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"Splendida progenies regali ex semine cretus (...). (...) ut sibi per saeculum maneat memorabile nomen". Le epigrafi del ducato longobardo di Benevento tra memoria funeraria e ostentazione del potere

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COMUNE DI CIMITILE FONDAZIONE PREMIO CIMITILE SECONDA UNIVERSITÀ DI NAPOLI

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DEL MOLISE

ARISTOCRAZIE E SOCIETÀ

FRA TRANSIZIONE ROMANO-GERMANICA

E ALTO MEDIOEVO

Atti del Convegno internazionale di studi

Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 14-15 giugno 2012

a cura di

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TAVOLARIO EDIZIONI

2015

DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANISTICHE, SOCIALI E DELLA FORMAZIONE CENTRO DI STUDI LONGOBARDI

(2)

Enti promotori

Comune di Cimitile

Fondazione Premio Cimitile Seconda Università di Napoli, Università degli Studi del Molise

Impaginazione: Laura Iodice

In copertina: Città di Castello (Pg), Museo del Duomo: tesoro di Canoscio, piccolo piatto. A pagina 1: Garda (Vr), fibula a vortice.

© 2015 by Tavolario Edizioni San Vitaliano (NA)

tel. 0815198818 - info@tavolariostampa.com ISBN 978-88-906742-9-7

Dipartimento di Lettere e Beni culturali

Dipartimento di Scienze umanistiche, sociali e della formazione Centro di Studi Longobardi

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CHIARA LAMBERT

SPLENDIDA PROGENIES REGALI EX SEMINE CRETUS (…). (...)

UT SIBI PER SAECULUM MANEAT MEMORABILE NOMEN

LE EPIGRAFI DEL DUCATO LONGOBARDO DI BENEVENTO TRA

MEMORIA FUNERARIA E OSTENTAZIONE DEL POTERE

Nell’esame e nella comprensione del ruolo svolto dall’aristocrazia longobarda italomeridionale nel ridisegnare le strutture della società tardoantica secondo forme politiche e culturali proprie dell’alto medioevo, l’analisi epigrafica può offrire un con-tributo non trascurabile. La documentazione superstite dei principati della

Langobar-dia minor, e in particolare quella beneventana, per quanto fortemente dimiLangobar-diata a

causa di varie vicende che ne hanno limitato la conservazione e la trasmissione nei secoli1, costituisce un indicatore puntuale della ‘transizione’ tra una realtà

‘romano-germanica’ e quella altomedievale2, poiché partecipa - per consapevole scelta dei suoi

committenti -, tanto dell’antichità quanto del medioevo incipiente. Elitarie quasi per definizione, a differenza di quanto avveniva nel mondo romano classico, le iscrizioni longobarde appaiono ridotte nei numeri, ma qualitativamente più elevate, per l’ori-ginalità dei contenuti, ricchi di reminiscenze classiche - siano esse storico-letterarie o mitologiche -, non meno che per la pluralità di funzioni affidate al testo, spesso volto anche a legittimare il potere ‘germanico’, e, non in ultimo, per le scelte grafiche, talora molto prossime alle contemporanee innovazioni nel campo della scrittura libraria.

Il debito nei confronti della romanità è incontestabile per il fatto stesso di aver adottato - a secoli di distanza - uno strumento comunicativo che di essa era proprio e che ne costituiva una delle più diffuse forme espressive; il contributo della componen-te germanica emerge invece dall’analisi dei concomponen-tenuti - ideologici, politici e religiosi, spesso intrecciati tra di loro - determinanti nella formazione di quello che si configurò come un vero e proprio ‘genere letterario’ o ‘paraletterario’. In quanto tale, esso era indissolubilmente legato alla scrittura tradizionalmente intesa, vale a dire allo strumento in grado di ‘fissare’ il pensiero, divenuto parola, in una forma di trasmissione reiterabile

1 Benevento ha manifestato nei secoli una notevole e rara consapevolezza del valore

storico-documentario delle proprie memorie epigrafiche, le più significative delle quali nel XII secolo vennero esposte in gran numero sulla facciata della cattedrale. Tale materiale, gravemente danneggiato dai bombardamenti alleati del 1943, fu solo parzialmente recuperato nei successivi anni della ricostruzione ed entrò a far parte delle collezioni del locale Museo Diocesano, ad eccezione di un frammento, esposto presso il Museo Provinciale del Sannio (lambert 2012, pp. 103-105, 113, figg. 2-4).

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senza alterazioni. Il testo acquistava inoltre una sorta di ‘valore aggiunto’ nella traspo-sizione dalla pergamena alla pietra, tendenzialmente più durevole e pertanto in grado di assicurare perennitas al messaggio anche attraverso la sua esposizione.

Presso i Longobardi, le prime espressioni di una produzione in versi potenzial-mente destinata alla trascrizione sia su supporto morbido, sia su quello lapideo3 si

devono a Paolo Diacono, uomo di cultura, di chiesa e di palazzo, che seppe contempe-rare le diverse istanze di questo suo triplice ruolo, dando vita, accanto ad un’articolata narrazione storica delle vicende del suo popolo, ad una parallela produzione epigra-fica ‘di corte’ fortemente ancorata al genus e che, in certa misura, contribuì anche alla formazione del suo épos. Il recupero dell’Origo Gentis Langobardorum - la più antica stesura di una storia dei suoi antenati - e l’ideazione e realizzazione dell’Historia

Roma-norum e della Historia Langobardorum4 erano finalizzate a raccordare in un

continu-um militare, ma anche di civiltà, la grandezza passata di Roma e quella presente di quel

gruppo proveniente dalle steppe, gradualmente integratosi nella compagine dell’Impe-ro tardoantico, ormai pdell’Impe-rofondamente rinnovata anche grazie al suo apporto; si trattava della risposta all’esigenza, in primo luogo politica, di rivendicare per i Longobardi delle origini rispettabili, dai precedenti illustri, in grado di reggere il confronto con i grandi dell’antichità romana, dei quali ci si proponeva come eredi e continuatori, soprattutto nell’ottica di porsi almeno alla pari con i rivali del presente, quei Franchi che, forti an-che del sostegno papale, si stavano affacciando prepotentemente alla penisola italica. La produzione epigrafica longobarda, condividendo la volontà di instaurare un autorevole legame con la tradizione romana intesa nella sua accezione più ampia

(ro-manitas), senza venir meno alla tradizione peculiare della Gens Langobardorum come

valente nell’esercizio delle armi - peraltro in analogia con la caratteristica più nota dei Romani5 - si pone pertanto in assoluta complementarità con quella storico-letteraria,

con esiti che si protrarranno con evidenza per almeno un paio di generazioni succes-sive alla sua prima elaborazione. Nata a latere e in sostanziale contemporaneità con la storiografia del suo popolo, l’attività di Paolo Diacono quale scrittore di carmina epigrafici6 fu il frutto della condivisione di intenti e della collaborazione con il re

De-siderio e la moglie Ansa prima, poi con Arechi II e Adelperga e rappresenta un anello di congiunzione ideale e un fondamento legittimante della continuità del potere tra la Langobardia maior e la Langobardia minor. Le nuove testimonianze - non a caso, pertanto - riguardano Salerno, divenuta capitale per iniziativa di Arechi II (774-787) all’indomani della sconfitta di Desiderio da parte di Carlo Magno e dell’assunzione da parte dell’autoproclamatosi princeps Gentis Langobardorum del ruolo di erede

politi-3 La scelta della pergamena rimanda evidentemente ad una conservazione in un luogo chiuso - archivio

o biblioteca - e ad una categoria e ad un numero di lettori più limitati; un testo affidato ad una lapide, invece, riveste una duplice natura di documento-monumento, destinato per lo più ad essere esposto in luoghi pubblici o per lo meno ad alta visibilità (in proposito, cfr. lambert 2012, pp. 100-101 con specifici rimandi bibliografici). 4 Circa il ruolo di Paolo Diacono nella formazione della cultura altomedievale, cfr. CaPo 1990; CHiesa

(a cura di) 2000; leonarDi 2001.

5 Per una sintesi sul tema, cfr. il recente giarDina-PesanDo 2012 (in particolare: PesanDo 2012; tHornton

2012).

6 Cfr. neff 1908; aCoCella 1968; De rubeis 2000; lambert 2010, p. 314, nota 11. L’uso della scrittura epigrafica

anche a fini politici non fu tuttavia un’esclusiva dei Longobardi: negli stessi anni Alcuino di York, omologo di Paolo Diacono alla corte carolingia, utilizzò sapientemente questa particolare produzione come strumento per la legittimazione del potere, oltre che come strumento di edificazione religiosa (stella 2003 con ampia bibliografia).

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LE EPIGRAFI DEL DUCATO LONGOBARDO DI BENEVENTO

co del suocero e garante dell’incolumità e del benessere dei connazionali trasferitisi al Sud; esse sembrano rientrare, tuttavia, anche in un disegno dinastico probabilmente anteriore, che non è inverosimile ritenere prevedesse un’equa distribuzione del potere tra i due figli e un’effettiva duplicazione di sedi tra quella di più antica tradizione - Be-nevento - e quella di recente ‘fondazione’. Qui si ha prova - per quanto conservatasi solo in forma manoscritta - di un Carme per le fortificazioni e gli edifici di Salerno, di almeno due tituli destinati al palatium e all’annessa cappella di corte, e dell’epitaffio per il principe, tutti a firma di Paolo Diacono, mentre risultano del vescovo beneven-tano Davide - celebre poeta anch’egli - il carme sepolcrale per Romualdo I, premorto di un mese al padre Arechi, e di un anonimo amico quello per Grimoaldo7.

Sulla base di questi modelli, la corte principesca beneventana circa mezzo secolo dopo conferì al medium epigrafico un’ancor più matura funzione politica, con esiti di alto livello formale e forte impatto comunicativo, ben databili, singolarmente, tra l’831 e l’875 circa. Tra i testi conservatisi materialmente, molti dei quali in condizioni di estrema frammentarietà, i più significativi in ordine all’autorappresentazione del potere sono i cinque epitaffi dei principi Sicone e Radelchi (figg. 1-2), della moglie di quest’ultimo, Caretruda, del loro figlio Orso e del principe Radelgario (figg. 3-4), per-sonaggi conosciuti anche attraverso altre fonti, dalle quali si evince inoltre la data del loro decesso, assente nelle epigrafi che li riguardano8. Malgrado i bombardamenti del

1943 ne abbiano risparmiato solo delle parti, talvolta esigue, e in un caso - quello del principe Ursus - l’originale sia andato completamente perduto, una lungimirante

cam-7 Per un’illustrazione di questi carmina, cfr. lambert 2010, pp. 292-296, 306-310, nn. 1-5, 7.

8 Per la riproduzione dei cinque epitaffi dei membri dell’aristocrazia beneventana del IX secolo, con

traduzione e commento, si rimanda a lambert 2010, pp. 296-305, 310-313, nn. 8-12, che molto deve a russo

mailler 1981, pp. 92-97, 117-119, 120-122, 123-125, 126-129, prima edizione sistematica, con testo latino,

traduzione e apparato critico-bibliografico. Fig. 1. Epitaffio del principe Sicone († 832).

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Fig. 2. Epitaffio del principe Radelchi († 851).

pagna fotografica realizzata poco prima del disastroso evento bellico permette di con-frontare le eccellenti immagini9 con i frammenti superstiti e ricostruire l’aspetto

origi-nario delle lastre, tutte tagliate su un marmo bianco di ottima qualità, apparentemente identico, in misura di 2 m x 1 m circa. L’eguaglianza dei supporti e il loro trattamento uniforme quanto ad impaginazione e realizzazione grafica rimandano ad un model-lo predefinito e sono indice di un lavoro eseguito da un’unica bottega, alla quale si può pertanto riconoscere il ruolo di atelier di corte, attivo, sia pure con un probabile avvicendamento di maestranze - peraltro individuabile nella diversità di ‘mani’ tra gli esemplari più distanti nel tempo - forse per circa un quarantennio. Questi caratteri di uniformità sono evidentemente intenzionali e indice di una programmazione avviata verosimilmente dal capostipite, con l’intento di predisporre in anticipo anche per i suoi successori un apprestamento funerario dal forte carattere identitario, immedia-tamente riconoscibile, e con buona probabilità destinato a trovare posto in un’unica cappella dinastica. Come si è già avuto di modo di illustrare in varie sedi, si ha motivo di ritenere che in origine queste iscrizioni fossero affisse alle pareti interne dell’atrio coperto antistante gli spazi liturgici della cattedrale - il Paradisus citato dalle fonti -, a complemento e in corrispondenza di tombe monumentali realizzate nel suolo10.

In tutte le lapidi l’ampio specchio epigrafico risulta organizzato secondo una chiara ispirazione libraria, con il testo disposto orizzontalmente su due colonne separate da uno spazio vuoto, a richiamare visivamente le due pagine aperte di un grande codice. Su ogni esemplare, la disposizione della scrittura è agevolata da un preciso sistema di doppie linee guida - l’equivalente della ‘rigatura’ sulle pergamene - e il ductus appare nel complesso assai regolare, malgrado in alcuni righi si avverta talora una certa

‘stan-9 silvagni 1943, tavv. III n. 1, II nn. 2-3, III nn. 2-3; lambert 2010, pp. 297, 299, 300-301, figg. 3, 5-7. 10 L’ipotesi di collocazione originaria delle lapidi principesche nel quadriportico della cattedrale (lambert

2009, p. 50; lambert 2010, p. 296; lambert 2012, p. 104) trova sostegno anche dalle risultanze dei recenti

scavi archeologici condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Salerno, Avellino, Benevento, Caserta, in corso di elaborazione (per alcune anticipazioni, cfr. Tomay 2009, pp. 130-134).

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LE EPIGRAFI DEL DUCATO LONGOBARDO DI BENEVENTO

chezza’ nell’esecuzione e il modulo delle lettere risulti leggermente difforme dal model-lo iniziale. Quanto alle scelte grafiche, la scrittura di base fu l’antica capitale classica, ti-pica maiuscola bilineare, proposta tuttavia in vesti nuove e spesso originali, con l’innesto di elementi desunti dai più moderni esiti delle scritture minuscole praticate su supporto morbido, in particolare la ‘beneventana’11. Il dispiegamento di una tale perizia tecnica fu

complementare all’impianto letterario e linguistico, per il quale ci si avvalse dell’opera dei grammatici tardoantichi o di autori contemporanei che non disdegnarono il genere dell’epitaffio e i cui scritti erano tutti presenti nelle più prestigiose biblioteche monasti-che. La carica fortemente innovativa delle epigrafi funerarie - che rappresentano anche per l’epoca altomedievale la quasi totalità degli esemplari conservati e la percentuale più alta di quelli prodotti - è altrettanto evidente sul piano dei contenuti. Tra i caratteri rile-vanti vi è la maggiore personalizzazione dei testi, motivata dalla diversa connotazione sociale e dalle più articolate esigenze di una committenza esclusivamente aristocratica, ma anche la contestuale creazione di una serie di tópoi, primo tra i quali la rivendicazio-ne di illustri natali, affatto nuova, cui i Longobardi erano inizialmente estrarivendicazio-nei.

Splendida progenies regali ex semine cretus (…). (…) ut sibi per saeculum maneat memorabile nomen: così recitano il terzo e il penutimo verso del perduto epitaffio di Ursus, figlio del principe beneventano Radelchis e di Caretruda, che gli sopravvissero.

Si tratta di espressioni che ben sintetizzano la duplicità di funzione e di intenti della scrittura lapidaria delle élite longobarde, destinata a segnalare il luogo di una sepoltura e ad ottemperare l’obbligo consuetudinario di celebrare i meriti di un defunto, ma al contempo ad esaltare la grandezza di una stirpe che dal prestigio di un passato regale traeva legittimazione e garanzie per un futuro all’insegna di pace e prosperità. L’inse-rimento del richiamo dinastico rientra in una strutturazione piuttosto complessa, che

11 Cavallo 1999; De rubeis 2003; lambert 2010, p. 305; lambert c.s.

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prendendo le mosse dalle più semplici iscrizioni funerarie cristiane in prosa di età tar-doantica - incentrate sulla formula locativo-obituaria hic requiescit in pace e sulla data del decesso da interpretare come dies natalis - costruisce un impianto epico-narrativo a schema fisso, arricchitosi nel tempo seguendo le ‘regole’ dettate da Paolo Diacono per il carme in memoriam di Arechi, e il cui ordine è in genere rispettato rigorosamente12.

Tra i componimenti di più meditata elaborazione concettuale e più vicini all’assun-to di quesall’assun-to incontro si distinguono l’epitaffio di Sicone, principe di Benevenall’assun-to dal lu-glio dell’817 all’agosto dell’832 e quello - già citato - di Orso, che si intuisce successore

in pectore del padre Radelchi, ma deceduto prima di assumere il potere, anteriormente

all’851. L’anonimo autore del primo testo (fig. 1)13, buon conoscitore dei florilegi degli

Auctores, dai quali attinse una fitta serie di espressioni virgiliane14, costruisce sin dai

versi iniziali un legame con il carmen per Arechi II15, la cui figura sottende a tutto il

componimento e verrà esplicitamente evocata all’inizio del 7° rigo, con un chiaro in-tento legittimante: dopo aver rivendicato per Sicone un’origine regale dal nativo Friuli - Stirpe satus regum, melior maiorque priorum16 - di lui si dice che, ancora bambino,

12 Cfr. lambert 2010, pp. 302-304. A riprova della fortuna di questa impostazione ‘narrativa’ anche

presso gli scrittori franchi, si veda il testo dell’epitaffio del papa Adriano I, dell’anno 795, attribuito quasi unanimemente ad Alcuino (favreau 1997, pp. 64-68; treffort 2007, pp. 9-13), nonché la ricorrenza di tópoi

quali l’esaltazione della nobiltà di sangue, l’eccellenza della stirpe e il cordoglio universale, comuni anche a tutta la successiva produzione carolingia in territorio italico (treffort 2007, pp. 236-237, 243-248, 256-262).

13 Il manufatto è pervenuto per tradizione diretta, ancorché mutilo e distribuito su 6 frammenti, ma il

testo completo è noto da trascrizioni dei secoli XVII-XVIII e XIX (cfr. MGH, Poetae latini aevi carolini, II, ed. E. Dümmler, Berolini 1884 pp. 649-651; russo mailler 1981, p. 92) e dalle ultime fotografie del Silvagni. Per una

riproduzione delle immagini e la trascrizione del testo, con traduzione, cfr. ora lambert 2010, p. 310 n. 8, fig. 3. 14 L’individuazione delle espressioni virgiliane (per le quali cfr. anche lambert 2010, p. 317, nota 94)

si deve a russo mailler 1981, p. 94.

15 Cfr. lambert 2010, p. 307, n. 5, v. 1, p. 310, n. 8, v. 2. 16 lambert 2010, p. 310, n. 8, v. 3.

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LE EPIGRAFI DEL DUCATO LONGOBARDO DI BENEVENTO

fu accolto con la madre nella Benevento di Arechi II e del giovane Grimoaldo I, i quali, vedendo in lui le doti di un degno successore, lo tennero in conto di un figlio:

Mox Arichis princeps archana in mente puellum collocat, et spondet prolis habere loco. Adhibuit curam nutriendi maximus heros, quem successorem sperat habere pium. Nec minus et Grimoald, natus de principe princeps, sublatum erudiit iura tenendo patris17.

Una volta definita la predestinazione di Sicone al potere, il suo elogium si sviluppa in un crescendo di notevole efficacia narrativa, secondo uno schema destinato a divenire topico: se ne elencano la prestanza fisica - dote che viene significativamente ricondotta alla stirpe (Celsus ab excelsa Bardorum gente statura corporis)18, la decisa azione politica

e militare contro i nemici Franchi e i Napoletani bizantini, non meno che le virtù umane di tolleranza e generosità - Pacificus mitis prudens s(an)c(tu)sque suavis, largus et in

cunctis pauperibusque pius19-, che riecheggiano da vicino le analoghe qualità di Arechi e

ne fanno un campione dell’optimus princeps; la pietas di Arechi (chiara risemantizzazio-ne in chiave cristiana modellata sul pius Aerisemantizzazio-neas) vierisemantizzazio-ne riproposta per Sicorisemantizzazio-ne con la sin-golare trasformazione in benemerita azione di evergetismo di quello che in realtà fu un ‘furto sacro’: l’appropriazione delle reliquie di S. Gennaro, sottratte a Napoli a vantaggio della cattedrale di Benevento20, dove il principe decide siano deposte le proprie spoglie:

Abstulit inde etiam Beneventi in sede locatum Ianuarium quondam fortis athleta dehinc. Cuius templa replens argento auroque recocto, his dedit uti iaceat corpus inane locis. Il

riferimento esplicito al luogo prescelto per la sepoltura riporta il testo alla sua funzione prima, di memoria funeraria, richiamando lo spettatore contemporaneo e il lettore della posterità al momento delle esequie. Dopo aver ricordato l’età del principe, il testo si conclude con una formula di forte pregnanza escatologica, in cui l’immaterialità dello

spiritus <qui> astra petit si contrappone alla corporeità evocata nella formula incipitaria

dell’hic requiescunt membra, ad indicare la nuova consapevolezza della separazione del corpo mortale dall’anima destinata alla salvezza eterna quale mercedis fructus21.

Una serie di stringenti analogie, che vanno oltre l’uniformità dell’impianto, sugge-risce il confronto tra il carmen di Sicone e quello di Orso. L’originale lapideo è andato completamente perduto, come si è detto, ma se ne conservano la trascrizione mano-scritta e le fotografie eseguite prima del bombardamento aereo del 194322 (fig. 3). Il

testo è opera di un autore anonimo che mostra di conoscere gli illustri antecedenti degli epitaffi composti da Paolo Diacono per Arechi II e dal vescovo Davide per Romualdo, dei quali si ravvisa il modello nell’impostazione generale e in numerose espressioni. È evidente, anche in questo caso, la volontà di richiamare Arechi come capostipite indi-scusso della dinastia dei Longobardi beneventani, ma non pare casuale, ugualmente, la scelta di rievocarne il figlio, con il quale Ursus - anch’egli deceduto prima del padre - condivise un destino incompiuto di principe predestinato. Orso, come Arechi, viene

17 lambert 2010, p. 310, n. 8, vv. 13-18. 18 lambert 2010, p. 310, n. 8, vv. 23-24.

19 lambert 2010, p. 310, n. 8, vv. 35-36. Nell’epitaffio si tacciono naturalmente qualità meno nobili e

azioni politicamente più spregiudicate di Sicone, di cui si ha una eco ricorrente negli storiografi coevi e successivi: Erchemperto, Giovanni Diacono, o l’Anonimo Salernitano (russo mailler 1981, p. 93).

20 lambert 2010, p. 310, n. 8, vv. 49-52.

21 Per la formula spiritus astra petit, già presente in alcuni autori tardoantichi, e il suo uso nell’alto

medioevo, cfr. gli esempi e la bibliografia in lambert 2010, p. 317, nota 100. 22 Cfr. lambert 2010, p. 312, n. 11, fig. 7.

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detto celeberrimus; di entrambi si vantano le nobili origini, la prestanza fisica e l’abilità nell’uso delle armi (Hic aemulos omnes superabat viribus armis, l’altro anteibat iuvenes

venatu viribus armis)23; emulo di Romualdo - unica spes patrie murus et arma suis - nel

ruolo di difensore della patria, il figlio di Radelchi è detto patriae populo luxque

vigor-que e simul in populo murus et arma suo, armis defendens patriam24, ma anche honor

atque suis requies portusque salutis, di stretta derivazione dal tu requiesque tuis portu-sque saluportu-sque che già definiva Arechi25. Nel prosieguo il componimento ricalca ancora

da vicino i modelli già evocati, con l’elencazione delle virtù morali e la predisposizione all’esercizio della giustizia da parte del giovane beneventano; il finale, invece, non è pri-vo di un’ispirazione originale e denuncia anche in questo caso la probabile formazione ecclesiastica dell’autore: all’esplicito intento memorativo della chiusa - ut sibi per

sae-culum maneat memorabile nomen, hoc carme scripsi -, espresso con una certa enfasi,

ma di per sé privo di una specifica connotazione religiosa, si era fatta precedere infatti una convinta dichiarazione di fede nell’immortalità dell’anima, legata all’esistenza di un Aldilà biblicamente ancora definito seno di Abramo, ma anche - ed è un’assoluta novità in un testo di cultura longobarda - come Paradiso connotato dalla comunione dei «padri santi» e dai «cori angelici»: Ad patriam celsam iam remeavit ovans. Creditur hic cunctis

caeli conscendere cives, hunc Abrahae fateor iam recubare sinu, quem Paradisus ha-bet, quem caelica regna retentant. Aetheris et locuples optinet amplus honor, amplexum et retinent s(an)c(t)orum brachia patrum at simul angelicus consociando chorus26.

L’impianto narrativo dei due epitaffi esaminati - comune anche agli altri - è espres-sione della cultura aristocratica altomedievale, di cui rivela l’originaria tradizione orale; facilitato dall’uso della metrica, questo genere di testi appare destinato con ogni vero-simiglianza ad una prima lettura coram populo all’atto delle esequie, quindi all’espo-sizione duratura in un luogo di ampia frequentazione, quale, appunto la cattedrale o uno spazio ad essa pertinente, come detto in modo esplicito nel carme di Sicone per Benevento o per Arechi in Salerno. Apposte alle pareti, in vicinanza delle tombe e probabilmente associate a qualche apprestamento monumentale27, le grandi lapidi

avrebbero rappresentato per i sudditi un’efficace sintesi dell’epopea longobarda, sen-za soluzioni di continuità dalle lontane origini cividalesi fino alla terra beneventana.

abbreviazioniebibliografia

aCoCella n. 1968, Le origini della Salerno medievale negli scritti di Paolo Diacono, in «Rivista di

Studi Salernitani», 1, pp. 3-68.

CaPo L. 1990, Paolo Diacono e il problema della cultura dell’Italia longobarda, in gasParri

s.-Cammarosano P. (a cura di) 1990, Langobardia, Udine, pp. 169-236.

23 lambert 2010, pp. 312, n. 11, vv. 1, 3, 10; pp. 307-308, n. 5, vv. 3, 7, 15.

24 lambert 2010, p. 307, n. 4, v. 4; p. 312, n. 11, vv. 8, 10-12. Espressioni analoghe ricorrono anche nel

carme del console Cesario di Napoli († 789), attribuito, con validi argomenti, allo stesso vescovo Davide o ad un suo allievo (russo mailler 1981, pp. 83-84).

25 lambert 2010, p. 312, n. 11, v. 13; pp. 307-308, n. 5, v. 27.

26 lambert 2010, p. 312, n. 11, vv. 35-36, 29-34; il rimando evangelico al v. 30 è tratto da Lc 16, 22-23. 27 Cfr. il rimando al Chronicon Salernitanum per una monumentalizzazione della tomba di Arechi e

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LE EPIGRAFI DEL DUCATO LONGOBARDO DI BENEVENTO

Cavallo g. 1999, Scritture librarie e scritture epigrafiche fra l’Italia e Bisanzio nell’alto medioevo,

in KoCH W.-steininger C. (a cura di) 1999, Inschrift und Material Inschrift und Buchschrift.

Fachtagung für mittelalterliche und neuzeitliche Epigraphik, Ingolstadt 1997 (Bayerische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse. Abhandlungen. Neue Folge, Heft 117), München, pp. 127-136.

CHiesa P. (a cura di) 2000, Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda e rinnovamento

carolingio, Atti del convegno internazionale di studi, Cividale del Friuli-Udine 6-9 maggio 1999, Udine.

De rubeis F. 2000, La tradizione epigrafica in Paolo Diacono, in CHiesa (a cura di) 2000, pp. 139-162.

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Referenze delle illustrazioni

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