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Guarda Che fine ha fatto il futuro?

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Academic year: 2021

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Itinera, N. 1, 2011. Pagina 199

Che fine ha fatto il futuro?

di Roberta Candia

Pensare il tempo ha sempre rappresentato una necessità per l’individuo. Infatti, come dato immediato della coscienza, il tempo ap-pare sia componente essenziale della natura, sia strumento privilegiato per comprenderla e governarla. Oggi, nell’epoca del sistema globale, a tale carattere di necessità si accosta pariteticamente quello di sfida, poiché ogni elemento costitutivo della società vuole far credere che l’individuo si collochi irrimediabilmente fuori dalla storia. La sovrab-bondanza senza precedenti degli attuali mezzi sembra obnubilare la vi-sione dei fini in tutti gli ambiti della nostra vita artistica e socio-culturale, proprio nel momento in cui il progresso scientifico e quello tecnologico dovrebbero garantirne una maggiore chiarezza, come se ambizione scientifica e arroganza tecnologica avessero prodotto una timidezza filosofica che non lascia all’individuo la possibilità di espri-mersi circa la comprensione delle proprie mète.

In questa essenziale raccolta di capitoli sul tema, Marc Augé trasfe-risce il noto concetto di ‘nonluogo’ alla dimensione temporale con una naturalezza garantita dallo stesso celebre neologismo. I ‘nonluoghi’, in-fatti, sono spazi non identitari incentrati solamente sul presente che danno vita a quelle che l’autore definisce ‘culture dell’immanenza’. Essi sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta, dalla provvisorietà, dal transito. Se fino a questo momento si è sempre avvertita l’urgenza di tentare di costruire un pensiero dell’avvenire e del tempo come principio di speranza, de-clinando tali tentativi di volta in volta come possibilità di sviluppo o di rivoluzione, a seconda della prospettiva culturale in cui li si inseriva, oggi il grande dibattito sul futuro sembra ripiegarsi su se stesso e ri-dursi all’egemonia dell’hic et nunc. L’accelerazione vertiginosa della

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storia è una delle cause di tale avvilente ripiegamento: la disponibilità immediata di tutto ciò che può essere consumato e l’evidenza schiac-ciante del fatto compiuto che si impone hanno prodotto un appiatti-mento del passato che non è più percepito come radice del frutto pre-sente e, ancor peggio, una saturazione dell’immaginazione del futuro.

La prima conseguenza della globalizzazione è la cancellazione delle frontiere, che si vorrebbe equivalente alla cancellazione del tempo mes-sa in scena dalle moderne tecnologie dell’immagine che confortann la pericolosa ideologia del presente e gareggiano con le religioni e le visio-ni del mondo nella determinazione del tempo e dello spazio. Abituato a giustificare l’esistente così com’è, perdendo di vista il potenziale di ogni esistibile, l’individuo inizia erroneamente a concepire la cultura come natura ed è proprio questo rischio concettuale che genera in lui la ras-segnazione al presente, annientando la sua capacità di introspezione intellettuale, l’attitudine a spostare i confini, la vocazione a restare nel-la storia senza immonel-larsi al sistema.

Se la confusione sul tema del tempo è spiacevole per ogni individuo, il problema si pone in maniera ancora più radicale per l’individuo-creatore. Un artista, infatti, dice di necessità qualcosa intorno alla pro-pria epoca, sia che vi si riferisca direttamente, sia che decida di farlo solo tangenzialmente. Il suo rapporto con il contesto storico si fonda su equilibri sempre precari. Veri precursori e innovatori sono solo coloro che appartengono in tutto e per tutto alla propria epoca, ma senza la-sciarsene ingabbiare e, anzi, allargando l’orizzonte della contempora-neità in una sorta di pre-visione mai slegata totalmente dai retaggi del passato. Come affrontare allora la sensazione di non appartenere più completamente al proprio tempo? Non basta che un’opera riproduca l’esistente perché la si possa considerare originale, poiché per essere contemporanea – oltre che attuale – l’opera ha bisogno di passato e di futuro. L’arte contemporanea, a parere di Augé, si trasforma in un’esperienza globalizzata come il turismo di massa: la grande arte

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rebbe morta, sostituita da un estetismo fine a se stesso che non si cura dell’opera, dell’aura, della contemplazione. Le opere sarebbero state so-stituite dalle pose: eventi, incontri, performance e installazioni altro non sarebbero che riproduzioni del contesto. In questo modo, facendo il contesto da contenuto dell’arte, si conserverebbe una certa pertinenza dell’opera rispetto alla sua epoca, ma andrebbe persa qualsivoglia sua presenza reale, qualsiasi capacità simbolica, poiché per sottrarsi all’eccessiva evidenza dell’immagine l’arte si rifugerebbe in nuovi er-metismi. È necessario che essa ripensi dunque le proprie condizioni di pertinenza, riannodando i legami tra storia interna e storia esterna, tra storia della disciplina e storia contestuale. Questa sarebbe, secondo l’autore, la nuova sfida lanciata all’arte contemporanea: resistere alla fagocitazione del contesto, senza dimenticare che è l’individuo la misu-ra di tutte le cose. Chiunque sia in gmisu-rado di inventare un discorso sin-golare, per il solo fatto di averlo messo in opera, di averlo reso esisten-te, potrà dire di aver smentito l’apparente ineluttabilità dell’evidenza mediatica e della rassegnazione consumistica.

Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al non tempo, trad. it. di G. Lagomarsino, Eleuthera, Milano 2009, pp. 112.

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