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Complessità, campo e mentalizzazione

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COMPLESSITÀ, CAMPO E MENTALIZZAZIONE

Angelo R. Pennella

(Psicologo, psicoterapeuta, docente di Psicoterapia presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute della Facoltà di Psicologia 1 dell’Università “ La Sapienza” di Roma)

Una volta che abbiamo aperto gli occhi, possiamo pensare a un nuovo modo di vedere il mondo, ma non potremo più tornare indietro alla vecchia visione.

(Sir Arthur Eddington, 1927)

Probabilmente ricorderete “Il borghese gentiluomo”, un’opera che Molière scrisse nel 1670 ed in cui si narra di un bravo borghese – monsieur Jourdain – che invece di godersi le ricchezze conquistate nel corso di una vita di lavoro decide di frequentare i salotti dell’aristocrazia francese, diventando l’involontario oggetto di burla per una nobiltà che ammira ma che non riesce tuttavia a comprendere. Nel corso di una conversazione in cui si discuteva di prosa e poesia, Jourdain si rende improvvisamente conto di aver sempre parlato in prosa: questa inaspettata scoperta lo stupisce e lo entusiasma.

La reazione del buon Jourdain ricorda un po’ quella che a volte si ha quando ci si scontra con la complessità dei rapporti esistenti tra le cose, anche quelle che a noi sembrano tra loro distanti ed indipendenti.

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Sebbene il termine, come ha notato Ulrich Beck (1999), abbia molteplici significati, è spesso utilizzato per indicare il processo che ha condotto il mercato, una dimensione cioè squisitamente economica, a sostituirsi all’azione politica: in tale accezione, questa parola esprime l’idea del primato che l’economia sembra aver acquisito nei confronti della politica, tant’è che oggi, citando ancora Beck (2007), si può tranquillamente affermare che il mezzo di coercizione più efficace “non è la minaccia di invasione, bensì la minaccia di non invasione da parte degli investitori, oppure la loro partenza. Come a dire, c’è solo una cosa peggiore di essere sommersi dalle multinazionali, e cioè quella di non esserlo”.

Il termine ha però anche un altro significato, forse più congruente allo stupore di cui si diceva, quello in cui la parola è usata per segnalare l’interdipendenza che lega le diverse componenti del mondo e che si concretizza, tra l’altro, nella nascita di una serie di organismi e sistemi trans-nazionali deputati a gestire le relazioni tra stati, enti ed organizzazioni produttive. In questa seconda accezione, il termine esprime dunque l’idea di una “società-mondo” in cui non sono più pensabili spazi chiusi e realtà autonome e indipendenti ed in cui nulla, sia essa un’innovazione tecnologica o una catastrofe ambientale, può avere un carattere meramente locale.

Come Jourdain, ci troviamo quindi spesso a meravigliarci, ad esempio guardando l’etichetta di un capo di abbigliamento di un noto brand italiano fabbricato dall’altra parte del mondo o scoprendo che i bond di un lontanissimo Paese incidono sull’investimento fatto con la banca sotto casa: tutto ci appare improvvisamente collegato.

Da questo punto di vista, il concetto di globalizzazione, con il suo richiamo ai processi di reciproco influenzamento ed interdipendenza che caratterizzano le entità politiche ed economiche del nostro globo, può essere inteso come l’ennesima declinazione di un modo di guardare la realtà in cui il focus non sono più (o solo) i singoli eventi – siano essi economici, politici o sociali – quanto le relazioni esistenti tra il tutto e le parti.

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È evidente che ci si sta riferendo agli studi interdisciplinari dei sistemi complessi adattivi e dei fenomeni che sono ad essi associati, in altre parole alla cosiddetta teoria o epistemologia della complessità (Ceruti, 1986). In questo modo di considerare il mondo, sia che si tratti di turbolenze atmosferiche, di colonie di insetti o di altre popolazioni animali sottoposte a fluttuazioni erratiche, dello sviluppo delle malattie epidemiche, dell’evoluzione dei regimi politici, di reti di telecomunicazioni, di movimenti sociali o di andamento dei mercati azionari, [si sostiene che] i sistemi complessi dinamici – insiemi aperti e instabili – non possono essere descritti attraverso l’analisi classica, che consiste nel segmentare il tutto e nel cercare di comprenderlo attraverso la scomposizione delle sue funzioni elementari. (Benkirane, 2002, p. 9) .

Nella visione complessa31 della realtà si attribuisce un ruolo privilegiato a termini e concetti quali entropia, casualità, caos e, non ultimo, appunto, interdipendenza.

Un’utile esemplificazione, in questo senso, ci viene dal cosiddetto effetto

farfalla.

Sebbene l’origine di questa fortunata espressione non sia del tutto chiara, è tuttavia assodato che in una pubblicazione apparsa negli anni Sessanta a firma di Edward Lorenz si dichiarò che anche il battito delle ali dei gabbiani può incidere sui mutamenti meteorologici. Il concetto fu riaffermato nel 1979 nel corso di una comunicazione effettuata da Lorenz all’annuale convegno dell’American Association for the Advancement of Science in cui fu però utilizzata la più suggestiva immagine del battito delle ali di una farfalla (Gleick, 1987).

L’effetto, che esprime la cosiddetta “dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali”, afferma che ad infinitesime variazioni delle condizioni di contorno o, se

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Può essere interessante evidenziare le differenze esistenti tra due aggettivi – complesso e complicato – spesso utilizzati erroneamente come sinonimi; mentre il primo deriva infatti dal latino cum plexum (tessuto insieme), suggerendo quindi l’idea dell’intreccio delle parti o delle componenti di un sistema – sia esso fisico, biologico o sociale – il secondo deriva da cum plicum ed indica pertanto la piega di un foglio. “La complicatezza rimanda quindi alla linearità del plicum, mentre la complessità ci fa percepire l’interconnessione del plexum.” (De Toni, Comello, 2005, p.13)

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preferisce, di ingresso, corrispondono notevoli variazioni, sia pure sempre finite, in uscita. Nei sistemi complessi, come quello climatico, se si modificano cioè in modo anche minimo i dati di input, si incide consistentemente sul processo e pertanto sul risultato finale32.

Nonostante il carattere scientificamente innovativo dell’affermazione di Lorenz, il concetto non era però ignoto, tant’è che nel folklore si possono rintracciare molti aneddoti e storie, come quella citata da Gleick (1987) e Smith (2007), in cui eventi assolutamente marginali producono, grazie ad interconnessioni “improbabili”, conseguenze inimmaginabili33.

Tornando al concetto di globalizzazione, e facendo tesoro di quanto detto a proposito dell’effetto farfalla, è evidente che ogni realtà “locale”, intendendo con questo termine uno spazio – si pensi ad un quartiere, un piccolo paese o una zona del pianeta piuttosto isolata – geograficamente e territorialmente identificabile, è sempre all’interno di circuiti più vasti e dunque anche quello più isolato non è che un microambiente di un sistema globale che non può che influenzarne le caratteristiche ed esserne naturalmente influenzato34: in sostanza, nulla è scindibile dal sistema a cui appartiene.

L’interdipendenza di cui si sta parlando richiama ovviamente anche logiche causali diverse da quella lineare, così cara alla scienza classica (Pennella, 2003, 2005).

Se si ragiona infatti in termini di globalizzazione o, se si preferisce, di sistema, non si può più pensare di poter spiegare i fenomeni – poco importa se naturali o culturali, ammesso che questa distinzione possa essere ancora sostenuta –

32 L’effetto farfalla ci consente, tra l’altro, di comprendere le difficoltà dei meteorologi a formulare previsioni a

lungo termine attendibili per i fenomeni atmosferici: la questione, infatti, è che qualsiasi modello finito che tenti di simulare un sistema complesso deve necessariamente escludere alcune informazioni sulle condizioni iniziali, informazioni che, pur minime, incidono tuttavia in modo rilevante sulla previsione in quanto, cumulando progressivamente il loro effetto, fanno sì che l’errore residuo nella simulazione superi il risultato stesso.

33 La storia a cui ci si riferisce è la seguente: “Per colpa di un chiodo si perse lo zoccolo; per colpa di uno

zoccolo si perse il cavallo; per colpa di un cavallo si perse il cavaliere; per colpa di un cavaliere si perse la battaglia; per colpa di una battaglia si perse un regno!”

34 Lampante, in questa prospettiva, il problema dello smaltimento dei rifiuti solidi lasciati dagli alpinisti

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all’interno di semplici connessioni lineari in cui l’evento “A” determina l’evento “B”, in cui cioè qualcosa è sempre e solo l’esito di un’unica causa, ma si deve prendere in considerazione meccanismi fondati sulla retroattività, l’iterazione, ecc.

Giunti a questo punto il lettore potrebbe chiedersi il motivo di questi richiami ad ambiti disciplinari piuttosto distanti da quello proprio di chi scrive: in fondo, il mutamento prospettico indotto dall’epistemologia della complessità è ormai noto e soffermarsi così a lungo su di esso per avviare un discorso lo renderebbe un ipertrofico artificio retorico. In realtà, quanto detto finora non è un mero incipit, al contrario, aiuta a tratteggiare lo scenario in cui inscrivere le nostre riflessioni in merito al tema della mentalizzazione e a fornire ad esse interessanti supporti analogici. D’altro canto, come ci ha ricordato Edgar Morin, è sempre necessario contestualizzare ogni evento, ogni fatto, invece di isolarlo. Tutti gli sforzi volti non tanto a isolare un’informazione o un oggetto di conoscenza, quanto ad inserirlo nel suo contesto, possono essere d’aiuto. Credo che ogni sollecitazione a contestualizzare e a globalizzare possa essere estremamente utile a ciascuno di noi, tanto nella vita quotidiana quanto nelle riflessioni riguardanti i grandi problemi mondiali. (Morin, 2002, p. 26).

Per saldare quanto detto al concetto di mentalizzazione iniziamo col dire che il processo culturale e scientifico a cui ci si sta riferendo non ha caratterizzato solo le scienze nomotetiche ma anche quelle idiografiche, in modo particolare alcuni settori della psicologia clinica, della psicoterapia e della psicoanalisi. Anche in queste discipline si è infatti affiancata ad una prospettiva centrata sull’individuo, coerente ad un paradigma monopersonale in cui il fenomeno “locale” viene scisso dalle relazioni in cui è inscritto, una visione in cui si è attenti anche all’interazione psicologo-cliente o psicoterapeuta-paziente e al contesto – nello specifico il setting (Pennella, 2002; 2004) – in cui e con cui si sviluppa l’interazione stessa.

A questo punto, parliamo brevemente di mentalizzazione.

In linea con Fonagy e coll. (cfr. Fonagy, Target, 2000; Fonagy, 2002; Allen, Fonagy, 2006) possiamo intenderla come una serie di processi psicologici che

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rinviano alla capacità di effettuare ipotesi e riflessioni sul proprio e sull’altrui comportamento considerando questo ultimo l’espressione di stati mentali, quali sentimenti, convinzioni, intenzioni, desideri, ecc. In sostanza, il termine mentalizzazione si riferisce alla capacità di “percepire in modo immaginativo e interpretare il comportamento come connesso a stati mentali intenzionali” (Allen, 2006, p. 37).

Naturalmente si tratta di un processo sia esplicito che implicito, si può infatti riflettere e parlare degli stati mentali in modo consapevole, ma li si può anche cogliere in modo automatico ed intuitivo, tant’è che si parla di affettività

mentalizzata per indicare proprio la capacità di vivere i propri affetti continuando

ad essere immersi in essi.

Di fatto, il concetto di mentalizzazione evoca una serie di altri costrutti da tempo utilizzati in psicologia, basti pensare all’introspezione e al mindfulness, alla capacità cioè di vivere pienamente l’esperienza durante il suo evolversi, di essere

nel momento presente, per dirla con Daniel Stern (2004), ma anche alla

alexithymia, termine coniato da Sifneos nella prima metà degli anni Settanta per denominare un disturbo affettivo-cognitivo che si esprime proprio in una particolare difficoltà a vivere, identificare e comunicare le emozioni. La marcata difficoltà a descrivere le emozioni e ad esserne consapevoli, la riduzione delle attività mentali connesse all’immaginazione con una parallela e consistente centratura sugli aspetti più concreti dell’ambiente esterno e del proprio corpo sono infatti tutti elementi che Sifneos ha rilevato nei pazienti psicosomatici e che possono essere ricondotti all’interno di un deficit della funzione riflessiva (Amadei, 2006).

Si può inoltre considerare il concetto di mentalizzazione una sorta di ponte tra lo psichico e il somatico. Nel momento infatti in cui se ne dichiara il carattere sia esplicito che implicito (Allen, 2006) non si può che istituire una connessione tra la funzione riflessiva ed il concetto di coscienza.

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In effetti, quando si parla oggi di coscienza come funzione propria agli esseri umani, non si fa riferimento solo alla consapevolezza di ciò che accade nel momento in cui accade, ma ci si riferisce anche e specialmente alla autoconsapevolezza o autocoscienza, alla possibilità cioè di poter pensare le proprie percezioni ed emozioni, di poterle collocare nel presente e nel passato, di inserirle in una rappresentazione integrata di Sé. La coscienza, così come la intendiamo normalmente, è quindi molto di più della semplice consapevolezza dei nostri stati interni, è una funzione continua di accoppiamento che raccorda, in una costante oscillazione, gli stati attuali e pregressi del Sé con quelli correnti del mondo esterno (Chiodi, 2004).

Per fare un esempio piuttosto banale, quando si inizia a percepire un dolore fisico, la coscienza non consente solo di coglierne l’insorgenza ma ne individua anche la sede e la possibile causa, ricorda l’ultima volta in cui si è avvertito qualcosa di analogo – cosa che agevola l’istituzione di nessi e di possibili significazioni per quella specifica sensazione – e sviluppa previsioni sul suo possibile futuro.

Ciò che indichiamo come coscienza è pertanto un fenomeno che si radica in una serie di elementi (non coscienti) relativi allo stato dell’organismo, che si sviluppa in una fugace e transitoria consapevolezza degli eventi esperiti nel “qui ed ora” e che si organizza infine in una articolata rappresentazione delle esperienze individuali declinate in un continuum temporale in cui il presente è sempre associato ad un passato e ad un possibile futuro.

Questa concezione della coscienza, in cui è facile rintracciare il lavoro di Damasio (1999), evoca però anche la teoria di Matte Blanco (1975) e ci potrebbe indurre a riflettere sulla possibilità di intendere la mentalizzazione come l’esito di una mente in grado di coniugare la “sensazione-sentimento” che lega l’emozione alla fisicità – cioè ai suoi inevitabili correlati corporei – ed entrambe al pensiero, funzione in grado di collegare, grazie alla sua continua istituzione di relazioni, gli affetti all’oggetto.

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Fermiamoci tuttavia qui.

Sia pure con brevi note, riteniamo infatti di aver fornito elementi sufficienti a segnalare ciò che ci interessava e cioè la tendenza ad inscrivere il concetto di mentalizzazione all’interno di una prospettiva monopersonale.

In effetti, sembra emergere una diffusa propensione a considerare la funzione riflessiva una competenza individuale e ciò nonostante ampie evidenze empiriche dimostrino quanto essa sia in realtà l’esito di una scarsa qualità delle relazioni precoci tra il bambino ed il proprio caregiver. Riprendendo quanto detto nella prima parte del presente lavoro, la mentalizzazione sembra dunque spesso affrontata nei termini di una “realtà locale” scindibile dal sistema in cui è inserita.

Sebbene questo approccio possa avere una sua utilità sul piano della ricerca empirica, ci sembra tuttavia legittimo interrogarci sulla sua congruenza con una prospettiva epistemologica improntata alla complessità e con una prassi clinica orientata alle relazioni. In sostanza, non potrebbe essere interessante spostare l’attenzione dagli individui, in questo caso dalle loro capacità metacognitive, alla relazione ma anche al campo in cui si sviluppano le interazioni?

Allo scopo di fornire a questa domanda una sia pure parziale e provvisoria risposta ci sembra utile effettuare una rapida incursione nell’ambito della fisica.

Seguendo in questo un interessante lavoro di Riolo (1997), è possibile affermare che per lungo tempo – fino a Newton, per intenderci – si era convinti che l’unico modo con cui un corpo poteva incidere su un altro corpo era il contatto, si affermava cioè che un oggetto poteva influenzarne un altro solo attraverso una spinta, una trazione o un urto. La teoria della gravitazione universale dimostrò invece che due oggetti possono interagire tra loro ed influenzarsi reciprocamente anche a distanza, in assenza cioè di una relazione diretta. Il fenomeno dell’azione a distanza tra corpi trovò una spiegazione solo alla fine dell’Ottocento grazie alla teoria dei campi elettromagnetici di Farady e Maxwell, il cui assunto è che lo spazio non è qualcosa di inerte, un mero recipiente di oggetti, bensì un luogo perturbato soggetto ad intense variazioni di energia.

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Lo spostamento dell’attenzione dagli oggetti alle relazioni esistenti tra gli oggetti appare ancora più evidente nella teoria della relatività. Einstein ed Infeld affermarono infatti che ogni interazione (elettrica, magnetica, gravitazionale) può essere descritta in termini di campo, con cui non si indica però una regione dello spazio (ad esempio la regione intorno ad una carica elettrica) ma l’insieme dei valori che una determinata grandezza fisica assume in una particolare sezione dello spazio-tempo: il campo non è cioè un luogo in cui avvengono degli eventi ma è una distribuzione di intensità.

In tempi immediatamente successivi, grazie alla teoria quantistica, la fisica giunse a considerare i corpi ed il campo fenomeni complementari: la materia può essere infatti descritta in termini di stati energetici discontinui – i “quanti” appunto – che possono manifestarsi sia come particelle, corpi o sostanze, sia come onde, radiazioni o campi.

Applicando in termini analogici quanto appena detto alla pratica clinica, potremmo pensare che ciò che appare come un fenomeno meramente individuale – le competenze metacognitive del soggetto – potrebbe essere considerata un’espressione del campo. Potremmo cioè dire che la capacità a mentalizzare è sì una competenza individuale ma anche uno stato discontinuo del campo bipersonale che si manifesta nella maggiore o minore capacità della coppia ad elaborare un pensiero sugli stati mentali. In sostanza, la mentalizzazione sarebbe espressione di un campo in perenne trasformazione, che implica un’impossibilità che qualcosa rimanga al di fuori di esso, una volta che ci sia quel Big Bang che prende vita dai mondi possibili generati dall’incontro di paziente ed analista all’interno del setting […] Il campo ha dunque una natura oscillatoria tra continua apertura di senso […] da un lato e ineluttabile chiusura di senso e rinuncia a tutte le storie possibili a favore di quella che maggiormente urge di essere raccontata. (Ferro, 2007, p. 65).

In questa prospettiva, le difficoltà che si evidenziano in alcune relazioni cliniche e che si concretizzano in un soffocante invischiamento sui “fatti” e nella incapacità a sviluppare associazioni, raccontano un campo in cui la funzione

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riflessiva della coppia risulta insufficiente a sviluppare ipotesi e riflessioni sugli stati mentali. Questa defaillance ostacola l’accesso alla natura rappresentativa del proprio e dell’altrui pensiero incrementando la vulnerabilità di entrambi i soggetti alla eterogeneità fenomenica dei comportamenti espressi nel corso della relazione. In questa condizione, ci si trova nella impossibilità di andare oltre la realtà immediata dell’esperienza, a cogliere quindi le differenze esistenti tra apparenza e significato, tra comportamento e stato mentale sotteso.

In questo assetto, che può caratterizzare il campo in modo momentaneo o durevole, ci si trova nella impossibilità a sviluppare un’effettiva alleanza terapeutica (Lingiardi, 2002; Pennella, Grasso, 2009) e, conseguentemente, una relazione produttiva fondata sul miglioramento della propria capacità di comprendere ed intervenire sulla relazione all’interno di un contesto (setting) che si condivide con l’altro.

Quanto detto non stupisce se si considera il fatto che la mentalizzazione concorre all’adattamento nell’ambito delle relazioni sociali, in cui ovviamente rientra anche il colloquio clinico.

Fonagy (2006), ad esempio, ci ricorda che ogni essere vivente può adattarsi e sopravvivere solo se è in grado di fronteggiare con successo le forze ostili della natura e la competizione con i propri conspecifici. La possibilità di aggregarsi in gruppi più o meno estesi, di costituire cioè una rete di relazioni fondata sulla condivisione di comportamenti e strategie, offre a tutti gli esseri viventi un vantaggio competitivo che può essere ulteriormente rinforzato laddove si riesca a perfezionare la capacità di comprendere interessi, obiettivi ed intenzioni dell’altro. Nel momento in cui si raggiunge una buona capacità comunicativa e si riesce a formulare inferenze sugli stati mentali dell’altro è infatti possibile non solo condividere meglio all’interno del proprio gruppo una specifica rappresentazioni della realtà, ma è anche possibile elaborare in modo anticipato e più efficace le contro-strategie da attuare nei confronti di chi si ritiene nemico. Partendo quindi dall’assunto che è la mente a governare le nostre azioni “la possibilità di

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interpretare e anticipare il comportamento permette la cooperazione, offre un vantaggio competitivo e seleziona continuamente nella direzione di livelli sempre più alti di capacità interpretativa sociale” (Fonagy, 2006, p. 95).

Se dunque dal vertice individuale la capacità di riconoscere nell’altro emozioni, desideri, intenzioni può aiutare la persona ad elaborare una teoria della mente con cui spiegare il proprio e l’altrui comportamento, dal punto di vista delle relazioni sociali la funzione riflessiva consente lo sviluppo di progetti e strategie comuni e condivise, di definire obiettivi in cui ciascuno può riconoscersi ma anche riconoscere l’altro. Per questo motivo, riteniamo possibile considerare la mentalizzazione un indicatore della competenza sociale ad istituire relazioni in cui l’altro non è un oggetto che può o deve essere controllato o distrutto – come accade al buon Jourdain nel suo rapporto con gli aristocratici – ma un soggetto che si comprende e con cui è possibile una proficua relazione di scambio. Non a caso, quando interagiamo in una modalità mentalizzante, cerchiamo di capirci l’un l’altro come persone autonome e di influenzarci a vicenda sulla base di ciò che abbiamo capito. In una modalità non mentalizzante, possiamo disumanizzarci e trattarci l’un l’altro come oggetti, diventando coercitivi e controllanti. Se mentalizziamo possiamo persuadere l’altro a desistere; se non riusciamo a mentalizzare possiamo solo metterlo da una parte con una spinta. (Allen, 2006, p. 38).

Nel momento in cui non è possibile pensare i nostri e gli altrui stati mentali, elaborare inferenze sui bisogni, i desideri e le motivazioni di noi stessi e degli altri non c’è infatti altra strada che agire le emozioni, cosa che svuota però le persone di ogni “umanità” rendendo il campo un luogo in cui è possibile solo evacuare in allucinazioni, malattie psicosomatiche, comportamenti delinquenziali le emozioni che non si è stati in grado di elaborare grazie e all’interno della relazione.

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