• Non ci sono risultati.

I vescovi di Ivrea dal 1805 al 1999: elementi biografici e spunti di analisi delle lettere pastorali

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "I vescovi di Ivrea dal 1805 al 1999: elementi biografici e spunti di analisi delle lettere pastorali"

Copied!
62
0
0

Testo completo

(1)

Storia della Chiesa di Ivrea

in epoca contemporanea

STORIA

DELLA

CHIESA

DI IVREA

IN EPOCA CONTEMPORANEA VIELLA In copertina:

Duomo di Ivrea, Bozzetto per la decorazione della facciata, Tullio Allemanni, 1964 (Archivio storico diocesano di Ivrea)

(2)

Storia della Chiesa di Ivrea

Giorgio Cracco (Presidente) Lellia Cracco Ruggini

Achille Erba Maurilio Guasco Francesco Traniello

Segretario del Comitato

Don Silvio Faga

La presente opera è stata realizzata con il contributo di

(3)

STORIA

DELLA

CHIESA DI IVREA

IN EPOCA CONTEMPORANEA

a cura di

MAURILIO GUASCO, MARTA MARGOTTI e FRANCESCO TRANIELLO

VIELLA 2006

(4)

Prima edizione: ottobre 2006 ISBN 88-8334-206-2

viella

libreria editrice

via delle Alpi, 32 1-00198 Roma tel. (06) 84 17 758 fax (06) 85 35 39 60 e-mail: info@viella.it

(5)

Elenco delle abbreviazioni xii

Arrigo Miglio, Presentazione xiii

Maurilio Guasco e Francesco Traniello, Introduzione xv Marta Margotti, I vescovi di Ivrea dal 1805 al 1999: elementi

biografici e spunti di analisi delle lettere pastorali 1 Marta Margotti, Luigi Moreno (1800-1878) 63 Giovanna Farrell-Vinay, Matteo Filipello (1859-1939) 67 Giuseppe Tuninetti, Clero e seminari: aspetti e momenti

signifi-cativi 71

Giuseppe Tuninetti, Religiosi, religiose, istituti secolari e nuove

forme di vita consacrata 131 Marta Margotti, Associazioni caritative cattoliche ad Ivrea

nel-l’Ottocento: la Confraternita della Misericordia e la Conferenza

di S. Vincenzo de’ Paoli 153 Giovanna Farrell-Vinay, Il movimento cattolico nel Canavese

(1880-1924) 209

Marta Margotti, Chiesa e mondo cattolico a Ivrea negli anni

del fascismo 297

Walter Canavesio, L’architettura sacra nella diocesi di Ivrea

nell’Ottocento 469

Guido Montanari, L’architettura sacra nella diocesi di Ivrea nel

Novecento 487

Indice delle parrocchie della diocesi di Ivrea 507

Indice dei nomi di persona

(6)

Ac Azione cattolica

Ape Associazione dei parroci eporediese

b. busta

Cil Confederazione italiana dei lavoratori Cln Comitato di liberazione nazionale Dc Democrazia cristiana

Dgac Direzione generale degli affari di culto Dgps Direzione generale di pubblica sicurezza Dgs Direzione generale della statistica

ed. edizione, editore

f. fascicolo

F. fondo

Fac Federazione agricola canavesana Gci Gioventú cattolica italiana Gl Giustizia e libertà

Ldn Lega democratica nazionale

Maic Ministero dell’agricoltura, industria e commercio Min. int. Ministero dell’interno

Onb Opera nazionale balilla Pcd’I Partito comunista d’Italia Pci Partito comunista italiano Pnf Partito nazionale fascista Ppi Partito popolare italiano sf. sottofascicolo

sg. seguente/i

Archivi

Aac Archivio Azione cattolica italiana, Roma Acs Archivio centrale dello Stato, Roma Aoc Archivio dell’Opera dei congressi, Venezia

Ap Archivio parrocchiale (seguito dal nome della località) Asdi Archivio storico diocesano, Ivrea

(7)

elementi biografici e spunti di analisi delle lettere pastorali

1. Dieci vescovi in duecento anni

In poco meno di duecento anni, dal 1805 al 1999, dieci vescovi si sono succeduti alla guida della diocesi di Ivrea, segnando con la loro presenza, in modi certamente differenti, la fisionomia di tutta la Chiesa locale. Ri-percorrere la loro vicenda significa non soltanto ricostruire l’itinerario che li portò alla sede eporediese e analizzare i provvedimenti emanati da ognuno di loro, ma considerare la storia della diocesi di Ivrea da un pun-to di osservazione privilegiapun-to (anche se particolare e certamente parziale) e inserire quella vicenda all’interno della complessiva evoluzione della Chiesa cattolica italiana nell’arco di due secoli.

La possibilità di confrontare la serie degli episcopati eporediesi con i dati relativi ad alcune regioni pastorali e con l’insieme dei vescovi italiani1

può far emergere utili elementi di analisi per comprendere quanto la

real-1. Cfr. F. Fonzi, I vescovi, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’unità (1861-1878). Relazioni. i, Vita e Pensiero, Milano 1973, pp. 32-58; A. Monticone, I vescovi meridionali: 1861-1878,

ibid., pp. 59-100; M. Belardinelli, L’ “exequatur” ai vescovi italiani, ibid., Comunicazioni. i,

pp. 5-42; A. Parisi, Dinamica istituzionale e caratteri strutturali dell’episcopato italiano (da Pio

IX a Paolo VI), Padova 1979 (questo volume riproduce, in parte, il testo già pubblicato con il

titolo Dall’episcopato preunitario all’episcopato postconciliare, in Studi in onore di Pietro

Agosti-no d’Avack. iii, Giuffré, MilaAgosti-no 1976, pp. 451-496); G. Battelli, I vescovi italiani tra Leone XIII e Pio X. Contributi recenti, « Cristianesimo nella storia », n. 1, 1985, pp. 93-143; Id., Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Dal secondo Ottocento ai primi anni della Repubblica, in Sto-ria d’Italia. Annali. ix. La Chiesa e il potere politico, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli,

Ei-naudi, Torino 1986, pp. 807-854; G. Alberigo, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario.

Ver-so un episcopato italiano (1958-1985), ibid., pp. 855-879; D. Menozzi, I vescovi dalla Rivoluzio-ne all’Unità. Tra impegno politico e preoccupazioni sociali, in Clero e società Rivoluzio-nell’Italia contem-poranea, a cura di M. Rosa, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 125-179; A. Monticone, L’epi-scopato italiano dall’Unità al Concilio vaticano II, ibid., pp. 257-330; EpiL’epi-scopato e società tra Leo-ne XIII e Pio X: direttive romaLeo-ne ed esperienze locali in Emilia-Romagna e VeLeo-neto, a cura di D.

Menozzi, Il Mulino, Bologna 2000; M. Faggioli, Il vescovo e il concilio. Modello episcopale

e aggiornamento al Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2005. Ringrazio la dott.ssa Roberta

Rei-nerio che ha collaborato attivamente alla raccolta del materiale bibliografico e archivistico necessario alla stesura del presente saggio.

(8)

tà di Ivrea si avvicini o si discosti dalle tendenze registrate per lo stesso in-tervallo di tempo sul piano nazionale. Una diocesi “media” come quella di Ivrea può essere considerata un campione significativo della struttura ecclesiastica territoriale italiana2 e, si può ipotizzare, l’insieme dei suoi

ve-scovi si presta, almeno in parte, ad essere presentato come un caso esem-plificativo dell’evoluzione subita dall’intero episcopato italiano in epoca contemporanea, delle dinamiche sottese alle nomine episcopali e delle trasformazioni subite dal ruolo dei vescovi dall’inizio dell’Ottocento alla fine del Novecento. Si può supporre che coloro che, da parte ecclesiasti-ca, di volta in volta furono incaricati di vagliare la scelta del candidato al-la guida di questa diocesi “minore” furono meno influenzati (ma non per questo alieni) da considerazioni di tipo politico (verso i poteri locali) e di-plomatico (di fronte al governo centrale) rispetto alle decisioni che riguar-davano diocesi di maggior importanza; la tradizione di inviare in questa, come in altre sedi “minori”, personale ecclesiastico di prima nomina (e quindi senza verifiche puntuali sulle loro capacità di governo) lasciò, inol-tre, qualche spazio alla imponderabilità dei candidati e quindi all’impre-vedibile esito di alcuni episcopati. Tra le prospettive aperte dallo studio di tale “microcosmo cattolico” vi è inoltre la possibilità di indagare in ma-niera piú circostanziata l’incidenza dei provvedimenti del vescovo non soltanto tra i fedeli, ma anche tra le élites politiche, economiche e sociali locali e, in modo piú ampio, nella società civile.

La necessità di presentare in maniera sintetica la biografia e le linee pa-storali dei dieci vescovi eporediesi ha imposto di scegliere, nella massa di materiale documentario disponibile, quei dati che maggiormente fossero

2. La diocesi di Ivrea alla fine del Novecento si estendeva su 1.850 Kmq, con circa 210 mi-la abitanti e 141 parrocchie, cfr. Annuario diocesano, Ivrea 1993, p. 2. Nello stesso periodo, in Italia, l’estensione media delle diocesi era di 1.365,90 Kmq, con circa 247.000 abitanti e 114 parrocchie, cfr. Chiesa in Italia, annale de « Il Regno », 1996, p. 204. Confina con le circo-scrizioni ecclesiastiche di Torino, Casale Monferrato, Vercelli, Biella e St. Jean de Maurien-ne et Tarantaise (Francia). Per alcuMaurien-ne notizie sulla situazioMaurien-ne della diocesi Maurien-nell’Ottocento, cfr. L. Depetro, Ricerche storico-giuridiche sulla diocesi di Ivrea nella prima metà del secolo xix, tesi di laurea, rel. G.S. Pene Vidari, Università degli studi di Torino, Facoltà di Giuri-sprudenza, a.a. 1992-1993; R. Galassi, Ricerche sui rapporti tra Stato e Chiesa nel xix secolo

con particolare riferimento alla diocesi di Ivrea, tesi di laurea, rel. G.S. Pene Vidari,

Universi-tà degli studi di Torino, FacolUniversi-tà di Giurisprudenza, a.a. 1994-1995. Per uno studio d’insieme della diocesi eporediese nell’Ottocento e nel Novecento, cfr. C. Francillon, Le diocèse

d’I-vrée de la révolution industrielle au miracle économique, mémoire de Dea, Université Jean

(9)

in grado di descrivere le peculiarità di ogni presule e che, allo stesso tem-po, risultassero tra loro comparabili. Si è perciò scelto di offrire alcune notizie essenziali sulla vita di ciascun vescovo, in particolare, sulla loro formazione e sugli incarichi precedenti l’arrivo ad Ivrea e, dove le fonti lo permettevano, sui motivi della nomina a questa sede episcopale. Le fonti indagate per reperire informazioni sulla vita dei vescovi sono state, oltre i cenni autobiografici contenuti in alcuni scritti e le notizie pubblicate su quotidiani e riviste, le biografie (a volte di taglio agiografico) stese su al-cuni di essi, le necrologie e le omelie funebri preparate alla morte dei pre-suli. Fino ai primi anni del Novecento, inoltre, è disponibile la pubblica-zione Hierarchia catholica che, di ciascun vescovo, offre dettagli circa i ti-toli accademici conseguiti e la carriera ecclesiastica, mentre per il periodo successivo si possono desumere dagli Annuari pontifici i dati relativi al luogo e alle date di nascita, di ordinazione sacerdotale e di consacrazione episcopale.

Per presentare le linee di governo della diocesi dettate da ciascun ve-scovo, si è fatto ricorso, solitamente, alle lettere pastorali: si tratta di un genere letterario che, presente già nei primi secoli del cristianesimo, ebbe una sua piú sistematica diffusione dopo il Concilio di Trento e, verso la metà del xviii secolo, fu definito con questo termine specifico « quasi ad indicare uno degli uffici piú eminenti del vescovo che è quello di istruire il popolo ».3 Il ricorso alle lettere pastorali accomuna quasi tutti i dieci

ve-scovi eporediesi considerati che, generalmente in occasione della Quaresi-ma, si rivolgevano al clero e ai fedeli per trasmettere, insieme alla dottrina cattolica e alle prescrizioni sulla vita morale e di pietà, alcune riflessioni e direttive a partire dalla situazione religiosa e politica non soltanto della diocesi, ma del piú ampio contesto del Regno di Sardegna e, poi, naziona-le.4 Proprio l’intersezione tra intento programmatico e lettura della realtà

3. Lettere pastorali, voce in Enciclopedia cattolica. vii, Sansoni, Firenze 1951, p. 1214. 4. Per un approccio complessivo alle lettere pastorali, cfr. O. Capitani, S. Ferrari e X. Toscani, Problemi di metodo nella lettura delle lettere pastorali, « Ricerche di storia sociale e religiosa », n. 17, 1988, pp. 189-200. Per le lettere pastorali di singole diocesi o regioni pasto-rali, cfr. Lettere pastorali dei vescovi dell’Emilia Romagna, a cura di D. Menozzi, pref. di G. Miccoli, Marietti, Genova 1986; A. Valenti, Immagine di Chiesa e motivi di catechesi e

pa-storale nei sinodi e nelle lettere pastorali degli arcivescovi ferraresi tra Settecento e Novecento,

« Analecta pomposiana », n. 12, 1987, pp. 107-152; Le lettere pastorali dei vescovi di

Bolzano-Bressanone e Trento in età contemporanea, a cura di D. Menozzi, M. Demo e A. Sarri,

(10)

lette-offre un prezioso punto di partenza per analizzare la spiritualità, il quadro culturale di riferimento, l’immagine di Chiesa e le preoccupazioni ricor-renti di ciascun vescovo, oltre a utili elementi per indagare la trasmissione e la ricezione degli insegnamenti pontifici in diocesi e i rapporti dell’auto-rità ecclesiastica con la classe politica. L’analisi di questi testi, che rispon-dono a precise esigenze e propongono schemi retorici particolari, deve te-nere conto anche dei silenzi e delle omissioni che, in alcune circostanze, sono molto piú esplicativi di ampie digressioni o di dettagliate istruzioni, ad esempio sul digiuno quaresimale. Per questo motivo, si è scelto di pri-vilegiare, all’interno delle oltre duecento lettere pastorali scritte nell’arco di due secoli, da un lato, i riferimenti alle forme di religiosità sostenute con maggior vigore dai vescovi e, dall’altro, le notazioni che segnalano l’attenzione degli autori allo sviluppo dei processi di secolarizzazione. De-vozioni, pratiche di pietà, culto dei santi, appuntamenti liturgici, propa-ganda per la “buona stampa” rappresentano campi in cui gli interventi dei vescovi si modularono in base ad esigenze di carattere spirituale e di gui-da religiosa della comunità diocesana, ma anche in forza di necessità, ora piú esplicite, ora piú velate, di tipo “politico”. Allo stesso tempo, temi quali l’anticlericalismo, l’indifferenza religiosa, le conseguenze dell’urba-nesimo e dell’industrializzazione, la presenza del movimento operaio, la diffusione del socialismo e del comunismo, la trasformazione della fami-glia e l’emancipazione della donna sono altrettanti marcatori dell’attenzio-ne (piú o meno preoccupata) dei vescovi verso le ricadute in campo reli-gioso di fenomeni sociali e politici di piú ampia portata e nei confronti della capacità di tenuta della Chiesa in una realtà in rapido cambiamento.

re pastorali delle diocesi di Brindisi-Ostuni e Lecce in età contemporanea, « Itinerari di ricerca

storica », 1988; P. Blasina, Il riflesso della rivoluzione nelle lettere pastorali dei vescovi della

re-gione nord-orientale (1917-1926), « Qualestoria », 1988, pp. 137-158; Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, a cura di B. Bocchini Camaiani e D. Menozzi, Marietti, Genova 1990; G.

Tuninetti e W. Crivellin, Lettere pastorali dei vescovi torinesi, « Quaderni del Centro studi C. Trabucco », n. 17, 1992; M. Neiretti e R. Reinerio, Lettere pastorali dei vescovi delle

dio-cesi di Biella e Ivrea, « Quaderni del centro studi C. Trabucco e della Fondazione C.

Donat-Cattin », n. 23, 1998; F.V. Betteto, G. Bottazzi, E. Dao, M. Forno e G. Grietti, Lettere

pastorali dei vescovi delle diocesi di Alessandria, Asti, Pinerolo, Saluzzo, « Quaderni del Centro

Studi C. Trabucco e della Fondazione C. Donat-Cattin », n. 24, 1999; M. Malpensa, In

mezzo a un’ “universale freddezza in materia di religione” e “a tanto indifferentismo”. Modelli di cristianità e risposte ai processi di secolarizzazione nelle lettere pastorali dei vescovi veneti

(11)

2. Strategie ecclesiastiche e ragioni civili nelle nomine episco-pali a Ivrea

Se, per l’Ottocento e una parte del Novecento, per alcuni episcopati lo-cali, si è potuto indicare quale dato saliente la “regionalizzazione”, vale a dire la prevalenza di nomine di candidati provenienti dalla stessa regione,5

per la diocesi di Ivrea si dovrebbe accentuare ulteriormente questo ele-mento, tanto da segnalare non soltanto il perdurare di questa tendenza si-no al pontificato di Paolo VI, ma anche una sorta di “provincializzazione” dell’episcopato locale. Tra i dieci vescovi che si sono succeduti nella sede eporediese nel corso di duecento anni, uno solo (Luigi Bettazzi a Ivrea dal 1966 al 1999, già vescovo ausiliare di Bologna dal 1963 al 1966) proveniva da fuori regione, mentre tutti gli altri erano originari di diocesi piemonte-si e, ancor piú in particolare, di aree confinanti o piemonte-situate a poche decine di chilometri di distanza dal Canavese.

Giuseppe Maria Grimaldi (vescovo di Ivrea dal 1805 al 1817) era origi-nario della diocesi di Vercelli; Colombano Chiaveroti (nella sede epore-diese dal 1817 al 1818 e, poi, amministratore apostolico sino al 1824) fu su-periore dei camaldolesi a Lanzo Torinese; Luigi Pochettini (1824-1837)

5. Cfr. Battelli, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario, cit., p. 811; B. Bocchini Ca-maiani, Introduzione, in Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, cit., p. xi.

Nato nel Ordinazione Vescovo a Vescovo a episcopale nel Ivrea dal Ivrea sino al

Grimaldi 1754 1797 1805 1817 Chiaveroti 1754 1817 1817 1818 (1824) Pochettini 1782 1824 1824 1837 Moreno 1800 1838 1838 1878 Riccardi 1833 1878 1878 1886 Richelmy 1850 1886 1886 1897 Filipello 1859 1898 1898 1939 Rostagno 1883 1935 1939 1959 Mensa 1916 1960 1960 1966 Bettazzi 1923 1963 1966 1999

(12)

apparteneva al clero di Torino; Luigi Moreno (1838-1878) fu pro-vicario della diocesi di Alba; Davide Riccardi (1878-1886) fu vicario generale a Biella; Agostino Richelmy (1886-1897), Matteo Filipello (1898-1939) e Paolo Rostagno (1939-1959) provenivano da Torino, mentre Albino Men-sa (1960-1966) apparteneva al clero di Pinerolo. È quindi necesMen-sario inter-rogarsi sui motivi che contribuirono a mantenere a Ivrea la tendenza alla “regionalizzazione” dell’episcopato che, per il resto dell’Italia, si attenuò a partire dal pontificato di Pio X.6 Lo studio analitico delle nomine alle

se-di episcopali potrebbe servire non tanto a correggere il giuse-dizio sulla ten-denza generale (l’invio di vescovi in sedi diverse dalla propria regione di origine a partire dall’inizio del Novecento), quanto a rilevare le eccezioni (la destinazione in diocesi vicine anche per gli anni successivi) che arric-chirebbero il quadro di elementi utili a spiegare l’andamento registrato a livello nazionale.

In linea generale, si può indicare che l’invio di vescovi in sedi non ap-partenenti alla regione di origine interessò, soprattutto a partire dal ponti-ficato di Pio X, le diocesi piú importanti e quelle meridionali, mentre le diocesi “minori” del settentrione furono meno toccate da questo fenome-no. Se la scelta di destinare alle diocesi del Sud (numerose e spesso di pic-cole dimensioni) candidati provenienti dall’Italia centro-settentrionale ri-spondeva alla volontà di fornire a quelle Chiese locali un personale diri-gente in grado di trasmettere e di applicare prontamente le direttive pon-tificie in ordine alla riorganizzazione dei seminari, alla vita del clero, alla pietà e alle devozioni popolari, l’invio di vescovi nelle sedi metropolitane o, comunque, nelle diocesi di un certo rilievo nella geografia ecclesiastica italiana si proponeva di promuovere nei punti strategici della penisola personaggi sicuramente affidabili che, di volta in volta, meglio sembrava potessero rispondere ai progetti di presenza cattolica nella società. Le me-die e piccole diocesi del Nord Italia, proprio perché generalmente già do-tate di una propria struttura ecclesiastica (parrocchie, clero, seminari, as-sociazioni laicali . . .) in grado di garantire una certa tenuta della tradizione cattolica locale, non erano ritenute bisognose dell’intervento di personale dirigente proveniente da altre regioni, ma, al contrario, furono utilizzate

6. Cfr. Parisi, Dall’episcopato preunitario all’episcopato postconciliare, cit., p. 480; Battelli,

(13)

come banco di prova dei vescovi originari di diocesi vicine (per quanto ri-guardava la capacità di governo e l’attaccamento alla Santa Sede) prima di eventuali ulteriori promozioni.

Per quanto riguarda il caso piemontese, è possibile ipotizzare un pro-lungamento della tendenza alla “regionalizzazione” anche per motivi ri-conducibili alla tenuta dei tradizionali rapporti intessuti tra la gerarchia cattolica e la dinastia sabauda, anche dopo (e nonostante) lo sviluppo del processo di unificazione della penisola italiana, culminato con la presa di Roma e la dissoluzione del potere temporale del papa. Il legame della Chiesa con i Savoia, analogamente a quanto accadeva in altri Stati dell’I-talia pre-unitaria con le rispettive case regnanti, era il risultato di una se-dimentazione di interessi di carattere sociale, politico ed economico e di una convergenza culturale che aveva il suo punto di forza nella legittima-zione del potere politico da parte delle istituzioni religiose e nella tutela delle prerogative del cattolicesimo da parte della dinastia regnante. L’as-setto politico dell’ancien régime supponeva questo tipo di simbiosi che, nonostante tensioni e frizioni occasionali, conformava i ritmi quotidiani e lo spazio mentale, gli atteggiamenti e le decisioni delle élites dirigenti co-me del resto della popolazione.

Nel contesto piemontese, i rapporti tra casa Savoia e Chiesa locale uscirono rinsaldati all’indomani della ventata rivoluzionaria di fine Sette-cento e del crollo dell’assetto politico europeo costruito da Napoleone che, nella sua avanzata verso oriente, aveva travolto i territori subalpini. Gli anni della Restaurazione rappresentarono, quindi, l’occasione per consolidare storiche fedeltà e antichi legami, rafforzati dal consenso che il cattolicesimo era riuscito a riconquistare anche in quegli ambienti intel-lettuali e aristocratici che erano stati maggiormente attirati dai richiami della cultura illuministica e dalle speranze rivoluzionarie d’oltralpe. Le tensioni che si coagularono intorno al 1848 e la concessione dello Statuto albertino, in cui la Chiesa vide un pericoloso attacco alla propria capacità di controllo e di indirizzo della vita politica e sociale, anticiparono la le-gislazione ecclesiastica piemontese che, con la progressiva annessione de-gli Stati italiani, fu estesa a tutte le nuove province del Regno sabaudo. La sottrazione dei territori pontifici all’autorità temporale del papa e la con-seguente “questione romana” che animò la vita politica e culturale del pe-riodo post-unitario contribuirono in modo determinante a caratterizzare il processo di laicizzazione dello Stato e della vita pubblica in Italia ed

(14)

eb-bero inevitabili ricadute a livello locale, in particolare per quanto riguar-dava la nomina dei vescovi. L’exequatur, vale a dire l’assenso dato dal po-tere civile agli atti della Santa Sede, con la “legge delle guarentigie” del 1871 fu limitato a tutti gli atti dell’autorità religiosa riguardanti la destina-zione di beni ecclesiastici e la provvista dei benefici diocesani, lasciando cosí nelle mani del governo italiano la possibilità di ostacolare certe can-didature episcopali. La scelta dei nuovi ordinari diocesani si confermò uno dei terreni su cui si confrontarono – e, a volte, si scontrarono – la vo-lontà della curia romana e quella del governo italiano di affermare, nei principi e nei fatti, la rispettiva autorità, ma anche l’occasione per le parti di esercitarsi in delicate opere di mediazione per giungere a una soluzio-ne concordata delle rispettive esigenze.

In tale situazione, le Chiese locali subalpine furono sottoposte a forti tensioni ed a lacerazioni interne, spinte dalla curia pontificia ad assecon-dare il “moto verso Roma” a difesa dei diritti che si ritenevano conculca-ti dai Savoia e, allo stesso tempo, sollecitate dall’autorità policonculca-tica a dimo-strare la propria fedeltà a quella stessa casa regnante che era stata l’artefi-ce dell’abbattimento del potere temporale del papa e a cui i cattolici pie-montesi erano tradizionalmente legati. Non fu, perciò, casuale che tra i 55 padri presenti al Concilio vaticano I che, il 17 luglio 1870, firmarono una mozione in cui si affermava l’inopportunità della proclamazione dell’infal-libilità pontifica e tra coloro che non presenziarono alla sessione pubblica del giorno successivo durante la quale fu solennemente avallata la dottri-na infallibilista, vi fossero sette vescovi piemontesi su tredici, tra cui mons. Luigi Moreno di Ivrea.

Superato il periodo dei piú aspri contrasti, la volontà dell’autorità po-litica e di quella religiosa di arrivare ad un compromesso sulle nomine dei vescovi, unita alla conoscenza diretta del personale ecclesiastico pie-montese da parte della burocrazia italiana (per molti anni ancora dopo l’Unità, in gran parte costituita da funzionari provenienti dagli antichi ter-ritori sabaudi), favorí la scelta di candidati piemontesi nell’assegnazione di quasi tutte le sedi episcopali subalpine, in particolare quelle di medie e piccole dimensioni, tendenza che perdurò lungo gran parte del Nove-cento.

Considerando la successione dei vescovi eporediesi, è possibile tentare una periodizzazione che aiuti a comprendere l’evoluzione subita dal cor-po episcopale nell’arco di due secoli e che permetta, successivamente, di

(15)

individuare analogie e differenze con la sede metropolitana di Torino. Da una prima, sintetica, osservazione, appare di una certa evidenza la rottura avvenuta all’inizio del Novecento nella selezione del personale dirigente della Chiesa cattolica, per quanto riguarda origini familiari, diocesi di pro-venienza, titoli accademici conseguiti e carriera ecclesiastica precedente la nomina episcopale.

Per tutto il corso dell’Ottocento, per la diocesi di Ivrea fu confermata la tendenza generale alla nomina di vescovi di estrazione nobiliare e prove-nienti dalle città e dalle diocesi piú rilevanti della regione: Grimaldi, Chia-veroti, Pochettini e Riccardi appartenevano alla nobiltà sabauda da piú o meno lunga data, mentre soltanto Richelmy e Moreno erano di estrazio-ne borghese (anche se la madre del primo era di famiglia nobile); in mi-sura notevole, l’origine aristocratica dei vescovi determinò la prevalenza di prelati che erano nati o che avevano svolto la propria carriera ecclesia-stica in centri di una certa importanza e che, allo stesso tempo, proprio per la propria estrazione sociale, avevano potuto conseguire elevati titoli di studio, condizione che, nell’Ottocento, si affermò come sempre piú ne-cessaria per arrivare ai vertici della gerarchia cattolica.

La maggior parte dei vescovi di Ivrea del xix secolo compí gli studi al-l’Università di Torino prima della soppressione della Regia facoltà

teolo-Nobili Borghesi “Rurali”

Grimaldi 1 Chiaveroti 1 Pochettini 1 Moreno 1 Riccardi 1 Richelmy 1 Filipello 1 Rostagno 1 Mensa 1 Bettazzi 1 4 3 3

(16)

gica.7 Come già osservato per altre diocesi della Penisola,8i vescovi erano

scelti di preferenza tra coloro che avevano conseguito la laurea in utroque

jure e che, in forza della formazione giuridica ricevuta, erano considerati

piú adatti a guidare una diocesi, dovendovi ricoprire un ruolo politico ol-tre che pastorale.

I vescovi ottocenteschi di Ivrea, anche qui senza discostarsi dalla ten-denza dell’epoca, prima della nomina episcopale furono tutti rettori o professori di seminario (potendo far rientrare in questa categoria anche Chiaveroti che fu maestro dei novizi dei camaldolesi) e molti di essi an-che canonici o vicari generali. Nel corso del Novecento, queste caratteri-stiche mutarono, segnale evidente non soltanto del cambiamento occorso nel reclutamento del clero e, quindi, nel bacino in cui selezionare i candi-dati all’episcopato, ma anche dell’evoluzione delle scelte della Santa Sede

7. Sulla soppressione delle Facoltà teologiche statali, cfr. B. Ferrari, La soppressione

del-le facoltà teologiche neldel-le Università di Stato, Morcelliana, Brescia 1968; G. Tuninetti, Le Fa-coltà teologiche a Torino: dalla FaFa-coltà universitaria alla Sezione torinese della FaFa-coltà teologica dell’Italia settentrionale, Piemme, Casale Monferrato 1999, pp. 121-134.

8. Cfr. Bocchini Camaiani, Introduzione, in Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, cit., p. xvi. Diritto Teologia Grimaldi 1 Chiaveroti 1 Pochettini 1 Moreno 1 1 Riccardi 1 1 Richelmy 1 Filipello 1 1 Rostagno 1 Mensa 1 1 Bettazzi 1 6 8

(17)

per quanto atteneva alle nomine dei vescovi.9 Dal 1898, tra i vescovi di

Ivrea, non vi furono piú nobili, ma prevalsero i presuli di estrazione “ru-rale” (intendendo con questo termine definire coloro che provenivano dall’ambiente sociale e culturale tipico delle campagne e dei piccoli agglo-merati urbani). La laurea in materie giuridiche non fu piú considerata ti-tolo preferenziale per la nomina episcopale e, al contrario, furono scelti candidati che si erano addottorati in teologia, possibilità riconosciuta in Italia soltanto alle Università pontificie, essendo state soppresse nel 1873 le facoltà teologiche statali. Allo stesso tempo, la carriera ecclesiastica dei futuri vescovi eporediesi si svolse soltanto parzialmente nei seminari dio-cesani, dove alcuni di essi furono professori o rettori, in quanto, per la maggioranza di essi, questi incarichi di formazione del clero rappresenta-rono una tappa preliminare alla successiva nomina alla guida di una par-rocchia. Ai vescovi del Novecento era delegato un compito primaria-mente pastorale, che necessitava, quindi, di una formazione teologica e di un’attitudine alla “cura delle anime” verificabile attraverso l’osservazione, sempre piú determinante, delle capacità dimostrate nell’amministrazione delle attività parrocchiali.

9. Cfr. ibid., p. xxii. Per l’evoluzione del clero nell’Ottocento e nel Novecento, cfr. M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 1997.

Vicari Rettori di Professori in Canonici Parroci Altro generali seminario seminario

Grimaldi 1 Chiaveroti 1 1 Pochettini 1 Moreno 1 1 1 Riccardi 1 1 1 Richelmy 1 1 Filipello 1 1 Rostagno 1 1 Mensa 1 1 1 Bettazzi 1 1 4 2 8 3 3 1

(18)

I mutamenti politici e istituzionali intervenuti in Italia, da un lato, e il va-riare della prassi nelle nomine dei vescovi, dall’altro, indussero alcuni si-gnificativi cambiamenti nel profilo dell’episcopato italiano tra Ottocento e Novecento, confermati dai tratti dei presuli succedutisi nella sede epodiese. In maniera in gran parte imprevista, la laicizzazione dello Stato re-stituí alla Santa Sede ampia discrezionalità nelle nomine episcopali e favo-rí indirettamente la tendenza alla centralizzazione romana.10 La curia

vati-cana, ormai ampiamente sganciata da obblighi nei confronti delle élites lo-cali e da contrattazioni con l’autorità politica, poteva giocare pienamente il ruolo di decisore principale nelle nomine episcopali, godendo di una liber-tà di azione considerevole in uno dei settori cruciali della sua organizza-zione, rappresentato dalla scelta del personale dirigente delle Chiese locali. I vescovi di Ivrea del periodo analizzato nacquero tra il 1754 e il 1923 e ricevettero l’ordinazione episcopale tra il 1797 e il 1963. Il vescovo piú gio-vane fu Richelmy che aveva 36 anni al suo arrivo a Ivrea, mentre il piú anziano fu il sessantatreenne Chiaveroti. Considerando i dieci presuli eporediesi, l’età media della loro consacrazione episcopale fu 44,2 anni (a fronte del dato nazionale che ferma a 48 anni l’età media per la prima no-mina), mentre l’età media all’arrivo a Ivrea fu 45,7 anni.

10. Cfr. R. Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea, La-terza, Roma-Bari 1999, in particolare pp. 247-257.

Età ordinazione Età arrivo Permanenza episcopale a Ivrea a Ivrea

Grimaldi 43 51 12 Chiaveroti 63 63 1 Pochettini 42 42 13 Moreno 38 38 40 Riccardi 45 45 8 Richelmy 36 36 11 Filipello 39 39 41 Rostagno 52 56 20 Mensa 44 44 6 Bettazzi 40 43 33 (media) 44,2 45,7 18,5

(19)

I dieci vescovi rimasero a Ivrea mediamente 18,5 anni, con gli estremi rappresentati da Chiaveroti che vi rimase 13 mesi e da Filipello che vi ri-siedette per 41 anni. Analizzando separatamente i dati relativi all’Ottocen-to e al Novecenall’Ottocen-to, i vescovi del primo periodo furono consacrati media-mente a 44,5 anni mentre quelli del secondo periodo a 43,7 anni; stabile è anche l’età media di arrivo a Ivrea, rispettivamente 45,8 e 45,5 anni, men-tre una certa differenza è riscontrabile nella durata media degli episcopa-ti, 14,1 anni per il xix secolo (quando si succedettero sei vescovi) e 25 an-ni per il xx secolo (con quattro vescovi).

Di notevole interesse è l’osservazione della carriera episcopale dei pre-suli inviati a Ivrea: tre su dieci avevano già svolto il ministero episcopale in altra diocesi (Grimaldi a Pinerolo, Rostagno a Andria e Bettazzi come vescovo ausiliare di Bologna); per gli altri sette, la mensa eporediese rap-presentò la prima sede episcopale.

Proprio il carattere di sede di prima nomina permise alla metà dei ve-scovi di Ivrea del periodo considerato di essere promossi alla guida di diocesi piú importanti per tradizioni o per dimensioni: Grimaldi passò al-la sede metropolitana di Vercelli, Chiaveroti a Torino, Riccardi fu prima a Novara e poi a Torino, Richelmy a Torino e Mensa a Vercelli. La pro-venienza da Torino della metà dei vescovi giunti a Ivrea e la destinazione

Da altra sede Prima sede Verso altra sede Sede definitiva

Grimaldi 1 1 Chiaveroti 1 1 Pochettini 1 1 Moreno 1 1 Riccardi 1 1 Richelmy 1 1 Filipello 1 1 Rostagno 1 1 Mensa 1 1 Bettazzi 1 1 3 7 5 5

(20)

successiva alla cattedra di S. Massimo della maggior parte di coloro che furono promossi dalla sede eporediese confermano gli stretti legami esi-stenti tra queste due diocesi, tanto da poter ipotizzare, in linea generale, che la scelta di destinare un certo vescovo alla sede eporediese fu sempre fatta in funzione del sostegno e del rafforzamento dell’opera svolta dal co-evo arcivescovo di Torino.

Confrontando la serie degli episcopati eporediesi con quella relativa a Torino, se è possibile rilevare, per ogni periodo, una certa analogia nelle origini, nella formazione e nella carriera ecclesiastica dei rispettivi vesco-vi, è necessario segnalare alcuni dati in grado di spiegare, almeno in par-te, le strategie sottese alle nomine episcopali in diocesi di piccole e medie dimensioni (come Ivrea) e quelle predominanti nel momento dell’asse-gnazione di sedi di maggior rilievo. In questo campo, analogie e differen-ze, pur se circoscritte al confronto tra due sole sedi episcopali, possono offrire interessanti conferme e proporre inediti spunti di riflessione sul cattolicesimo italiano contemporaneo. Ciò che risulta immediatamente evidente è il numero maggiore di vescovi che si sono succeduti sulla cat-tedra di S. Massimo rispetto a quelli presenti a Ivrea nello stesso periodo, tredici contro dieci, dato che fa attestare la media degli anni di permanen-za dei vescovi a Torino a 13,9 anni. Il fatto si spiega considerando non tanto l’età media di consacrazione episcopale che è, in gran parte, indi-pendente dalla successiva carriera ecclesiastica (per i vescovi torinesi fu di 49,1 anni, quindi soltanto 4,9 anni in piú rispetto ai vescovi eporediesi), quanto osservando l’età di arrivo nella sede metropolitana: proprio per-ché l’approdo a una diocesi “maggiore” avveniva generalmente dopo aver percorso una piú o meno lunga carriera episcopale in altre sedi, l’età media di nomina a Torino fu di 58,6 anni, vale a dire 12,9 anni in piú ri-spetto all’età media di ingresso a Ivrea. La maggiore età dei presuli tori-nesi, naturalmente, si ripercosse sulla durata della loro permanenza nella diocesi metropolitana, che per tutti fu la destinazione definitiva sino alla morte e, in epoca piú recente, sino alle dimissioni per motivi di salute o per aver raggiunto i 75 anni di età (come indicato dal nuovo Codice di

di-ritto canonico del 1983).

La permanenza a Ivrea, come in diocesi di importanza analoga, poteva rappresentare, per i vescovi, un utile tirocinio prima di impegni piú gra-vosi e si configurava come un periodo durante il quale i promotori (laici o ecclesiastici) delle nomine episcopali potevano saggiare le capacità di

(21)

guida del presule e, allo stesso tempo, verificarne la fedeltà e l’attacca-mento al governo centrale (ora laico, ora ecclesiastico). Pur considerando il fatto che non tutti i vescovi residenti in diocesi medio-piccole potevano aspirare alla promozione in sedi maggiori, per il semplice dato aritmetico che esistevano piú diocesi piccole che diocesi grandi, fu del tutto casuale il mancato trasferimento di alcuni vescovi eporediesi in altre località? E, in termini piú generali, quali fattori determinarono la conclusione della car-riera episcopale di un certo vescovo a Ivrea? Per tentare una risposta a tali interrogativi è possibile seguire due itinerari paralleli: da un lato, si posso-no individuare i meriti personali dei cinque vescovi promossi ad altra sede maggiormente tenuti in considerazione dalla curia romana e, almeno per un certo periodo, dalle autorità civili e le circostanze generali che contri-buirono a determinare il loro trasferimento ad una diocesi maggiore; dal-l’altro lato, si possono indagare gli episodi che impedirono agli altri cinque di proseguire la propria carriera ecclesiastica. Gli esempi rappresentati da Chiaveroti e da Richelmy, per il primo itinerario, e quelli di Moreno e di Bettazzi, per il secondo, possono aiutare a osservare piú da vicino le strate-gie, ora politiche, ora ecclesiastiche, sottese alla nomina di un vescovo.

L’antica amicizia che legava il conte Guglielmo Borgarelli, ministro dell’interno di Vittorio Emanuele I, a Colombano Chiaveroti serví

certa-Origini Titoli Incarichi Diocesi di Precedenti Età Età Perma- Successive familiari accade- precedenti prove- sedi ordinazione all’arrivo nenza sedi

mici nienza episcopali episcopale a Ivrea a Ivrea episcopali

Grimaldi N T R Vercelli Pinerolo 43 51 12 Vercelli Chiaveroti N D S A Torino 64 64 1 Torino Pochettini N D P Torino 42 42 13

Moreno B T D V P C Alba 38 38 40

Riccardi N T D V P C Biella 45 45 8 Novara Torino Richelmy B T P C Torino 36 36 11 Torino Filipello R T D P S Torino 39 39 41

Rostagno R T R S Torino Andria 52 56 20

Mensa R T D V P S Pinerolo 44 44 6 Vercelli Bettazzi B T V P Bologna Bologna 40 43 33

Tabella 7. Riepilogo generale.

(N: nobili, B: borghesi, R: “rurali”, T: teologia, D: diritto, R: rettore di seminario, P: parro-co, V: vicario generale, C: canoniparro-co, S: professore in seminario, A: altro).

(22)

mente a sciogliere le perplessità del re e a consentire la nomina del ca-maldolese a Ivrea e, soprattutto, a favorire il suo trasferimento a Torino poco piú di un anno dopo. Chiaveroti si segnalò per la sollecitudine mo-strata nel riorganizzare il seminario diocesano di Ivrea e nel disciplinare la vita del clero secolare; non godette la stima dei giansenisti, anche se non si dimostrò eccessivamente favorevole né ai gesuiti né agli orientamenti benignisti. Nonostante l’età avanzata, la salute malferma e la ritrosia piú volte espressa dal religioso ad accettare la successione alla cattedra di S. Massimo, il papa accondiscese senza difficoltà a trasferire Chiaveroti a Torino, assecondando la volontà della corte sabauda che vedeva in lui una capace guida della diocesi metropolitana e un fedele collaboratore della politica di restaurazione condotta dalla Corona. Richelmy era inve-ce partito da posizioni conciliatoriste, per poi approdare a esiti decisa-mente ultramontani e antimodernisti. Durante la permanenza a Ivrea, promosse l’Opera dei congressi, convinto che attraverso questo strumen-to l’azione organizzata dei catstrumen-tolici e l’austrumen-torità del papa potessero ricevere un sicuro sostegno nell’Italia post-unitaria. La sua azione nella diocesi eporediese confermò la Santa Sede nella fiducia posta in Richelmy e, nel luglio 1897, a pochi mesi dalla sua nomina alla sede torinese, il segretario di Stato, il cardinal Rampolla, gli affidò la stesura di una relazione sul « grave argomento » della Democrazia cristiana in Piemonte, incarico quanto mai delicato in quel momento.

A fronte di una brillante carriera giovanile, che lo aveva portato a soli 38 anni alla guida della diocesi eporediese, Luigi Moreno si segnala per essere rimasto nella sede di prima – e unica – nomina per quarant’anni, quando gli altri vescovi ottocenteschi risiedettero a Ivrea mediamente no-ve anni. Tra i motivi che bloccarono la sua possibile ascesa ecclesiastica, vi fu certamente il risentimento di Pio IX e della curia vaticana verso co-loro che, come mons. Moreno, durante il Concilio vaticano I sostennero pubblicamente l’inopportunità della proclamazione dell’infallibilità ponti-ficia e si rifiutarono di assistere alla seduta pubblica del 18 luglio 1870, du-rante la quale fu approvata la costituzione Pastor aeternus. Già negli anni precedenti, in cui i rapporti tra Chiesa cattolica e governo si erano incri-nati a causa della legislazione ecclesiastica e della progressiva annessione dei territori pontifici da parte del Regno sabaudo, il vescovo di Ivrea (esti-matore dell’abate Rosmini, sospettato a Roma di scarsa ortodossia) aveva tentato di far convivere il dovere di fedeltà alla sede romana e il

(23)

persona-le attaccamento ai Savoia, equilibrio fortemente instabipersona-le e dagli esiti sem-pre piú incerti. Moreno, d’altra parte, aveva sostenuto con accanimento la partecipazione dei cattolici alle elezioni, in qualità di eletti e di elettori, convinto che un loro ingresso massiccio nelle competizioni elettorali su posizioni conservatrici avrebbe potuto scalzare i liberali e le forze anticle-ricali dalla guida politica del Regno. Ad oltre un secolo di distanza, un discorso in parte analogo può essere fatto per mons. Luigi Bettazzi che, dopo essere stato consacrato, a quarant’anni, vescovo ausiliare di Bolo-gna dal cardinal Giacomo Lercaro, rimase a Ivrea per trentatré anni. A questa lunga permanenza in diocesi e, quindi, alla sua mancata promo-zione ad una sede maggiore, non sono estranei né il suo passato di stret-to collaborastret-tore di Lercaro, con il quale condivise l’allontanamenstret-to da Bologna,11 né la sua attività di aperto sostenitore delle riforme innescate

dal Concilio vaticano II, né la sua franchezza nell’additare alcuni seri li-miti del cattolicesimo italiano; allo stesso tempo, il suo aperto dialogo con uomini politici appartenenti a diverse tradizioni culturali e ideologiche lo posero su posizioni considerate eccessivamente “progressiste” e di “sini-stra” dal mondo cattolico piú tradizionalista.12

11. Scriveva Bettazzi, accennando alle cause della sua partenza da Bologna e del suo arri-vo a Ivrea: « mio padre era nato e cresciuto a Torino, e forse questo era stato il motiarri-vo del-la mia designazione quando, nell’imminenza delle dimissioni del card. Lercaro, di cui ero vescovo ausiliare, si rendeva necessario trovare una sede dove sistemarmi, per rendere pos-sibile la venuta a Bologna dell’arcivescovo coadiutore », L. Bettazzi, Obbediente in Ivrea.

Monsignor Luigi Moreno vescovo dal 1838 al 1878, Sei, Torino 1989, p. 5. Sull’episcopato di

Lercaro, cfr. G. Battelli, Tra Chiesa locale e Chiesa universale. Le scelte pastorali e le linee di

governo dell’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro (1952-1968), in Chiese italiane e Concilio,

a cura di G. Alberigo, Marietti, Genova 1988, pp. 151-185.

12. Rivelava lo stesso Bettazzi, rievocando la figura di mons. Mensa a pochi giorni dalla sua morte, che il suo predecessore « Si mostrò molto lieto che fossi io a succedergli; me lo disse in un incontro informale che avemmo tra Natale e Capodanno del 1966 a Rho, dove stava facendo una Settimana di Ritiro, ma so che lo disse anche pubblicamente. E mi ha mostrato sempre stima e affetto, confermando che le mie posizioni, anche se apparente-mente avanzate, erano sempre nella piena ortodossia. Per questo perorò in Conferenza Epi-scopale Piemontese che venisse appoggiata una mia candidatura a succedergli anche a Ver-celli, e rimase un po’ male per il mio rifiuto, perché a Ivrea – gli dissi – stavo troppo bene e non vedevo il motivo per lasciarla. Per attenuare il suo disagio, gli dissi allora ridendo che il suo trasferimento a Vercelli era stata chiaramente una promozione, ma per me, alla mia età, sarebbe stato . . . un premio di consolazione! », L. Bettazzi, Mons. Mensa, vescovo schivo e

sensibile, « Fraternitas », n. 1, 1998, p. 11 (già pubblicato in « Il Risveglio popolare », 16

(24)

3. Chiesa, società e secolarizzazione nelle lettere pastorali dei vescovi eporediesi

Alla luce degli eventi che coinvolsero il Piemonte nel passaggio dal XVIII al XIX secolo, è possibile ipotizzare un precoce interessamento del-l’episcopato subalpino ai temi della polemica controrivoluzionaria e all’al-larme di fronte ad alcuni episodi di secolarizzazione, ben prima degli even-ti del 1848 che segnarono, per il cattolicesimo di altre regioni italiane, la traumatica presa di coscienza dell’evoluzione subita dalla società. L’in-staurazione, prima, di alcune repubbliche giacobine nell’area piemontese, la convivenza, poi, con l’amministrazione francese fecero intravedere alla Chiesa subalpina, con anticipo rispetto ad altre realtà italiane, i rischi im-mediati e le conseguenze di lungo periodo derivanti dalla diffusione di isti-tuzioni politiche, di sistemi filosofici, di mentalità e di comportamenti che si contrapponevano, nei programmi e nei fatti, al cattolicesimo. Le lettere pastorali dei vescovi possono essere assunte come fonte di particolare in-teresse per rilevare l’emergere di questa preoccupazione e, in maniera piú generale, per seguire l’evoluzione del confronto tra Chiesa cattolica e so-cietà in Italia. È possibile tentare una periodizzazione che aiuti a ricostrui-re la traiettoria lungo cui si mossero i diversi episcopati e ad individuaricostrui-re i temi ricorrenti e gli spunti originali elaborati da ciascun vescovo. Il primo periodo può essere circoscritto all’episcopato di Grimaldi e a quello di Po-chettini, dal 1805 al 1837, caratterizzato dal passaggio dall’età napoleonica agli anni della Restaurazione; il secondo periodo è compreso tra l’arrivo di Moreno (1838) e la partenza di Richelmy (1897), si aprí e si chiuse con movimenti popolari dai caratteri piú o meno marcatamente rivoluzionari e abbracciò un arco di tempo segnato dal processo di unificazione nazio-nale; nel terzo periodo, durante gli episcopati di Filipello e Rostagno (1898-1959), due guerre e una dittatura cambiarono profondamente il vol-to dell’Italia e il ruolo della Chiesa nella società; il secolo si concluse con la guida pastorale di Mensa, prima, e di Bettazzi, poi, in un contesto so-ciale segnato dai processi di secolarizzazione dell’ethos collettivo.

3.1. Tra l’età napoleonica e gli anni della Restaurazione (1805-1837)

La presenza francese nei territori subalpini e la politica ecclesiastica na-poleonica costrinsero Giuseppe Maria Grimaldi, trasferito a Ivrea da Pi-nerolo dopo la soppressione di quella sede vescovile nel 1803, a guidare la

(25)

Chiesa locale mantenendola nel delicato equilibrio in grado di garantire la difesa delle sue prerogative e la convivenza con le autorità politiche. Gli elogi del vescovo a Napoleone, i Te Deum recitati solennemente in catte-drale e nelle parrocchie della diocesi per ingiunzione dell’imperatore e gli inviti alla preghiera per la famiglia Bonaparte erano atteggiamenti in buo-na misura obbligati, tanto che mons. Grimaldi precisò puntualmente nel-le sue nel-lettere pastorali sia gli estremi dei documenti imperiali che lo spin-gevano a simili provvedimenti, sia il sostanziale accordo con il papa Pio VII, a giustificazione di quelle dimostrazioni di ossequio della Chiesa ver-so l’Impero.13All’interno di questo quadro, emergono dalle lettere

pasto-rali alcuni accenni alla situazione religiosa della diocesi, in un interessante confronto tra la situazione subalpina e quella francese.

Nella lettera pubblicata in occasione della festa del 15 agosto, com-pleanno dell’imperatore, i richiami alla solennità di Maria Assunta si uni-vano all’esortazione, rivolta a clero e fedeli, a ricordare la ricorrenza del martire S. Napoleone, fissata il giorno successivo. In questa lettera il ve-scovo Grimaldi ricordava i meriti dell’« Eroe invitto, che ci governa » per il « ristabilimento della Cattolica religione in Francia » e precisava: « [non] mi si dica, che quanto egli operò nell’interno dell’Impero a prò della Cat-tolica Religione, non ebbe luogo fra noi, ove non ebbe luogo l’irreligione; poiché, fatta ipotesi, che Egli, intento solo a ricomporre le politiche, ed economiche cose, quelle avesse trasandate, che la Religione riguardano, mentre sarebbe colà l’irreligione a dismisura cresciuta, di noi presente-mente cosa sarebbe? ah che pur troppo rinnovar tra noi dovrebbonsi i forti laj, e le ammirazioni [sic] profonde, di cui fe’ patetica menzione il Dottor Massimo d’Atanasio parlando . . . ! Il solo immaginarlo ci racca-priccia ».14La Francia era indicata come il luogo in cui erano nati e si

era-no diffusi correnti di pensiero e modi di vita contrari alla religione, feera-no- feno-meni che non sembrava avessero interessato le zone subalpine, anche per

13. Cfr., per esempio, G.M. Grimaldi, Al Venerabile Clero, ed Amatissimo popolo della

Cit-tà, e Diocesi. Salute nel Signore, e Spirito di Cristiana riconoscenza, 17 luglio 1806, in Archivio

storico diocesano di Ivrea (da ora Asdi), xviii 7; Id., Al Venerabile Clero, ed Amatissimo

Po-polo della Città, e Diocesi. Salute nel Signore, e spirito di verace riconoscenza, 27 gennaio 1807, ibid. È doveroso ringraziare don Giovanni Battista Giovanino dell’Archivio storico della

diocesi: senza la sua puntuale e generosa collaborazione nessuno dei saggi presentati in questo volume sarebbe potuto essere scritto.

14. Id., Al Venerabile Clero, ed Amatissimo popolo della Città, e Diocesi. Salute nel Signore, e

(26)

l’intervento di Napoleone che « se fu grande in ogni sua guerresca impre-sa, fu piú grande ancora, perché al primo istante, che affidati gli furono i fascj Consolari, consacrò i primi suoi pensieri, e prime sue cure alla Reli-gione dei nostri Padri, e al di lei ristabilimento ».15

Il ritorno dei Savoia coincise con il ripristino pressoché immutato del-le antiche circoscrizioni eccdel-lesiastiche e con la restituzione (dove fu possi-bile) dei beni appartenuti agli enti religiosi espropriati dall’amministrazio-ne francese. Ma di là dai singoli provvedimenti, la nuova situaziodall’amministrazio-ne crea-tasi tra il 1814 e il 1815 fece sperare che, con l’esilio di Napoleone, si sa-rebbe potuto riportare in Europa l’antico ordine incarnato dalle dinastie reali, depositarie del legame tra Trono e Altare, e bandire definitivamente le idee e le istituzioni nate dalla Rivoluzione francese. Dettate da ben altro convincimento, furono, quindi, le note espresse da mons. Grimaldi nella lettera pastorale inviata il 14 giugno 1814 Al venerabile Clero, ed amatissimo

Popolo all’indomani del rientro della corte sabauda a Torino, nella quale si

sosteneva con certezza che il « pressoché prodigioso politico cangiamen-to » avrebbe portacangiamen-to con sé l’« importantissimo spirituale cangiamencangiamen-to » che avrebbe dovuto « ravvivare l’indebolita fede, e ricomporre i deprava-tisi costumi », proprio perché con Vittorio Emanuele erano ritornati « la pubblica e privata felicità, il freno al vizio, il premio alla virtú ».16L’invito

alla conversione rivolto a « tutti i figli traviati della Chiesa » e a « tutti i suoi nemici » si univa all’ammonimento che tutti i fedeli dovevano trarre dalle passate vicende, tanto da « farci aborrire per sempre quelle massime desolatrici d’una filosofia nemica egualmente e del Sacerdozio, e del Tro-no, d’una filosofia la quale colla strana instabilità de’ suoi principii, e de’ suoi pensamenti cangiantisi quasi ad ogni istante, nel breve corso di pochi lustri preparò a se stessa l’universale avvilimento, ed alla Religion nostra il piú magnifico trionfo! ».17Pio VII nuovamente a Roma e Vittorio

Ema-nuele ristabilito a Torino garantivano che non si sarebbero piú visti « tra i Cristiani quegli empii libri, con cui cercossi di avvelenare la fede, ed il co-stume; [. . .] ma un solo sia l’ovile, una sola la società de’ Santi: il Crocifis-so sia l’unico nostro libro ».18 Quella che veniva definita l’« irreligione »

era il prodotto di un sistema filosofico che, attentando simultaneamente

15. Ibid.

16. Id., Al Venerabile Clero, ed amatissimo Popolo della Città, e Diocesi, 14 giugno 1814, ibid. 17. Ibid.

(27)

alla religione cattolica e all’ancien régime, minava le basi della convivenza civile e che si condannava alla sua stessa dissoluzione.

La possibilità, nuovamente riconosciuta dai Savoia alla Chiesa cattolica, di svolgere pubblicamente quelle pratiche di culto che erano state inter-dette da Napoleone confermò il ristabilimento di un clima di sostanziale accordo tra l’autorità politica e quella religiosa. Il 22 agosto 1814, mons. Grimaldi, comunicando la volontà del re di veder ripristinata la processio-ne in onore della Natività di Maria, invitava i fedeli a pregare la Madonna affinché « al Sommo Pontefice Pio VII lunghi anni ottenga, e molti lumi, onde poter qual altro Zorobabelle riedificare il misterioso tempio di Dio, e all’Augusto Sovrano anni altresí lunghi, felici e accompagnati da quei su-perni ajuti, che richieggonsi per ricomporre qual altro Neemïa le mistiche mura del sociale pubblico edifizio, e a tutta la Reale Famiglia mille bene-dizioni, cosicché prosegua ad essere il vero modello del vivere cristia-no ».19La presenza francese aveva lasciato alle spalle un’eredità pericolosa

che sovrani, clero e popolo dovevano combattere per « sbandire dal tutto il nostro bel Piemonte la vita molle, la libertà del costume, la scandalosa foggia di vestire, e sopra tutto quella micidiale sonnolenza, che in linea di Religione veggiamo nostro malgrado insinuarsi in ogni angolo nei palazzi dei grandi egualmente che negli umili abituri, e recare alla retta credenza le piú profonde ferite ».20 L’intenzione sia della casa regnante che dell’autorità

ecclesiastica di riportare la realtà politica e religiosa alla situazione pre-rivo-luzionaria si scontrava con i cambiamenti che, in modo piú o meno sotter-raneo, erano intervenuti nei territori di antica dominazione francese. Le correnti di pensiero importate dalla Francia avevano alimentato la diffu-sione di modi di vita che non soltanto allontanavano i singoli dalla religio-ne, ma rappresentavano un pericolo per l’intera società.

La radice rivoluzionaria degli episodi di irreligiosità registrati in diocesi fu pure indicata dal successore di Grimaldi, il camaldolese Colombano Chiaveroti che, alla fine del 1818, al termine del suo breve episcopato epo-rediese, nell’annunciare la sua prossima partenza per la sede di Torino (ma sarebbe rimasto amministratore apostolico della diocesi di Ivrea sino al 1824) segnalò che, « Benché occulto, e mascherato eziandio sotto il

ve-19. Id., Al venerabile Clero, ed amatissimo Popolo della Città, e Diocesi. Spirito di fervore e di

Cristiana riconoscenza, 22 agosto 1811, ibid.

(28)

lo di pietà, regna ancora in certuni lo spirito d’irreligiosità. L’incontinen-za, l’intemperanL’incontinen-za, la frode, e l’usura non osano forse comparire colla stessa baldanza di prima, ma se ne veggono pur troppo ancora de’ segni assai manifesti ».21 E, comunicando agli eporediesi la bolla di Pio VII sui

carbonari emanata nel settembre 1821, il vescovo di Torino, nella sua qua-lità di amministratore apostolico di Ivrea, metteva in guardia i suoi dioce-sani che « quantunque da alcuni di cotesti associati si pratichino esteriori atti di religione per meglio nascondere la loro empietà, sono però essi i piú grandi nemici della stessa Religione, e la guerra, che fanno al Trono, non ha altra mira, fuorché di privare la medesima Religione dell’esteriore appoggio, con cui si sostiene, cioè dell’autorità dei Sovrani ».22 Due temi

ricorrono in questa come in altre lettere pastorali di Chiaveroti che, per un certo periodo e in varia misura, furono ripresi dai suoi successori ad Ivrea: innanzi tutto, coloro che si dimostravano irriverenti verso la reli-gione, lo erano anche nei confronti dell’autorità politica; in secondo luo-go, il sostegno dato dai sovrani alla Chiesa garantiva la possibilità di man-tenere intatta l’autorità del cattolicesimo sulla società e, allo stesso tempo, l’appoggio espresso dal cattolicesimo ai sovrani considerati legittimi assi-curava il mantenimento della pace e dell’ordine negli Stati. I « principii ir-rilegiosi e [le] massime immorali, che si vanno da alcuni disseminan-do »,23erano non soltanto trasgressioni alla legge divina, ma anche

atten-tati all’autorità civile, tanto che, sosteneva Chiaveroti nella lettera pastora-le del marzo 1821, dopo i disordini che avevano investito anche il Regno sabaudo, « Fossero pur tutti figli docili ed ubbidienti alle insinuazioni di nostra S.M. Chiesa, che mai disordine alcuno accadrebbe capace di per-turbare la pubblica quiete »;24la Chiesa, si precisava, « niuna parte prende

nelle cose politiche, anzi è nemica delle fazioni, de’ tumulti, de’ raggiri, né altro fa, che raccomandar sempre sommessione, pace e tranquillità ».25

Chiaveroti, confermando la necessità delle popolazioni subalpine di sottomettersi all’autorità del principe che Dio aveva destinato loro,

affer-21. C. Chiaveroti, Al venerabile Clero e dilettissimo Popolo. Salute e benedizione, 31 dicem-bre 1818, p. 5, Asdi, xviii 8.

22. Id., Al venerabile Clero e dilettissimo Popolo della Città e Diocesi d’Ivrea salute e

benedi-zione, 9 novembre 1821, p. 4, ibid.

23. Id., Al venerabil Clero e dilettissimo popolo della Città e Diocesi di Ivrea salute e

benedi-zione, 17 marzo 1821, p. 3, Asdi, ibid.

24. Ibid. 25. Ibid., p. 4.

(29)

mava in modo esplicito: « Avere un Re egli è certamente dono inestima-bile della divina Provvidenza, ma avere un Sovrano della Casa di Savoja è particolarissima grazia di quella bontà, con cui Dio riguarda questo suo diletto Popolo ».26Disobbedire a quel sovrano significava compiere un

at-to di ribellione non soltanat-to verso la casa regnante, ma anche contro la Chiesa, come ogni comportamento o pensiero che minasse la solidità del-l’istituzione religiosa attentava, contemporaneamente, all’autorità del po-tere civile che aveva continuamente difeso e sostenuto il cattolicesimo.27

L’obbedienza a « Principi cosí religiosi »28 era un dovere di riconoscenza

per ogni suddito e le motivazioni espresse da Chiaveroti nell’aprile 1824 per invitare i sacerdoti della diocesi di Ivrea a prestare solenne giuramen-to di fedeltà a Carlo Felice ed ai suoi successori sotgiuramen-tolineavano l’esempla-rità che doveva guidare ogni comportamento del clero, ad iniziare dall’at-teggiamento nei confronti del re.29

La stessa immutata fedeltà alla casa Savoia emerge dalle lettere pasto-rali di Luigi Pochettini, che, nel 1826, due anni dopo il suo arrivo a Ivrea, segnalava con toni accorati il « Novo genere di guerra » mosso alla Chie-sa « da uomini raccolti da tutte le nazioni, da tutti i regni, d’ogni religione,

26. Id., Al venerabil Clero e dilettissimo Popolo della Città e Diocesi di Ivrea salute e

benedi-zione, 10 ottobre 1821, p. 2, ibid.

27. Scriveva Chiaveroti nell’ottobre 1821: « Sonosi pure andate finora immaginando varie forme di governo, che si volevano far credere le piú atte a rendere felici i popoli. Ne ride-vano in cuor suo le persone saggie e ben versate nella storia dei tempi; ma la sconsigliata gioventú sempre amante delle novità pretese di vedere piú in là degli antichi, e sgraziata-mente tentò di farne la prova, benché l’esito ne fu deplorabilissimo. Coloro pertanto, che non vollero da principio dar retta alle sode ragioni, hanno poi dovuto essere convinti dalla sperienza, che chi cerca di sottrarsi dalla suprema e legittima autorità dei Re viene a cadere in mano di una turba di altrettanti Regoli, che mossi da particolare ambizione mettono sos-sopra l’ordine e la tranquillità pubblica, e rovinano intieramente lo Stato. Gli orrori, che re-gnano ed affliggono di presente alcuni Stati da noi lontani, dovrebbero pur bastare a per-suaderci di tale verità Ah! sia dunque benedetto il Signore, che ci ha conservato un Monar-ca e la primiera forma di governo, sotto della quale già molti secoli prosperarono queste contrade », ibid.

28. Ibid., p. 3.

29. « Conosce il saggio Monarca quanta sia l’influenza del vostro sagro Ministero sopra de’ suoi sudditi, poiché la religione è il piú sodo appoggio del trono, e voi siete quelli, che ne ispirate l’amore, e ne promovete la pratica. Tanto egli è di questa verità convinto, che tutti vi chiama al solenne giuramento di fedeltà, onde venendo gli altri sudditi animati dal vostro esempio, sicuro possa poi riposare sulla universale sommessione del popolo », Id., Al

vene-rabile Clero della Città e Diocesi d’Ivrea salute, benedizione e spirito di cristiana rassegnazione, 15

(30)

d’ogni setta, d’ogni condizione; uomini a tutte le religioni egualmente av-versi, cui pesava ogni giogo di autorità sí civile, che religiosa cui eran leg-gi le sole passioni, e virtú, e vizio nomi voti di senso »; proprio la rottura del legame esistente tra Chiesa e monarchie era l’obiettivo delle « ree set-te formaset-te sotto gli auspicii del Principe delle set-tenebre » che « scelsero con maligno artifizio l’oscurità del secreto, col favore del quale sperarono te-ner celati gli empj loro maneggi ».30 Liberi muratori, Carbonari e «

Uni-versitari » coltivavano « l’empio disegno di abbattere ogni culto religioso, e rovesciare tutti gli Altari; ben avvisando, che questi rovinando avrebber nel loro cadere seco tratto i Troni, ai quali non ardivan per anco dichiara-re apertamente la guerra, comecché non fossero loro meno odiosi ».31 Il

vescovo di Ivrea, proiettando i timori legati alla diffusione di queste so-cietà segrete, rappresentava con precisione non tanto i progetti politici di questi gruppi, ma il quadro di riferimento complessivo in cui riteneva do-vessero ordinatamente organizzarsi i rapporti tra autorità civile e autorità religiosa. La difesa della monarchia, e della casa Savoia in particolare, era la condizione necessaria perché la Chiesa potesse continuare a esercitare la propria potestà sui sudditi appartenenti alle diocesi del regno sabaudo; nello stesso tempo, la stabilità dell’Altare era la garanzia per il Trono di continuare a governare, in un epoca in cui gli attacchi delle forze « rivolu-zionarie » sembravano mettere periodicamente in causa l’autorità delle monarchie ritornate al potere in seguito al Congresso di Vienna.

Al di là delle riflessioni espresse da Pochettini intorno alle sette segrete, questo documento del 1826 è emblematico di alcuni caratteri propri del genere letterario cui appartiene la lettera pastorale. Spesso i motivi che spingevano ad occuparsi di un dato tema o a segnalare un particolare problema non si riallacciavano ad emergenze segnalate in diocesi, ma avevano origine in sollecitazioni esterne, ora provenienti da Roma, ora da Torino. La massoneria, la cui pericolosità e pervasività erano additate da Pochettini con veemenza, risultava essere, dalla stessa lettera pastorale, un’entità o inesistente nel Canavese o, comunque, di scarso richiamo per i diocesani. Scriveva Pochettini: « portiamo ferma opinione, che o niun de’ nostri cari Diocesani ebbe mai parte a queste conventicole di iniquità,

30. L. Pochettini, Al Venerabile Clero e dilettissimo Popolo della Città, e Diocesi salute e

be-nedizione, 1oluglio 1826, Asdi, xviii 9.

(31)

o se vi parteciparono, essi furon sedotti, ed ingannati »;32anche se qualche

massone poteva essere presente a Ivrea, sembrava adombrare il vescovo, la centrale della sovversione non doveva essere cercata nel Canavese do-ve, tutt’al piú, potevano trovarsi degli ingenui che erano stati irretiti dalla propaganda settaria. Non era estranea a queste lettere pastorali, docu-menti per loro natura destinati a un’ampia e capillare pubblicità, la volon-tà di rassicurare, prima che il popolo e il clero, le autorivolon-tà politiche e i su-periori religiosi circa la vigilanza esercitata dal vescovo sui suoi diocesani. Le lettere furono, quindi, il luogo in cui confluirono, accanto alle ansie di carattere pastorale, temi che esprimevano spesso l’adesione convinta de-gli ordinari alle preoccupazioni provenienti ora dal potere politico ora dall’autorità religiosa, vale a dire da quei soggetti che, tra l’altro, in misu-ra diversa, avevano deciso la loro nomina episcopale.

Nelle lettere pastorali di questo periodo, fu riproposta continuamente la convinzione circa il nesso strettissimo esistente tra sostegno a dottrine eterodosse in campo teologico, appoggio a tesi politiche considerate sov-versive e comportamenti individuali ritenuti immorali. Chi tradiva la Chiesa, tradiva anche il Re; chi era un fedele indegno era anche un sud-dito inaffidabile e, alla fine, un cattivo padre di famiglia.33Una ferrea

uni-tà legava ogni aspetto della vita, tanto che, secondo quanto affermato da Pochettini nella lettera pastorale del 1836, la « piú fredda indifferenza (se non fosse anco una decisa miscredenza) sugli articoli di fede, sui doveri di religione, e su quanto riflette l’eterna vita futura, va occupando lo spi-rito e il cuore di molti Cristiani, che ad altro piú non attendono se non se

32. Ibid.

33. Scriveva il vescovo ai suoi diocesani per la Quaresima del 1836: « Ed è pur questo uno de’ piú grandi mali, che Ci affliggono profondamente, ed è cagione principale della tanta de-pravazione morale, la sí trascurata, per non dire la cattiva educazione della figliolanza. Noi non vogliamo né anco favellare di que’ genitori, che insinuano essi medesimi a’ loro figliuo-li cattivi principii, o massime antievangefigliuo-liche; o che colla sconsiderata figliuo-libertà de’ discorsi, o de’ tratti feriscono la loro innocenza, aprendo ai medesimi in casa la prima scuola della ma-lizia e della corruzione. Siffatto disordine è sí riprovevole da non potersi facilmente suppor-re tra genitori cristiani. Non possiamo però tacesuppor-re sulla noncuranza di tanti padri di famiglia nel dare, o procurare alla loro prole la necessaria istruzione religiosa e morale; nell’invigila-re sui diportamenti, e le pedate loro, onde tutelarne l’innocenza; nel cornell’invigila-reggerne per tempo le cattive inclinazioni, e li travisamenti con caritatevole discrezione, non meno che con giu-sta severità, e con inspirar loro orrore al vizio, e l’amore alla virtú », Id., Al venerabile Clero,

(32)

a terreni interessi, a divertimenti, a sfarzo mondano, ed a procacciarsi di che appagare le insaziabili loro cupidigie ».34 I libri erano additati tra i

veicoli piú infidi della « bugiarda sapienza del secolo »35 e « della piú

pe-stilenziale dottrina corruttrice de’ cuori, e pervertitrice degli spiriti »,36

per cui era necessario non soltanto « sottrarli di mano agli incauti siffatti libri », ma « non essere contenti finché essi non sieno stati o immediata-mente, o per qualunque via a Noi consegnati ».37Lo stretto controllo sui

comportamenti individuali e collettivi, attuato dalla Chiesa anche attra-verso l’amministrazione dei sacramenti (in particolare, la confessione au-ricolare), serviva a garantire, almeno in parte, la coesione del sistema ereditato dall’ancien régime, che iniziò però a mostrare le sue crepe piú evidenti a partire dalla metà del xix secolo, quando, tra moti rivoluzio-nari, aspirazioni nazionali e diffusione di nuove idee, i fenomeni di seco-larizzazione si incrociarono alle politiche laicizzatrici attuate da quelle di-nastie che, sino ad allora, si erano dimostrate le alleate piú sicure della Chiesa cattolica.

3.2. Dai timori rivoluzionari all’unità nazionale (1838-1897)

Come in altre province del regno sabaudo, anche nella diocesi di Ivrea, guidata dal 1838 dall’energico mons. Luigi Moreno, si erano manifestati alcuni segnali di cedimento dell’antico ordine, sintomi osservati con preoccupazione dalla gerarchia ecclesiastica. Alcuni accenni rilevabili nel-le nel-lettere pastorali di Moreno rappresentano un segnanel-le significativo del mutamento intervenuto, oltre che nei processi di secolarizzazione, nella percezione di tali fenomeni da parte delle élites cattoliche. Quella che ve-niva definita l’« irreligione » non era piú una prerogativa di ristretti circoli intellettuali o politici, ma si stava diffondendo anche in quelle zone e in quei ceti considerati per lungo tempo immuni da simili « straniere

dottri-34. Ibid.

35. Id., Al Venerabile Clero e dilettissimo popolo della Città, e Diocesi salute e benedizione, 16 maggio 1826, p. 3, ibid.

36. Ibid., p. 8.

37. Ibid. Lo stesso Pochettini indicava tra gli obiettivi perseguiti attraverso la sua visita pa-storale alla diocesi « torre dalle mani de’ Nostri dilettissimi Figliuoli quei libri, di cui potea-no succhiarne il velepotea-no corruttore, e coll’adoperare ogni arte per sanare quelli, che per loro sventura ne avesser già contratto l’infezione », Id., Al Venerabile Clero e dilettissimo popolo

Riferimenti

Documenti correlati

Relativamente alla osservazione decimasettima nella quale si prescrive la costituzione degli studi, ed in specie della scienza Teologica pel corso di quattro

Quanto ho fin qui esposto sulla Comunicazione dei Privilegi e sulla facoltà delle Dimissorie, venne fatto per dare qualche ragione della supplicazione umiliata

Polo Universitario Officina H - Ivrea, Via Monte Navale

In corrispondenza dell’isola amministrativa a monte dell’abitato di Salerano, l’adeguamento dell’autostrada, con l’innalzamento della livelletta e di conseguenza

 Di aver frequentato, nell’anno scolastico________________, il corso di aggiornamento- formazione linguistica- glottodidattica compreso nei piani attuati dal ministero,

Va da sé che le ostie devono essere confezionate da persone che non soltanto si distinguano per onestà, ma siano anche esperte nel prepararle e fornite di strumenti adeguati» (n.

Per prime ne sono esposte le imprese B2B, che hanno clienti particolarmente collaborativi che assumono crescente importanza nelle loro scelte di mercato, e le imprese B2C che hanno

NEL CASO DI PROPOSIZIONE DELLA DOMANDA DI CONCORDATO PREVENTIVO DELLA SOCIETA’ ESECUTATA Dott.ssa Tiziana De Fazio - Giudice delle Esecuzioni presso il Tribunale di Vercelli.. ORE