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Il mito di Cefalo e Procri. Genesi, evoluzione e fortuna iconografica dall'Antichità al Cinquecento.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE

IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE,

DELLO SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA

Classe LM-89: Storia dell’arte

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

Il mito di Cefalo e Procri. Genesi, evoluzione e fortuna

iconografica dall’Antichità al Cinquecento.

IL RELATORE IL CANDIDATO

Chiar.mo Prof. Vincenzo Farinella Ilaria Ceragioli

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INDICE

INTRODUZIONE p. 1

CAPITOLO 1

FONTI LETTERARIE p. 4

1.1 Fonti letterarie antiche p. 5

1.2 Fonti letterarie medievali p. 23

1.3 Fonti letterarie rinascimentali p. 34

CAPITOLO 2

FONTI ICONOGRAFICHE p. 62

2.1 Fonti iconografiche antiche p. 62 2.1.1 Fonti iconografiche greche p. 62 2.1.2 Fonti iconografiche etrusche p. 84

2.2 Fonti iconografiche medievali p. 89

CAPITOLO 3

FONTI ICONOGRAFICHE RINASCIMENTALI p. 113

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INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI p. 211

BIBLIOGRAFIA p. 225

SITOGRAFIA p. 238

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INTRODUZIONE

Sin dalle sue origini, il sapere mitologico degli antichi espresso dalle azioni di dèi e di eroi, ha catturato l’immaginazione di artisti e di letterati tanto da divenire costante motivo d’ispirazione per questi. Nell’elaborato ho scelto così di presentare uno studio iconografico su un mito che, dalla lettura delle Metamorfosi ovidiane, più di altri mi ha affascinata e coinvolta emotivamente: il mito di Cefalo e Procri. Tale favola mitologica è caratterizzata da una tematica amorosa segnata da una serie di equivoci che, generati dall’eccessiva gelosia dei due protagonisti e dall’adulterio, condurranno la storia a un drammatico epilogo. Pertanto, la sventurata storia dei due giovani innamorati è piuttosto toccante ed è capace di coinvolgere e sconvolgere l’animo del più imperturbabile lettore o spettatore.

Nel corso dei secoli il mito di Cefalo e Procri è stato oggetto di vari mutamenti che hanno comportato l’alterazione di alcuni elementi e di parti del racconto. Di conseguenza, molteplici sono le testimonianze letterarie e artistiche che ho preso in esame.

Il lavoro si compone di tre capitoli: nel primo ho esaminato le fonti letterarie antiche, medievali e rinascimentali. Nel secondo sono passata all’analisi delle fonti iconografiche, anche queste suddivise in antiche (greche ed etrusche) e medievali. Infine, ho preferito dedicare il terzo capitolo interamente allo studio delle fonti iconografiche prodotte in Età Moderna.

Ho diviso il primo capitolo sulle fonti letterarie in paragrafi, ognuno distinto su base cronologica. Il primo paragrafo si apre con l’esegesi delle fonti letterarie antiche che mostrano le copiose varianti della storia. Qui, ho indicato come primo documento letterario a noi pervenuto il frammento di Ferecide di Atene inserito nelle sue Istoriai, databili alla prima metà del V secolo a.C. Tra le varie testimonianze letterarie antiche di cui ho trattato, ho dato maggiore rilievo alle Fabulae di Igino, alle Metamorfosi di Antoninus Liberalis e ancora alla Biblioteca di Apollodoro e ai Commentarii in Vergilii Aeneidos Libros di Servio. Ma di notevole interesse sono state soprattutto le Metamorfosi di Ovidio in cui la storia di Cefalo e Procri viene narrata con maggiore pathos e sentimento. Date le numerose variazioni che il mito subisce nel corso dell’età antica, alla fine del paragrafo ho inserito uno schema grafico riassuntivo in modo da fornire al lettore una visione più chiara ed esaustiva sul punto. Nel paragrafo successivo, ho riportato le fonti letterarie medievali evidenziando sia quanto gli autori di quest’epoca si servirono del presente mito, sia in che modo lo adattarono a un contesto culturale, sociale e religioso del tutto

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nuovo. Tra questi, i più significativi sono stati Bersuire con il suo Ovidius moralizatus, Giovanni Bonsignori (Ovidio Metamorphoseos Vulgare), Boccaccio (De mulieribus claris) e Christine de Pisan con la sua Épître d'Othéa. Questa prima parte si chiude poi con la trattazione delle fonti letterarie prodotte nel corso del Rinascimento tra le quali spicca la Fabula de Cefalo di Niccolò da Correggio. Di notevole interesse è anche l’influenza che il mito di Cefalo e Procri esercitò su Torquato Tasso. Segue il secondo capitolo con la presentazione delle fonti iconografiche raffiguranti Cefalo e/o Procri. Ho suddiviso il primo paragrafo dedicato alle testimonianze artistiche relative al mondo antico in altri due sotto paragrafi partendo dalle rappresentazioni greche e magnogreche, giungendo poi a quelle etrusche. Tra i primi esempi che immortalano la figura di Cefalo ho collocato un’ara del 480 a.C. conservata oggigiorno al Museo archeologico regionale di Gela, in Sicilia. Invece, il primo manufatto attico che riproduce una figura femminile riconducibile con certezza a Procri è una lekythos datata intorno al 450 a.C. La prima e più rara rappresentazione che ritrae i due coniugi assieme decora un cratere realizzato dal Pittore di Efesto nel 440-430 a. C, oggi custodito presso il British Museum di Londra. In ambito etrusco non è documentata finora alcuna raffigurazione di Procri, mentre Cefalo appare costantemente nell’atto di essere rapito da Thesan (Eos).

Nel secondo paragrafo, ho fornito un’analisi delle numerose illustrazioni poste a decorazione di manoscritti medievali, ispirate presumibilmente all’Épître d'Othéa, di Christine de Pisan e al De mulieribus claris di Boccaccio.

Nel terzo e ultimo capitolo, attraverso una grande varietà di fonti visive, ho esaminato la fortuna iconografica di cui il mito godette durante tutto il Cinquecento. Pertanto, ho dedicato lo spazio conclusivo dell’elaborato unicamente alle attestazioni iconografiche rinascimentali. Nel Cinquecento la prima testimonianza artistica sul mito è rappresentata dalla celeberrima Morte di Procri di Piero di Cosimo, conservata alla National Gallery di Londra e che, tra l’altro, si configura come un eccellente esempio di “pittura di cassone”, ampiamente utilizzata in ambito matrimoniale. Per la parte iconografica, a conclusione di ciascun paragrafo, ho aggiunto anche un breve riassunto in modo da mettere in luce i tratti salienti e caratteristici delle testimonianze figurative di ciascuna epoca.

La tematica insita nella favola mitologica di Cefalo e Procri affascinò e incuriosì non solo gli artisti, ma anche e soprattutto i loro committenti. Il mito seppe così imporsi nelle diverse realtà italiane e straniere attraverso un apparato figurativo variegato e avvincente.

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Con la scrittura del presente elaborato mi sono posta diversi obiettivi. Anzitutto, ho cercato di fornire una completa analisi dal punto di vista iconologico e iconografico sul mito di Cefalo e Procri ripercorrendone la genesi e l’evoluzione, allo scopo di giungere a una conoscenza più chiara e approfondita sul tema in questione. Poi, ho voluto indagare la sua fortuna figurativa e la sua destinazione d’uso al fine di dimostrare quanto fu l’interesse che destò nel corso delle varie epoche presso artisti e committenti. Infine, ho cercato di dare rilievo alla trattazione di un mito a lungo trascurato o addirittura ignorato, servendomi anche di materiale dal contenuto inedito o poco noto.

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CAPITOLO 1

FONTI LETTERARIE

Il luogo di origine e di sviluppo del mito di Cefalo e Procri fu l'antica Grecia. Il racconto vede come protagonisti due eccellenti e seducenti cacciatori. Cefalo era figlio di Ermes e di Erse1o Deione2 e Diomeda3, mentre Procri era figlia di Eretteo4, sesto re di Atene. Il loro amore fu ostacolato da Eos (Aurora) che, invaghitasi di Cefalo, lo rapì. L’eroe ateniese la respinse ed ella, sopraffatta dal desiderio di vendetta, lo rese estremamente sospettoso nei confronti della moglie Procri. Infatti, cominciò a temere un possibile tradimento. Cefalo la mise alla prova e una volta verificata l'infedeltà della moglie, quest'ultima, avvilita per il senso di vergogna, fuggì. In seguito, Cefalo e Procri si riconciliarono. Tuttavia, durante una battuta di caccia, la sventurata fanciulla fu uccisa dal marito. Per l'omicidio commesso, Cefalo fu condannato dall'Areopago a un esilio perpetuo. Trovò rifugio a Tebe e prestò aiuto ad Anfitrione nella vittoriosa guerra contro i Teleboi e i Tafi. Qui, con il cane Lelapo prese parte alla caccia della volpe Teumessa5.

Nel corso dei secoli il mito di Cefalo e Procri è stato oggetto di numerose trasformazioni che hanno portato all'inserimento o all'omissione di diversi elementi e di parti della storia. A cognizione di ciò, non possiamo fare riferimento ad un'unica e specifica fonte, ma sarà necessaria un'analisi approfondita di ciascuna variante.

Di seguito, ho riportato ed esaminato le fonti letterarie antiche che sono giunte sino a noi ripercorrendo, simultaneamente, lo sviluppo della narrazione mitologica. Poi, ho proseguito lo studio con l'analisi diacronica delle fonti letterarie medievali e di quelle rinascimentali.

1 Apollodoro, I miti greci (Biblioteca), a cura di P. Scarpi e traduzione di M. G. Ciani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2013, p. 281.

2 A. Liberalis, Les Métamorphoses, a cura di M. Papathomopoulos, Les Belles Lettres, Parigi, 1968, p. 68; Apollodoro, op. cit., p. 115; Callimaco, Inni, epigrammi, ecale, a cura di G. B. D'Alessio, BUR, Milano, 1996, p. 121; Pausania, Description de la Grèce, a cura di M. Casevitz e traduzione di J. Pouilloux, Les Belles Lettres, Parigi, 1992, p. 25;Hyginus, Fabulae, a cura di M. W. C. Schmidt, Hermannum Dufft, Jena, 1872, p. 72, p. 134 e p. 120.

3 Apollodoro, op. cit., pp. 49-51.

4 Apollodoro, op. cit., p. 289; Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 1979, p. 243 e p. 283; A. Liberalis, op. cit., p. 68; Hyginus, Fabulae, a cura di M. W. C. Schmidt,

Hermannum Dufft, Jena, 1872, p. 140.

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5 1.1 Fonti letterarie antiche

La prima attestazione del mito a noi pervenuta è contenuta all'interno delle Istoriai6 di Ferecide di Atene (V sec. a.C).

Nel frammento la relazione tra Cefalo e Procri è segnata dall'adulterio. Cefalo dopo essere stato lontano dalla moglie per ben otto anni (saranno le fonti successive a metterci al corrente che Cefalo era stato rapito da Eos7) decide di tornare dall'amata per metterne alla prova la fedeltà. Si presenta vestito da straniero, la corteggia e, dopo averla convinta ad accoglierlo, si unisce a lei.

Col succedersi dei secoli, il tema dell’adulterio di Procri subisce alcune variazioni.

Ovidio nel suo poema, Metamorfosi dà ampio spazio allo stato d'animo di Cefalo, sopraffatto dall'insicurezza e dal tormento:

Libro VII, vv. 715-723:

[…] cominciai ad avere paura che mia moglie non avesse rispettato del tutto la fedeltà coniugale. La sua bellezza e la sua età rendevano attendibile un adulterio, il suo carattere lo rendeva inattendibile. Però io ero stato assente; però colei da cui stavo venendo via era un esempio di moglie infedele; però noi innamorati abbiamo paura di tutto! Decido d'indagare, per mio maggior tormento, e di mettere alla prova con doni la pudicizia e fedeltà di Procri. Cefalo una volta essersi deciso di mettere in atto l'inganno, su consiglio di Aurora, muta il proprio aspetto8.

Dopo la metamorfosi, Cefalo vedendo la sua Procri addolorata e affranta per la sua lontananza, sembra voler rinunciare al malefico piano, ma poi torna sui suoi passi e decide di indurla in tentazione. Lei prontamente lo respinge finché non le vengono promessi innumerevoli doni in cambio di una notte; a quel punto, provata la malafede della moglie, Cefalo, adirato e

6 Ferecide di Atene, Testimonianze e frammenti, a cura di P. Dolcetti, Edizioni dell'Orso, Alessandria, 2004, pp. 250-251.

7 Senofonte, La caccia (Cinegetico), a cura di A. Tessier, Marsilio Editori, Venezia, 1989, p. 43; Ovidio,

Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi Editore s.p.a, Torino, 1979, p. 283; Apollodoro, op. cit., p. 51; Pausania, op. cit., p. 25; A. Liberalis, op. cit., p. 68.

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6 amareggiato, le rivela la sua identità ed esclama:

Libro VII, vv. 741-742:

Hai davanti a te uno che purtroppo fingeva! L'adultero finto ero purtroppo io, in realtà, tuo marito! Ti ho colto, perfida, proprio io!

Anche nelle Fabulae (I secolo a.C.) di Igino la dea Aurora trasforma Cefalo in straniero, ma a differenza del racconto di Ovidio, Procri manifesta la sua infedeltà concedendosi sessualmente allo “straniero”, ancora in cambio di allettanti doni:

CLXXXVIIII, vv. 11-12:

Così lo mutò in straniero e gli diede doni appariscenti da dare a Procri. Poiché quando Cefalo venne sotto mutata forma, diede i regali a Procri e giacque con lei, allora Aurora tolse a lui le vesti dello straniero9.

Similmente, anche ne Le Metamorfosi10 di Antoninus Liberalis (II sec. d.C.) e nei Commentarii in Vergilii Aeneidos Libros11 di Servio (IV sec. d.C.) si materializza la trasmutazione di Cefalo. Nel primo caso si ha anche l’aggiunta di un personaggio, un familiare di Cefalo a lei sconosciuto, il quale la informa che uno straniero (Cefalo) si era innamorato di lei e in cambio di una notte intendeva offrirle molti doni. Lei accetta e mentre giacciono nello stesso letto Cefalo riacquista il suo aspetto, sorprendendo l'ignara moglie.

In Servio, invece, Cefalo riveste i panni di un mercante e dopo l'unione con Procri rivela ancora una volta la sua identità.

La dinamica cambia nella Biblioteca di Apollodoro (II sec. d.C.). Qui, infatti, non è Cefalo a concedersi a Procri, ma un certo Pteleone:

9 Hyginus, Fabulae, a cura di M. W. C. Schmidt, Hermannum Dufft, Jena, 1872, p. 158. 10 A. Liberalis, op. cit., p. 68.

11 Servio, Servii Grammatici qui feruntur in Virgilii Carmina Commentarii, a cura di G. Thilo, H. Hagen, Aedibus B.G. Teubneri, Lipsia, 1881, p. 68.

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7 Libro III, v. 197:

[…] Procri si concede a Pteleone, ma Cefalo la scopre [...]

In questa fonte, seppur soltanto accennato, il momento dell'adulterio risulta interessante perché è l'unico in cui non compare il motivo della metamorfosi di Cefalo. Ad ogni modo, sarà egli stesso a scoprire il tradimento.

Compiutasi l'infedeltà, Procri vinta dall'imbarazzo per l'errore commesso dinanzi al marito e dal disagio per la menzogna subìta, fugge.

Nella versione ovidiana, Procri raggiunge Diana sui monti12 , mentre in Igino13 la incontra sull’isola di Creta14.

Un altro momento significativo della storia è rappresentato dai doni che Procri riceve durante la fuga.

In Ovidio è Cefalo stesso a metterci al corrente che fu Diana a regalare a Procri due doni straordinari: un giavellotto ed un cane.

Più minuzioso e significativo è il racconto dell'incontro tra Diana e Procri che Igino ci fornisce:

CLXXXVIIII, vv. 14-21:

[…] e perciò andò sull’isola di Creta, dove Diana cacciava. Quando Diana la vide le disse: “con me cacciano le vergini, tu non sei vergine, vattene via dal gruppo”. Procri raccontò a lei la sua vicenda e di essere stata ingannata da Aurora. Diana toccata da misericordia le dà un giavellotto, che nessuno poteva evitare, e il cane Lelapo, da cui nessuna belva poteva scappare e le ordinò di andare a gareggiare con Cefalo.

In un primo momento, Diana è intenzionata a scacciarla perché assieme a lei possono cacciare soltanto le vergini. Dopo aver ascoltato la storia di Procri, vittima dell'insidia di Aurora, Diana mossa da compassione le dà i due magici doni: il giavellotto e il velocissimo cane, di nome Lelapo. Dopodiché, le ordina di sfidare Cefalo.

12 Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 1979, p. 285. 13 Hyginus, Fabulae, a cura di M. W. C. Schmidt, Hermannum Dufft, Jena, 1872, p. 120.

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Tuttavia, la figura che offre questi doni a Procri muta in altre fonti.

Ad esempio, in Apollodoro, in Antoninus Liberalis e nel De Astronomia15 di Igino non è più Diana, bensì Minosse16, figlio di Zeus e di Europa, re di Creta17.

Questi autori antichi, infatti, riportano che dopo l'adulterio Procri fuggì a Creta da Minosse. Secondo la versione di Apollodoro, Minosse si innamora di Procri e fa di tutto per unirsi a lei. Poiché la moglie del re cretese, Pasifae, sapeva che il marito era solito tradirla, decise di somministrargli una pozione a causa della quale, ogniqualvolta avesse avuto rapporti con altre donne, quest'ultime sarebbero morte. Procri, al corrente di quel pericolo, gli somministra una pozione preparata da Circe, permettendole di unirsi a lui senza morire. Avvenuta l'unione, Minosse la premia donandole il cane e il giavellotto18.

Antoninus Liberalis, invece, ci racconta che:

Libro III, XLI, 4-5:

Dalla vergogna Procri abbandonò Cefalo e si rifugiò da Minosse, re dei cretesi. Ella lo trovò sofferente nel non avere bambini, gli promise di guarirlo e gli insegnò il modo per

avere dei bambini dato che Minosse eiaculava dei serpenti, degli scorpioni e dei millepiedi, e tutte le donne con cui si univa morivano. Ma Pasifae era figlia del Sole e immortale. Allora Procri immagina il seguente procedimento per far procreare Minosse: introdusse una vescica di capra nel sesso di una donna, Minosse emetteva innanzitutto i serpenti nella vescica, poi passava da Pasifae e si univa a lei. E quando ebbero dei bambini, Minosse donò a Procri il giavellotto e il cane; non una bestia gli scappava, tutti erano soggetti alla loro legge.

Al contrario, Igino nel De Astronomia dà poche notizie a riguardo. Procri cura Minosse e la ringrazia con un unico dono, un cane che più avanti darà a Cefalo. Dunque, non viene fatta alcuna menzione del giavellotto.

La sola fonte che conosciamo in cui Procri riceve i preziosi doni da Aurora è la versione di

15 Hyginus, De Astronomia, a cura di G. Viré, Aedibus B.G. Teubneri, Stoccarda, 1992, p. 83. 16 G. L. Bruschi, op. cit., p. 206.

17 Apollodoro, op. cit., III, 15, p. 289; A. Liberalis, op. cit, pp. 68-69; Hyginus, De Astronomia, a cura di G. Viré, Aedibus B.G. Teubneri, Stoccarda, 1992, p 83.

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Servio. Qui, Minosse e Diana vengono sostituiti dalla figura di Aurora e oltre a Lelapo le vengono donati ben due giavellotti19.

Dopo la consegna dei doni, in alcune varianti del mito viene presentato il modo in cui avviene la riconciliazione tra i due coniugi.

La variante proposta da Igino nelle Fabulae presenta una vicenda che ricorda la dinamica dell'inganno di cui fu vittima la stessa Procri. Per volontà di Diana, Procri taglia i capelli corti per non essere riconosciuta, torna da Cefalo e lo sfida nella caccia, superandolo. Cefalo desideroso di possedere il giavellotto e il cane dell'“avversario” le offre parte del regno, ma lui (Procri) rifiuta, proponendogli di unirsi. Cefalo acconsente e Procri gli rivela il suo vero aspetto. A quel punto Cefalo prende i doni e si riappacifica con la moglie20.

Simile è la versione esposta da Antoninus Liberalis in cui Procri si veste e si taglia i capelli da maschio per non essere identificata da Cefalo e rientra a Torico, località dell'Attica dove abitava il marito. Diventano compagni di caccia, ma Procri grazie all’infallibile giavellotto e al velocissimo cane suscita in Cefalo il desiderio di possederli.

L'abile cacciatrice promette di consegnarglieli a patto che si uniscano. Cefalo acconsente e una volta sdraiati, Procri mostra il suo vero aspetto e lo rimprovera di essersi macchiato di un errore ancora più vile del suo. La narrazione si conclude con la figura di Cefalo che si appropria del cane e del giavellotto21.

Nelle Metamorfosi di Ovidio, invece, l'atto della riconciliazione è brevemente accennato. Procri torna da Cefalo, gli consegna il cane e il giavellotto e trascorrono d'amore e d'accordo, dolci anni22.

Nella Biblioteca di Apollodoro, al contrario, Procri si allontana da Minosse per paura di essere punita da sua moglie Pasifae e rientra ad Atene dove si riconcilia e si dedica alla caccia con Cefalo23.

L'istante che prelude al drammatico esito del mito è caratterizzato dall'invocazione della brezza (aura) da parte di Cefalo. Un atto che sarà oggetto di un terribile equivoco. Occorre, però, fare una distinzione tra le fonti in possesso, indicando per alcune la presenza di due invocazioni che

19 Servio, op. cit., p. 68.

20 Hyginus, Fabulae, a cura di M. W. C. Schmidt, Hermannum Dufft, Jena, 1872, pp. 120-121. 21 A. Liberalis, op. cit., p. 69.

22 Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 1979, p. 285. 23 Apollodoro, op. cit., p. 289.

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10 hanno luogo in momenti diversi, ma consecutivi.

Secondo l'ordine cronologico del mito, in Ferecide24, in Servio25 e in Ovidio26 si ha una prima invocazione che susciterà gelosia in Procri a cui farà seguito una seconda.

Nelle opere degli autori sopra riportati, la prima invocazione vede la presenza di un'ulteriore figura che riferisce a Procri di aver udito suo marito invocare spesso l’aura (o nuvola).

Nel frammento di Ferecide, infatti, è il servo di Procri ad informarla di aver sentito Cefalo invocare proprio una nuvola27.

In Servio, invece, è un contadino (o rozzo) a svelare quanto udito a Procri. Qui, come nell'Ars Amatoria e nelle Metamorfosi ovidiane l'eroe ateniese invoca l'aura e non una nuvola.

Nell'Ars Amatoria la prima invocazione di Cefalo è preceduta da un avvertimento che il poeta latino intende dare al lettore. Servendosi dell'esempio di Procri, infatti, Ovidio ci invita a non abbandonarci ad irragionevolezza e sventatezza perché eccessivamente rischiose:

Libro III, vv. 683-686:

Ma un torto, qualunque sia, non ti sconvolga oltre misura, e sentendo che c'è una rivale, non perdere la testa.

E non crederci subito: crederci subito è assai pericoloso, e Procri ve ne darà un esempio illustre.

A seguire, viene fornita una particolareggiata descrizione del luogo in cui troveranno loro compimento sia la prima che la seconda scena d'invocazione.

Libro III, vv. 687-694:

Presso le colorate alture dell'Imetto in fiore

24 Ferecide di Atene, op. cit., p. 251. 25 Servio, op. cit., p. 68.

26 Ovidio, L'Arte di amare, a cura di E. Pianezzola, Fondazione Lorenzo Valla Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991, pp. 171-175; Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 1979, p. 289.

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11 c'è una sacra fonte e il terreno è molle di verdi zolle.

Il bosco è d'alberi non alti; il corbezzolo cresce sopra l'erba; profumano l'alloro, il rosmarino e il mirto dalle nere bacche. Non manca il bosso dalle fitte foglie, non mancano

fragili tamerici, cìtisi sottili e l'elegante pino. Al soffio delicato degli Zefiri e dell'aura salubre tremano fronde di tante varietà, e la cima dell'erba.

Dopodiché, l'autore riporta il momento in cui sarà uno sconosciuto a udire Cefalo fare appello all'aura, per poi rivelare tutto a Procri:

Libro III, vv. 695- 700:

Gradito è a Cefalo il riposo; lasciati i servi e i cani, spesso il giovane, stanco, si sedeva in quel luogo

e così soleva cantare: “Per dar sollievo al fuoco che mi brucia, vieni, aura leggera, ch'io ti accolga sul petto”.

Alle trepide orecchie della sposa lo zelo malvagio di qualcuno riferì, parola per parola, ciò che aveva udito.

Dopo aver associato alla parola “aura” il nome di Aurora, sua rivale, l'incredula Procri, in un primo momento sviene, poi perde il controllo di sé e comincia ad errare per i sentieri:

Libro III, vv. 701-712:

Quando Procri intese il nome di Aura come il nome d'una sua rivale, subito venne meno e per l'improvviso dolore restò muta.

Impallidì come dopo la vendemmia i tralci della vite impallidiscono colpiti dal venire dell'inverno,

come cotogne mature che curvano col peso i loro rami, come corniole, oggi non più adeguate al nostro nutrimento.

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Quando ritornò in sé, si straccia dal petto le vesti leggere e con le unghie si ferisce le guance senza colpa.

Poi senza indugio corre furibonda attraverso i sentieri coi capelli sciolti, come Baccante eccitata dal tirso. Quando fu vicina, lasciò le compagne nella valle,

e di nascosto entrò ardita nel bosco con passo silenzioso.

A seguire, Ovidio si rivolge idealmente all'incosciente Procri e le chiede:

Libro III, vv. 713-720:

Qual era il tuo disegno quando così ti nascondevi, Procri, nella tua follia? Che impulso provavi nel cuore sgomento? Aura, quest'Aura sconosciuta, già stava arrivando – pensavi – e certo quella vergogna dovevano vedere i tuoi occhi.

Ora rimpiangi d'essere venuta (e non vorresti coglierli sul fatto), ora ti fa piacere, e in questo dubbio l'amore ti sconvolge il petto. Tutto t'invita a credere: il luogo, il nome, il delatore,

e la tua fantasia, che sempre considera reale ciò che teme.

Nelle Metamorfosi28 Cefalo spiega cosa fosse abituato a fare dopo ogni battuta di caccia:

Libro VII, vv. 808- 820:

Ma quando la mia mano era sazia di uccidere selvaggina, mi ritiravo al fresco e all'ombra, in cerca del venticello che vien su dalle fredde vallate. Cercavo l'aura lieve in mezzo alla calura, aspettavo l'aura, ristoro alla mia fatica. “Aura, - ricordo infatti, – vieni, - ero solito cantare; - sii gentile ed insìnuati, carissima, nel mio seno, e allevia, ti prego, come sai fare tu, l'ardore che mi brucia”. Forse avrò anche aggiunto (mi ci spingeva il destino) altre dolci parole, e avrò anche detto più volte: “Tu sei la mia grande gioia, tu mi accarezzi e mi ristori, tu mi fai amare

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i boschi, i luoghi solitari, e la mia bocca non si stanca di captare il tuo alito soave”.

Successivamente, ricorda che qualcuno udendo le sue parole confuse il nome “aura” con quello di una ninfa, riferendolo a sua moglie Procri29.

La seconda invocazione di Cefalo si ritrova in più fonti classiche ed è quella che, effettivamente, precede l'atto conclusivo del mito.

La seconda scena d'invocazione di Cefalo viene presentata da Ferecide30, Callimaco31, Ovidio32 e Servio33 ed è quella in cui la stessa Procri nascosta dietro delle fronde per spiare il marito ne ode le ambigue parole.

In particolare, nei versi di Callimaco leggiamo:

vv. 1-10:

Aura dolcissima, Che mi ristori, Diceva Cefalo, Tra l’erbe e i fiori

eh! vieni a me. E Procri udivane

La voce e l’eco, Fra mille palpiti, presso allo speco, Ritta in due piè.

Dunque, nell'ascoltare le parole del marito e temendo stesse richiamando a sé una donna, Procri viene assalita dal panico e dallo sconforto.

29 Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 1979, p. 289. 30Ferecide di Atene, op. cit., p. 251.

31 Callimaco, Cefalo e Procri, a cura di A. M. Ricci, in Le Odi di Anacreonte e di Saffo recate in versi italiani da

Fran. Saverio De' Rogati coll'aggiunta di alcune versioni dal greco del Cav. Angelo Maria Ricci, dai Torchi di

Glauco Masi, Livorno, 1824, p. 157.

32 Ovidio, L'Arte di Amare, a cura di E. Pianezzola, Fondazione Lorenzo Valla Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991; Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 1979, pp. 289-291.

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Invece, nell' Ars Amatoria Procri sentendo di persona l'invocazione del marito, comprende l'equivoco e sembra ritrovare la serenità perduta:

Libro III, vv. 727-730:

Tu, Procri, angosciata, ti tieni nascosta; lui giace, come al solito, sull'erba: “Venite” egli disse, “Zefiri delicati, vieni, aura mia”.

Quando fu chiaro all'infelice Procri l'equivoco del nome (e fu una gioia), ritornò in sé, le ritornò nel viso il colorito.

Nelle Metamorfosi di Ovidio Procri rimane silenziosamente nascosta dietro ad un cespuglio e Cefalo pronuncia le seguenti parole:

Libro VII, vv. 813- 815:

Aura, vieni, porta sollievo alla mia fatica, e improvvisamente, tra una parola e l'altra, mi parve di udire non so che gemiti. Tuttavia ripetei: Vieni, carissima.

Infine, anche nella versione presentata da Servio, Procri rimane nascosta al di là di alcune fronde al fine di attestare il presunto tradimento del marito con la rivale Aurora34.

Giungiamo, adesso, al punto cruciale del mito di Cefalo e Procri, ossia quello in cui si concretizza la morte della protagonista.

Si tratta del momento più significativo dell'intera narrazione, di fatto, viene trattato dalla maggior parte degli autori antichi presi in esame. L'unico ad aver omesso l'episodio è Antoninus Liberalis, il quale racconta che Cefalo, dopo aver ricevuto i famigerati doni da Procri, viene interpellato da Anfitrione nella caccia alla volpe35.

Ad ogni modo, anche per quanto concerne il tema della morte le fonti a noi note mostrano alcune variazioni.

Il racconto che Ferecide presenta nel suo frammento è piuttosto singolare.

34 Servio, op. cit., p. 68. 35 A. Liberalis, op. cit., p. 70.

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Dopo aver udito le ambigue parole di Cefalo e ormai certa che riguardassero Aurora, Procri va incontro al marito. Suo malgrado, Cefalo è fuori di sé e la uccide col suo giavellotto36.Dunque, Cefalo perde il controllo e uccide la moglie senza mostrare esitazione alcuna:

[…] Procri sentito ciò, si reca su questa vetta e si nasconde. Osservando che egli diceva la stessa cosa, si slancia verso di lui, ma Cefalo vedendola all’improvviso perde il controllo e, dal momento che aveva in mano un giavellotto, lo lancia contro Procri e la uccide.

Invece, Callimaco37 narra che Cefalo sentendo un rumore provenire da un cespuglio e pensando si trattasse di un animale, scagliò il giavellotto. Nei pressi del cespuglio, però, era nascosta la moglie Procri che fu così ferita mortalmente.

La vicenda dell'imprudenza e della malafede di Procri diventa adesso un pretesto per Callimaco per rivolgersi direttamente al lettore e porgli un quesito:

vv. 21-30: O voi bell’anime Che m’intendete, E la vaghissima Fera piangete, E il cacciator, Piangendo ditemi Per cortesia, È più tra gli uomini

La gelosia Cieca, o l’amor?

Nell'Ars Amatoria Procri prende coscienza del fatto che le parole di Cefalo, in realtà, siano solo

36 Ferecide di Atene, op. cit., p. 251.

37 Callimaco, Cefalo e Procri, a cura di A. M. Ricci, in Le Odi di Anacreonte e di Saffo recate in versi italiani da

Fran, Saverio De' Rogati coll'aggiunta di alcune versioni dal greco del Cav. Angelo Maria Ricci, dai Torchi di

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il frutto di un equivoco legato al nome (aura-Aurora). Pertanto, non per follia, ma per l'incontenibile gioia, Procri (che era stata tacitamente nascosta dietro il cespuglio) improvvisamente si alza facendo rumore e corre tra le braccia del marito. Cefalo certo di aver visto una fiera la colpisce con la sua lancia38. Segue l'addolorato monologo della moglie:

Libro III, vv. 737-742:

“Ahimè” ella grida. “Hai trafitto il cuore che ti ama: è quella la parte di me che Cefalo ha sempre ferito. Io muoio anzitempo, ma senza l'affronto di una rivale. E ciò renderà lieve su di me la terra quando sarò sepolta. Già il soffio della vita si disperde nell'aura (oh, come sospetto!): io vengo meno, ahimè!, chiudimi gli occhi con la mano a me cara.” Altrettanto intensi risultano i versi finali:

Libro III, vv. 743-746:

Egli tiene sul petto, tristemente, il corpo morente dell'amata e lava col suo pianto le crudeli ferite;

esce il soffio vitale, e mentre a poco a poco fugge dal petto dell'incauta Procri, lo respira la bocca del misero marito.

La dinamica è narrata da Ovidio anche nelle Metamorfosi39. Come nelle precedenti versioni Procri si cela dietro ad un cespuglio. Muovendosi, provoca un rumore e Cefalo, sentendolo e pensando si trattasse un animale lancia il giavellotto. Procri viene ferita mortalmente e il marito riconoscendo la sua voce, corre a prestarle soccorso. Cefalo ancora afflitto e scosso nel ricordare a Foco l'errore commesso, continua il racconto di quel drammatico istante:

38 Ovidio, L'Arte di Amare, a cura di E. Pianezzola, Fondazione Lorenzo Valla Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991, pp. 173-175.

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17 Libro VII, vv. 845- 849:

La trovo in fin di vita, con la veste strappata che si macchia di sangue mentre cerca di estrarre dalla ferita – me disgraziato! - il suo regalo. E prendo sulle braccia delicatamente quel corpo a me più caro del mio, e stracciatomi un lembo di veste dal

petto lego la crudele ferita, e cerco di fermare il sangue, e la supplico di non morire e di non lasciarmi scellerato per sempre.

Il triste epilogo del mito si carica ulteriormente di pathos leggendo le ultime parole pronunciate da Procri, ormai moribonda, ma ancora convinta del tradimento del marito:

Libro VII, vv. 852-856:

Per il vincolo che ci unisce e per gli dèi, quelli del cielo e quelli da cui vado, per quei meriti che posso avere avuto nella mia vita con te, e per l'amore, causa della mia morte, che ancora dura, anche ora che muoio, ti prego e ti scongiuro, non permettere che Aura entri come tua sposa nel nostro talamo”.

Soltanto in quel momento Cefalo comprende che la moglie è stata vittima di un orribile

malinteso. Nonostante la tragica circostanza, amorevoli e quasi confortanti, risultano i versi finali:

Libro VII, vv. 859- 862:

Si affloscia, e le poche forze fuggono via col sangue, e finché può guardare qualcosa, guarda me, e su me, sulle mie labbra, esala la sua anima infelice. Ma sembra morir

tranquilla, con un volto più sereno.

Nelle Fabulae di Igino, invece, l'episodio conclusivo della morte di Procri è soltanto accennato. Procri temendo il tradimento del marito con Aurora, decide di spiarlo celandosi dietro delle fronde. Cefalo sentendo qualcosa muoversi e credendo fosse una preda, scagliò il giavellotto e

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18 uccise la moglie40.

Lo stesso momento è riferito similmente e brevemente anche da Servio41. Diverso, almeno in parte, è, invece, lo svolgimento dell'azione in Apollodoro.

Qui, Procri e Cefalo si trovano nello stesso luogo, “nel folto della boscaglia”, e stanno inseguendo la medesima preda.

Cefalo non notando la moglie lancia il giavellotto e involontariamente la uccide.

Infine, Apollodoro e Ferecide42 aggiungono che Cefalo sarà condannato ad un perpetuo esilio43. Notizie isolate su Cefalo e/o Procri sono riportate dai seguenti autori: Omero44 , Esiodo45 Senofonte46 , Ellanico di Mitilene47 , Callimaco48 , Igino49 , Pausania50 , Strabone51 e Nonno di Panopoli52.

40 Hyginus, Fabulae, cura di M. W. C. Schmidt, Hermannum Dufft, Jena, 1872, p. 121. 41 Servio, op. cit., p. 68.

42 Ferecide di Atene, op. cit., p. 251. 43 Apollodoro, op. cit., p. 289.

44 Omero, Odissea, a cura di R. Calzecchi Onesti, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1963, p. 311. 45 Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, Rizzoli libri S.p.A., Milano, 1998, p. 125.

46 Senofonte, op. cit., p. 41 e p. 43.

47 Ellanico di Mitilene, FGrHist 4 F 169 a-b, a cura di F. Jacoby in Die Fragmente der griechischen Historiker (F

Gr Hist), Brill Editore, Leiden, 1957, p. 147.

48 Callimaco, Inni, epigrammi, ecale, a cura di G. B. D'Alessio, BUR, Milano, 1996, p. 121. 49 Hyginus, De Astronomia, a cura di G. Viré, Aedibus B.G. Teubneri, Stoccarda, 1992, p. 83. 50 Pausania, op. cit. p. 25 e p. 114.

51 Strabone, The Geography of Strabo, a cura di H. L. Jones, Harvard University Press, Londra,1911, p. 47. 52 Nonno di Panopoli, Le Dionisiache, a cura di G. Agosti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2004, p. 193.

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SCHEMA GRAFICO RIASSUNTIVO

- Senofonte (Cinegetico)

- Ovidio (Metamorfosi)

- Apollodoro (Biblioteca)

- Pausania (Periegesi della Grecia)

- Antoninus Liberalis (Le Metamorfosi)

- Ferecide (FGrHist 3 F 34) - Ovidio (Metamorfosi) - Antoninus Liberalis (Le Metamorfosi) - Servio (Commentarii in Virgilii Aeneidos Libros) - Apollodoro (Biblioteca) Adulterio di Procri Rapimento di Cefalo da parte di Aurora Cefalo muta il suo aspetto in uno straniero Cefalo muta il suo aspetto in un mercante Cefalo non si trasforma. Procri lo tradisce con un certo Pteleone

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- Ovidio (Metamorfosi) sui monti

- Igino (I Miti) a Creta

Ovidio (Metamorfosi) - da Diana Igino (I Miti) - da Aurora Servio (Commentarii in Virgilii Aeneidos Libros) Apollodoro (Biblioteca) - da Minosse Antoninus Liberalis (Le Metamorfosi) Igino (De Astronomia) Fuga di Procri Procri riceve i doni Un cane e un giavellotto Un cane e due giavellotti Un cane e un giavellotto Un cane

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21 - Igino (I Miti) - Ovidio (Metamorfosi) - Apollodoro (Biblioteca) - Antoninus Liberalis (Le Metamorfosi) - Callimaco (Cefalo e Procri) - Ovidio (Metamorfosi) e Ars Amatoria) - Servio (Commentarii in Virgilii Aeneidos Libros) - Ferecide (FGrHist 3 F 34) Riconciliazione/ Consegna dei doni a Cefalo Duello tra Cefalo e Procri e successiva unione tra i due cacciatori Seduzione

Cefalo invoca Aurora (l’Aura)

Cefalo invoca una

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22 - Ferecide (FGrHist 3 F 34) - Apollodoro (Biblioteca) - Callimaco (Cefalo e Procri) - Ovidio (Metamorfosi e Ars Amatoria) - Igino (I Miti) - Servio (Commentarii in Virgilii Aeneidos Libros) Morte di Procri Procri, nascosta dietro un cespuglio per spiare Cefalo, viene accidentalme nte uccisa dal

marito Procri va incontro a Cefalo che è fuori di sé e la uccide Procri sta cacciando assieme a Cefalo il quale la uccide scambiandola per una preda

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23 1.2 Fonti letterarie medievali

Potremmo pensare che il passaggio dal mondo antico a quello medievale abbia comportato una rottura definitiva con il passato, o per meglio dire, con la tradizione mitologica, ma non fu propriamente così. Va precisato che nel Medioevo andarono sviluppandosi due tendenze contrastanti riguardanti la cultura classica. La prima si configurava come un'aspra opposizione al pensiero e alle forme d'arte su cui si fondava l'antichità; la seconda, invece, intendeva sì opporsi alla cultura pagana, ma in modo più pacato e fruttuoso rielaborandola in chiave cristiana53. Infatti, nel Medioevo il mito classico permane, però viene reinterpretato sul piano allegorico. Pertanto, si assiste a un processo di moralizzazione che portò ad attribuire al mito antico un significato e un insegnamento conformi alla dottrina cristiana.

Prima di giungere all'epoca medievale, però, ci fu un periodo di transizione che gli storici moderni sono soliti definire tarda antichità (III-V secolo d.C.) in cui, oltre alla figura di Servio, spicca quella del grammatico romano Lattanzio Placido (IV secolo). Egli scrive le Narrationes Fabularum Ovidianarum, ovvero una sorta di compendio di ogni favola contenuta nelle Metamorfosi di Ovidio. Tra queste, Lattanzio Placido presenta anche la vicenda di Cefalo e Procri ricalcata, per l'appunto, sul modello ovidiano54.

Nel Medioevo fu la letteratura mitografica ad avere un ruolo fondamentale nella divulgazione della tradizione mitologica in quanto comprendeva testi latini in cui gli dèi e gli eroi pagani assumevano un carattere fortemente moraleggiante.

In questo contesto storico-letterario, particolarmente emblematici furono i Mitografi Vaticani55. Tre trattati mitografici (per Zorzetti e Berlioz collocabili dal V al X secolo) così denominati perché custoditi all'interno di manoscritti scoperti da Angelo Mai presso la Biblioteca Apostolica Vaticana nel 1831. Ai fini di questo studio, il trattato che ho adoperato è il primo in quanto tra le cento fabulae ovidiane che include, vi è anche quella di Cefalo e Procri56 . Qui, l'autore ripropone lo sviluppo narrativo presentato da Servio nei Commentarii in Vergilii Aeneidos Libros. Infatti, in entrambi i testi si fa menzione di ben due giavellotti donati da Aurora a Cefalo

53 G. Pansa, Ovidio nel Medioevo e nella tradizione popolare, Ubaldo Caroselli Editore, Sulmona, 1924, p. 43. 54 P. Lattanzio, P. Ovidi Nasonis Metamorphoseon Libri XV in Lactanti Placidi qui dicitur Narrationes

Fabularum Ovidianarum, a cura di H. Magnus, Arno Press, New York, 1979, pp. 273-285.

55 Le Premier Mythographe du Vatican, testo redatto da N. Zorzetti e tradotto da J. Berlioz, Les Belles Lettres, Parigi, 1995.

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e non uno soltanto come, invece, avevamo evidenziato per altre fonti letterarie (p. es. le Metamorfosi di Ovidio) 57.

Tra il XII e il XIII secolo si registra un fatto straordinario: la notorietà di Ovidio accrebbe a tal punto che il filologo tedesco Ludwig Traube designò questo periodo come Aetas ovidiana (Età ovidiana)58. Per di più, lo studioso austriaco Bartsch, dichiarò che all'epoca si contavano ben 150 manoscritti medievali delle Metamorfosi. Attorno al poema ovidiano si diffusero reinterpretazioni allegoriche che portarono, per così dire, a dissolvere quell'intrinseca opposizione tra il poeta latino e la dottrina cristiana59.

A questo proposito, lo storico e archeologo Giovanni Pansa nel suo libro Ovidio nel Medioevo e nella tradizione popolare cita due figure che presero a modello vari poeti latini, tra cui Ovidio: il monaco cristiano Otfrid di Weissenburg (800-870) col suo più celebre poema, Cristò e Giovanni Sarisberiense (1170-1320) con l'opera Metalogicus60.

Degno di nota è anche Arnolfo d'Orléans (XII secolo), un letterato francese a cui va riconosciuto il merito di aver eseguito, tra gli altri, commenti all'Ars Amatoria e alle Metamorfosi di Ovidio. Celebri sono le sue Allegoriae super Ovidii Metamorphosin in cui l'autore reinterpreta il poema ovidiano61. Tuttavia, in merito alla favola di Cefalo e Procri ne commenta soltanto alcuni versi ricordando di quando Cefalo, sotto mutata forma, sedusse la moglie per attestarne la fedeltà coniugale62.

In questo contesto storico-letterario, merita un discorso a sé il lavoro di Giovanni Tzetze (1110-1180), un filologo bizantino autore del Libro di Storie (Historiae)63, meglio noto come Chiliadi. L'opera si presentava come un'ampia compilazione su svariati argomenti di storia, letteratura e mitologia. Tzetze si discosta dalla maggior parte dei suoi contemporanei in quanto nelle Historiae riprende quasi alla lettera la versione della favola di Cefalo e Procri narrata da Apollodoro nel libro III della Biblioteca. Tuttavia, omette il racconto dello stratagemma messo in atto da Circe per far sì che Procri potesse unirsi a Minosse senza morire (come abbiamo visto,

57 Servio, op. cit., p. 68

58 L. Traube, Vorlesungen und Abhandlungen, Einleitung in die lateinische Philologie des Mittelalters, Monaco, 1911, p. 113.

59J. Engels., Étude sur l'Ovide moralisé, J. B. Wolter's Uitgevers-Maatschappij, Goningen, 1945, p. 65. 60 G. Pansa, op. cit., p. 51. Due opere e autori che, tuttavia, mi limito ad indicare perché non connessi al mito preso in esame.

61 F. Ghisalberti, Arnolfo d'Orléans. Un cultore di Ovidio nel secolo XII, Ulrico Hoepli, Milano, 1932. 62 F. Ghisalberti, op. cit., p. 219.

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invece, Apollodoro ci informava che tutte le donne che avevano rapporti con Minosse morivano, per questo motivo Circe creò appositamente una pozione magica per Procri)64. In più, alla fine della narrazione Tzetze non riferisce che Cefalo fu condannato a un esilio perpetuo per aver ucciso Procri come, invece, puntualizzava Apollodoro65.

Tornando alle allegorie di Arnolfo d'Orléans, ad esse attinse un letterato inglese di cui è opportuno fare menzione: Johannes de Garlandia, in italiano Giovanni di Garlandia (1180 ca. - 1258 ca.). Egli fu autore degli Integumenta Ovidii66, ossia un poemetto didascalico realizzato allo scopo di fissare nella mente degli scolari il contenuto morale insito nelle favole ovidiane. Tuttavia, Garlandia non prende in esame la fabula di Cefalo e Procri, ma si limita a fare accenno al rapimento di Cefalo da parte di Aurora67. Ragguardevole, comunque, è il lavoro di Garlandia che intendeva far sì che il lettore fosse in grado di estrapolare dal mito un significato capace di indirizzarsi alla morale di ciascuno.

Un'interessante reinterpretazione delle Metamorfosi che, al contrario, presenta in maniera esaustiva il mito di Cefalo e Procri, è contenuta all'interno di un poema anonimo in versi scritto in francese antico nel XIV secolo: l'Ovide moralisé68. L'Ovide moralisé è un'opera costituita da un'interpretazione sacra che esprime un pensiero essenzialmente allegorico-liturgico. L'autore dell'opera è incerto, ma con molta probabilità si tratta di Chrétien Le Gouays de Saint-More. Alla stessa maniera delle Metamorfosi, l'Ovide moralisé, composto tra il 1316 e il 1328, consta di quindici libri ed ebbe un considerevole successo testimoniato dall'influenza che esercitò su opere successive come l'Ovidius moralizatus di Bersuire. Dal poema ovidiano l'autore dell'Ovide moralisé desume insegnamenti e concetti specificatamente associati alla dottrina cristiana. A questo punto, risulta confacente presentarne il contenuto focalizzando l'attenzione sui versi dedicati ai nostri protagonisti.

Libro XVI:

In primis, Cefalo segnala a Foco i doni che sua moglie Procri ricevette da Diana, soffermandosi

64 Apollodoro, op. cit., p. 289. 65 Ibidem.

66 G. di Garlandia, Integumenta Ovidii, a cura di F. Ghisalberti, Casa Editrice Giuseppe Principato, Messina, 1933.

67 G. di Garlandia, op. cit., p. 60.

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in particolar modo sul cane, usato come pretesto per ricordare l'episodio della caccia alla volpe.

Libro XVII:

Ancora dialogando con Foco, Cefalo rimembra le parole che era solito pronunciare dopo la fatica per aver cacciato:

vv. 18-20:

Aura, che sei così gradevole, vieni subito a me e così alleviami dal grande caldo di cui soffro. Perché per l'amore che ho per te io vengo a cacciare così spesso69.

Immediatamente dopo, l'eroe ricorda che qualcuno udì la sua invocazione e pensando fosse indirizzata a una bella fanciulla rivelò tutto a Procri che, addolorata, decise di verificare di persona la presunta infedeltà del marito. Il racconto prosegue e Cefalo riferisce a Foco che il mattino seguente si recò a caccia e, come di consuetudine, invocò la brezza (aure70) al fine di ritrovare un po' di sollievo dalla stanchezza. Nel frattempo, Procri lo spiava da dietro un cespuglio e quando sentì le parole del marito fece rumore muovendo alcune fronde, facendo pensare a Cefalo che si trattasse di un animale. Fu così che il marito scagliò il suo giavellotto e ferì mortalmente la sua Procri. Cefalo riconobbe la voce dell'amata e accorse per prestarle soccorso. Ma fu troppo tardi quando Cefalo e Procri capirono di essere stati vittime di un terribile equivoco linguistico.

Tra le opere che contengono la fabula di Cefalo e Procri e che si prefiggono un fine sacro assimilando il mito alla morale cristiana vi è il già accennato Ovidius moralizatus di Pierre Bersuire71. L'opera si compone di quindici o sedici libri, se si include l'esteso proemio. Nel libro VII troviamo il mito dei due cacciatori e Bersuire, prima ancora di passare alla presentazione del racconto, afferma che non esiste alcuna donna così casta in grado di non vacillare dinanzi a

69 Riporto qui i versi 18-20 da cui ho tratto la mia versione libera: “Aure, qui tant es delectable, vien à moy tost et

si m'alège de la grant chaleur que je souffre. Car pour l'amour de toy viens je cy chacer si souvent.”, p. 220.

70 Ovide moralisé, op. cit., p. 221.

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preghiere e doni72 . Pur dimostrando una visione negativa dell'universo femminile, Bersuire sembra in qualche modo comprendere e giustificare l'errore di Procri. Successivamente, l'autore espone la storia di Cefalo e Procri mostrando, a mio avviso, un'evidente contaminazione non solo da parte delle Metamorfosi di Ovidio, ma anche da parte di almeno un'altra fonte letteraria tardo-antica di cui abbiamo già parlato, ovvero i Commentarii in Vergilii Aeneidos Libros di Servio. Infatti, Bersuire inizia la narrazione del mito esponendo il momento in cui Procri, dopo aver tradito il marito, fugge da Diana, però, dichiara che fu un contadino o rozzo73 (e non un vago “qualcuno” o “non so chi” come nel poema di Ovidio74) a sentire le ambigue parole che Cefalo era solito rivolgere alla brezza (aura). Parole che, come ben sappiamo, quell'uomo riferì a Procri accusando Cefalo di tradimento. Dopodiché, lo sviluppo della storia prosegue rimanendo pressoché fedele alla versione ovidiana. Una volta ultimato il racconto, Bersuire si scaglia contro quei delatori che fanno sorgere in altri sospetti infondati e pericolosi perché possibili cause di supplizi e, in casi più estremi, di morte. Subito dopo, l'autore affronta il tema dell'amore paragonandolo a un giavellotto dal quale non si può sfuggire una volta colpiti. Inoltre, Bersuire riporta una celebre espressione di Seneca contenuta nel primo libro delle Lettere morali a Lucilio: “Se vuoi essere amato, ama” 75. In ultima istanza, l'autore dell'Ovidius moralizatus utilizza il giavellotto anche come metro di paragone nei confronti dei delatori i quali con la loro parola sono in grado di uccidere.

A cavallo tra il XIII e il XIV secolo, rimarchevoli studi sulle Metamorfosi di Ovidio sono stati effettuati anche dal poeta e grammatico Giovanni del Virgilio76 . L'autore non prende in considerazione il mito di Cefalo e Procri, ma soltanto l'episodio della caccia alla volpe77. Indubbiamente più significativo ai fini di questo studio, è il lavoro del letterato Giovanni Bonsignori. Egli scrisse l'Ovidio Metamorphoseos Vulgare78 , ossia la prima volgarizzazione italiana delle Metamorfosi composta intorno al 1375 e stampata per la prima volta a Venezia nel 1497. Pur rimanendo fedele allo sviluppo narrativo del poema ovidiano, Bonsignori rielabora in maniera alquanto originale la vicenda di Cefalo e Procri.

72 P. Bersuire, op. cit., p. 122. 73 Servio, op. cit., p. 68.

74 Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 1979, p. 289. 75 P. Bersuire, op. cit., p. 122.

76 F. Ghisalberti, Giovanni del Virgilio espositore delle Metamorfosi, S. Leo Olschki Editore, Firenze, 1933. 77 F. Ghisalberti, Giovanni del Virgilio espositore delle Metamorfosi, S. Leo Olschki Editore, Firenze, 1933, p. 80. 78 G. Bonsignori, Ovidio Metamorphoseos Vulgare, a cura di E. Ardissino, Commissione per i testi di lingua, Bologna, 2001.

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Innanzitutto, nel capitolo XLIII del poema, dal titolo “Del baston de Cefalo”, l'autore designa l'arma posseduta da Cefalo come bastone e non come giavellotto79.

Nel capitolo successivo, dal titolo “Come Cefalo giacque con madonna Aurora”, Bonsignori utilizza l'appellativo “madonna” abbinandolo ad Aurora e come si leggerà più avanti, anche a Diana, quasi a volerle umanizzare).

Proseguendo il racconto, leggiamo che Cefalo, nel raccontare a Foco come ottenne il bastone, ricordò l'amata Procri:

XLIV, 2:

E debbi sapere c'hio ave una donna chiamata Procris, la quale fu figluola d'Euriteo e fu sorella de Orizia80 [...]

Di seguito, Cefalo prima rievoca il suo rapimento da parte di Aurora, poi, ricorda l'amore che lo univa a Procri:

Ma passato un mese poi ch'io me congiunsi a llei, io andai a ccacciare ed andai sopra uno bello monte chiamato Chimero, e così cacciando, venne madonna Aurora, e vedendome s'innamorò di me, e comìnciome a pregare ch'io giacessi con lei, ed intanto me tolse per marito. E così stando, con lei sempre ragionava de Procris, mia prima moglie, e, salvo la pace de madonna Aurora, io amava più Procris che lei, non ostante ch'ella fosse dea ed avea cotante proprietadi; e sempre me parea essere contento com Procris, e sì me dolea che io non era con lei, e ciò dicea presente madonna Aurora81.

Aurora, invidiosa del forte sentimento che Cefalo nutriva per la moglie, mosse nel cacciatore il dubbio che Procri sarebbe stata capace di tradirlo. Fu così ch'egli decise di metterne alla prova la fedeltà. A cagione di ciò, il capitolo che segue porta il titolo “Come Cefalo fe' prova della castità de Procris” 82.

79 G. Bonsignori, op. cit. p. 366. 80 G. Bonsignori, op. cit., p. 366. 81 G. Bonsignori, op. cit., p. 367. 82 G. Bonsignori, op. cit., p. 367.

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Come nelle Metamorfosi ovidiane, Procri dopo aver compreso di essere stata vittima dell'inganno di Cefalo, fugge:

XLV, 9-10:

Allora Procris se partì ed andò con madonna Diana per cacciare con lei, acciò ch'ella non giacesse mai più con un uomo e madonna Diana la ricevé volentieri. Ed allora Diana li diede questo bastone che non falla e 'l cane che non pò essere vento nello corrare; fatto questo io cominciai ad ardere per amore de lei molto più c'ho non avea fatto già mai83.

Successivamente, Bonsignori parla della funzione del bastone che Diana consegnò a Procri:

XLVI, 5-7:

Dice che lli donò el bastone che percuote deritto e senza nodi. Questo significa el bastone della conscienza, el quale rimorde chi falla, con lu quale percuote la bellua, cioè el peccato fatto, e percuote deritto, cioè significa le reprensioni che hanno le genti con la conscienza dopo el fallo commesso84.

Come possiamo leggere, l'autore fornisce al lettore una breve lezione morale definendo tale strumento il “bastone della coscienza”. Questo, dunque, aveva il compito di scuotere e punire la coscienza di chi commetteva errori.

Giunti a questo punto, Foco volle sapere da Cefalo il motivo per cui quel bastone lo fece piangere. Così Cefalo raccontò che dopo ogni battuta di caccia era solito invocare la brezza (aura) al fine di trovare un po' di ristoro dalla faticosa caccia:

XLVIII, 1-2:

“O aura, avenetissima dea”, dice Cefalo, “vieni ed adiutame, o gratissima, entra nelli seni miei,

83 G. Bonsignori, op. cit., p. 368. 84 G. Bonsignori, op. cit., p. 370.

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vieni a consolare l'anima mia sì come tu soli fare”. E qui con belle lusenghe dicea “Tu sei tutta la vita mia e tutta mia speranza e tutto 'l mio diletto, tu si culei per la cui grazia io amo questo luogo e sempre el tuo spirito è appresso al mio amore” 85.

Tuttavia, un “maledetto”86 nell'udire le sue parole pensò che fossero indirizzate alla ninfa Aurora e le riferì a Procri, la quale incredula decise di verificare di persona.

La mattina seguente, come d'abitudine, Cefalo si recò a cacciare e durante il riposo richiamò a sé l'aura. Procri lo aveva seguito, si era nascosta dietro un cespuglio e a un certo punto udì le parole del marito. Credendo di vedere la ninfa, Procri si mosse facendo rumore. Cefalo si rese conto del baccano e pensando si trattasse di una fiera gettò il bastone il quale, però, si conficcò nel petto della moglie. Sentendo i lamenti Cefalo riconobbe la voce di Procri e accorse da lei87. A seguire, Giovanni Bonsignori presenta il momento della morte della protagonista rimanendo fedele al racconto ovidiano88.

Nel XIV secolo un'altra versione volgarizzata delle Metamorfosi di Ovidio che includeva la storia di Cefalo e Procri fu elaborata dal notaio Arrigo Simintendi da Prato89 . L’opera si contraddistingue per la fedeltà con i versi ovidiani, opponendosi così al filone letterario trecentesco che soleva reinterpretarli in chiave allegorica90 . Tuttavia, la sua fortuna rimane circoscritta al Trecento. Infatti, in epoca rinascimentale a godere di maggior plauso saranno i volgarizzamenti di Ovidio contenenti commenti allegorizzanti e moraleggianti91.Ad ogni modo, data la stretta somiglianza con la versione ovidiana, non inserirò la parte testuale92.

Giunta quasi a termine l'analisi sulle fonti letterarie medievali che trattano in maniera più o meno significativa del mito di Cefalo e Procri, ritengo opportuno citare uno dei massimi letterati del '300: Francesco Petrarca. Lo scrittore aretino pur non trattando esplicitamente del mito di Cefalo e Procri, nei Trionfi93 vi allude attraverso la figura di Procri. Più precisamente, nel Trionfo d'Amore si legge:

85 G. Bonsignori, op. cit., pp. 370-371. 86 G. Bonsignori, op. cit., p. 371. 87 Ibidem.

88 G. Bonsignori, op. cit., pp. 371-372.

89 A. Simintendi da Prato, Metamorfosi d'Ovidio, a cura di C. Basi e C. Guasti, Ranieri Guasti, Prato, 1848. 90 G. Simeoni, Forme mutate in nuovi corpi: le Metamorfosi di Ovidio illustrate nel Codice Panciatichi 63, Padova University Press, Padova, 2017, p. 11.

91 Ibidem.

92A. Simintendi, op. cit.,pp. 105-114.

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31 vv. 73-78:

Vedi tre belle donne innamorate, Procri, Artemisia, con Deidamia, e a altrettante ardite e scellerate, Semiramis, Bibli e Mirra ria: Come ciascuna par che si vergogni de la sua non concessa e torta via94.

Il contesto in cui Petrarca inserisce Procri è molto interessante; la cacciatrice viene accostata ad altre due figure femminili come Artemisia e Deidamia. Come abbiamo appreso, Procri credette di essere stata abbandonata da Cefalo a causa del rapimento messo in atto da Aurora. Anche Artemisia rimase da sola, ma per la morte del caro marito. Deidamia, incinta di Neottolemo, fu abbandonata da Achille a causa di uno stratagemma messo a punto da Ulisse. Successivamente, Petrarca menziona le figure di Semiramide, Biblide e Mirra, tre donne che si presentano come artefici di atti incestuosi. Infatti, secondo una variante del mito la regina assiro-babilonese Semiramide si impadronì del poter del marito facendolo incarcerare e uccidere ed ebbe anche un rapporto impuro col figlio. Biblide era figlia di Mileto e della ninfa Ciane e provò un'attrazione innaturale verso il fratello Cauno il quale la respinse e per pietà divina venne trasformata in fonte. Infine, vi è Mirra che ebbe un'unione incestuosa col padre Cinira dal quale nacque Adone.

Significativa per il presente studio è anche un'opera dello scrittore e poeta Giovanni Boccaccio. Nel suo De mulieribus claris (Delle donne famose)95, Boccaccio raccolse le biografie di ben centosei donne dell'Antichità e del Medioevo allo scopo di mostrarne le azioni buone e cattive, incoraggiando il lettore a scegliere la via della virtù. Tra queste viene ricordata Procri in quanto moglie di Cefalo. Boccaccio sin dalle prime righe dichiara che:

Libro XXVI:

94 E. Chiorboli, Le Rime sparse e i Trionfi, Gius. Laterza & Figli, Bari, 1930, p. 316.

95 G. Boccaccio, Delle donne famose, traduzione a cura di Degli M. D. Albanzani di Casentino e di G. Manzoni, Editore della R. Commissione per i testi di lingua, Bologna, 1881.

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[…] come fu odiosa alle oneste donne per avarizia, così è piaciuta agli uomini, poiché per lei è manifesto il vizio delle altre donne96.

Dunque, Boccaccio castiga Procri perché esemplifica l'avidità delle donne.

Di seguito, comincia a raccontare la storia dei due cacciatori; parte dal rapimento del marito, per poi passare al momento in cui Cefalo, mutato il suo aspetto, mette alla prova la fedeltà della moglie. Boccaccio parla di debole amore di Procri97 , mentre mette in rilievo il sincero e smisurato amore di Cefalo che, pur accertando la malafede della moglie, la perdona e si riconcilia con lei. Successivamente, Procri cominciò a pensare che, per vendetta, il marito la tradisse con Aurora. Da qui la decisione di Procri di seguirlo a caccia nascondendosi “tra le canne del padule”98 . Muovendosi fece rumore e Cefalo, credendo fosse una preda, la ferì mortalmente con una “saetta”99. A questo punto Boccaccio afferma:

Non so che io mi dica piuttosto, o se l'oro è la più possente cosa che sia sopra la terra, o se è più stolta cosa cercare quello che l'uomo non vuole trovare. Delle quali due cose approvando ciascuna la stolta donna, trovò a sé perpetuale infamia, e la morte, la quale ella non cercava100.

Poi si rivolge a tutti coloro che sono soggetti a una irrefrenabile gelosia e chiede loro:

Ma (acciò che io taccia lo smoderato amore dell'oro, per il quale si muovono quasi tutti gli stolti) domando, che quelli i quali sono presi di sì ostinata gelosia, mi dicano, che utilità, e che onore e' ne sentono, che lode, o che gloria n'acquistano101.

Di seguito, ci offre la sua personale risposta:

96 G. Boccaccio, op. cit., p. 70. 97 G. Boccaccio, op. cit., p. 71. 98 G. Boccaccio, op. cit., p. 72.

99 Ibidem. Dizionario di italiano con sinonimi e contrari e inserti di nomenclatura, Garzanti Linguistica, Milano, 2003, voce: “saetta”. Il termine “saetta” utilizzato qui da Boccaccio rimanda all'etimologia latina della parola “sagitta”, ossia freccia.

100 G. Boccaccio, op. cit., p. 72. 101 Ibidem.

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A mio parere questa è dispregiata infermità della mente, la quale ha principio da pusillanimità di quello che è infermo, perché non la vediamo se non in quelli, i quali si stimano di sì piccole virtù, che leggermente concederebbero che ciascuno gli fosse da porre innanzi102.

Dunque, Boccaccio conclude il capitolo su Procri criticando quell'insana ed incontrollata gelosia che le causerà la morte poiché conseguenza della follia la quale rende miserabile colui che ne è affetto.

Infine, nel passaggio dal Trecento al Quattrocento si colloca l'opera letteraria di una scrittrice francese di origini italiane, Christine de Pisan o Pizan. Utile ai fini del presente studio, è la sua Épître d'Othéa103, opera pubblicata per la prima volta nel 1400. Tale lavoro si compone di un breve prologo e di un testo accompagnato da glosse e da allegorie che vanno a concludere ciascun testo. In merito al mito di Cefalo e Procri, Christine de Pisan riporta alcune righe in cui afferma che colui che è fiducioso non dovrebbe prendersi la briga di indagare su altri, bensì proseguire per la propria strada104.

LXXVI:

Ne te chaille de nul gaitier, Mais t’en va toudis ton sentier; Cephalus o son glavellot

Le t’apprent, et la femme Loth105.

Per quanto riguarda la figura di Cefalo, egli viene descritto da Christine de Pisan come un cavaliere e non come un cacciatore106. Maggiore in Christine de Pisan è, però, l'attenzione rivolta verso la figura femminile del racconto. L'opera si configura come l'unico caso letterario in cui la moglie di Cefalo non viene chiamata Procri, ma Loth107. Ovviamente, tale scelta non è affatto

102 Ibidem.

103 C. de Pizan, Epistre Othea, edizione critica a cura di G. Parussa, Librairie Droz S.A., Ginevra, 1999. 104 C. de Pizan, op. cit., pp. 306-307.

105 Riporto qui la mia traduzione: “Non ti preoccupare di spiare, ma vai sempre per la tua strada; Cefalo o il suo giavellotto te lo insegnerà, e la moglie Loth.”

106 Ibidem.

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casuale; qui, l'autrice intende equiparare il tragico destino di Procri con quello di Loth. Infatti, il libro della Genesi XIX narra che Loth fu mutata in colonna di sale perché durante la sua fuga osò disobbedire al divieto divino voltandosi a guardare la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra. Procri e Loth vengono comparate dalla scrittrice anche perché entrambe sono esempi di donne eccessivamente curiose. Christine de Pisan attua così un processo di comparazione tra il mito antico e la morale cristiana. Inoltre, l'autrice accusa Loth (Procri) di aver peccato di gelosia e di essere stata, per questo, punita con la morte.

Nella glossa viene raccontata brevemente la storia di Cefalo e Loth (Procri). Significative sono le righe finali in cui l'autrice riprendendo la lezione del messaggero degli dèi, Ermes, invita il lettore a non fare ad altri ciò che egli non vorrebbe fosse fatto a se stesso e a non inseguire gli errori degli uomini perché si ritorcerebbero poi contro di lui108.

Ancor più interessante è l'allegoria seguente la quale riporta l'insegnamento di Giovanni Crisostomo nel Vangelo di San Matteo: Se ti ami meglio del tuo prossimo perché ti occupi tu delle sue azioni e lasci le tue? Prima sii coscienzioso nel considerare le tue azioni, e poi considera le azioni degli altri. A questo proposito, nostro Signore nel Vangelo dice: Perché guardi una pagliuzza nell'occhio di tuo fratello, ma non vedi la trave nel tuo occhio?109

Dunque, in conclusione, Christine de Pisan accompagna il mito di Cefalo e Procri con insegnamenti morali che tentano di coniugare la dottrina cristiana con la sfera pagana.

1.3 Fonti letterarie rinascimentali

Sul finir del Quattrocento di notevole rilievo furono la figura e l’opera del letterato e conte Niccolò da Correggio. Nel 1486 scrisse la Fabula de Cefalo110 , ossia un dramma pastorale

108 Ibidem. Riporto qui i versi da cui ho tratto la mia traduzione libera: “nul bon chevalier ne se doit delicter a altrui gaitier en choses qui ne lui peut appartenir. Et comme nul ne vouldroit estre gaitez, dit Hermès: “Ne fais a ton compaignon ne que tu voudroyes que il te feist, et ne vueilles tendre les las pour prendre les hommes ne pourchacier leur dommage par agait ne par cautelle, cara u derrenier tourneroit sur toy”.

109 Ibidem. Riporto qui i versi da cui ho tratto la mia traduzione: “Se tu t’aimes mieulx que ton prochain, pour quoy t’empesches tu de ses fais et laisses les tiens? Soies premierement diligent de considerer tes fais, et puis considere les fais d’autrui”. A ce propos dit nostre Seigneur en l’Evangile: “Quid autem vides festucam in occulo fratris tui, trabem autem in occulo tuo non vides?”

110 N. da Correggio, Opere: Cefalo, Psiche, Silva, Rime, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Gius. Laterza & Figli, Bari, 1969.

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