – material and immaterial, public and private, cognitive and relational – that generates endogenous development. The effects of Cultural Heritage on local development stem from its interaction with the other elements of TC, and in particular from the intermediation of intangible territorial elements like creativity, identity and quality of governance. The paper explains the reasons for such linkages and provides empirical evidence in this sense.

Il ruolo potenzialmente ricoperto dal patrimonio culturale nell’influenzare lo sviluppo economico locale è stato ampiamente riconosciuto sia a livello accademico che istituzionale. Tuttavia, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale sono al centro di un vivo dibattito tra coloro che considerano le politiche di conservazione come mero dovere morale e coloro che invece riconoscono tale attività all’interno di una più ampia e lungimirante strategia a supporto delle dinamiche di sviluppo economico. La pandemia di Covid-19 ha insinuato ulteriori dubbi riguardo le strategie più efficaci per affrontare e superare l’attuale crisi. Il lavoro proposto in questo articolo ha l’obiettivo, all’interno di questo contesto, di discutere il legame tra patrimonio culturale e sviluppo locale proponendo un approccio originale. Superando la tradizionale idea secondo cui tale legame si concretizza esclusivamente attraverso le attività turistiche, il nostro lavoro suggerisce l’idea di patrimonio culturale come uno dei molteplici elementi facenti parte del cosiddetto “capitale territoriale” e cioè quell’insieme di elementi territoriali – materiali e immateriali, pubblici e privati, cognitivi e relazionali – che genera sviluppo endogeno. Gli effetti del patrimonio culturale sullo sviluppo locale derivano dalle sue interazioni con gli altri elementi di capitale territoriale, e in modo particolare dalla mediazione di elementi territoriali intangibili quali la creatività, l’identità e la qualità della governance locale. L’articolo spiega le ragioni di questi legami e ne fornisce una corrispondente evidenza empirica.

1. Introduction

The relevant role of cultural heritage for individuals, communities, countries and supranational identities seems to be nowadays fully recognized. Several beneficial effects are associated with the presence of cultural heritage such as societal cohesion, individual well-being and knowledge creation among others.

The economic spillovers deriving from the presence of heritage have also been increasingly acknowledged. Citing from the report Getting Cultural Heritage to Work for Europe «cultural heritage must be seen as a special but integral component in the production of the European GDP and innovation, its growth process, competitiveness and in the welfare of European society»1.

Figura

Tab. 1. A theoretical taxonomy of the components of territorial capital (Source: adapted from  Camagni 2019)
Tab. 2. Potential areas of cultural heritage impact (Source: Authors’ elaboration on CHCfE  2015
Fig. 1. A visual representation of possible combinations of creativity endowments in a local  area (Source: Cerisola 2018a)
Fig. 3. A visual representation of the proposed taxonomy of modes of expression of territorial  identity(ies) (Source: Panzera 2020)
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